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Autore Discussione: Antonio PADELLARO -  (Letto 72729 volte)
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« Risposta #60 inserito:: Maggio 04, 2008, 11:34:34 am »

Ricominciare da zero

Antonio Padellaro


Siete contenti? Alla gente che Berlusconi abbia il conflitto di interessi e che Alemanno sia stato fascista non gliene potrebbe fregare di meno. La destra ha vinto perché si é mostrata vicina ai veri bisogni del popolo. Il Pd ha perso per il motivo opposto. E anche voi dell’«Unità», invece di comportarvi come gli ultimi giapponesi nella giungla, dovreste fare autocritica, ripartire da zero, agevolare il dialogo tra le istituzioni di cui il paese ha estremo bisogno.

Quello che avete letto è la sintesi, forse prosaica ma abbastanza fedele, di quanto andiamo leggendo in questi giorni su tutta la grande stampa nazionale, più di qualche sentito consiglio pervenutoci in maniera molto amichevole. Poiché a causa della doppia sconfitta ci sentiamo anche noi gravati da un doppio complesso di colpa abbiamo deciso con uno sforzo di umiltà di accettare la sfida. Ripartire da zero per contribuire al clima di concordia istituzionale instauratosi dopo l’elezione di Schifani e Fini ai vertici del Parlamento italiano? Bene, però dobbiamo farlo tutti.

Non crede, per esempio, il nuovo presidente del Senato che il suo forte elogio di Falcone e di Borsellino e la sua sincera dichiarazione di guerra alla mafia sarebbero ancora più forti e più credibili se egli chiarisse definitivamente quella strana vicenda della Sicula Brokers, società nella quale, stando a quanto scrivono nel libro «I complici» Abbate e Gomez, Schifani sedeva insieme ad alcuni personaggi risultati vicini a Cosa Nostra? Una storia di trent’anni fa, certo, probabilmente accompagnata da sospetti immotivati. Ma se si vuole ricominciare da capo nei rapporti maggioranza-opposizione non è giusto pretendere che neppure un’ombra sfiori la seconda autorità della Repubblica? Per molto meno (l’acquisto di un appartamento da un ente a prezzo ritenuto troppo basso) il predecessore di Schifani, Franco Marini fu messo alla gogna come simbolo della odiata casta dai giornali dell’allora opposizione. Neppure un’ombra... si disse anche allora. Giustamente.

Sì, ripartiamo da zero, pronti perfino a dimenticare gli assalti squadristi nell’aula di palazzo Madama, gli insulti al Nobel Montalcini e al presidente Ciampi fomentati dai banchi della destra (dove sedeva il capogruppo di Forza Italia Schifani) contro i senatori a vita, rei di votare a favore del governo. Lo faremo con animo più sereno se il presidente Schifani si comporterà come ha detto, e come gli suggerisce la Costituzione da uomo effettivamente al di sopra delle parti. Da questo punto di vista, però, il suo esordio non è stato, diciamo così, molto promettente quando, subito dopo l’elezione, secondo quanto riportato dalle agenzie, «è stato ricevuto dal premier in pectore Silvio Berlusconi». Qualcuno ha già notato che il presidente del Senato viene «ricevuto» solo da Napolitano, tanto più che Berlusconi è per ora soltanto un semplice deputato. Ci rendiamo conto che la riconoscenza è una buona virtù, ma c’è un limite a tutto. Ecco, guarderemmo con più fiducia al dialogo istituzionale se Schifani cominciasse a comportarsi come Casini che (così ha raccontato) ebbe le prime ruggini con il premier-proprietario quando da presidente della Camera si rifiutò di andarlo ad omaggiare in quel di palazzo Grazioli.

Con Gianfranco Fini sarà più facile ricominciare da zero alla luce di un discorso di investitura certamente ispirato da autentico spirito repubblicano e dentro i principi fondamentali della Costituzione. Tuttavia, per il rispetto che gli e ci dobbiamo non sorvoleremo sulla sua interpretazione del 25 aprile, giustamente celebrata cone «festa di liberazione» ma senza accenno alcuno alla Resistenza e all’antifascismo. Ricordare i quali, dal nostro punto di vista, non significa «erigere steccati d’odio» ma semplicemente rispettare la verità e rendere omaggio ai tanti che hanno versato il loro sangue per la libertà di tutti, anche per quella di Gianfranco Fini.

Se il nuovo presidente della Camera ha comunque compiuto per intero il lungo percorso che lo ha portato dalle sezioni missine alla piena legittimazione democratica, lo stesso si può dire del nuovo sindaco di Roma Gianni Alemanno? Non discutiamo qui il suo passato di estremista. E siamo d’accordo: alle persone bisogna chiedere da dove vengono ma soprattutto dove vanno (anche se non dimentichiamo a quale trattamento la destra sottopose il parlamentare radicale Sergio D’Elia che venendo dagli anni di piombo aveva pagato per intero il debito con la giustizia e con la democrazia). E allora: dove va Alemanno? Ma soprattutto: con chi ci va?

In uno sforzo estremo di moderazione prenderemo per buona la spiegazione sui saluti fascisti in Campidoglio come gesti di alcuni isolati esibizionisti. E se Marcello De Angelis, tra i fondatori di Terza Posizione, condannato a cinque anni per cospirazione politica e oggi ascoltato consigliere di Alemanno annuncia che porterà il primo cittadino della capitale in un monastero dei Templari per dibattere sul «Ritorno delle élite», preferiremo non credere alla riesumazione di teorie nefaste sulla selezione e la gerarchizzazione. Resta però lo steso difficile ripartire da zero con Alemanno perché lui in pochi giorni ha già fatto strike. Con uno che vuole rimuovere la teca dell’Ara Pacis progettata da Meier come se fosse un manufatto abusivo. Che ha già deciso il trasferimento coatto di ventimila (20.000) tra extracomunitari, romeni e rom dal territorio comunale non si sa bene come e dove. Che ha già dato il benservito ai dirigenti nominati da Veltroni perché nominati da Veltroni. Che dovrà dare retta alle lobby scatenate dei tassisti e alla pressione dei borgatari antinomadi che gli hanno già presentato il conto. Con uno così per l’opposizione il dialogo rischia di trasformarsi in sottomissione e nella cogestione, casomai, delle misure più impopolari. Un problema, temiamo, che non si ferma a Roma.

apadellaro@unita.it

Pubblicato il: 03.05.08
Modificato il: 03.05.08 alle ore 16.20   
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« Risposta #61 inserito:: Maggio 07, 2008, 01:05:47 am »

Assurdo paragone

Antonio Padellaro


Non riusciamo a capire perché mai a Gianfranco Fini, presidente della Camera fresco d’investitura e di apprezzamenti per l’elogio del 25 aprile e del Primo maggio, siano uscite di bocca quelle assurde parole. Che cioè i neonazisti assassini di Verona «sono da punire» (ma guarda un po’). Che però «è più grave» quel che accade a Torino «con gli scontri anti-israeliani» in occasione della Fiera del Libro. Un paragone sommamente infelice di per sé poiché la vita di un giovane uomo distrutta a calci non ammette paragoni. Siamo convinti che la pensano così tutti coloro che giustamente avversano l’antisionismo.

Ancora più grave, se possibile, l’idea che in Fini sembra sottintesa: ovvero che in una lugubre scala delle priorità la sinistra è sempre più colpevole della destra anche quando questa uccide. Chi siede al vertice delle istituzioni dovrebbe sapere valutare i fatti per quello che sono e non attraverso lenti nere o rosse.
O peggio in base a un insopprimibile richiamo della foresta. C’è qualcosa di insincero nell’adesione ai valori democratici della destra al potere che però non riesce fare i conti con la nostra storia. Quel mettere sempre sullo stesso indistinto piano la lotta ai «totalitarismi».

Quel celebrare la Liberazione ad opera degli alleati, mai quella per la quale hanno versato il loro sangue le moltitudini di patrioti italiani. Quel parlare della Resistenza evitando accuratamente di citare l’antifascismo. Con questa visione di parte come si fa a proclamarsi nuovi pacificatori, ad auspicare la fine di ogni divisione?

C’è qualcos’altro che non riusciamo a capire in questa brutta giornata. Come sia possibile che il Tg1, dove lavorano colleghi bravi e sensibili, ieri sera abbia classificato come quarta notizia del sommario la morte del povero Nicola Tommasoli. Perché per avere subito un’informazione adeguata alla gravità del fatto abbiamo dovuto spostarci sul Tg5?

Pubblicato il: 06.05.08
Modificato il: 06.05.08 alle ore 11.38   
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« Risposta #62 inserito:: Maggio 12, 2008, 11:51:30 pm »

La parola a Schifani

Antonio Padellaro


Tra le tante indignazioni, speculazioni, ritrattazioni dopo quanto detto da Marco Travaglio a «Che tempo che fa», non resta che dare la parola al presidente del Senato Schifani per un diritto di replica a questo punto quanto mai indispensabile.

Esiste, infatti, qualcosa di molto più importante delle solite beghe Rai e riguarda l’immagine stessa delle istituzioni visto che Schifani rappresenta la seconda autorità dello Stato. Qualche giorno fa c’eravamo permessi di ricordarlo da queste colonne apprezzando il forte elegio di Falcone e Borsellino contenuto nel discorso d’insediamento dell’esponente Pdl. Aggiungevamo però che queste affermazioni sarebbero apparse ancora più forti e credibili in presenza di un chiarimento definitivo sulla strana vicenda della Sicula Brokers, società di cui (stando a quanto scrivono nel libro «I complici» Abbate e Gomez) Schifani aveva fatto parte molti anni fa insieme a personaggi poi condannati per mafia.

Abbiamo ringraziato per le spiegazioni forniteci in via informale avvertendo tuttavia che data la delicatezza della questione, e forse anche nell’interesse dello stesso Schifani, meglio sarebbe stato affidarsi a pubbliche dichiarazioni con le quali chiarire ciò che c’era da chiarire. Ieri sera l’intervista riparatoria del Tg1 non ha aggiunto granché alla conoscenza dei fatti succitati visto che il presidente del Senato si è limitato a definirli «inconsistenti, manipolati e che non hanno dignità di generare sospetti».

Attendiamo comunque fiduciosi perché convinti che la verità dei fatti sia il modo migliore per rispondere a quei malintenzionati che, secondo Schifani, vogliono minare il confronto e il dialogo costruttivo tra maggioranza e opposizione. Il resto (comprese le scuse del conduttore e dell’azienda spiccicate a quelle che ascoltammo dopo un’intervista a Furio Colombo) è solo noia.

Pubblicato il: 12.05.08
Modificato il: 12.05.08 alle ore 9.33   
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« Risposta #63 inserito:: Maggio 15, 2008, 12:07:06 am »

Dietro le parole

Antonio Padellaro


L’invito al dialogo con l’opposizione è un segno di buona educazione parlamentare, suscita giusti applausi e in fondo costa poco. Sarebbe stato strano del resto se Silvio Berlusconi, uomo che notoriamente aspira all’amore universale ne avesse fatto a meno presentandosi alle Camere sulle ali del voto popolare e alla guida di una maggioranza blindata. Hanno colpito i toni particolarmente misurati e rispettosi delle opinioni altrui forse perché rivolti ad avversari che nella campagna elettorale di qualche settimana fa egli definiva come dei comunisti antropologicamente diversi che avevano messo in ginocchio il Paese.
Su quale sia il Berlusconi autentico nutriamo qualche sospetto che tuttavia accantoneremo in attesa di vedere come si darà seguito a tanti lodevoli propositi e alle altrettante gravi omissioni. Se il premier non ha nulla da perdere a mostrarsi aperto e conciliante (magari in vista di più ambiziosi incarichi: il Colle) è altrettanto chiaro che avrebbe molto da guadagnare da un’opposizione intrappolata in uno zuccheroso spirito bipartisan. Si capisce che il premier non voglia ripetere l’esperienza dell’altra volta quando (dopo analoghe iniziali gentilezze) il suo governo «ad personam» suscitò la più ampia contestazione nel Paese. Anche questa volta le premesse non sembrano buone.

È facile infatti fare la faccia feroce con gli immigrati o annunciare rappresaglie contro gli impiegati pubblici o ipotizzare revisioni della 194 e poi sperare in una sorta di cogestione del malcontento con il governo ombra. È una confusione di ruoli da cui il Pd saprà certamente rifuggire sapendo bene che altre sono le priorità per un partito reduce da una pesante sconfitta elettorale. Ossia, rafforzare identità e radici ricominciando a parlare con quei dodici milioni di cittadini che lo hanno votato. Il primo dialogo è soprattutto con loro.


Pubblicato il: 14.05.08
Modificato il: 14.05.08 alle ore 10.47   
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« Risposta #64 inserito:: Maggio 18, 2008, 11:24:51 am »

Scusate il disturbo

Antonio Padellaro


C’è una regola non scritta di buon giornalismo che invita a usare con parsimonia i punti interrogativi per il semplice motivo che il lettore spende un euro per conoscere le risposte e non solo le domande. Veniamo meno a questo principio dopo che Michele Serra, su Repubblica, ha descritto e fatta propria la condizione di spaesamento che molti vivono nell’opposizione dopo la pesante sconfitta elettorale. Sentendosi un po’ sfiancato e un po’ spiazzato dagli eventi, egli (riassumiamo) preferisce mettersi a osservare tranquillo, senza sbandierare alcunché, aspettando che i nodi vengano al pettine. Dopo lo choc elettorale, con quel che ne è seguito abbiamo anche noi accarezzato l’idea di restare serenamente alla finestra per vedere la destra all’opera. E, come cantava Jannacci, l’effetto che fa. Purtroppo dalle serrande spalancate hanno cominciato a pioverci addosso una quantità di voci sovrapposte e di rumori confusi che nella nostra testa hanno preso la forma di altrettanti punti di domanda. Il più impegnativo dei quali riguarda il dialogo con Silvio Berlusconi. Chiariamo subito: è cosa ottima che per iniziativa soprattutto del Pd e di Veltroni sia stato inaugurato un metodo che può svelenire il clima maggioranza-opposizione. A patto, come ha ribadito il leader democratico, che serva a trovare un’intesa reale sulle regole del gioco da riformare e non invece a creare indistinte melasse programmatiche. Bisogna riconoscere che sul piano delle parole anche Berlusconi è stato all’altezza (e non di un nano, per usare la sua stessa autoironia) prefigurando un clima nuovo in Parlamento, senza confusione di ruoli, senza ambiguità, alla luce del sole, senza sospetti e senza intrighi consociativi. Perfetto.

Ma (ed è la prima domanda) questo clima nuovo deve prevedere anche una nuova memoria? Come avviene nei computer quando si decide di resettare le operazioni ritornando allo stato iniziale, aprendo una pagina nuova (appunto) e immacolata.

Non lo chiediamo polemicamente ma solo per capire, per esempio, se da questo momento in poi si dovrà considerare Silvio Berlusconi una sorta di erede di Aldo Moro, come è stato scritto autorevolmente annunciando, tra gli altri prodigi, «l’era del neo-moroteismo berlusconiano» (la Repubblica). Si tratta di una sintesi giornalistica suggestiva che allude alle aperture coraggiose dello statista dc nei confronti prima dei socialisti poi del Pci e che introduce altri interrogativi ancora. Per esempio: questa visione neomorotea e dialogante era per caso connaturata in Berlusconi anche prima che egli stravincesse le ultime elezioni? O in lui si è accesa dopo il 13 aprile, come la fiammella dello Spirito Santo nelle immaginette sacre? Non vorremmo sbagliarci ma l’uomo che ancora un mese fa si riprometteva di spedire Veltroni in Africa non sembrava proprio la quintessenza del moroteismo. O c’inganna la memoria cattiva in quanto incancellabile?

Non tireremo in ballo, per carità, le leggi ad personam. E meno che mai, ci mancherebbe altro!, il conflitto di interessi. Acqua passata. Problemi più gravi premono. L’interesse nazionale prima di tutto. Restiamo però lo stesso affascinati da un quesito, diciamo così, filosofico. Può esistere una seconda (o una terza) vita in politica? Certo che sì. E l’ultimo tratto di strada, se percorso in gloria, può cancellare tutta la storia precedente? Nicolas Sarkozy, per citare un caso a noi vicino, ha conosciuto parecchi imbarazzanti rovesci prima di approdare triofalmente all’Eliseo. Ma nessun giornalista francese si sognerebbe di escludere dalla biografia presidenziale la parte più scomoda o meno edificante per potercelo presentare come l’erede di De Gaulle. Stiamo pure sicuri che l’opposizione della dolce Ségolène Royal non fa certo sconti quando si tratta di ricordare certi difficili trascorsi del consorte di Carla Bruni.

Da noi, viceversa, la rimozione della memoria diventa valore costituzionale se stende un velo compiacente sull’autobiografia del potere. Solo in Italia può accadere che il caso Schifani diventi il caso Travaglio. Che, cioé, il giornalista reo di avere rispescato una pagina imbarazzante della seconda autorità della Repubblica venga esposto al pubblico ludibrio. Mentre la seconda autorità continua a ricevere la più sentita solidarietà da amici e avversari per l’affronto subito. Quante le cose incautamente raccontate siano vere sembra invece non interessare nessuno.

Non vogliamo farla lunga. Se oggi Berlusconi è un uomo nuovo miracolosamente redento da tutti i peccati che questa stessa opposizione gli ha (giustamente) rinfacciato nel corso di un quindicennio, ne siamo sinceramente lieti. Nell’acclamarlo come il novello Moro non perdiamo però di vista un tratto fondamentale del personaggio. Nella sua lunga e sfolgorante carriera imprenditoriale e politica di accordi il presidente-padrone ne ha fatti tanti. Ma alla fine l’affare l’ha fatto sempre lui. Scusate il disturbo e buon dialogo a tutti.

Pubblicato il: 17.05.08
Modificato il: 17.05.08 alle ore 8.13   
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« Risposta #65 inserito:: Maggio 21, 2008, 12:06:37 am »

Meno male che c’è l’Europa
Antonio Padellaro


Il cinismo del tanto peggio tanto meglio non ci appartiene e davanti alla vergogna senza fine dei rifiuti a Napoli anche noi speriamo che il governo Berlusconi riesca a combinare qualcosa prima che la città affondi. Ogni giorno che passa colpisce tuttavia il contrasto tra i festosi proclami elettorali della destra e la dura realtà dei problemi, che purtroppo non si governano a colpi di spot. Abbiamo ancora nelle orecchie le grida leghiste sui clandestini che su due piedi sarebbero stati accompagnati alla frontiera da apposite ronde. Poi però gli statisti del carroccio hanno appreso che gli irregolari da cacciare erano qualcosa come 700mila, di cui 300mila badanti indispensabili ad altrettante famiglie (anche padane), e si sono presi una pausa di riflessione.

Per non parlare di quel sindaco di Roma che si è fatto eleggere annunciando l’immediata evacuazione di una settantina di campi nomadi e di ventimila rom facendo finta di non sapere che per distinguere gli esseri umani dai pacchi esistono oltre ad apposite leggi, una Costituzione repubblicana e le direttive di una istituzione chiamata Europa. Come ha già notato sulla Stampa Carlo Bastasin mentre a Roma un nuovo spirito di armonia modera i toni, la verifica severa dell’azione di governo si sposta a Bruxelles. Dai ritardi sulla questione Alitalia ai rifiuti non c’è priorità su cui la Commissione europea non sia intervenuta.

Ma è sulla cosiddetta politica della sicurezza che l’Europa è in forte allarme tanto da costringere il Parlamento di Strasburgo a un dibattito straordinario sulle misure “antirom” di un’Italia sospettata di xenofobia. Vedremo se il governo sarà indotto a più miti consigli. Ma se nella destra dovesse farsi largo la mai sopita insofferenza antieuropea, il Pd non potrà restare a guardare. Meno male che c’è l’Europa.

Pubblicato il: 20.05.08
Modificato il: 20.05.08 alle ore 8.53   
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« Risposta #66 inserito:: Maggio 25, 2008, 11:10:09 pm »

Feste de l’Unità, il nome è tutto

Antonio Padellaro


Le Feste dell’Unità sono le Feste dell’Unità e non basterebbe una intera biblioteca per raccontare, spiegare, esprimere la quantità di sentimenti, di passioni, di valori che questo nome suscita. Ma dire « Festa dell’Unità » è andare oltre il puro significato identitario o politico. È quella cosa li, e non c’è bisogno di aggiungere altro. Festa dell’Unità è la cosa e il luogo. Anzi, è stato scritto non un luogo fisico ma una dimensione dell’essere. Un nome che definisce se stesso, come avviene per tutti i marchi universalmente riconoscibili, evocativi, e che nessuno si sognerebbe di cambiare.

Per questo siamo sicuri di avere mal compreso le indiscrezioni che parlano di un addio alla «Festa dell’Unità», a partire dalla prossima edizione nazionale di Firenze. Ci viene spiegato che il nuovo logo (si parla di «Festa Democratica») e la conseguenza della nascita di un nuovo partito, il Pd, nel quale convivono storie politiche diverse e non più riconducibili ai vecchi ceppi.

Siamo altresì convinti che si troverà il modo giusto per far convivere questo e quello, il nuovo e l’antico evitando di cancellare qualcosa che resta comunque nel cuore di milioni di persone.

Lo diciamo sul giornale che si onora di avere dato il nome alle Feste dell’Unità. Ricordando una frase, se non sbagliamo, di Elias Canetti. Che dare un nome alle cose è la più grande e seria consolazione concessa agli umani.

Pubblicato il: 25.05.08
Modificato il: 25.05.08 alle ore 7.43   
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« Risposta #67 inserito:: Maggio 27, 2008, 10:04:07 am »

Chi semina vento

Antonio Padellaro



A proposito del doppio pestaggio di un immigrato bengalese e di un cittadino italiano conduttore di una radio gay, il sindaco di Roma Alemanno parla di «xenofobia di quartiere ma senza movente politico». Un curioso gioco di parole visto che nulla è più politico del vento fetido della violenza di strada che si organizza in giustizieri della notte e bande di energumeni dediti alla pulizia etnica e di ogni altra diversità dalla pura razza ariana. Quanto alla dimensione territoriale, diamo tempo al tempo e presto i picchiatori di quartiere potranno confluire nella guardia nazionale targata Lega di governo, che provvederà ad armarli di pistole e fucili come da disegno di legge. La frase di Alemanno è un maldestro tentativo di salvare capra e cavoli perché se le svastiche del Pigneto non c’entrano niente con la croce celtica che egli porta al collo, esiste eccome un robusto nesso tra l’ondata di raid nazifascisti con morti (Verona) e feriti e l’incessante straparlare di fermezza da parte della destra. Ecco quindi, caro Alemanno, che la politica, la vostra politica della paura e della insicurezza, sparsa irresponsabilmente a piene mani sta producendo gli inevitabili effetti come i bacilli di un morbo ormai fuori controllo. È comprensibile che, vinte le elezioni, per gli apprendisti stregoni in doppiopetto comporti un qualche imbarazzo correre di qua e di là a constatare tra teste rotte e negozi devastati i risultati di tante parole fuori luogo. Invece di minimizzare o di scaricare sul presunto lassismo di chi c’era prima i vari Alemanno farebbero bene a fronteggiare con la massima urgenza questa offensiva dell’odio, immersa nella subcultura del menare le mani oltre che in nuvole di cocaina. Prima che il combinato disposto di teste rasate e bravi padri di famiglia bastonatori venga a presentare il conto anche a loro.

Pubblicato il: 26.05.08
Modificato il: 26.05.08 alle ore 8.34   
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« Risposta #68 inserito:: Giugno 01, 2008, 04:11:30 pm »

Com’è triste Chiaiano

Antonio Padellaro


Ora, onestamente, aprireste una discarica in un luogo dove si raccolgono le più belle ciliege di tutta la Campania? Potremmo chiudere qui prima ancora di cominciare, ma è giusto che il lettore sappia che all’inizio di questo nostro breve viaggio la domanda era un’altra, e cioé: come è possibile che la nostra repubblica rischi di morire soffocata dai rifiuti?

Lungo la via campana la rotonda Titanic con la prua di cemento scuro, decoro sgraziato di un indecoroso paesaggio ci pone davanti a un bivio. Di là Napoli. Di qua Chiaiano. Di qua i tronchi d’albero di traverso sull’asfalto (giusto lo spazio per i ceffi sui motorini che zigzagano guardinghi)suggeriscono che sarebbe meglio proseguire. Di là lo Stato, i gipponi della celere parcheggiati a debita distanza, le divise slacciate per il caldo polveroso, gli scudi e i manganelli non in vista, lo sguardo sui resti calcinati della sommossa sospesa (e il timore di una nuova azione di forza che vorrebbe dire infilarsi in un budello senza uscita). Sì, lo Stato che è finalmente tornato, come da giusto plauso degli autorevoli editorialisti per il decisionismo del nuovo governo. Ma che presto potrebbe ripensarci a sentire gli esperti nominati dalle amministrazioni comunali e dai comitati di lotta poiché «non ci sarebbero le condizioni per realizzare una discarica che rispetti le normative europee».

Se ci è concesso un punto di vista guardando le cose dal ponte sgarrupato del Titanic saremmo propensi a consigliare di lasciar perdere. Siamo anche noi con lo Stato, ci mancherebbe altro e il tanfo della monnezza fitta e uniforme, solida e umida che da ore ci accompagna verso sud accresce il senso interiore di catastrofe.

Cosa starà fermentando dentro i baccelli di plastica azzurrina? E la salute dei bambini? E quanto ancora a milioni di persone si potrà chiedere di sopportare una tragedia che non ha uguali tra le pur tante e significative brutture di questo mondo? Come non gridare basta? Come non pretendere che da qualche parte questo schifo venga ficcato? Poi però è come se un sentore più profondo dicesse: attenti che qui sotto il Titanic di Chiaiano, proprio sotto i nostri piedi forse c’è il grande buco nero dell’Italia. L’epicentro dell’abbandono e del rancore («vi accorgete di noi solo per scaricarci la vostra merda») pronto a inghiottire con le tonnelate di spazzatura la nostra buona e giusta voglia di legalità, sicurezza, normalità, pulizia, futuro, senso dello Stato. Perciò, arrivati qui, già a un primo sguardo temiamo che questo sia il posto sbagliato nel momento peggiore.

Un’ora e mezza dal centro di Roma. Uscita dell’autostrada Capua, «città d’arte e di studi». Verrebbe da dire: per ora tutto bene come quel tale caduto dal trentesimo piano giunto a metà del tragitto. Edifici sventrati tra ginestre e campi coltivati. Inevitabilmente, collinette di spazzatura ai crocevia. Sui muri i manifesti di Gomorra stasera al Drive-in. A Casal di Principe nenanche un sacchetto per strada (ma non penseremo per questo che nella camorra c’è qualcosa di buono). Poi Aversa, Giugliano, Marano. «Conurbazione ininterrotta nella regione più popolosa del mondo; megalopoli per la speculazione schifosa di una classe dirigente che non sapeva fare altro che costruire un palazzo dietro l’altro, senza servizi, senza strade; e che si aspettavano? che tutta questa gente buttata in vicoli e favelas schifose si mettesse a fare la raccolta differenziata, come bravi americani nelle loro casette ben costruite?» (Raffaele La Capria, «Il Foglio», 27 maggio).

A Giugliano in Campania, dieci chilometri di insegne nella più grande concentrazione dell’industria tessile parallela (clandestina) raccontata da Saviano. Colossale esposizione di abiti da sposa a cielo aperto. L’industria globale del matrimonio per tutte le tasche. In vendita perfino lo sfizio di un bianco cocchio nuziale. Poi i centri commerciali che non finiscono mai. Poi il mercato ortofrutticolo. Poi signore e signori 4 milioni di ecoballe che occupano un’area di 3 milioni e mezzo di metri cubi. Accatastate e ricoperte da minacciosi teloni neri. Intorno decine di tralicci e in alto i cavi dell’alta tensione. Una scintilla e qui prende fuoco tutto. Una spettacolare catastrofe di fumi scuri e diossina. Ma da queste parti parlarne è da iettatori.

Il quartiere di Chiaiano fa parte dell’ottava municipalità del Comune di Napoli. Con circa 23mila residenti confina a nord con il comune di Marano di Napoli, a ovest con il quartiere Pianura, a sud con il quartiere Arenella, a est con i quartieri Piscinola e San Carlo all’Arena. Da piazza Titanic comincia via Cupa del Cane. Tende dei comitati, una piccola folla. Troupe televisiva raccoglie dichiarazioni. Smontata la prima barricata di cassonetti saldati a catene e filo spinato restano sul percorso barricate come di avvertimento: carcasse di auto, cataste di legno, reti metalliche, materassi sfondati. È la strada di un quartiere a forte densità abitativa. Palazzine di sette piani. Panni stesi. Massaie con la sporta. Un bar. Un alimentari. Siamo a poche centinaia di metri dalla grande cava indicata come futura discarica, il quadrilatero di tufo che abbiamo visto infinte volte nei tg. Altra domanda: ve ne state tranquilli a casa vostra poi un giorno lo Stato ritorna decide che la monnezza è toccata a voi insieme al tanfo, al pericolo concreto di brutte malattie e allo sferragliare incessante, su e giù, giorno e notte dei camion dei rifiuti. Per caso non è che vi arrabbiate un po’?

I muri di Chiaiano mettono paura. Scritte su giornalisti venduti. E su politici condannati a morte. I nomi di Bassolino e Jervolino nel tazebao fatto col pennarello. Cupe profezie : «Non sarà il Vesuvio a distruggere Napoli ma Chiaiano». Viene in mente un articolo di Adriano Sofri, qualche giorno fa su «Repubblica», che collegava la sconfitta elettorale del 13 aprile con il «rigetto pressoché viscerale, esistenziale della classe dirigente di sinistra, che alla maggioranza degli italiani ha finito per apparire come un corpo estraneo, da espellere, sul quale sfogarsi e trarre vendetta». Se questa espulsione c’è stata quanto hanno pesato le immagini dello stupro di Napoli e della Campania?

Da via Cupa del Cane parte un sentiero che conduce alle tredici cave di un parco di 540 ettari, la Selva di Chiaiano, dieci dei quali per la discarica, altri trenta occupati dalle cave abusive (sembra) di alcuni camorristi. «La selva di Chiaiano», abbiamo letto ieri sul «Sole 24ore» organo non certo delle teste calde, «ti inghiotte inconsapevolmente. La boscaglia di castagni, vigne, ciliegi e pioppi è così fitta che si fatica a scorgere il cielo. È come un viaggio indietro nel tempo, un salto nella terra grassa della Campania borbonica». La Campania Felix, pianeggiante e fertilissima, ora un grande ventre butterato da cemento e discariche. Torniamo alla domanda iniziale. Come può venire in mente a qualcuno di lordare quel poco che si è salvato? Conosciamo l’obiezione. Tutte le popolazioni possono invocare gli stessi buoni motivi di questa gente. Se diamo retta a tutte le pur legittime proteste nel Napoletano non si potrà mai aprire una discarica? Conoscete la controbiezione. Come è stato possibile non pensarci prima?

Nel frattempo escono i verbali horror dell’inchiesta sulla cattiva gestione della crisi dei rifiuti («La discarica ormai è piena di liquido se quella roba sale sarà come un Vajont»). Nel fattempo anche Berlusconi, come lo Stato, torna a Napoli e poi riparte. Nel frattempo domenica a Chiaiano la sagra delle cerase si farà comunque.

(Tornando a Roma ripenso a un racconto di Dino Buzzati, «Il crollo della Baliverna». Un uomo si aggrappa alla finestra di una malridotta costruzione adibita a ricovero di zingari, senzatetto e vagabondi. Ma viene giù tutto).

Pubblicato il: 31.05.08
Modificato il: 31.05.08 alle ore 15.16   
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« Risposta #69 inserito:: Giugno 04, 2008, 12:08:17 am »

Stranieri di governo

Antonio Padellaro


Eravamo presenti con un nostro ambasciatore, dice Roberto Calderoli piccato per le polemiche sull’assenza dei ministri della Lega alle celebrazioni del 2 giugno. Dichiarazione che appare tremendamente onesta. Perché mai, infatti, l’unità nazionale e repubblicana dovrebbe essere celebrata da chi a quella stessa nazione e repubblica chiamata Italia non intende appartenere avendone fondata un’altra a cui ha dato il nome di Padania? Concetto fortissimamente ribadito con i giuramenti di fedeltà padana, le sessioni del parlamento padano, le scuole padane e adesso anche la proposta di un esercito padano munito di artiglieria. Senza contare le continue minacce di sollevazione armata (Bossi), i ripetuti oltraggi al tricolore e il rifiuto d’intonare l’inno di Mameli coperto da un allegro motivetto, sempre padano, dal titolo «chi non salta italiano è». In questo quadro di totale estraneità, ostilità e separazione appare del tutto conseguente l’invio alla parata dei Fori Imperiali di un ambasciatore padano, provvisoriamente vicepresidente del gruppo al Senato. Che sull’esempio delle altre rappresentanze diplomatiche, almeno, non ha cercato di fare della bandiera italiana un uso igienico corporale. A questo punto di qualcosa d’altro dovremmo sorprenderci. Come sia possibile che l’intero popolo italiano debba essere governato, unico caso che si conosca, da ministri appartenenti a un’entità che si considera straniera in patria. A cominciare da un ministro dell’Interno che considerando sconveniente passare in rassegna i reparti della Polizia di Stato a cui dovrebbe sovrintendere, preferisce restarsene con le camicie verdi a Varese. Un comportamento ingiurioso verso le istituzioni e proprio nei giorni in cui il presidente della Repubblica lancia l’allarme sui pericoli del ribellismo e della regressione civile. Ha ragione l’ex ministro Parisi: ecco cosa ne è stato dell’unita della nazione a furia di considerare la Lega un fenomeno goliardico con cui dialogare, a furia di chiudere gli occhi e di tapparsi le orecchie.

Pubblicato il: 03.06.08
Modificato il: 03.06.08 alle ore 12.54   
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« Risposta #70 inserito:: Giugno 21, 2008, 11:23:05 pm »

Piazza opposizione

Antonio Padellaro


Ci giungono congratulazioni insincere: sarete contenti, dicono, adesso anche Veltroni vuole portare l’opposizione in piazza. Come dire: i soliti girotondini. Senza dubbio dopo la sconfitta del 13 aprile e il ritorno di Berlusconi, come prima e peggio di prima, l’Unità non ha smesso di chiedere al Pd di tornare a parlare alla sua gente, per rincuorarla e farla sentire meno sola. Lo ha scritto tante volte Furio Colombo. Lo ha chiesto, proprio ieri, Paolo Flores d’Arcais con una lettera aperta a Walter Veltroni dal titolo (guarda caso): «Torniamo in piazza». Lo ha sostenuto pochi giorni fa il direttore di questo giornale proponendo al leader del Pd una grande offensiva nazionale sul lavoro negato, sullo scandalo dei salari più bassi d’Europa, sulla vergogna senza fine delle morti bianche. Ma già sentiamo la solita parodia preventiva ridurre tutto alle ubbie di qualche dissociato, incurante dell’invocazione «Silvio, Silvio» che inarrestabile si alza dal Paese.

Torneremo sull’argomento tra un attimo. Prima però una fotografia su questa assemblea nazionale del Pd preceduta da una vigilia movimentata. Si temevano tante cose. La guerra delle correnti. L’isolamento di Veltroni. E c’è chi ipotizzava che la resa dei conti interna avviasse un triste ritorno al passato, con gli ex diesse da una parte e gli ex margheriti dall’altra. Sullo sfondo, il disincanto della base e la fuga di massa nell’astensionismo (vedi elezioni siciliane). Non è andata così, fortunatamente.

E se anche l’umore complessivo della platea non era certo raggiante (come dimostra la presenza di meno della metà dei delegati) c’è da dire che Veltroni esce dalla Nuova Fiera di Roma più rinfrancato. E questo, a maggior ragione, vale per l’intero Pd. A parte le attese critiche di Arturo Parisi sulla «nave piena di falle», l’intero partito (D’Alema compreso) sembra avere alla fine condiviso la strategia veltroniana riassumibile in tre punti. Primo: sulla natura riformista del Pd e sull’andare da soli non si torna indietro. Secondo: basta col sentirsi ex di qualcosa anche se manca ancora quel famoso radicamento nel territorio che non significa aprire qualche nuova sede ma dare risposte vere, concrete ai tanti che dicono:”A voi non interessa niente di me, dei miei problemi”. Terzo: il Pd voleva competere con la maggioranza, scontrarsi a viso aperto sui programmi di governo e allo stesso tempo convergere sui valori costituzionali; ma per colpa di Berlusconi che cerca solo la rissa del tutto incapace di separare l’interesse personale da quello del Paese tutto rischia di precipitare nella conflittualità permanente.

Del resto, l’elenco degli strappi “ad personam” è impressionante. Emendamento salva Rete 4. Limiti alle intercettazioni e alla libertà di stampa. Norme per fermare il processo Mills. Ricusazione del magistrato che dovrebbe giudicare il premier. Norma blocca processi. Riproposizione del lodo Schifani. Guerra all’Europa. Guerra ai magistrati. Guerra all’opposizione. Questo in appena due mesi. E nei prossimi cinque anni questo signore come ridurrà la nostra povera democrazia?

Qui torniamo all’opposizione in piazza. E ritorniamo al 14 settembre 2002. Lo ha ricordato Piero Fassino che anche dopo la sconfitta del 2001 trascorse un anno prima che il centrosinistra riuscisse a reagire. E infatti quella opposizione si riprese a tal punto da vincere dal 2002 in poi tutte le elezioni amministrative ed europee fino alla risicata vittoria del 2006. Molti se ne sono dimenticati ma sei anni fa in quel sabato di un caldo settembre piazza San Giovanni a Roma straboccava di gente. I giornali parlarono di mezzo milione di persone. Una moltitudine di girotondini eccitati col superattico e l’ombrellone a Capalbio? No, cittadini normali, famiglie intere, persone reali con i problemi di tutti i giorni e una domanda irrisolta di giustizia. Protestare per una situazione subita come ingiusta, non è una scelta politica di destra o di sinistra. È una reazione umana, naturale anche se difficile da comprendere nella logica di un mondo capovolto, scrivemmo allora.

Sei anni dopo ci ritroviamo al punto di partenza. Forse non c’è paese al mondo che vive una simile coazione a ripetere. Ma questa volta, se possibile, è ancora peggio. Perché in più, oltre all’arbitrio, al sopruso e alla legge del più forte c’è qualcosa che la nostra pur tormentata storia repubblicana non aveva mai conosciuto: la militarizzazione del senso comune, la persecuzione degli immigrati, il carcere per i giornalisti.

Per le tante ragioni che sappiamo non sarà facile riempire di nuovo una piazza San Giovanni. Però bisognerà prepararla bene questa chiamata a raccolta degli italiani e il prossimo autunno appare il periodo giusto. Antonio Di Pietro dice che no, che va fatta subito e ci ricorda Achille Campanile e la surreale gara di matematica dove ad ogni numero iperbolico di un concorrente l’altro rispondeva sempre: più uno. La reazione scomposta di Berlusconi dimostra che l’opposizione più dura del Pd ha colto nel segno. È troppo chiedere di non dividersi anche quando si è d’accordo?
apadellaro@unita.it

Pubblicato il: 21.06.08
Modificato il: 21.06.08 alle ore 8.15   
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« Risposta #71 inserito:: Giugno 26, 2008, 03:38:11 pm »

La favola del Cavaliere buono

Antonio Padellaro


Noi de l´Unità non abbiamo mai creduto alla favola del cavaliere diventato buono semplicemente perché conserviamo una certa memoria del passato mentre sulla redenzione della natura umana abbiamo le nostre opinioni.

Lo stesso giubilo per le mutate sembianze del lupo in agnello lo ascoltammo nel lontano ‘94 quando bastò che il novello premier rendesse omaggio alla statura politica di un esponente dell´opposizione come Napolitano perché si sciogliessero ditirambi sulla clemenza del vincitore e l´avvento di una nuova feconda stagione di riforme.

Di quanto aguzzi fossero i denti dell´agnello si rese poi conto l´allora presidente Scalfaro quando osò rifiutargli un nuovo incarico di governo dopo lo strappo di Bossi.

Nel 2001 trascorsero sei mesi buoni prima che il centrosinistra rintronato, tanto per cambiare, dalla batosta elettorale si accorgesse che l´uomo di Arcore era tornato a palazzo Chigi soprattutto per sistemare certe sue pendenze con la giustizia. E, infatti, quando l´opposizione si decise finalmente a farla, ricominciò a vincere le elezioni mentre le vedove del dialogo gemevano che oddio non si può dire sempre no. Per carità di patria meglio dimenticare le festose celebrazioni sulla miracolosa trasformazione del premier dai toni finalmente moderati e dallo stile finalmente da statista che negli ultimi due mesi hanno impreziosito le rassegne stampa. Lodi sperticate e paragoni arditi con De Gasperi, Moro e altri consimili padri della patria. Manifestazioni di giubilo sul nuovo clima politico fatte proprie perfino dal Papa. E, naturalmente, favorevoli presagi sulla nuova feconda stagione di dialogo. Guai a dissentire, e su chi in solitudine tentava di spiegare il rovescio della medaglia della presunta pacificazione, e cioé l´accettazione del peggio, poteva arrivare l´accusa più grave di questi tempi, quella di antiberlusconismo preconcetto e sorpassato.

Berlusconi resta Berlusconi, peggiorato se possibile dagli anni e dalla crescente sindrome da onnipotenza. E chi, malgrado tutto, continua a meravigliarsi per i suoi insulti sanguinosi alla magistratura, per le sue leggi personali e in barba alla costituzione scritte dai suoi famigli nominati ministri, per le sue crisi di rabbia da piccolo duce che non ammette obiezioni, dimostra una pervicace e insopprimibile vocazione alla sconfitta. Da qui all´eternità.

Pubblicato il: 26.06.08
Modificato il: 26.06.08 alle ore 12.13   
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« Risposta #72 inserito:: Giugno 28, 2008, 06:04:19 pm »

La fine del Parlamento

Antonio Padellaro


In un momento (quanto mai prezioso) di sincerità Silvio Berlusconi ha illustrato la funzione dei «suoi» parlamentari a Montecitorio e a palazzo Madama: quattro o cinque teste pensanti, e tutti gli altri addetti a premere i pulsanti. Si era in campagna elettorale e forse neppure da unto del signore egli avrebbe immaginato che il voto degli italiani, rinforzato dal porcellum, gli avrebbe consegnato una sontuosa maggioranza di 54 senatori e di 58 deputati. Tutti nominati dall’alto. Tutti riconoscenti. Tutti allineati e coperti. E infatti, adesso, il Parlamento funziona come un orologio svizzero.

Bastano pochi minuti e il Consiglio dei ministri approva per acclamazione i desiderata del presidente-proprietario, confezionati in forma di legge dagli avvocati e consulenti a libro paga. Dopodiché il ministro che recita la parte del proponente (in genere Alfano) illustra alla stampa riunita lo spirito della norma augurandosi che l’opposizione non faccia mancare il suo apporto (peraltro superfluo). E se invece l’opposizione sorda ai richiami del Paese rifiuta la generosa offerta di dialogo, pazienza. Poche settimane e con apposito calendario predisposto dalla maggioranza la legge desiderata diventa tale. Merito degli addetti alle pulsantiere, con il supporto dei «pianisti» che votano per due (non ce n’è bisogno ma è la forza dell’abitudine). Tutto questo con il controllo ferreo delle commissioni. Mentre vengono frapposti sempre nuovi ostacoli al diritto della minoranza di presiedere gli organismi di garanzia, a cominciare dalla vigilanza Rai.

È andata così per la legge cosiddetta sulla sicurezza e per il provvedimento blocca processi e salva-premier. Andrà così, siamone certi, per il lodo Schifani bis, per le impronte ai bambini rom, per la finanziaria di Robin Hood-Tremonti, per la controriforma Sacconi sulle morti bianche e per ogni altra esigenza o capriccio della real casa. Con la Lega può capitare qualche intoppo, come l’aiutino a «Rete4», tv di famiglia. Una telefonata tra Silvio e Umberto e il problema è risolto. Certo, non tutto può passare liscio trattandosi sovente di leggi incostituzionali o scritte con i piedi o contrarie, oltre che alla pubblica decenza alla normativa europea. Fortunatamente siamo ancora in una democrazia dove agiscono Corte costituzionale, Csm e tutte le altre istituzioni di salvaguardia. E c’è soprattutto la garanzia del Quirinale. Sono impedimenti che a loro naturalmente non piacciono ma avranno tutto il tempo per porvi rimedio. Già parlano di «riforma» del Csm. E cresce l’insofferenza dei ministri padani verso l’Europa che protesta sdegnata per le nuove leggi razziali.

Mai nella storia repubblicana si era assistito a una tale umiliazione del potere legislativo a cui si cerca di togliere ogni autonomia di giudizio.

L’opposizione, inutile dirlo, non si trova in una situazione semplice. All’inizio aveva sperato di contenere con la formula del dialogo l’aggressività dei vincitori. Molto presto (o troppo tardi) ha compreso però che per Berlusconi il dialogo è un altro modo per farsi gli affari suoi. E così mentre egli cerca di trasformare il Parlamento nella sua bottega l’opposizione si è fatta in tre. Quella del no (Di Pietro) e quella del forse (Casini) unite entrambe da una visione per così dire tattica. Spetta però al Pd, per dimensione e peso politico, elaborare una strategia della opposizione che determini una risposta forte alla dittatura della maggioranza. Non lo sterile aventinismo e neppure il lento sfibrarsi del giorno dopo giorno alla ricerca di accordi mediocri. La fine del Parlamento come luogo di mediazione e del bene comune deve diventare la questione nazionale su cui tornare a coinvolgere i tanti che non si sono arresi all’apatia politica del tanto non c’è più niente da fare e lasciamo che decidano loro. I giornali già parlano di una nuova stretta di vite, di un blitz guidato da Gianfranco Fini per ottenere alla Camera il contingentamento dei tempi di discussione, oggi possibile solo al Senato. Davvero non c’è più tempo da perdere.

apadellaro@unita.it

Pubblicato il: 28.06.08
Modificato il: 28.06.08 alle ore 8.25   
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« Risposta #73 inserito:: Luglio 02, 2008, 06:36:38 pm »

La sfida


Antonio Padellaro


Classico dei regimi autoritari è il proclamare una situazione d’emergenza per meglio procedere a misure restrittive della libertà dei cittadini. «Situazione d’emergenza», sono non a caso le parole usate ieri da Berlusconi per motivare l’immediata adozione del decreto legge sulle intercettazioni, al posto del più lento disegno di legge appena varato dal governo. Significa che se il governo lo decidesse oggi, già da domani la legge studiata per imbavagliare la stampa italiana e per mandare in galera magistrati e giornalisti, sarebbe operativa. Tutto questo per impedire che il contenuto di altre conversazioni, a quanto si dice fortemente compromettenti per il premier, vengano pubblicate dai giornali che ne sarebbero già in possesso. I requisiti di necessità e di urgenza richiesti per questo genere di provvedimento funzioneranno ancora una volta «ad personam» ma con gravissimi ricaschi sulle stesse garanzie democratiche. Dopo la legge salva premier e il lodo impunità di Alfano, dunque un altro colpo di mano che appare come una sfida aperta a Giorgio Napolitano. In un clima di continua prevaricazione del potere esecutivo nei confronti del potere legislativo e di quello giudiziario, il capo dello Stato deve fronteggiare le iniziative spesso anticostituzionali del piccolo duce. Arrivato al punto di spedirgli i presidenti delle camere, usati come dipendenti, per cercare di estorcergli, inutilmente, una dichiarazione contro i presunti sconfinamenti del Csm. Adesso l’annuncio del decreto suona come un’altra provocazione visto che era stato proprio Napolitano a chiedere che su materie così delicate il Parlamento potesse esprimersi senza diktat. Ma Berlusconi è ormai talmente senza freni da far temere nuove forzature nel caso, come tutti speriamo, il Quirinale gli frapponesse un nuovo no. Il «messaggio agli italiani» che domani il premier lancerà da una delle sue tv si annuncia tutt’altro che rassicurante.




Pubblicato il: 02.07.08
Modificato il: 02.07.08 alle ore 8.18   
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« Risposta #74 inserito:: Luglio 05, 2008, 04:52:54 pm »

Chi getta fango

Antonio Padellaro


Se ci fosse ancora Claudio Rinaldi, grande giornalista, avrebbe già tolto la pelle a tutti gli ipocriti in livrea e moralisti un tanto al chilo che si stracciano le vesti e invocano punizioni esemplari per la violata privacy di Silvio Berlusconi. Ma Claudio non c’è più, scomparso ingiustamente un anno fa togliendoci un approdo autorevole e robusto di verità nel marasma in cui annaspiamo. Proverò lo stesso a immaginare cosa mi avrebbe detto, oggi, nella nostra immancabile chiacchierata di fronte alla denuncia del premier sul «fango»» che i soliti magistrati gli avrebbero gettato addosso. Lasciando perdere il consueto sondaggio sulla fiducia plebiscitaria degli italiani, neppure scalfita e anzi accresciuta dalle voci sulle conversazioni pornopolitiche del premier (ma allora perché negargliene la lettura?), a Claudio non sarebbe certamente sfuggito il doppio salto mortale del cavaliere. Che, protagonista assoluto di fangose conversazioni accusa gli altri di infangarlo pronto a sbranarli, come accade al povero agnello nella favole di Fedro (superior stabat lupus). Ma se questo è il medesimo Berlusconi che conosciamo da quindici anni forse lo sarebbe di meno, o con qualche problema di più, se il suo redditizio autovittimismo non si trovasse sempre davanti il tappeto di fiori stesogli dalla pletora di azzeccagarbugli volontari o a contratto. Perché ha ragione l’Espresso (che ha meritoriamente pubblicato le trascrizioni della Procura di Napoli, poi saccheggiate dall’intera stampa italiana senza storcere tanto il naso) nel segnalare che secondo la magistratura in quei dialoghi tra Berlusconi e Saccà non ci sono solo gossip o innocue raccomandazioni. Ci sono trattative per convincere parlamentari del centrosinistra a togliere il sostegno a Romano Prodi, in cambio di benefici economici diretti e di opportune “segnalazioni” di veline per questa o quella fiction. Non roba da poco. E ci sono anche profili che attengono al conflitto d’interessi, con il top manager Rai che studia affari con l’azienda rivale Mediaset, il tutto bendetto da un componente dell’Autorità di controllo sulle comunicazioni. Di altre conversazioni privatissime nulla sappiamo se non ciò che il micidiale pettegolezzo collettivo ci va propinando perfino nei particolari più estremi. Noi non ci crediamo ma se, come ipotizza Di Pietro dando ascolto alle voci, da quelle intercettazioni risultasse che il presidente del consiglio avesse nominato ministro (o ministri) persona (o persone) per ragioni diverse da quelle politiche, la cosa potrebbe essere liquidata nella categoria del gossip? Anche Bill Clinton, nella torrida estate del ‘99, malgrado lo scandalo della giovane stagista Lewinsky, continuò ad essere considerato nei sondaggi come un buon presidente degli Stati Uniti. Ciononostante, una volta smascherato, non si sottrasse alla crocifissione quotidiana di media e avversari politici riconoscendo pubblicamente il suo errore e chiedendo scusa agli americani, oltre che alla sua famiglia. Ma in Italia, dove il mondo gira al rovescio è il premier impigliato in un’indagine sulla compravendita di senatori che pretende le pubbliche scuse. Mentre delle altre telefonate, vedrai caro Claudio, alla fine si farà un bel falò. Nessuno deve sapere.

Pubblicato il: 05.07.08
Modificato il: 05.07.08 alle ore 15.26   
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