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Autore Discussione: Antonio PADELLARO -  (Letto 68590 volte)
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« Risposta #75 inserito:: Luglio 09, 2008, 11:40:52 pm »

Peccato!

Antonio Padellaro


Se piazza Navona applaude Giorgio Napolitano e Beppe Grillo lo insulta, noi stiamo con la piazza e stiamo con il presidente della Repubblica.

Noi stiamo con Furio Colombo che ha dato una scossa a quella folla azzittita da troppe imbarazzanti volgarità ricordando quello che tutti volevamo sentire.
Che si era lì in tanti non per attaccare Veltroni o per deridere l’opposizione del Pd ma per protestare contro il governo dell’impunità e delle impronte digitali ai bambini rom.

Siamo con Moni Ovadia che ha detto: «noi stiamo qui per esserci», condensando in cinque parole un sentimento comune di non rassegnazione. Stiamo con Rita Borsellino, donna di ferro.

Stiamo con Andrea Camilleri e con le sue civilissime poesie incivili. È un vero peccato che Antonio Di Pietro non abbia capito che quella piazza chiedeva concordia e che l’aveva avuta nelle parole (anche sue) e nei toni e negli accenti, fino a quando una voce dall’aldilà non ha fatto piazza pulita di sentimenti e speranze sentenziando con un vaffanculo che era tutto inutile e che l’Italia era perduta per sempre.

Se inviti Grillo avrai Grillo.

Che non è il diavolo ma che persegue una sua personale profezia di sfascio e dissoluzione dalle cui rovine, figuriamoci, nascerà il nuovo e il giusto.

Cosa aveva a che fare questa apocalisse condita di oltraggi al Papa con una manifestazione di protesta contro il governo, resta un mistero.

Forse neanche Berlusconi aveva sperato in tanto: un girotondo che servisse alla causa del peggiore, la sua.

L’opposizione non è un pranzo di gala e forse ci voleva una piazza Navona per restituire la parola a una base lasciata troppo sola dopo la batosta elettorale. Ma l’opposizione non si costruisce né con le scorciatoie e né mettendo insieme tutto e il contrario di tutto, magari per togliere qualche voto al vicino di banco.

L’opposizione è soprattutto una scommessa sul futuro. Speriamo, ieri, di non averla perduta.

Pubblicato il: 09.07.08
Modificato il: 09.07.08 alle ore 13.12   
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« Risposta #76 inserito:: Luglio 11, 2008, 04:21:43 pm »

Europa contro L'Unità , Padellaro: attacco livoroso



Il direttore Antonio Padellaro «Un'altra offesa del tutto gratuita.

Questo triste compito se lo assume adesso il direttore di un quotidiano che reca sotto la testata la dicitura: Partito Democratico.
I tanti che in quello stesso Partito Democratico ricoprono incarichi di responsabilità scrivendo spesso sulle pagine di un giornale che stando alla prosa menichinesca spara idiozie e non ha il senso del nome che porta, non hanno nulla da dire?». È siglata con le inziali del direttore, Antonio Padellaro, la durissima nota dell'Unità che replica all'editoriale di oggi di 'Europà rilevando: «Ora, nessun organo di stampa mai, neppure tra quelli che a destra in questi anni più duramente ci hanno avversato, si era spinto a mettere sullo stesso piano i giornalisti dell'Unita» con i fiancheggiatori del terrorismo. Giornalisti dell'Unita« irrisi e descritti come 'rapiti dalla passione per i manifestanti».

«Stefano Menichini, il primo (e per ora unico) direttore al mondo che ha proposto la chiusura del giornale che dirige ('Europà) torna a fare parlare di sè sul giornale che ancora non è riuscito a chiudere. Purtroppo, questa volta, con la spericolatezza che gli è abituale - scrive Padellaro - supera i confini della satira per inoltrarsi sulle scivolose vie della diffamazione con un articolo di prima pagina anonimo e per questo a lui ascrivibile. Scriviamo queste righe con una certa riluttanza perchè conosciamo il suo abituale giochino di spararla grossa per raccattare qualche citazione qua e là.

Pazienza, ognuno fa quello che può. Ma non è possibile tacere di fronte a chi con un attacco livoroso e sconclusionato lungo 109 righe si perita di illustrare al nuovo proprietario dell»Unita« il suo personale piano editoriale per 'recuperarè alla testata fondata da Antonio Gramsci 'un senso di sè più consono al nome che si portà (e qui siamo di nuovo in piena satira)».

«Ma dove Menichini supera il limite - prosegue - è quando paragona l»Unita« 'ai giornali della sinistra extraparlamentare che negli anni '70, puntualmente, dopo ogni corteo finito a pistolettate per colpa dell'Autonomia, si rammaricavano per l'occasione persa dal movimento per colpa di pochì.
Per poi osservare, bontà sua, che 'oggi fortunatamente le pistole tacciono e ci sono solo i comici a sparare idiozie, ma il senso è lo stesso».

E le prese di posizione di esponenti del Pd, e non solo, sono arrivate.

Franco Monaco (Pd) esorta il direttore dell'Unità, Antonio Padellaro a tenere il punto e a cercare di aiutare il partito guidato da Walter Veltroni. «Tenga il punto, caro Padellaro. Non si faccia condizionare - dice Monaco - da chi l'accusa di flirtare con l'estremismo populista. Per quattro buone ragioni: 1) nell'antiberlusconismo non c'è nulla di ideologico perchè gli strappi alla legalità costituzionale sono purtroppo concretissimi e attuali; 2) la difesa della Costituzione e della dignità delle istituzioni è battaglia da moderati, liberali, riformisti: estremista e giacobino è semmai chi calpesta ogni regola; 3) abbiamo bisogno di un'opposizione energica e unitaria con e oltre il PD, peraltro in coerenza con gli impegni elettorali, non l'opposizione 'fighettà dei promiscui salotti romani o della spiaggia di Capalbio; 4) guai se anche l'Unità, in coerenza con la suam mtradizione popolare, rinunciasse ad avere un rapporto reale con le persone reali del nostro campo, senza puzza al naso. Già il PD - conclude Monaco - per dirla con un eufemismo, ha problemi di comunicazione. L'Unità lo può e lo deve aiutare».

Giuseppe Giulietti, portavoce di Articolo 21 e Vincenzo Vita, senatore del Pd, esprimono solidarietà ai giornalisti e al direttore dell'Unità Antonio Padellaro, «attaccati in maniera francamente incomprensibile dal direttore di Europa».

«Intendiamoci. Critiche, polemiche, dialettiche anche accese - dicono - sono sempre legittime. Tuttavia in questo caso pare essere valicata quella sottile linea d'ombra che separa tutto ciò dall'eccesso fazioso. Non è un bello spettacolo, tanto più che esiste una contiguità politica e culturale che costituisce un valore cui riferirsi».


Pubblicato il: 10.07.08
Modificato il: 10.07.08 alle ore 21.42   
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« Risposta #77 inserito:: Luglio 11, 2008, 10:26:21 pm »

Le Pistole di Menichini

Antonio Padellaro


Stefano Menichini, il primo (e per ora unico) direttore al mondo che ha proposto la chiusura del giornale che dirige («Europa») torna a fare parlare di sé sul giornale che ancora non è riuscito a chiudere. Purtroppo, questa volta, con la spericolatezza che gli è abituale supera i confini della satira per inoltrarsi sulle scivolose vie della diffamazione con un articolo di prima pagina anonimo e per questo a lui ascrivibile. Scriviamo queste righe con una certa riluttanza perché conosciamo il suo abituale giochino di spararla grossa per raccattare qualche citazione qua e là. Pazienza, ognuno fa quello che può. Ma non è possibile tacere di fronte a chi, con un attacco livoroso e sconclusionato lungo 109 righe, si perita di illustrare al nuovo proprietario de «l’Unità» il suo personale piano editoriale per «recuperare» alla testata fondata da Antonio Gramsci «un senso di sé più consono al nome che si porta» (e qui siamo di nuovo in piena satira). Ma dove Menichini supera il limite è quando paragona «l’Unità» «ai giornali della sinistra extraparlamentare che negli anni 70, puntualmente, dopo ogni corteo finito a pistolettate per colpa dell’Autonomia, si rammaricavano per l’occasione persa dal movimento per colpa di pochi».

Per poi osservare, bontà sua, che «oggi fortunatamente le pistole tacciono e ci sono solo i comici a sparare idiozie, ma il senso è lo stesso». Ora, nessun organo di stampa mai, neppure tra quelli che a destra in questi anni più duramente ci hanno avversato, si era spinto a mettere sullo stesso piano i giornalisti de «l’Unità» con i fiancheggiatori del terrorismo. Giornalisti de «l’Unità» tra l’altro irrisi e descritti come «rapiti dalla passione per i manifestanti». Un’altra offesa del tutto gratuita. Questo triste compito se lo assume adesso il direttore di un quotidiano che reca sotto la testata la dicitura: Partito Democratico. I tanti che in quello stesso Partito Democratico ricoprono incarichi di responsabilità scrivendo spesso sulle pagine di un giornale che stando alla prosa menichinesca spara idiozie e non ha il senso del nome che porta, non hanno nulla da dire?

Pubblicato il: 11.07.08
Modificato il: 11.07.08 alle ore 13.19   
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« Risposta #78 inserito:: Luglio 15, 2008, 10:17:13 pm »

Il sistema

Antonio Padellaro


Stupore e amarezza. Condividiamo i sentimenti espressi da Walter Veltroni alla notizia dell’arresto del presidente della Regione Abruzzo e di altri assessori e funzionari. Stupore perché si stenta a credere che Ottaviano Del Turco, esponente del Pd, nota figura del sindacato e della sinistra italiana abbia potuto intascare fior di mazzette, soldi della sanità pubblica, come il peggiore dei tangentari. Amarezza perché la procura pescarese, a cui il ministro ombra della giustizia Tenaglia ha riconosciuto massima attenzione e rispetto per i diritti delle persone coinvolte, parla di accuse fondate su prove schiaccianti. Mentre tutti restiamo in attesa di saperne di più e di saperlo in fretta, l’unico ad avere certezze in materia è Silvio Berlusconi, pronto a scagliarsi contro i teoremi della magistratura quasi sempre, a suo dire, infondati. Il premier agisce con la evidente finalità di gettare discredito sull’azione dei giudici e di coinvolgere l’opposizione nella sua personale ossessione: la disarticolazione del potere giudiziario e la sua sottomissione agli ordini del governo. Vedete, ora le toghe se la prendono con voi, è la sua velenosa solidarietà al Pd per la comune guerra santa. Messaggio subito respinto al mittente anche se resta intatto sul terreno il problema con il quale da oggi lo stesso Pd si trova drammaticamente a fare i conti. Bisognerà infatti prendere atto che, al di là del caso Del Turco, la corruzione della politica e della pubblica amministrazione è una metastasi trasversale, un sistema che lungi dall’essere stato debellato all’epoca di Mani Pulite si è sviluppato in profondità giovandosi di nuove tecniche criminali oltre che naturalmente della martellante guerra contro la legalità. Ora che il bubbone è scoppiato bisognerà parlarne seriamente, magari sottraendo un po’ di spazio alle dispute sul sistema tedesco o spagnolo.

Pubblicato il: 15.07.08
Modificato il: 15.07.08 alle ore 8.41   
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« Risposta #79 inserito:: Luglio 20, 2008, 08:12:24 am »

Quindici anni dopo

Antonio Padellaro


Forse dovremmo essere sinceramente grati al senatore Gasparri che ha definito una «cloaca» il Csm. Perché proveremo a spiegarlo partendo da un articolo pubblicato su Internazionale a firma Salvatore Aloïse, corrispondente della tv franco-tedesca Arte. Opportunamente il collega ci ricorda che giusto quindici anni fa, quando Silvio Berlusconi annunciò alla Stampa estera, a Roma, la sua discesa in campo, «Bill Clinton stava per completare il suo primo anno alla Casa Bianca; l’Unione Sovietica era finita da poco e in Russia Putin era ancora il vicesindaco di San Pietroburgo; Tony Blair era un giovane deputato laburista rampante; Internet era agli albori, le videocassette erano in splendida forma e i telefoni cellulari erano aggeggi pesanti e molto esclusivi». Possibile, si chiede Aloïse, che tutto sia cambiato e che solo in Italia tutto sia rimasto fermo? Possibile che il dibattito politico debba, ancora, concentrarsi su come ottenere l’immunità del premier? E debba, ancora, lasciare il passo ai problemi che affliggono l’intero paese come i tempi biblici della giustizia o l’arrancare delle famiglie per arrivare a fine mese o la perdita di competitività dell’economia o l’arretratezza della scuola?

Purtroppo, aggiungiamo noi, se in questo quindicennio l’Italia è sembrata paralizzata dal maleficio lo stesso forse non può dirsi per i protagonisti di questa che assomiglia tanto a una brutta favola. Protagonisti che invece sono cambiati ma, temiamo, in peggio.

Non parleremo, però, del «caimano» dalla spessa corazza e dalla sorprendente vitalità ma di chi, come noi, a volte si sente come estenuato, sfibrato, scoraggiato nel dovere fronteggiare una presenza che, lustro dopo lustro, si presenta in forma sempre più aggressiva e sempre più ostile. Nessuno spirito di resa ma quindici anni dopo l’avvento di Berlusconi e del berlusconismo lo stare all’opposizione - soprattutto quella che abbiamo dentro come sentimento di reazione all’ingiustizia e prepotenza - ci porta invariabilmente a ripercorrere gli stessi passi, a dire le stesse parole e a pensare gli stessi pensieri di allora. Anche l’avversario, si dirà, vive la stessa coazione a ripetere. Con la non piccola differenza che loro è il potere e loro sono le leggi.

La cronaca di questi giorni può spiegare meglio questo strano stato d’animo. Chiediamoci, per esempio, se piazza Navona è andata come è andata per una sorta di overdose dell’indignazione. Dieci o anche cinque anni fa era sufficiente raccontare le leggi vergogna per quello che sono. Ma oggi solo l’insulto e la deriva verbale sembrano, per alcuni, l’unica reazione possibile al regime soffocante. Quindici anni fa, ai tempi di Mani Pulite, la carcerazione di uomini politici con l’accusa di corruzione veniva salutata dal plauso dell’opinione pubblica, perfino davanti all’uso eccessivo delle manette. Cinque anni fa di manette se ne vedevano fortunatamente di meno, ma nei sondaggi d’opinione la popolarità della magistratura era sempre elevata. Oggi può capitare che un arresto eccellente susciti subito dubbi e perplessità. E anche quando la procura parla di prove schiaccianti ciò non basta a togliere di mezzo il sospetto che dietro possa esserci un qualche complotto. Intendiamoci, meglio così se la molla è quella della prudenza visto che in gioco c’è la dignità delle persone e non si distrugge una vita per un’indagine sbagliata. Ma è anche possibile che questo diverso atteggiamento nasca da una specie di assuefazione o peggio di rassegnazione rispetto al moltiplicarsi dei reati e alla prevalente impunità di chi delinque.

Su questo rischio ha scritto pagine memorabili Paolo Sylos Labini, grande economista e paladino della società civile di cui sentiamo forte la mancanza. A proposito di un diffuso e deteriore senso comune egli scriveva non troppo tempo fa che spesso gli italiani giustificano la disonestà sostenendo che non pochi manigoldi sono simpatici. Supposto che sia così, è giusto che dei «simpatici» manigoldi rendano la vita sociale ripugnante? Lui stesso, del resto, aveva sentito persone considerate per bene giustificare le loro malefatte con l’atroce formula del «così fan tutti», che implica la perpetuazione del malaffare. A questo punto il professore ricordava che era la stessa dichiarazione fatta nel Parlamento inglese dal primo ministro Walpole intorno al 1730, «qui ogni uomo ha un prezzo», durante il lungo periodo in cui l’Inghilterra era una paese profondamente corrotto, pantano da cui uscì attraverso lacrime e sangue.

E allora è strano che non essendoci più un Sylos Labini, a scuoterci dal torpore che ogni tanto ci assale ci pensino uomini di tutt’altra pasta come il capo dei senatori del Pdl Gasparri. Costui, un eroe dei nostri giorni, ha saputo saldare mirabilmente la lusinga verso il capo con lo stile squadrista che gli è congeniale.

Il Csm «cloaca» (il Consiglio Superiore della Magistratura presieduto, ricordiamolo, dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano) è la traduzione in un linguaggio primitivo delle celebre invettiva mussoliniana del parlamento ridotto a un bivacco di manipoli. Ogni epoca ha il fascista che si merita. A noi è capitato Gasparri che tuttavia ringraziamo per averci bruscamente ricordato che in Italia si sta combattendo una battaglia decisiva per la difesa della democrazia.

E che non lasceremo a metà, dovessimo metterci altri quindici anni.

Pubblicato il: 19.07.08
Modificato il: 19.07.08 alle ore 10.22   
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« Risposta #80 inserito:: Luglio 27, 2008, 12:21:31 am »

Lezioni di giornalismo

Antonio Padellaro


Piero Fassino è un galantuomo. A dirlo non sono certe solidarietà pelose che gli sono piovute addosso. Lo dimostra la storia della sua vita politica e la stima da cui è unanimemente circondato. Punto. Il conto estero «Oak Fund, dove avevano la firma Fassino e Nicola Rossi», approdo di non meglio precisate tangenti è una mascalzonata firmata Giuliano Tavaroli. L’ex spione Telecom. Quello che dichiara tranquillamente di avere due verità, una per le interviste e una per il pm. E non aggiungiamo altro. Lasciamo da parte la geniale trovata di due esponenti del partito della Quercia che sottoscrivono un conto segreto chiamato in inglese, guarda caso, oak, quercia. Come è possibile che una dichiarazione che puzza di falso un miglio finisca stampata, titolata e richiamata in prima pagina senza verificarne minimamente l’attendibilità? Come è possibile che si sputtani così l’onorabilità e la dignità delle persone? Questo ha scritto Piero Fassino a la Repubblica ponendo un problema che va ben oltre il caso in questione e che riguarda prima di tutto il modo di fare informazione, vista la brutta aria che tira in questo paese. Per carità, non intendiamo impartire lezioni di giornalismo a nessuno (a differenza del collega autore dell’intervista all’ex spione che di lezioni ne impartisce eccome, come ben sa Marco Travaglio). Né c’interessa la consueta dietrologia che si è scatenata tra i divani di Montecitorio, con ricostruzioni cervellotiche su complotti orditi dalla Spectre tavarolesca per destabilizzare quel partito o quel leader. Una sola cosa, invece, ci preme segnalare.

Che dati i tempi calamitosi di cui sopra il sacrosanto diritto di informare i lettori (soprattutto se lo scandalo riguarda la produzione di dossier ricattatori) se non accompagnato dalle necessarie verifiche sull’attendibilità delle fonti e delle notizie sparate, rischia di produrre gravi effetti indesiderati.

Restiamo al caso Fassino. Non v’è chi non veda come il coinvolgimento nella storiaccia di un ministro ombra del Pd, ed ex segretario Ds, non faccia altro che portare acqua all’idea, becera, di una politica dove “sono tutti uguali”. Destra e sinistra. Maggioranza e opposizione. La storiaccia è falsa ma intanto lascia il segno (calunniate, qualcosa resterà...). Nel migliore dei casi si dirà: ecco la solita casta che bada solo ad alimentare se stessa. Nel peggiore, ne uscirà convalidata la tesi, cara ai berluscones e a Beppe Grillo, di una sinistra che non può ammantarsi di alcuna superiorità morale stando dentro agli affari esattamente come la destra. Tesi, intendiamoci, alla cui attendibilità una certa sinistra sanitaria ha, per esempio, dato il suo fattivo contributo. Ma chi di queste cose ne scrive deve avvalersi dall’indispensabile capacità di distinguere fatti e responsabilità, interrogandosi sulla storia delle persone e dei personaggi. Certo, fare giornalismo significa lavorare a una continua approssimazione della verità. Ma se il risultato di questa ricerca è quello di mettere Tavaroli e Fassino sullo stesso piano, o peggio ancora di permettere a uno come Tavaroli di diffamare Fassino, allora c’è qualcosa che non funziona. La seconda domanda riguarda la Casta. Non quella dei politici. E neppure quella dei sindacalisti. O dei giornalisti. Come mai, ci si dovrebbe chiedere, visto che il genere editorialmente tira nessuno ha mai pensato di scrivere un bel volume sulla casta delle caste: quella degli imprenditori? Se restiamo alla questione Telecom e ai succulenti intrecci ad essa connessi, riguardo ai nomi e ai cognomi non c’è che l’imbarazzo della scelta. Oltre a Tronchetti, un bravo cronista che non si affidasse solo ai tavaroli di turno potrebbbe sicuramente trovare notizie assai interessanti, naturalmente tutte da verificare, sul gotha dell’industria e della finanza. Scoprirebbe però che i più eminenti rappresentanti di quest’altra casta o sono proprietari o siedono nei consigli di amministrazione di grandi giornali. O di potenti case editrici. O di famose emittenti televisive. Chissà, forse per questo non si è ancora trovato un autore pronto a scrivere un sicuro best-seller sulla casta degli imprenditori? Chissà, forse è complicato trovare un editore che ne curi la stampa? Chissà, forse il nome di Piero Fassino è stato buttato lì perché non possiede un giornale?

La terza questione parte da un episodio rivelatore. L’applauso convinto e bipartisan tributato, giovedì scorso, dalla Camera a Fassino. Un gesto di solidarietà per l’ingiuria subita a cui naturalmente ci associamo. Tra pochi giorni, però, giungerà all’esame di quella stessa aula il disegno di legge sulle intercettazioni. Che, come sappiamo, contiene pesanti e vistose limitazioni al diritto di cronaca dei giornali. Siamo convinti che il centrosinistra si batterà contro quelle norme liberticide. Ma in quell’applauso della maggioranza c’è parso anche di cogliere come un messaggio rivolto all’opposizione. Come dire: avete visto?, prima pubblicando le telefonate di Berlusconi hanno colpito noi e ora con i veleni di Tavaroli colpiscono voi; rendetevene conto, a questa stampa va messo un freno. Non sono solo parole che abbiamo immaginato. C’è chi sul serio ci vuole imbavagliare. Non rendiamogli il compito più facile.

P.S. Per aver osato rivolgere un rispettosissimo appello al presidente della Repubblica sul lodo Alfano sono stato duramente redarguito dal portavoce di Forza Italia, Capezzone, personaggio concitato ma simpatico. Gli sono sinceramente grato perché da radicale, libertario, liberale e liberista qual è ha evitato di denunciarmi per vilipendio al Capo dello Stato. La gentile senatrice del Pd Chiaromonte ha osservato che l’Unità non è più quella che dirigevano suo padre Gerardo o Emanuele Macaluso. Su Macaluso sono perfettamente d’accordo. Al collega Polito che sul Riformista intima: «lasciate in pace il Quirinale», chiediamo: perché altrimenti che succede? Infine, un particolare ringraziamento a due prestigiosi ex direttori de l’Unità per la severa ma giusta lezione di giornalismo che mi hanno voluto impartire. Il primo fu costretto alle dimissioni per aver pubblicato un falso documento dei servizi segreti sull’allora ministro Scotti. L’altro era direttore quando nel 2000 l’Unità ha cessato le pubblicazioni.

Pubblicato il: 26.07.08
Modificato il: 26.07.08 alle ore 9.53   
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« Risposta #81 inserito:: Luglio 29, 2008, 06:44:42 pm »

Parole di garanzia


Antonio Padellaro


Tutti coloro che hanno a cuore la libertà di stampa, oggi si sentono più garantiti dalle parole del presidente Napolitano. Lo scriviamo sicuri, questa volta, di non essere male interpretati anche perché il capo dello Stato non poteva essere più chiaro. Ai giornalisti che gli hanno consegnato il tradizionale Ventaglio e alle loro preoccupazioni sulle limitazioni della libertà d’informazione contenute nella legge Berlusconi sulle intercettazioni, Napolitano ha risposto in tre punti. Primo: citando la Corte Costituzionale ha ribadito che un corretto diritto di cronaca non può mirare a soddisfare «la mera curiosità voyeuristica» del pubblico ma deve occuparsi di fatti «oggettivamente rilevanti per la collettività». Secondo: che il rispetto di questo limite deve essere prima di tutto «liberamente» affidato alla sensibilità e deontologia degli organi di stampa. Terzo: che tali comportamenti corretti possono favorire l’adozione di leggi «misurate, equilibrate, rispettose di tutti i diritti in gioco». Dunque, un difficile ma indispensabile equilibrio tra diritto di cronaca e rispetto della dignità della persona. Entrambi principi scritti nella Costituzione che trovano nell’intervento del Quirinale la più autorevole difesa.

Pensiamo di non tirare la giacchetta presidenziale se notiamo, accanto all’appello contro il clima del muro contro muro (ma per colpa di chi?), due rilievi che la destra di governo farà bene a considerare seriamente. Troppi decreti e voti di fiducia (ma fu rimproverato anche al governo Prodi). Basta con le ingiurie contro i simboli della Repubblica. Difficilmente Bossi e la Lega potranno fare finta di non aver sentito. Infine, il Lodo Alfano. Napolitano ne rivendica la promulgazione. Ho agito, egli afferma, nel modo più meditato e motivato indipendentemente da sollecitazioni in qualsiasi senso. Ne prendiamo, rispettosamente, atto.

Pubblicato il: 29.07.08
Modificato il: 29.07.08 alle ore 8.16   
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« Risposta #82 inserito:: Luglio 31, 2008, 03:08:16 pm »

Una cena per Ingrid

Antonio Padellaro


Martedi sera ho potuto annunciare di persona a Jolanda e Astrid Betancourt che l’Unità intende proseguire la battaglia per l’assegnazione del premio Nobel per la pace alla loro figlia e sorella Ingrid Betancourt. Lo stesso impegno ribadito da Nicola Zingaretti e Mario Marazziti che, insieme ad altri amici, sulla terrazza di Palazzo Valentini hanno festeggiato le persone che più hanno sofferto e sperato per la vita di una donna diventata simbolo di coraggio e di giustizia. Zingaretti, presidente della Provincia di Roma e promotore dell’incontro, è un politico che crede sul serio al valore della testimonianza pubblica, soprattutto quando può sembrare inutile. È uno che con Veltroni sindaco di Roma di «fiaccolate» per la difesa dei diritti umani ne ha organizzate tante. Marazziti, che significa Comunità di Sant’Egidio, per la liberazione di Ingrid ha molto lavorato e molto pregato.

Ecco dunque che l’altra sera alcune strane persone che credono (sembra incredibile) alla politica come strumento di liberazione e di giustizia hanno fatto un altro sogno, anzi due. Nobel a Ingrid. Libertà per Aung San Suu Kyi. È sicuro: dalla Colombia alla Birmania ci sono degli italiani disposti a battersi per gli altri, e non a prendere le impronte ai bambini rom o a perseguitare gli immigrati. Ho consegnato a Jolanda e Astrid le copie de l’Unità con le interviste dei Nobel italiani per il Nobel a Ingrid, insieme alle centinaia di firme di adesione che ci sono giunte. «Grazie al vostro grande giornale», mi è stato detto.

Pubblicato il: 31.07.08
Modificato il: 31.07.08 alle ore 10.11   
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« Risposta #83 inserito:: Agosto 03, 2008, 12:21:18 pm »

Ve lo dà lui il dialogo


Antonio Padellaro


Bisogna dargliene atto. Silvio Berlusconi mantiene sempre le minacce che rivolge. Fresco di trionfo elettorale disse alla nostra Natalia Lombardo che era così arrabbiato con l’Unità che ci avrebbe fatto togliere il finanziamento pubblico. Ma no, stia tranquilla, era una battuta soggiunse poi con il sorriso da Caimano. Proprio in queste ore la promessa viene realizzata con un taglio micidiale, presupposto di certa chiusura per numerosi quotidiani quasi tutti di opposizione. Ai vertici del Pd aveva anche chiesto di darsi una regolata e che un giornale siffatto (il nostro) andava “dismesso”. Il Cavaliere non è stato ancora accontentato. Ma lui sa aspettare.

Sull’ultimo Espresso, Giampaolo Pansa sostiene, citando un D’Alema d’annata ’95 o ’96 che criminalizzare Berlusconi significa solo rafforzarlo. Pansa ricorda che sull’Espresso di allora lui, Rinaldi e il sottoscritto si divertivano a sbranare ogni settimana il Berlusca. Poi però aggiunge: «Con quale risultato? Berlusconi è più forte che mai ed è tornato per la terza volta a Palazzo Chigi». Osservazione interessante ma che ci sentiamo ripetere da una vita, da quando cioè l’uomo di Arcore ha cominciato a impadronirsi della politica italiana. La tesi è questa: contrastare Berlusconi e opporsi con decisione al suo uso privato del potere esecutivo e legislativo (a quello giudiziario ci penserà tra poco) è il modo migliore per non liberarcene mai. Come replicare? Forse solo invocando la controprova. Vorrei proporre a Pansa e ai tanti che nel Pd la pensano come lui qualche possibile titolo di una Unità finalmente non più faziosa.

Impronte ai bimbi Rom? «Luci e ombre dei provvedimenti sulla sicurezza». Il Lodo Alfano? «Una misura che può contribuire alla governabilità». La legge sulle intercettazioni che imbavaglia la libera stampa? «Un freno necessario alle continue violazioni della privacy».

Non è facile parodia. È l’intonazione usata dalla quasi totalità dei giornali italiani. È vero, noi, il manifesto e qualche altra voce isolata abbiamo invece calcato i toni. Accusato. Drammatizzato. E abbiamo fatto bene.

Caro Giampaolo, vorresti davvero farci credere che all’origine del quindicennio berlusconiano c’è la “criminalizzazione” operata da un paio di testate che fra poco, probabilmente, saranno messe nella condizione di non più nuocere? Noi, in combutta con la formidabile massa d’urto costituita da Rosy Bindi, Paolo Ferrero, Gianclaudio Bressa, Nichi Vendola? Vuoi davvero dirci che senza questo combinato disposto di insopportabile livore, Berlusconi da quel dì sarebbe tornato a occuparsi delle soubrette di Drive In?

Non viene il dubbio che sia esattamente il contrario, che l’eterno ritorno del Caimano si deve alla molle, incerta, indefinita strategia di molti suoi avversari che in tre lustri di storia nazionale, e mentre i nostri capelli (e le nostre speranze) imbiancavano non sono mai riusciti, per dirne una, a votargli contro uno straccio di legge sul conflitto di interessi? Non viene in mente che la causa delle nostre disgrazie non deriva da qualche titolo un po’ più strillato bensì dalla sottile tecnica suicida con la quale in soli diciotto mesi si è accoppato l’unico premier, Romano Prodi, che era riuscito per due volte di seguito a sloggiare da Palazzo Chigi quello di cui sopra? Non si è sfiorati dal dubbio che l’insopportabile nenia del dialogo immaginario abbia rappresentato per l’opposizione un pessimo freno a mano? Tanto più, e qui siamo davvero al paradosso, che lui il dialogo non lo vuole proprio perché non ne ha bisogno e, anzi, forse gli fa anche senso?

Tranquilli, ci penserà la sua maggioranza a sistemare questo povero Paese. Mentre altri passeranno il tempo ad almanaccare sui patti della crostata e della spigola. O a prendersela con gli ultimi giapponesi nella giungla perché non danno il loro fattivo contributo alla giusta pacificazione del Paese.

apadellaro@unita.it



Pubblicato il: 02.08.08
Modificato il: 02.08.08 alle ore 12.45   
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« Risposta #84 inserito:: Agosto 09, 2008, 06:28:05 pm »

Il Lodo Amato

Antonio Padellaro


Per continuare a essere Giuliano Amato, il pluripremier e pluriministro Giuliano Amato non ha certo bisogno della presidenza della Commissione bipartisan voluta dal sindaco di Roma Alemanno per ridisegnare l’assetto istituzionale della capitale. Se ha accettato lo ha fatto sicuramente per dare un contributo alla soluzione dei problemi «nel segno del dialogo come chiede Napolitano».

Pochi sanno di riforma dello Stato come Franco Bassanini e ben si comprende che il ministro Calderoli lo abbia chiamato, accanto ad altri esperti del ramo, nel pensatoio sulla delegificazione che si riunisce il giovedì pomeriggio e a cui, dice il padrone di casa «non viene neppure pagato il caffè».

Il governatore della Campania Antonio Bassolino non firma l’iniziativa del Pd contro il governo Berlusconi perché, ha spiegato al «Riformista», «considera doverosa la collaborazione tra le diverse istituzioni della Repubblica italiana, al di là degli schieramenti politici che le governano». Anche lui va capito. Come potrebbe firmare un appello per salvare l’Italia dal governo con il quale collabora nell’interesse dei cittadini? E da quello stesso premier che, ramazza in mano, tanto si sta adoperando per occultare la vergogna dei rifiuti nelle strade di cui Bassolino è stato ritenuto (forse più dagli amici che dai nemici politici) il principale responsabile?

Questi esempi (ma altri se ne potrebbero fare) hanno il merito di rendere meno astratta, e meno stucchevole, la nota questione del dialogo. Ce la presentano nella realtà delle cose e dei comportamenti umani. Detto brutalmente: si può collaborare con l’avversario? Se cerchiamo una risposta politicamente corretta, eccola: si può e anzi si deve se l’obiettivo della collaborazione è il raggiungimento del bene comune. C’è però una seconda domanda. Collaborare con l’avversario non può comportare come spiacevole effetto collaterale il disorientamento del proprio elettorato di riferimento? Detto sempre brutalmente: che vi ho votato a fare se poi vi mettete d’accordo con quelli dello schieramento contrario?

Facciamo un altro esempio. Giovedì scorso, nelle stesse ore in cui Alemanno il bipartisan festeggiava il bipartisan Amato con un forbito: «Habemus presidentem», il capogruppo capitolino del Pd Marroni bocciava sonoramente i primi cento giorni dell’Alemanno sindaco della destra: «Molta demagogia, poche idee, niente cultura di governo, mobilità nel caos». Insomma, un vero disastro. Conosciamo l’obiezione. Un conto è il giudizio politico severo come è giusto che sia. Ma trovare un’identità di vedute su alcuni temi non è un male. Risparmiamo ai lettori gli altri sottilissimi distinguo escogitati per rendere più commestibile l’entente cordiale di Amato (non a caso universalmente conosciuto come il Dottor Sottile). Tralasciamo i sospetti di uno scambio di cortesie: l’accantonamento delle polemiche sul presunto buco di bilancio delle amministrazioni Rutelli e Veltroni come condizione per l’ingresso del prestigioso professore. E, forse, non servirà neppure ricordare come nella recente corsa al Campidoglio furono gli stessi vertici del Pd a rinfacciare il passato per così dire arrembante dello stesso Alemanno, e la croce celtica orgogliosamente esibita al collo ( non doveva essere un argomento decisivo se poi sindaco è diventato lui).

Vincono i messaggi semplificati e ciò che tutti avranno capito leggendo i giornali non sono le sottigliezze. Ma che Amato collabora con Alemanno. Bassanini con Calderoli. Bassolino con Berlusconi. Torniamo al punto: siamo sicuri che gli elettori del Pd la prenderanno bene? Si dirà: è il modello Sarkozy. Non è stato forse il tanto ammirato presidente francese a promuovere una commissione per modernizzare il paese con dentro il meglio della destra e della sinistra? Di là Sarkozy e Attali. Di qua Alemanno (quello che se la prende con i poveracci che frugano nei cassonetti) e Calderoli (quello della porcata elettorale e delle magliette anti-Islam). Bè, il suono non è proprio lo stesso.

Non siamo posseduti dalla paranoia di chi vede inciuci dappertutto. E non pensiamo affatto che la politica migliore sia quella del muro contro muro. C’interroghiamo piuttosto sull’uso strumentale del dialogo da parte di non ci crede e mira soltanto all’indebolimento delle ragioni altrui. Scrive Edmondo Berselli sull’ultimo numero dell’«Espresso» che il discorso sulle riforme ( federalismo, Costituzione, giustizia) non sono in questo momento la vera priorità del Pd. Mentre la priorità effettiva «è contrastare l’azione di una maggioranza politica che potrebbe costringere il Pd ha diventare effettivamente, come ha detto Massimo D’Alema, una minoranza strutturale nel Paese e ad aggregarsi alla maggioranza, secondo il lessico del Cavaliere». Temiamo che sia questo il vero problema.

apadellaro@unita.it




Pubblicato il: 09.08.08
Modificato il: 09.08.08 alle ore 9.44   
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« Risposta #85 inserito:: Agosto 23, 2008, 11:50:10 pm »

Grazie Unità

Antonio Padellaro


Scrivo il mio ultimo articolo da direttore de l’Unità.



Da lunedì prossimo - così ha deciso la proprietà e così annuncia il comunicato dell’azienda - a dirigere questo giornale sarà Concita De Gregorio a cui rivolgo auguri sinceri di buon lavoro. Scrivo il mio articolo più difficile perché difficile è separare l’emozione che provo rivolgendomi per l’ultima volta a voi cari lettori dalla riflessione necessaria, nell’atto del commiato, su questi miei sette anni e mezzo qui a l’Unità.


* * *


Mi considero un giornalista fortunato. Ho lavorato in grandi testate e con grandi direttori da cui ho cercato di imparare tutto ciò che l’amore per questo mestiere, da solo, non poteva insegnarmi. Ma è stato l’ultimo mio direttore, Furio Colombo, a farmi comprendere quale e quanta straordinaria energia possa scaturire dall’eccellente uso della parola scritta quando essa si sposa alla limpida passione civile, al coraggio delle proprie idee, alla difesa delle ragioni dei lettori sopra ogni altra cosa.

Risorta il 28 marzo 2001 dalle proprie ceneri quando per tutti era ormai spacciata, l’Unità di questi anni è stata, ed è, assai più di un semplice quotidiano, frutto del contributo di molti. L’intuizione di Alessandro Dalai. Il coraggio di un pugno di imprenditori capitanati da Marialina Marcucci e Giancarlo Giglio. La dedizione dell’amministratore delegato Giorgio Poidomani. Intorno, un quadro economico precario caratterizzato dalla scarsezza di introiti pubblicitari, vera pietra al collo per un quotidiano costretto ogni giorno a misurarsi con dei colossi editoriali. Ma, sopra tutto, l’orgoglio e la tenacia di una redazione impegnata ogni giorno a difendere la storia e il prestigio del proprio giornale. Sì, il giornale fondato da Antonio Gramsci la cui direzione ha rappresentato per chi scrive un punto d’arrivo. Un privilegio. L’ho condiviso con tanti. Vorrei citarli tutti. Li rappresentano al meglio Pietro Spataro, vicedirettore vicario, e Rinaldo Gianola, vicedirettore a Milano. Con Luca Landò e Paolo Branca. Grandi professionisti e uomini veri.

Il risultato di questa felice combinazione umana e professionale è il giornale «politico» più venduto in Europa. Una media giornaliera di 48mila copie certificate nei primi sette mesi del 2008 (certo, meno delle 60mila vendute nel 2002; certo, più delle zero copie da cui eravamo ripartiti). Una platea giornaliera di 274mila lettori effettivi (dati Audipress 2008). Un giornale dalla forte identità e dall’innegabile peso politico. l’Unità si può amare o avversare ma tutti sanno che giornale è, quali idee esprime, quali valori difende, contro cosa e contro chi irriducibilmente si batte. È strano che, oggi, nel gran discutere che si fa sull’assenza di opinione pubblica in Italia e sul «vuoto di senso e di memoria» giustamente denunciato da eminenti leader democratici si dimentichi quanta opinione di un pubblico affezionato e appassionato abbia intorno a sé il giornale che state sfogliando.

Chi fa quotidianamente l’Unità, chi la impagina, chi la pubblica sa bene chi sono i suoi lettori.

Sono quelli che incontra alle Feste che io continuerò a chiamare dell’Unità. Quelli che ci stringono la mano e ci chiedono di andare avanti, di non lasciarli soli e di continuare a scrivere ciò che scriviamo.

Sono convinto che l’Unità che verrà sarà almeno altrettanto forte e almeno altrettanto apprezzata. Lo auguro di cuore ai colleghi e ai tanti amici che lascio e con i quali ho condiviso una straordinaria esperienza. E lo auguro a Renato Soru che ha il merito di aver creduto nel valore e nelle potenzialità di un giornale difficile e però unico.

Ma io ancora per un giorno sono il direttore di questa Unità, e ancora per un giorno ne canterò le lodi.


* * *


Tre fotografie porterò con me.

Nella prima, c’è il premier più ricco e più potente che mostra al suo pubblico e alle sue tv un giornale dalla inconfondibile striscia rossa e lo indica come il “nemico”. Un giornale perciò da «dismettere», come ha chiesto e preteso nella sua prima dichiarazione dopo il trionfo elettorale dello scorso 13 aprile. Che il premier più ricco e più potente, sul cui impero dell’informazione non tramonta mai il sole, non sia riuscito a domare questo piccolo grande giornale è motivo di orgoglio per tutti coloro che, ancora, sono riusciti a non farsi dismettere.

Ai tanti smemorati (anche nel campo a noi vicino) vorrei rammentare l’insostituibile funzione che l’Unità ha avuto, appena rinata, negli anni più duri dell’opposizione al secondo governo Berlusconi. Su queste colonne si è ritrovato un gruppo di firme coraggiose e autorevoli, provenienti dalle più diverse culture politiche. Dalle sponde più moderate a quelle più di sinistra ma che su questioni fondamentali, come la difesa della legalità e della Costituzione, hanno saputo parlare lo stesso linguaggio del lettorato ed elettorato riferimento naturale dell’Unità: quello dei Democratici di sinistra prima e del Pd poi. Il nome che li rappresenta tutti è quello di Paolo Sylos Labini, un grande uomo libero che aveva fatto suo, e nostro, il manifesto di Daniel Defoe: «Ho visto gente mettersi in combutta per distruggere la proprietà, corrompere le leggi, invadere il governo, traviare le persone e, per dirla in breve, schiavizzare e intrappolare la nazione; e allora ho gridato: “Al Fuoco”». Erede di questa cultura libera e liberale non a caso Marco Travaglio, con noi fin dall’inizio, è diventato un beniamino dei lettori.

Nell’aprile del 2006 pensammo che il fuoco fosse domato e la battaglia vinta. Salutando la vittoria di Romano Prodi titolammo: «Berlusconi addio». Ci sbagliavamo. Ma nessuno in quel momento poteva immaginare con quale grado di autolesionismo si sarebbe gettata alle ortiche l’occasione storica di sottrarre il nostro paese al dominio di una satrapia e restituirlo al novero delle democrazie occidentali. Per questo obiettivo continuerò, continueremo a fare i giornalisti.

l’Unità di questi anni ha cercato di mantenere un difficile punto di equilibrio nell’agitato mare del centrosinistra e ora del Pd. Rispetto e considerazione per l’appartenenza politica della maggior parte dei nostri lettori. Senza indulgenze o ammiccamenti. In piena libertà di stampa. Sempre pronti a castigare ridendo i nostri cari leader. Lo Staino quotidiano e il molto irriverente M sono lì a dimostrarlo.


* * *


La seconda istantanea è la prima pagina dell’Unità listata a lutto, con una moltitudine di nomi e di storie. I nomi e le storie dell’immensa e continua strage sul lavoro, vergogna nazionale.

Solo chi non ha mai letto veramente l’Unità può sostenere che il nostro sia stato, e sia il giornale di un antiberlusconismo pregiudiziale e fine a se stesso. Il pregiudizio è di chi ha preferito non vedere i danni prodotti dalla cultura padronale e reazionaria scaturita dai governi della destra. A questi attacchi, spesso di stampo fascista e razzista l’Unità, giornale del lavoro, dei diritti civili e dei diritti di libertà ha risposto, ogni giorno, colpo su colpo.


* * *


La terza immagine che porto con me è quella di Ingrid Betancourt finalmente libera. E non dimenticherò quanto mi hanno detto poche settimane fa a Roma la madre e la sorella della donna che l’Unità, raccogliendo migliaia di firme, ha proposto per il Nobel per la pace: «Grazie al vostro grande giornale».

Finisce qui. Il direttore di questo grande giornale si congeda. Grazie Unità.


Pubblicato il: 23.08.08
Modificato il: 23.08.08 alle ore 12.09   
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« Risposta #86 inserito:: Luglio 19, 2010, 11:18:29 am »

 di Antonio Padellaro
 
17 luglio 2010


La casta obesa e ingorda

Come una certa politica, o meglio la sua caricatura obesa e ingorda, sia diventata un’oligarchia insaziabile e abbia allagato l’intera società italiana”. Così scrivevano Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella presentando il libro che avrebbe venduto milioni di copie e il cui titolo sarebbe suonato da quel momento in poi come qualcosa di indegno e di non più sopportabile. “La Casta” è del 2007. Tre anni dopo quell’oligarchia ancora più obesa, ingorda e insaziabile spadroneggia proterva e intoccabile. E guai a chi fiata.

Come purtroppo sanno i passeggeri del volo Alitalia, da Roma a Milano, strapieno ma che non decolla finché non arriva il presidente di una squadra di calcio a cui viene consentito di far partire gli aerei di linea secondo i suoi comodi. Chi vive a Roma ha esperienza diretta della massa di auto blu e scorte che impazzano per le strade del centro, rombanti e intimidatorie. L’altro giorno il ministro Brunetta ha confessato che l’ambaradan di lampeggianti e palette ci costa 4 miliardi l’anno (mezza Finanziaria); che diecimila sono le vetture usate dai politici; che lui stesso di auto blu ne ha sette, una naturalmente per la sua segretaria. Poi ci sono le scorte, il cui numero è un segreto custodito meglio di quello di Fatima. Adesso i sindacati di polizia esasperati dalla manovra tremontiana, che solo nella Capitale farà chiudere 19 commissariati su 38 (si chiama “ottimizzare le risorse”) qualcosa cominciano a far trapelare.

Secondo il segretario del Consap, Scajola si avvale di otto persone (a sua insaputa, probabilmente). Sono in cinque a non perdere d’occhio l’onorevole Baccini e solo quattro si dedicano all’onorevole Bricolo. Non trattandosi di autorevoli statisti il plotone di venti uomini al seguito del presidente del Senato Schifani appare in fondo proporzionato. Sono le insegne del potere che ad ogni sgommata sembrano dirci: noi siamo noi e voi dei poveri imbecilli che magari pagate pure le tasse. Poi c’è la casta di coloro che agiscono nell’ombra, ladri di legalità con destrezza. Chi l’avrebbe mai detto che dentro quell’incomprensibile terzo comma, lettera d dell’articolo 67 della manovra si nascondeva una losca impunità per manager bancarottieri? Magari gli stessi che si fanno superscortare, strafottenti e blindati: Rizzo e Stella si chiedevano: quand’è che gli italiani diranno basta? Bè, dall’aria che tira forse ci siamo quasi.

http://www.ilfattoquotidiano.it/2010/07/17/come-una-certa-politica-o-meglio-la-sua/41019/
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« Risposta #87 inserito:: Agosto 28, 2012, 10:24:40 am »

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L’aggressione di Repubblica

di Antonio Padellaro | 26 agosto 2012

Così fai il gioco della destra” era l’anatema scagliato nelle vecchie sezioni del Pci contro chi osava mettere in discussione la linea ufficiale del partito, l’unica autorizzata a difendere le masse lavoratrici dai “provocatori” (sempre appostati nell’ombra) e dunque da una visione dei problemi “oggettivamente fascista”.

Pensavamo che la parodia di quei dirigenti, un po’ sedotti dal mito dell’Urss e un po’ furbacchioni, immortalata dal sindaco Peppone di Gino Cervi, fosse ormai un reperto da cineforum. Invece, venerdì su la Repubblica, il direttore Ezio Mauro ce ne ha fornita una nuova versione rap: “Il fatto è che l’onda anomala del berlusconismo ha spinto nella nostra metà del campo (che noi chiamiamo sinistra) forze, linguaggi, comportamenti e pulsioni che sono oggettivamente di destra”. Di questa prosa anni Cinquanta si è già occupato Marco Travaglio e, sull’ingenuo tentativo di mettere d’accordo capra e cavoli a proposito dello scontro su Napolitano tra Scalfari e Zagrebelsky, non aggiungeremo altro. Qualcosa invece ci preme dire a proposito dell’attacco ai limiti della diffamazione che il direttore di quel giornale ha voluto sferrare contro il Fatto e i suoi lettori.

Certo, non siamo mai nominati, ma è l’abitudine della casa: ammantarsi di spocchiosa superiorità per meglio insultare l’avversario e poi nascondere la mano. È il giornalismo “de sinistra” che per quindici anni si è giovato dell’alibi Berlusconi per alzare le barricate e scendere nelle piazze con roboanti proclami e che adesso, soddisfatto, torna finalmente a riposarsi all’ombra del potere costituito. Notare il linguaggio da proprietari terrieri: “La nostra metà del campo”. Nostra di chi? Chi ve l’ha regalata? Cos’è, un lascito di Napolitano?

E in nome di cosa pensate di rappresentare “ciò che noi chiamiamo sinistra?” (Danno perfino il nome alle cose come la Bibbia).

Un fenomeno davvero bizzarro quello di un direttore e di un fondatore che si credono dei padre eterni. Verrebbe da chiedere in nome di quale autorità morale, di quale cattedra superiore decidono essi chi è di destra e chi di sinistra? E poi, visto che si parla di giornali esistono notizie di sinistra e notizie di destra? Di grazia, questa scelta per così dire salvifica avviene sulla base delle telefonate del Quirinale? Del gradimento dei vertici Pd (non a caso ieri Bersani scimmiottava Mauro contro Grillo e Di Pietro)? O degli interessi del padrone? E se per caso a Savona c’è una centrale con tassi di inquinamento tipo Ilva, a cui la proprietà del giornale tiene assai, non se ne parla perché trattasi di notizia “oggettivamente” di destra?

Noi rispettiamo i giornalisti e i lettori di Repubblica e non ci permetteremmo mai di scrivere che per loro “cultura è già una brutta parola”, come abbiamo letto nell’editoriale in puro stile Comintern. Comprendiamo anche l’irritazione che si respira in quelle stanze da quando Il Fatto esiste e prospera, e se alcune tra le migliori firme di quel gruppo hanno scelto di lavorare con noi se ne facciano una ragione. La polemica giornalistica anche quando è sopra le righe va accettata. Le aggressioni no.

Il Fatto Quotidiano, 26 Agosto 2012

da - http://www.ilfattoquotidiano.it/2012/08/26/laggressione-di-repubblica/334299/
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« Risposta #88 inserito:: Gennaio 20, 2013, 10:42:52 pm »

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La battaglia del Fatto

di Antonio Padellaro | 20 gennaio 2013


Non è stata una decisione facile, ma il comunicato con cui la commissione nazionale di Garanzia del Pd chiede di escludere quattro “impresentabili” dalle prossime elezioni politiche fa bene alla credibilità del Pd. E dimostra che la politica italiana, pur ridotta come è stata ridotta da caste e profittatori di ogni genere, può ancora avere un sussulto di dignità.

Non è stato facile perché personaggi come per esempio Mirello Crisafulli e Antonio Papania sono considerati dei veri signori delle tessere che in Sicilia muovono decine di migliaia di voti. Consensi che possono essere determinanti nell’isola di Cosa Nostra dove il centrosinistra deve competere con la destra dei Dell’Utri e del voto di scambio.

E mentre il Pdl di Berlusconi fa incetta (perché tutto fa brodo) di collusi e indagati per reati gravissimi, come l’ineffabile Nicola Cosentino ritenuto dai magistrati il referente politico della camorra in Campania, i garanti presieduti da Luigi Berlinguer spiegano che “in questo delicato frangente la scelta delle candidature non può prescindere da criteri di eticità da perseguire anche con valutazioni di opportunità” politica. Insomma, in nome della presunzione di innocenza, che resta certamente un caposaldo della civiltà giuridica, non si può passare sopra ai comportamenti poco chiari e alle amicizie poco specchiate che ledono l’immagine del partito.

Proprio ciò che il Fatto da giorni non ha smesso di scrivere (in quasi totale solitudine), raccontando le gesta di Crisafulli (rinviato a giudizio per abuso d’ufficio) contenute in un voluminoso rapporto dei Carabinieri, o illustrando i trascorsi di Papania, Luongo, Caputo e altri ancora. Le oltre 20 mila firme raccolte dal nostro giornale sottol’appello rivolto a Bersani da Franca Rame e poi anche da Adriano Celentano per non presentare gli impresentabili dimostrano che, soprattutto se si tratta di legalità, un’informazione veramente libera non deve essere considerata un intralcio da rimuovere, ma un’opportunità da cogliere. Cosa di cui oggi volentieri diamo atto al Pd.

Il Fatto Quotidiano, 19 Gennaio 2012

da - http://www.ilfattoquotidiano.it/2013/01/20/battaglia-del-fatto/475228/
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« Risposta #89 inserito:: Febbraio 04, 2013, 12:37:51 am »

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Chi dice la verità agli italiani?

di Antonio Padellaro | 3 febbraio 2013


“Mi impegno a ridurre le tasse”, dichiara Mario Monti ed è come se al posto del Professore parlasse il Cavaliere. Colpa delle promesse elettorali che alla fine, in nome del dio voto, livellano i bocconiani ai berlusconiani ai bersaniani e al resto della truppa partitica.
Sembra passato un secolo da quando giornaloni e giornalini si dedicarono all’incensamento del sobrio premier tecnico esaltandone il portamento sobrio ed elegante, il sobrio ed essenziale eloquio, le battute sobriamente spiritose. Marco Travaglio immaginò che il cane di cotanto prodigio alla vista di un osso evitasse sobriamente di addentarlo.

Al di là dei soffietti in quell’Italia di fine 2011 reduce dalle follie del sultano di Arcore c’era il desiderio profondo di una guida competente e autorevole che ci restituisse un po’ di rispetto e di credibilità internazionale. Una normalità che è costata i sacrifici che sappiamo anche se nessuno poteva immaginare che la quaresima seguita al carnevale ci avrebbe al tal punto dissanguati. Dissero alcuni studiosi che Monti incarnava quella figura paterna, severa ma giusta, che per troppo tempo era mancata al Paese (dai tempi di De Gasperi sostenne qualcuno).

Un padre, perché di padreterni ce ne sono stati anche troppi: dagli indottrinatori sessantottini passando per le stanze del vecchio Pci fino a Bettino Craxi, l’omone degli incubi psicanalitici della sinistra, per arrivare al Berlusconi non ancora ridicolizzato dal bunga bunga. Come padreterno Monti è durato fino a quando, per imperscrutabili motivi, ha deciso di scendere dall’olimpo dei senatori a vita per mescolarsi ai venditori urlanti di promesse un tanto al chilo.

Ma ora che anche lui parla come gli altri chi ci dirà la verità? Perché è la verità che sommamente manca in questa campagna elettorale. La dimensione della crisi e il tempo che ci vorrà per tornare alla normalità. Un tempo che non prevede impossibili abolizioni dell’Imu, ma un lungo e faticoso percorso di rigenerazione. Il tempo della disciplina, dei sacrifici, della perseveranza non tradisce ma gratifica e salva. Sapete chi ha espresso questo concetto?

Il presidente Obama, pochi giorni fa all’atto dell’insediamento del suo secondo mandato. Così parla un vero un uomo di Stato con una visione nel futuro. Mentre qui da noi si spaccia il fumo delle illusioni.

Il Fatto Quotidiano, 3 Febbraio 2012

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