Strada: «Quei malati sotto la pioggia, in attesa di un letto libero»
Nel Centro di Emergency a Lakka, in Sierra Leone. Il fondatore: «Non è umano non poterli soccorrere tutti»
Di Gino Strada
Waterloo non è solo la cittadina del Belgio che nel 1815 vide la sconfitta di Napoleone e la morte di oltre 40 mila persone. C’è un’altra Waterloo, qui in Sierra Leone, a poca distanza dalla capitale. Un aeroporto militare inglese della Seconda guerra mondiale diventato campo di sfollati, dove 22 mila persone vivono ammassate in baracche. Si sono accampate lì, sulla pista dell’aeroporto, fuggiti dalla guerra civile molti anni fa. Ora nel campo di Waterloo c’è un’altra guerra, l’epidemia di Ebola, e non si può scappare. Il mese scorso in un solo giorno sono stati trovati 40 cadaveri nelle baracche del campo e ogni paziente prima di morire ha infettato qualcuno della famiglia.
Giovedì 23 ottobre una famiglia di quattro persone è stata trovata sdraiata a terra in una delle viuzze di Waterloo. Malati da giorni, stremati da Ebola, madre padre e i due figli di 16 e 6 anni. Un prete cattolico, con grande generosità e un po’ di incoscienza, li ha caricati in macchina per lasciarli a Lakka, fuori dai cancelli del Centro di Emergency per la cura dei malati di Ebola.
Abbiamo trovato così la famiglia Sesay, quattro corpi distesi, malati da giorni. E il nostro piccolo Centro, cinque tende per un totale di ventidue letti, è sempre pieno. I nuovi malati devono aspettare, che qualcuno muoia o venga dimesso guarito, che lasci libero un letto. L’impotenza, la frustrazione e la rabbia si mescolano: non è giusto, non è umano trovarsi un malato grave davanti agli occhi e non poterlo soccorrere. Alle 7 di sera siamo riusciti a ricoverare in qualche modo la mamma Hawa e Foday, il bimbo più piccolo. Sembravano i più gravi. Per gli altri due niente da fare, non un posto libero in nessun ospedale della capitale. Così Alpha Sesay, il padre quarantenne, e la figlia Fatmata sono rimasti lì, accovacciati fuori dai cancelli, con le guardie a controllare che nessuno gli si avvicinasse.
Sono uscito dal Centro di Lakka poco prima delle 8, sotto la pioggia. Ho guardato qualche secondo quei due corpi malati e fradici, poi non ce l’ho fatta più e ho girato la testa dall’altra parte. Mi sono tornati in mente a metà della notte, svegliato dai fiumi d’acqua dei temporali che segnano la fine della stagione delle piogge. Venerdì mattina splende il sole, all’arrivo in ospedale: i due pazienti sono ancora lì, e non sono più soli. Un altro malato di Ebola è arrivato alle 6 del mattino, altri due si aggiungeranno prima di mezzogiorno. Nel Centro un paziente è guarito, il test per l’Ebola ha dato risultato negativo, e una donna è morta poco prima dell’alba. Possiamo ricoverare Alpha e Fatmata, gli altri restano fuori, e la lotta tra disperati continua, giorno dopo giorno, alla ricerca di una possibilità di cura. Nel pomeriggio Hawa peggiora, due ore dopo è morta. Il resto della sua famiglia è ricoverata. Oggi, lunedì, il piccolo Foday è ancora in condizioni critiche, sanguina dalle mucose. Speriamo.
28 ottobre 2014 | 07:30
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