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Autore Discussione: Claudia Fusani, Trattativa Stato-mafia, Napolitano teste.  (Letto 2099 volte)
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« inserito:: Novembre 03, 2014, 06:04:36 pm »

Trattativa Stato-mafia, Napolitano teste.
Nulla di fatto dall'interrogatorio che avrebbe potuto portare a una svolta

Claudia Fusani, L'Huffington Post

Pubblicato: 28/10/2014 21:27 CET Aggiornato: 28/10/2014 21:27 CET

Attento, lucido, esplicito, a tratti persino ironico, sopraffino padrone di casa, Giorgio Napolitano scrive una pagina delicata nella storia della Repubblica. Soprattutto archivia con piglio ed eleganza la fase più difficile del processo sulla presunta trattativa tra lo Stato e Cosa Nostra. Risponde a tutte le circa quaranta domande preparate da accusa e difese, la Corte ne blocca quattro-cinque ma altrettante, seppur giudicate non ammissibili, trovano invece una risposta “anche se ci stiamo allontanando chilometri dall’alveo originale della mia testimonianza” ha chiosato il Presidente.

Tre ore e mezza. Se l’udienza stamani al Quirinale, la prima volta di un Presidente, doveva essere il discrimine tra il vero, il falso e il possibile, per certi versi il calcio di rigore all’ultimo secondo di gioco, possiamo dire – in attesa della sentenza attesa tra un anno circa – che l’ipotesi dell’accusa circa un canale, o più canali, aperto nel 1992 dalle istituzioni per mettere a tacere il tritolo di Cosa Nostra, non fa un passo avanti. Semmai, considerate le attese, fa un passo indietro.

Nel senso che l’udienza nulla toglie e nulla aggiunge all’ipotesi dell’accusa. E segna al tempo stesso il culmine e quindi l’inizio della fine dei teoremi della procura palermitana contro il coinvolgimento delle istituzioni in quella stagione stragista. Anche se la procura, con l’aggiunto Teresi, può dire lasciando il Quirinale di “aver raggiunto un risultato straordinario”. “Napolitano – ha spiegato Teresi che ha rivolto il maggior numero di domande al capo dello Stato - ha detto che subito dopo le stragi del ’93 a Roma, Firenze e Milano, tutte le più alte istituzioni, dal Presidente della Repubblica al Presidente del Consiglio, hanno capito che era la prosecuzione del piano stragista di Cosa Nostra che poneva un aut aut: o benefici di natura penitenziaria o altre azioni destabilizzanti”. Dal punto di vista della procura, cioè, il fatto che il Capo dello Stato abbia ammesso la consapevolezza, in quegli anni, che era in corso una gigantesca estorsione mafiosa, è una conferma preziosa. Ma questo è il contesto socio-politico-criminale del biennio 92-94. L’oggetto del processo è dimostrare se quella “estorsione” è andata a buon fine. Se cioè lo Stato ha pagato il pizzo rendendo, ad esempio, il 41 bis più morbido. Un pizzo decisamente smentito da Napolitano: “Mai saputo di accordi tra Stato e Cosa Nostra”.

ARAZZI E CERIMONIERI - “Siamo stati trattati benissimo, ognuno di noi è stato preso in cura da un cerimoniere che ci ha guidato nel palazzo fino al nostro posto in sala Bronzino tra arazzi meravigliosi” nota con gusto femminile Nicoletta Piergentile, difensore di Nicola Mancino con il professor Massimo Krogh, che non nasconde “l’emozione di aver svolto la mia professione davanti al capo dello Stato”.

L’udienza inizia alle 10 e 5 minuti. I giornalisti sono fuori, tutti, e affollano la piazza. Un problema per il resoconto della giornata che sarà presto risolto con la trascrizione del verbale dell’udienza. “Ci auguriamo tempi serrati” è l’auspicio del Quirinale che teme speculazioni e travisamenti.


Ma se ci sono, durano lo spazio di pochi minuti perché le varie versioni finali da parte dei presenti trovano una sintesi nei preziosi e ordinati appunti dell’avvocato Basilio Milio, legale del generale Mori (uno dei dieci imputati con il collega Subranni, De Donno, i boss Riina e Bagarella, Massimo Ciancimino e i politici) che occupano pagine e pagine di un quaderno formato A4. “Noi non abbiamo fatto domande per mancanza di argomenti e per rispetto del ruolo istituzionale del Presidente della Repubblica” ha spiegato Milio.

La sala del Bronzino, in genere luogo di ricevimento per le delegazioni straniere, è stata allestita quasi fosse il luogo di “una commissione d’esame”. In fondo alla sala a forma rettangolare la scrivania modello fratina dove si è accomodata la Corte, il presidente Montalto, i due togati e i gli otto giudici popolari. Davanti alla corte i banchi dei circa trenta avvocati (dieci imputati e 7 parti civili): un tavolino per ciascuno dotato di microfono e bottiglietta d’acqua. Sulla sinistra del tavolo della Corte, lo scrittoio dove alle 10 e 5 si è accomodato il teste. Cioè Giorgio Napolitano. Gli avvocati sono scattati in piedi. Abito blu, il Presidente ha prestato giuramento ed è andato avanti tre ore e mezzo. Con solo quindici minuti di pausa tra le 12 e 15 e le 12 e 30. Una precisione che neppure in Tribunale. Nessuno indossava la toga, come concordato.

ONORE A LORIS D’AMBROSIO - La maggior parte delle domande sono state prerogativa dell’accusa, prima l’aggiunto Teresi e poi Di Matteo. Prima di loro il procuratore reggente Agueci ha voluto ringraziare il Capo dello Stato per “il rispetto istituzionale e per la verità di cui siamo alla ricerca”. Il primo blocco di domande ha riguardato l’ormai famosa lettera dell’ex consigliere giuridico del Quirinale Loris D’Ambrosio che nel giugno 2012, dopo essere sentito a Palermo circa alcune sue telefonate con Mancino (imputato per falsa testimonianza), offrì le sue dimissioni al Presidente temendo di essere stato “utile scriba” e “scudo” per “indicibili accordi” ai tempi in cui al ministero collaborava con Falcone e poi dopo redasse il testo del carcere duro.

In una parola, il primo blocco di domande ha riguardato cosa Napolitano sapesse circa la presunta trattativa. È vero, come si è lamentato Luca Cianferoni, legale di Totò Riina, che questa parola non è mia stata usata né pronunciata. Ma non poteva essere diversamente. Per questioni di tattica processuale. Di certo il presidente ne ha smentito la conoscenza, da parte sua e dello stesso D’Ambrosio. “Lo trovai già al Quirinale” è il senso delle risposte di Napolitano. “Ne allargai le competenze a tutte le questioni di giustizia perché ne conoscevo e ne apprezzavo le capacità professionali e quelle umane. Avevamo un rapporto libero da formalità e da schemi. Eravamo una squadra di lavoro”. La lettera in cui D’Ambrosio scrisse degli ”indicibili accordi” e con cui presentò le dimissioni “fu un fulmine a ciel sereno”. Era “sconvolto”, “pieno d’ansia e di indignazione” per quello che stava accadendo. Ma tra i due non ci fu mai “interlocuzione sul passato, guardavamo al presente e al futuro”. In ogni caso, semmai, gli “indicibili accordi” potevano essere un riferimento al libro della sorella del giudice Falcone “da cui lui rimase molto colpito”.

Più tardi Napolitano, sollecitato sullo stesso punto dall’avvocato Giovanni Airò Farulla, legale parte civile del comune di Palermo, sarà ancora più chiaro. Ed esplicito: “Potrei anche non risponderle, avvocato, perchè la sua domanda è fuori dal capitolato. Ma lo dico e lo ripeto una volta per tutte: D’Ambrosio era persona così corretta e retta che se avesse avuto il sospetto di indicibili accordi, sarebbe andato immediatamente a denunciarli”.


E quando l’avvocato Massimo Krogh, legale di Mancino, chiede se fosse corretto definire “gli indicibili accordi solo un’ipotesi”, Napolitano seppellisce una volta per tutta la questione trattativa: “Certo – ha detto – ipotesi prive di fondamento oggettivo”.

“NON SAPEVO DELLE MINACCE” - Il secondo blocco di domande ha riguardato il biennio ‘92-‘94 quando Napolitano era presidente della Camera. È la parte nuova di domande ammessa dopo che la Corte d’Assise ha acquisito le informative del Sismi che nell’agosto 1993, pochi giorni dopo la strage di via d’Amelio dove persero la vita Borsellino e cinque uomini della scorta, segnalavano anche Napolitano tra gli obiettivi di Cosa Nostra.

La regia delle domande a questo punto è passata nelle mani del pm Di Matteo. Il Capo dello Stato ha detto di “non sapere nulla delle minacce ai politici siciliani Vizzini, Mannino e Andò” che dopo l’esecuzione di Lima (marzo 1992) cominciarono a temere per la propria vita e quindi, secondo l’ipotesi dell’accusa, avrebbero avviato la richiesta ai carabinieri del generale Mori di avviare contatti con Cosa Nostra. È vero, invece, che l’allora presidente della Camera “era informato sull’attività generale della Commissione Antimafia” presieduta all’epoca da Luciano Violante. “C'era una vivace dialettica sulla opportunità di sentire i pentiti in Antimafia” tra cui anche Vito Ciancimino ma Violante decise poi di non sentirlo. Il generale Mori proseguì da solo gli incontri con l’ex sindaco di Palermo che aveva cominciato a collaborare e viveva sotto protezione a Roma.

Il nodo “coordinamento delle indagini” è stato posto anche dall’avvocato Piergentili (Mancino) e Napolitano ha ripetuto che “non solo era d’accordo con D’Ambrosio che il coordinamento fosse necessario ma era soprattutto previsto dalle legge”. È un punto importante per la difesa Mancino perché all’origine delle telefonate tra l’ex presidente del Senato e D’Ambrosio c’era proprio la richiesta di un maggior coordinamento tra le procure (Firenze, Palermo, Caltanissetta) che indagano sulle bombe di quegli anni.

“IL TIMORE DI UN COLPO DI STATO” - L’avvocato Cianferoni, legale di Riina, si è ritagliato domande sul clima di quel biennio. “Io ero molto impegnato soprattutto a soddisfare le richieste di arresti di parlamentari che arrivavano dalla procura di Milano e poi sulla nuove legge elettorale” ha detto Napolitano. Ma non c’è dubbio che “io, Spadolini e Scalfaro eravamo indicati come la triade istituzionale che reggeva il paese sotto Tangentopoli”. Fu opinione condivisa da tutti che “il black out a palazzo Chigi la notte delle bombe a Roma (27-28 luglio 1993) potesse essere il segnale di un colpo di Stato”.

Del 41 bis, infine, “se ne occupò il Parlamento e nessuna parte politica ebbe dubbi sulle necessità di quel provvedimento”. Napolitano non ha mai avuto informazioni circa la lettera dei detenuti di Pianosa e dell’Asinara a Scalfaro. A fugare dubbi residui ci ha pensato il presidente della corte d’assise Alfredo Montalto che ha chiesto al teste quale conoscenza con i generali Mori e Subranni (entrambi imputati). È stata, in effetti, la domanda chiave. Il Capo dello Stato ha precisato di “non conoscere Subranni”, di “aver conosciuto Mori in occasioni ufficiali” e di “non aver mai saputo da Violante dei colloqui tra Mori e Ciancimino”.


“NON SONO MICA PICO DELLA MIRANDOLA…” – Così ha risposto il presidente-teste a chi gli chiedeva di spiegare la nota di Gianni De Gennaro, all’epoca n°2 della Dia, che il 10 agosto 1993 parlava di un nuovo rischio attentati per mettere pressione allo Stato. Ai pm che insistevano quanto fosse o meno consapevole circa le due anime di Cosa Nostra, quella più trattativista che faceva capo a Provenzano e destinataria della trattativa e quella più stragista, cioè Riina, Napolitano ha detto “non sono un mafiologo, certo quella era un’ipotesi che girava su tutti i giornali”.

Alle 13 e 25 finisce tutto. “Arrivederci e grazie” ha detto il Capo dello Stato stringendo la mano al presidente della Corte d’Assise. Un “grazie per l’attenzione” anche all’avvocato Cianferoni che ha sottolineato a Napolitano di aver molto apprezzato la sua biografia. Poi il Signore dello Stato si è ritirato. In tempo per il pranzo. In omaggio alla trasparenza e alla democrazia. E in piazza è cominciato il circo della ricostruzione mediatica. Questione di ore. Il verbale d’udienza metterà di nuovo tutto in ordine.

Da - http://www.huffingtonpost.it/2014/10/28/trattativa-stato-mafia-giorgio-napolitano_n_6063542.html?1414528041&utm_hp_ref=italy
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