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Autore Discussione: Chiara Valentini - L’Islam trendy delle ragazze di Teheran  (Letto 2990 volte)
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« inserito:: Ottobre 22, 2007, 09:01:18 am »

L’Islam trendy delle ragazze di Teheran

Chiara Valentini


«Ma voi credete davvero che l’America voglia bombardarci»? La faccia di Salma, incorniciata da un leggero velo colorato, ha un’espressione stupefatta. «Non oseranno farlo. Con tutti i guai che hanno in Iran e in Afghanistan non possono permettersi di aprire un altro fronte, specie dopo che Putin si è fatto sentire», interloquisce Ziba, grandi occhi scuri e macchina fotografica a tracolla, una reporter abituata a girare nella Teheran che conta. «Non riesco neanche pensarci. Invece che aiutare la democrazia le bombe distruggerebbero ogni spazio di cambiamento», aggiunge Shirin, che studia sociologia all’Università. Sedute ad un tavolino del caffè Naderi, tradizionale ritrovo di intellettuali e artisti, le tre amiche esprimono uno stato d’animo largamente condiviso in Iran. I raid e le bombe sui siti atomici e non solo di cui sempre più spesso si parla in alcune capitali occidentali, visti da qui sembrano qualcosa di lontano, di inconcepibile in una società troppo occupata a cercare nuovi equilibri per la sua vita quotidiana e ad immaginare un futuro un po’ meno peggio del presente.

Non c’è bisogno di accurati sondaggi d’opinione, peraltro piuttosto difficili nell’unica repubblica teocratica del mondo, per capire che, a due anni dalla sua elezione, l’appoggio popolare al presidente Ahmadinejad è decisamente in calo, insidiato da un’inflazione al 20 per cento, dalla disoccupazione crescente, dall’aumento dei prezzi e dal razionamento della benzina. In un Paese in bilico fra islamismo di stato e voglia di modernità cova l’insofferenza, specie nei ceti più colti, per l’attacco alle ultime libertà sopravvissute al decennio riformista di Khatami. Non si vede però un vero dissenso organizzato. Al di là delle proteste di qualche intellettuale, il malumore si esprime nelle case e negli incontri privati, un po’ come negli ultimi anni dell’Unione Sovietica. Ma esiste una resistenza tutta speciale all’abbraccio soffocante dei mullah, quella delle donne. Più che con un movimento, che pure esiste, la sfida femminile si esprime in una presenza forte nella società, in una consapevolezza dei propri diritti che viene da lontano. Anche se nel farsi, la lingua dell’Iran, non esiste la parola femminismo, è addirittura dall’inizio del ’900 che le richieste di leggi paritarie si sono ciclicamente ripresentate. Quasi per paradosso proprio la rivoluzione di Khomeini, che aveva imposto alle donne di nascondersi sotto il chador, le aveva poi spinte a frequentare le scuole. Con il risultato che, a trent’anni di distanza, non solo le iraniane sono le più scolarizzate del Medio Oriente, ma che all’università hanno superato i maschi. Come anche da noi, quasi sempre sono più brave negli studi. E poiché superano più facilmente la dura prova d’ammissione che intanto è diventata obbligatoria, sono arrivate ad essere più del 60 per cento delle iscritte degli ultimi anni. In facoltà come medicina questo esercito di future dottoresse ha preoccupato a tal punto gli islamisti, che hanno introdotto le quote a favore degli studenti di sesso maschile, spesso più umiliati che compiaciuti da un privilegio così ambiguo.

«Siamo in tante ad iscriverci all’università perché questo ci rende più libere. La laurea è il passaporto per trovare lavoro e per andarcene da casa anche senza un marito al braccio», taglia corto Sharmin, una venticinquenne che sta per laurearsi in architettura. Il luogo del nostro incontro è una boutique in un appartamento dalle parti di Gandhi Avenue, nuova zona di ritrovo dei giovani. Quello di mettere in piedi un’attività in una casa privata è un’abitudine che si sta diffondendo non solo nel campo della moda. Negli ultimi anni a Teheran si sono aperte decine di gallerie d’arte d’avanguardia, di studi di grafica, di case editrici dirette da donne per lo più giovani e combattive, lontane anni luce dalle ombre femminili in chador nero che pure si incontrano nei quartieri più tradizionali. Proprio nella moda si concentra un’insolente resistenza delle ragazze, che interpretando in modo piuttosto creativo le rigide prescrizioni in fatto d’abbigliamento femminile, hanno realizzato il paradosso dell’Islam trendy. E così i ropush, i casti camicioni che devono coprire le forme femminili fin sotto il ginocchio, completati da ampi pantaloni o da gonne sotto la caviglia, sono diventati cappottini colorati e attillati da cui sbucano i fuseux o i jeans elasticizzati. Il foulard, imposto a fatica da Khomeini dopo la rivoluzione del 1978, si è trasformato in una leggera sciarpa annodata nei modi più originali, come mi fa vedere sorridendo la stilista di Gandhi Avenue. «Anche il trucco in teoria sarebbe proibito. Ma per noi è quasi una sfida usare rossetti violenti e fard che luccicano, è un modo per difendere un nostro spazio individuale di libertà», dice la quasi architetta Sharmin. Resta il fatto che non è tanto facile la vita delle nuove iraniane, appena escono dagli spazi protetti dei luoghi privati. Con l’arrivo di Mahmoud Ahmadinejad è ripartita la caccia alle «malvelate»-così hanno definito queste sovversive dello chador- che spesso vengono fermate e ammonite dai poliziotti e a volte anche arrestate. E ha ripreso forza lo speciale comitato «per difendere la Virtù e combattere il Vizio», a cui spetta il controllo di abbigliamenti e comportamenti nei luoghi pubblici.

Ma dato che controllare il look di un esercito di donne sempre più in movimento è un’impresa dura, i guardiani della moralità se la prendono con i più docili manichini femminili esposti nei negozi di abbigliamento delle strade principali. Una giovane documentarista che come tante altre è spesso alle prese con la censura, ha girato un corto che fra qualche settimana verrà presentato in versione ridotta in una galleria di Roma. È la storia di queste donne di plastica a cui vengono segati via i seni e quasi tutta la parte superiore delle teste, dai peccaminosi capelli e dagli occhi fino alle labbra tentatrici, per sostituirle con pezzi di cartone. Un’interessante metafora del sogno fondamentalista di ridurre le donne, quelle vere, ad oggetti inanimati senza possibilità di reagire, osservano le femministe.

Ben altri sono i sogni delle iraniane in carne ed ossa. Rivelatore, in questo senso, è il boom piuttosto recente di libri scritti da donne. Mi racconta Gelareh, un’ex giornalista che si è riconvertita critica letteraria dopo che il suo giornale, di taglio riformista, è stato chiuso dal governo, che su 100 libri di narrativa pubblicati oggi in Iran, almeno 70 sono di autrici piuttosto giovani e non sempre famose. A leggerli avidamente è un pubblico femminile, stufo delle traduzioni dei romanzi stranieri sforbiciati dalla censura e desideroso di storie più vicine alla realtà iraniana. «Ci sono quasi sempre triangoli amorosi, tradimenti, difficoltà ad avere rapporti sessuali. È la scoperta, perfino implicita, che il privato è politico», dice Gelareh. Ma non mancano immagini e suggestioni di vite diverse, come nel best seller di Zoia Pirzad, dove la protagonista è una ricca imprenditrice single, che vive in una grande casa con una giovane figlia tutta rock e trasgressione, ha una travolgente storia d’amore ma non rinuncia alla sua libertà.

In un Paese dove, al cinema come a teatro, è proibito perfino far vedere una stretta di mano fra un uomo e una donna, questo genere di letteratura è uno dei tanti segni di una condizione schizofrenica che anche le cronache rendono evidente. Se nei villaggi remoti ancor oggi le adultere possono essere lapidate, nelle città continua a diminuire il tasso dei matrimoni e ad aumentare quello dei divorzi, mentre la «fornicazione», cioè i rapporti sessuali fra persone non sposate, si diffondono pur essendo considerati un crimine. È uno scollamento crescente fra regole e comportamenti, che ha spinto il regime a rilanciare l’istituto del sigheh, il matrimonio temporaneo, che può durare anche per un giorno solo e si scioglie con estrema facilità, ma in qualche modo regolamenta la libertà sessuale. In teoria, se dall’incontro viene fuori un bambino, l’uomo deve riconoscerlo e mantenerlo. Ma spesso le cose vanno diversamente, come racconta il film «Ho 15 anni e mi chiamano Taranee», dove un’adolescente viene mollata ed emarginata da tutti dopo uno di questi matrimoni lampo.«Come sempre si tratta di norme che favoriscono solo gli uomini», dice Ziba, 50 anni portati splendidamente, che mi riceve nel suo luminoso ufficio nella zona nord, quasi una città giardino di ville e ambasciate. Ziba, figlia di uno scrittore e madre divorziata di due adolescenti che ha tirato su con le sue sole forze, dirige una casa editrice specializzata in testi femministi (ma lei preferisce definirli di women’s studies), con l’obiettivo di dare strumenti a un pubblico sempre più desideroso di informarsi. Un’impresa non facile in una repubblica islamica, che richiede un’abilità da equilibrista, ma che Ziba porta avanti con tranquilla fermezza, incoraggiata dalla richiesta crescente delle lettrici.

Ma intanto a muovere le acque è andata avanti un’iniziativa, unica in Medio Oriente, di cui si è parlato spesso anche in Italia. E’ la campagna, lanciata un anno fa dal premio Nobel Shirin Ebadi e da altre intellettuali, per la raccolta di un milione di firme per riformare le leggi che discriminano le donne. Sono norme che vanno dal riconoscimento della poligamia alla possibilità per il marito di ripudiare la moglie al fatto che l’uomo abbia diritto al doppio dell’eredità. La campagna si è estesa a macchia d’olio, con le attiviste impegnate in un lavoro capillare nelle università, negli uffici e perfino negli istituti di bellezza, non solo a Teheran ma nelle più lontane province, arrivando un mese fa alle 100 mila firme. Ma anche se le promotrici si sono sempre sforzate di dimostrare che le loro richieste non vanno contro i precetti della legge islamica, il regime ha reagito. Militanti arrestate o intimorite, telefoni sotto controllo, siti internet oscurati. «Non ci siamo fermate ma siamo diventate più prudenti», dice Jila, studentessa universitaria di economia, che quest’estate ha passato tre giorni in una cella di Evin, la grande prigione di Teheran. Come la maggior parte delle sue compagne è convinta che le iraniane devono conquistarsi da sole i loro diritti, senza interventi esterni. E Shirin Ebadi, nei suoi giri all’estero, non si stanca di ripetere che «qualunque attacco militare sarebbe disastroso per la nostra causa».

Pubblicato il: 21.10.07
Modificato il: 21.10.07 alle ore 8.14   
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« Risposta #1 inserito:: Novembre 25, 2007, 11:58:42 pm »

Il Bello (e il Brutto) di quella Piazza

Chiara Valentini


Non nascondiamocelo, sarebbe potuta andare meglio.

Le 150mila ragazze e donne che hanno sfilato a Roma in una giornata di pioggia per manifestare contro la violenza maschile erano scese in piazza per una causa sacrosanta. L'avevano fatto in modo spontaneo, chiamandosi a raccolta le une con le altre via Internet, accumulando documenti e volantini in cui dopo tanti anni tornavano alla luce le vecchie parole del femminismo.

La critica del patriarcato, la rivendicazione della soggettività femminile, accompagnate dalla denuncia precisa e puntuale delle violenze che rendono sempre più insicura le vite femminili. Ma una manifestazione così insolita e per certi aspetti straordinaria è stata almeno in parte offuscata da piccoli gruppi intransigenti, che in un improvvido crescendo prima hanno espulso dal corteo le politiche della destra, Stefania Prestigiacomo, Mara Carfagna e Alessandra Mussolini. Poi se la sono presa con alcuni giornalisti uomini. E alla fine, quasi in una rincorsa autolesionista, hanno occupato il palco e contestato anche le ministre Melandri, Turco e Pollastrini, che peraltro si sono sforzate di distinguere fra i gruppetti intolleranti e la grande maggioranza delle altre donne con le loro richieste ineludibili. Se serviva una dimostrazione di quanta carica negativa sia riuscito ad addensare il tema della violenza domestica, l'area sommersa di quel che succede nel chiuso delle famiglie, sabato pomeriggio la dimostrazione è arrivata.

Ammettiamo che non è un tema di quelli facili da affrontare, prima di tutto per gli uomini. Che il luogo in cui il genere femminile corre i maggiori pericoli sia la casa, e attenzione non una casa qualsiasi ma il focolare domestico, come si diceva una volta, è uno di quei capovolgimenti del senso comune da far perdere l'equilibrio anche al più equilibrato. L'immagine dell'uomo virilmente tenero che mormora alla sua compagna "non avere paura, ci sono qua io", o che infila un anello di fidanzamento al dito della prescelta promettendole "con me non sarai più sola e indifesa" è fra gli stereotipi che ritornano in modo più insistente nelle fantasie collettive, è un modello letterario e cinematografico che neanche il pulp è riuscito a cancellare. Si tratta d'altra parte della faccia accattivante dei rapporti di controllo e di potere che da sempre gli uomini cercano di esercitare, della divisione dei ruoli su cui ancora in parte continuano a reggersi le nostre società.

Sappiamo bene che la violenza maschile sulle donne, per una volta tanto, non è un cattivo primato degli italiani. Risale alla prima metà degli anni '90 un'indagine dell'università di Harvard secondo cui dappertutto la causa principale di morte per le donne fra i 14 e i 44 anni non erano le malattie, gli incidenti o le guerre, ma la violenza di parner, di familiari e di ex. Poco dopo l'Onu cominciava a diffondere i primi dossier sull'argomento e le femministe spagnole mettevano mano a quelle inchieste sulla violenza di genere che saranno poi la base della legge di Zapatero, la prima della sua presidenza. Se non sono i peggiori da un punto di vista statistico, gli italiani hanno però la colpa di essere stati drammaticamente in ritardo. Basti ricordare che da noi proprio in quegli anni la battaglia che impegnava tante energie femminili in Parlamento e fuori, era diretta ad ottenere che lo stupro non fosse più un reato contro la pubblica morale ma contro la persona. E per far diventare punibile anche la violenza sessuale consumata nel letto coniugale.

Quel primo attacco però aveva solo scalfito il fortino della famiglia. E' vero che con la legge sulla violenza sessuale era cominciata ad emergere una nuova figura di stupratore, che nella grande maggioranza dei casi era l'amico d'infanzia, il conoscente o il collega di lavoro, come sempre più spesso risultava dalle denunce. Ma il marito violento quello no, quello restava un affare privato. Ben poche mogli denunciavano lo stupro coniugale, come confermano le avvocate delle donne, anche se accompagnato da aggressioni fisiche, da umiliazioni continue , da persecuzioni psicologiche . In questo quadro le cifre della vergogna che da un po' di tempo ci martellano, i 3 milioni di donne che nel corso della vita hanno subito qualche tipo di violenza domestica e il 93 per cento che non l'ha denunciata, i 134 femminicidi del 2006 (si, il termine stride ma dobbiamo abituarci ad usarlo) e i 62 dei primi mesi di quest'anno stanno provocando una scossa che ancora non riesce a trasformarsi in una presa di coscienza generale.

"Dev'esserci qualcosa che non funziona", dichiarano uomini autorevoli che evidentemente credevano di vivere nel paese della parità realizzata. Altri, perlopiù a destra, contestano le cifre come se fossero frutto di qualche delirio delle nostre studiose. E anche dietro la campagna contro gli immigrati, di cui alcuni, ma solo alcuni, si sono macchiati di delitti e violenze, a me sembra di vedere l'individuazione di un nuovo capro espiatorio anche troppo comodo su cui scaricare ogni colpa. E intanto vengono alla ribalta storie sempre più drammatiche di donne in pericolo, di donne ammazzate perché nessuno ha saputo aiutarle, di solitudini femminili senza risposta. Riusciranno i nostri politici a convincersi che adesso le parole non bastano più?

Pubblicato il: 25.11.07
Modificato il: 25.11.07 alle ore 14.08   
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