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Autore Discussione: Antonio PADELLARO -  (Letto 72080 volte)
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« Risposta #15 inserito:: Novembre 11, 2007, 03:51:58 pm »

Gli indifferenti

Antonio Padellaro


Ieri mattina, guardando i giornali ci siamo chiesti per quale motivo soltanto l’Unità e nessun altro quotidiano nazionale aveva dato spazio alle dichiarazioni di Prodi e di Gentiloni, ai funerali di Enzo Biagi, sul perdurante e non più tollerabile conflitto d’interessi di Berlusconi. Abbiamo sfogliato le pagine interne, controllato le cronache dell’ultimo viaggio di Enzo verso Pianaccio. Ma, niente. Eppure, c’era un forte nesso tra quanto affermato dal premier e dal ministro delle Comunicazioni e il ricordo di Bice Biagi sulla sofferenza causata al padre dall’editto bulgaro del cavaliere. Testimonianza resa ancora più drammatica ad «AnnoZero» dal cardinale Ersilio Tonini con il suo veemente: «Lo hanno ucciso». Resta il fatto che siamo rimasti soli con il nostro partecipe titolo: «Conflitto d’interessi, la legge Enzo Biagi». Abbiamo sbagliato noi o ha sbagliato il resto della stampa italiana al completo? Mettiamola così: dipende dai punti di vista.

Prendiamo gli altri giornali. Hanno letto anche loro le frasi dei due uomini di governo ma le hanno probabilmente considerate una non notizia. Ovvero, parole di circostanza pronunciate più che altro per onorare la memoria di Biagi ma considerate prive di un reale valore politico. È vero, infatti, che esiste un disegno di legge sull’imcompatibilità tra incarichi di governo e possessori di patrimoni al di sopra dei 15 milioni di euro. Esiste, è stato approvato dal Consiglio dei ministri, ma tanto si sa che in Parlamento non passerà mai. Non lo vuole la Cdl, e si capisce.

Ma anche nell’Unione sono in molti a considerare la cosa o sbagliata (una provocazione verso il capo dell’opposizione) o irrealistica (al Senato non ci sono i voti). Conclusione dei nostri accorti colleghi: a che serve parlare del nulla?

Veniamo al nostro punto di vista. Che, tuttavia, va illustrato tenendo conto della teoria Parlato. Di che si tratta? Valentino Parlato, oltre che fondatore e firma prestigiosa del Manifesto è un giornalista che se deve dire una cosa non usa giri di parole, anche a costo di apparire provocatorio. L’altro giorno intervistato dal Corriere della sera ha sputato un rospo che conoscendolo aveva dentro chissà da quanto. Ha detto: «Meglio che torni Silvio, la sinistra è più a suo agio all’opposizione». Naturalmente Valentino non è impazzito o passato al nemico. Considera «fascismo di sostanza» il decreto «antiromeni», e pensa che sia preferibile un ritorno di Berlusconi a una berlusconizzazione del governo Prodi. Nella sua descrizione di una sinistra costretta a condividere tanto cose che con la sinistra fanno a pugni, Parlato segna dei punti. Non ha tutti i torti, per esempio, quando ricorda che con il vecchio Pci all’opposizione sono state fatte importanti riforme (quella agraria, quella della scuola). Anche l’argomento che con Berlusconi al potere il Manifesto vendeva di più ci trova (ahinoi) solidali.

Ma in questo, come dire, cinismo costruttivo, Parlato ce lo consentirà, si potrebbe leggere anche dell’altro. La sinistra impaziente che vuole tutto e subito. La sinistra volubile che si stufa presto. La sinistra combattiva che se torna Berlusconi torneremo a dare battaglia. La sinistra benaltrista perché il problema è sempre diverso da quello che si ha di fronte. La sinistra dura e pura che preferisce non sporcarsi le mani con il governo della quotidianità. Luoghi comuni sulla sinistra, certo, ma forse, proprio per questo, non del tutto infondati. E che dire della sinistra smemorata? Ma qui torniamo al punto di partenza: Biagi, Berlusconi e il conflitto di interessi. Già ci sembra di sentire lo sbuffo annoiato e sarcastico: basta con questa ossessione di Berlusconi, voi de l’Unità siete fissati...

È vero, continuiamo a considerare Berlusconi un pericolo pubblico e un suo eventuale ritorno al governo una tragedia. Adesso, però, il punto è un altro e si chiama credibilità. E si chiama mancanza di credibilità quando una coalizione si dimostra lontana e indifferente dagli impegni solenni presi con la propria gente, con il proprio elettorato. Per il centrosinistra sarebbe il guaio peggiore ritornare alle urne e sentirsi chiedere ragione di troppe omissioni. E le leggi vergogna? E le coppie di fatto? E il conflitto d’interessi? L’elettore ha la memoria buona. Può digerire una legge sbagliata. Ma evita di farsi prendere in giro due volte di seguito.

Nel suo ultimo libro, «Ahi serva Italia», Paolo Sylos Labini, un altro grande troppo presto dimenticato citava Giacomo Leopardi sul carattere immutabile degli italiani sostenendo che cinismo e carenza di spirito civico non possono che condurre ciascuno alla «indifferenza somma verso se stesso». Indifferenza che alla lunga può togliere a un popolo e agli individui l’amor proprio esponendolo al disprezzo degli avversari. Che possono dire: vedete, neanche loro credono più a quello che predicano. Perciò quel titolo forte e solitario era giusto.

apadellaro@unita.it

Pubblicato il: 10.11.07
Modificato il: 10.11.07 alle ore 8.20   
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« Risposta #16 inserito:: Novembre 17, 2007, 07:56:57 pm »

Walter e il lupo

Antonio Padellaro


Naturalmente, Walter Veltroni fa bene a cercare un dialogo diretto con Silvio Berlusconi sulle riforme. Ma visto il pessimo umore del cavaliere una domanda s’impone: ce la farà? Veltroni ha fatto la mossa giusta perché la sua offerta testimonia nei fatti la volontà di lavorare per il bene della Repubblica. È lo stesso linguaggio del presidente Napolitano, e gli italiani stufi di litigi e spallate sicuramente apprezzeranno. Poi, da buon politico il leader del Pd ha scelto il momento adatto per sferrare la sua offensiva della persuasione. Lo fa mentre nella Cdl, scompaginata dalla sonora sconfitta del Senato sulla Finanziaria si cerca di voltare pagina. Se il cavaliere non ci sta, ha dunque spiegato Enrico Letta, vorrà dire che ci confronteremo con Fini, Casini e la Lega. Ipotesi suggestiva quella di una destra che in tempi brevi possa fare a meno del presidente-proprietario, ma un po’ temeraria. Veltroni lo sa e, infatti, prima di parlare con i comprimari si è rivolto direttamente al principale. Non sapremmo immaginare questo ipotetico dialogo tra Berlusconi e Veltroni. Ma siamo convinti che il primo cercherebbe di conquistare il secondo. E il secondo cercherebbe di convertire il primo.

Ricordate San Francesco che chiedeva al lupo di fare la pace con i contadini che aveva terrorizzato, e il lupo che accettava agitando festosamente la coda? Scherziamo, ma mica tanto. Veltroni conosce le regole della lotta politica e, contrariamente alla leggenda buonista, non è affatto tenero con gli avversari. Ma sa che c’è un momento nel quale conviene a tutti deporre le armi e trovare un comune terreno d’intesa.

Secondo il sindaco di Roma l’ora è già scoccata e il paese sconta un drammatico ritardo di cui l’impopolarità della politica non è la sola conseguenza. Un paese costretto a vivere in un permanente scontro elettorale è destinato inevitabilmente non solo al declino ma all’autodistruzione. Un discorso responsabile che chiunque prenderebbe in considerazione. Ma Berlusconi? E il mondo di Berlusconi?

L’altra notte c’era qualcosa d’impressionante nella seduta di palazzo Madama. Erano le urla continue provenienti dai banchi della destra. Una colonna sonora cupa e schiamazzante che accompagnava gli interventi dei senatori della maggioranza inquadrati dalla telecamera fissa. Fuori campo, racconta chi era lì, è stato anche peggio. Pugni battuti sui leggii. Insulti a piovere. Carte scagliate in aria. Una ciurma isterica, tenuta a bada con ammirevole pazienza dal presidente Marini. Ma anche una moltitudine di individui stressati dall’attesa di una caporetto altrui che non arriva mai. Simbolo di queste esistenze spese per la maggior gloria del capo, e con il terrore di finire nel suo cono d’ombra, il povero senatore Antonione. Povero, perché preme il tasto sbagliato e, involontariamente, con il suo voto determina l’approvazione della odiata (dalla destra e dalla Confindustria) «class action». Disperazione. Lacrime. Propositi insani di dimissioni.

È la nemesi della spallata. A furia di evocarla invano adesso Berlusconi rischia di fare implodere i suoi. Si è spinto troppo in là per procedere a una ritirata strategica e non gli resta che rincuorare la truppa con un altro fantasmagorico spot. Si dia il via, dunque, all’operazione gazebo in tutta Italia. Il primo giorno l’affluenza sembra scarsa ma c’e da scommetterci che lunedì annuncerà trionfalmente di aver raccolto un mare di firme per tornare a votare subito (sicuramente più dei tre milioni e mezzo delle primarie del Pd). Plebiscito che mister B. scaricherà su Fini, Casini e Maroni affinché si diano una regolata su chi comanda.

C’è da fidarsi di Fini? Lo strappo con Berlusconi è davvero così profondo? Se si tratta di ordinare a Striscia la notizia di non dileggiare più la nuova compagna del leader di An, Confalonieri ci ha già pensato con tanto di comunicato ufficiale. Quanto al «nemico» Storace, Fini non ha mandato giù né la comparsata di Berlusconi alla costituente della Destra, e tantomeno il contributo versato nelle relative casse. Ma, come si dice, chi è senza bonifico scagli la prima pietra...

Fini è probabilmente sincero quando chiede all’alleato più forte di cambiare strategia. Sa però che messo di fronte a una scelta drastica tra il dialogo (con Veltroni) e le elezioni (con Berlusconi), il popolo di An non potrebbe avere incertezza alcuna. La strada intrapresa da Walter appare dunque coraggiosa perché piena di ostacoli. E perché il lupo in questione ha i denti ben affilati. Vero è, però, che anche a Gubbio, all’inizio, erano piuttosto scettici.

apadellaro@unita.it


Pubblicato il: 17.11.07
Modificato il: 17.11.07 alle ore 12.48   
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« Risposta #17 inserito:: Novembre 21, 2007, 03:21:58 pm »

Evviva, la destra s’è rotta

Antonio Padellaro


È andata così. Ronchi di An, a brutto muso, dice alla Brambilla, lady berlusconiana: «Io ti ho fatto parlare, ora tu fai parlare me». La Maria Vittoria reagisce inviperita. Buttiglione sembra un pugile suonato e mena cazzotti al vento. Maroni ride per non piangere e fa strane smorfie. I toni si alzano sulle macerie fumanti della Cdl appena picconata dal proprietario legittimo. Intanto Feltri sparge sale grosso sulle ferite. È una questione di gnocca, spiega con l’inconfondibile stile. Fini innamorato di una bella ragazza navigata. “Striscia la notizia” che fa dell’ironia pesantuccia su fanciulla e fidanzato. Il quale accusa il Berlusca di essere il regista della presa in giro. Silvio che nega. L’altro che minaccia di votare la Gentiloni assestando una bella piallata alla pubblicità di Mediaset. Insomma, un casino.

Manca poco alla mezzanotte di lunedì 19 novembre e a «Matrix», Canale 5, dopo un’attesa durata sette anni si realizza il mio (il nostro) sogno impossibile. Assistere al disfacimento della destra in diretta televisiva. Lo stridio irato di quelle voci. Quelle parole tirate addosso. Quella rabbia sulle vene del collo. E poi, (lode alla regia) quei primi piani, quelle facce tese, pallide, scosse, smarrite. Confesso che ho gioito, sentendomi in sintonia con l’esultanza di Romano Prodi che di fronte al crollo della Cdl ha giustamente detto ai suoi: godiamoci questo momento. Come dargli torto? Come Clay ha preso botte per sette round. Verso la fine dell’ottavo, bum, Foreman al tappeto e sogni d’oro.

Lo so che non è bello ridere sulla disgrazie altrui. Lo so che il dileggio dell’avversario non appartiene a chi si fa carico dei problemi del Paese.

Lo so che Veltroni non ne può più delle sterili contrapposizioni e che da molte parti si invoca la fine del «bipolarismo fazioso». Lo so, e capisco che questa strategia morbida della politica può essere la più efficace per disarticolare quel fronte opposto che un attacco frontale potrebbe altrimenti ricompattare. Ma io parlo (e scrivo) come giornalista dell’Unità, del giornale cioé che dal 2001 conduce una battaglia intransigente, non contro la destra ma contro questa destra del tutto anomala nel panorama europeo. Una coalizione fondata sull’interesse privato in atti pubblici di un miliardario che si crede Napoleone. Tenuta insieme dai benefici percepiti da una piramide infinita di vassalli, valvassori e valvassini. Per anni questa destra feudale e ad personam, ci ha gettato in faccia i suoi soldi, le sue televisioni e la sua strafottenza. Facendo strame di legalità e recintando prima il governo e poi l’opposizione come si fa con una proprietà personale. Filo spinato intorno e il cartello: vietato l’ingresso agli estranei.

Sì, il loro esercizio del potere è sempre stata soprattutto una faccenda molto privata e molto personale. Quando, ricordate?, filavano d’amore e d’accordo, riunendosi adoranti intorno alla cornucopia del capo, accuditi e nutriti dal cuoco Nicola o come si chiamava. Dei miracolati. Così dicevano gli spifferi di palazzo Grazioli. Ma anche questo faceva parte della cinica livella padronale che non riconosce meriti e qualità, devota solO alla regola: io vi ho creati e io vi distruggo. Molto di personale c’è anche nella diaspora di queste ore. Se il metro è quello dei «miracolati» Berlusconi ha qualche ragione nel lamentarsi di tutto il veleno e di tutte le accuse che gli (ex) alleati gli hanno riversato addosso. «Non hanno ripagato la mia pazienza, pensano solo alle loro carriere e al loro successo personale, mi sono rotto», ha confidato alla Stampa. Replica Fini: «Vuole metterci nell’angolo, cancellarci, crede di essere un re assoluto». Un linguaggio crudo, impietoso dove di politico non c’è proprio nulla. E il cui non detto lascia intravedere in una nuvola di cattivi pensieri, ruggini, contenziosi, favori fatti e non ricambiati, storielle assai poco edificanti (vedi Feltri).

Adesso si volta pagina, annuncia lui, ma il circo continua. Anzi raddoppia, triplica. In ventiquattr’ore chiude Forza Italia, s’inventa dieci milioni di firme, fonda il Partito del Popolo, sbaracca la Cdl, caccia Fini e Casini, rinnega il bipolarismo, abbraccia il proporzionale, riabilita il Pd, si converte al dialogo. Il tutto in un concerto di lecchini e sviolinate. Lo paragonano a Napoleone, Mao, Lenin. Lo definiscono geniale, magistrale, rivoluzionario. Fingono di non vedere che è solo un venditore che ha cambiato marchio alla ditta. Venghino signori venghino. Giusto controllargli le carte. Ci si può fidare di uno così?

apadellaro@unita.it

Pubblicato il: 21.11.07
Modificato il: 21.11.07 alle ore 9.16   
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« Risposta #18 inserito:: Novembre 22, 2007, 11:06:42 pm »

Il dialogo e l'imbroglio

Antonio Padellaro


Leggere le notizie su come è stata ridotta la Rai dalle quinte colonne di Berlusconi premier e apprendere che si tentò di oscurare perfino la morte di Papa Wojtyla pur di non togliere luce televisiva al padrone fa sorgere spontanea la domanda: si può dialogare con personaggi del genere? Non è in discussione, naturalmente, l’iniziativa di Veltroni sostenuta da Prodi per concordare una legge elettorale al posto dell’indecente porcellum. Non se ne poteva fare a meno eppure soltanto l’implosione della destra ha costretto a piegarsi Fini e Berlusconi, ormai a corto di arroganza e non restandogli molto altro da fare.

Poi, se ci sarà intesa si passerà a questioni ugualmente importanti per la governabilità: poteri del premier e regolamenti parlamentari. È giusto, le regole del gioco si cambiano con il consenso di tutti, a patto che lo spirito comune sia il bene del paese. Ora, con tutta la migliore buona volontà, è davvero difficile individuare tali virtù civili nell’uomo che, come adesso risulta in modo solare dalle indagini giudiziarie, stando a Palazzo Chigi si giovava di un’informazione del servizio pubblico (cioè pagata da noi) pilotata tutta a sua favore. Anche perché le devastanti intercettazioni apparse su «Repubblica» sono in qualche modo l’inevitabile e coerente completamento di un’attività politica dedita esclusivamente all’asservimento del bene pubblico all’interesse privato di uno solo.

La classica ciliegina sulla torta se non fosse che la torta se l’è già mangiata lui. Comprendiamo che le regole della democrazia costringono a parlare anche con chi non ci piace. Ci sia almeno risparmiata, però, l’ipocrita e pomposa favola del dialogo.

Qui prima di sedersi al tavolo bisognerà stare bene attenti che qualcuno non abbia truccato le carte. Come nel Far West.

Pubblicato il: 22.11.07
Modificato il: 22.11.07 alle ore 12.56   
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« Risposta #19 inserito:: Novembre 24, 2007, 05:02:08 pm »

Bastone e carota

Antonio Padellaro


Geniale. Sublime. Subito dopo aver fondato il suo nuovo partito Silvio Berlusconi faceva una certa fatica a schivare gli aggettivi che gli piovevano addosso, non solo dai cortigiani a contratto ma anche da commentatori neutrali ma forse un po’ troppo suggestionati dall’alone di eterno vincente che illumina la tinta del cavaliere. Che qualche dubbio sulla effettiva genialità del blitz sul predellino dovrebbe pure cominciare a porselo. Esauriti gli effetti speciali, archiviati i pirotecnici sondaggi il ribaltone nel Polo comincia ad evidenziare qualche problemino non del tutto sublime per l’artefice massimo. Scrive l’Economist che siamo davanti a un tentativo del cavaliere di distrarre l’attenzione dal proprio fallimento causato dal ripetuto far leva sui colpi di scena piuttosto che su politiche alternative. L’ex premier, insomma, vuole cambiare le regole di un gioco che sente che sta perdendo. Però, più cambia più rischia grosso. Gli ex alleati Fini e Casini, ovviamente, non hanno preso affatto bene che mister B. stia cercando di lanciare un’opa sull’elettorato di An e dell’Udc. E la prospettiva di essere anch’essi massacrati dalle tv padronali, come accade da tredici anni alla sinistra li costringe ad auspicare (scherzi del destino) una riforma del sistema televisivo per tagliare le unghie di Mediaset. Senza contare che molti nella ex Forza Italia cominciano a chiedersi come farà il partito del popolo delle libertà, o come si chiama, a vincere le elezioni stando da solo. Attenzione però che Fini e Casini stanno ancora peggio di Berlusconi e che l’interesse comune (il potere) potrebbe alla fine portare i tre litiganti a firmare una sorta di armistizio. Prodi e Veltroni, perciò, fanno bene a non abbassare la guardia. L’intesa sulla legge elettorale e una seria offensiva sul conflitto d’interessi sono la carota e il bastone con cui tenere a bada la destra. Non sarà geniale ma è utile.

Pubblicato il: 24.11.07
Modificato il: 24.11.07 alle ore 12.58   
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« Risposta #20 inserito:: Novembre 27, 2007, 06:01:44 pm »

Patti chiari

Antonio Padellaro


Sarebbe bello che dopo l’incontro Veltroni-Fini di ieri la parola dialogo, troppo spesso usata a sproposito come sinonimo di accordo sottobanco o di manovra diversiva, riacquistasse il significato originario. Che tornasse ad essere cioè quel confronto di idee e programmi allo scopo di raggiungere un’intesa che, per esempio, nel dopoguerra consentì a forze diversissime, comunisti e democristiani, azionisti, socialisti e liberali di scrivere il testo mirabile della nostra Costituzione. Il leader del Pd osserva che dopo tempo immemorabile sinistra e destra sono tornate a parlarsi, ed è certo una novità importante. Come lo è che nella stessa destra si sia deciso di mettere da parte il triste linguaggio degli insulti e delle minacce, delle spallate e delle implosioni. Tutte cose buone e giuste che, tuttavia, a ben poco servirebbero se non portassero a compimento un’intesa effettiva sulle cose da fare. Intesa è la parola chiave che sottintende una volontà concreta e determinata per superare difficoltà e intralci pur di fare uscire il Paese dal tunnel dell’ingovernabilità.

La domanda allora è se questa intesa la vogliono davvero tutti. Su Veltroni non dovrebbero esserci dubbi, se non altro perché l’iniziativa l’ha presa lui e non si vede perché non debba desiderare di concluderla con un successo. Speriamo che uno spirito analogo animi Fini, a dispetto di chi lo immagina impegnato in una sorta di partita doppia alla fine della quale ci sarebbe il referendum sulla legge elettorale. Speriamo che il presidente di An e Casini e i leghisti, non pensino ad un uso momentaneo e strumentale del dialogo per difendersi dal nuovo partito personale di Berlusconi; e dopodiché grazie e arrivederci. Sarebbe un grave danno alla credibilità già scossa di tutto il sistema politico se una grande occasione venisse buttata al vento come una delle tante piccole manovre di palazzo.

Pubblicato il: 27.11.07
Modificato il: 27.11.07 alle ore 8.19   
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« Risposta #21 inserito:: Novembre 28, 2007, 05:23:00 pm »

Le prediche di Marini

Antonio Padellaro


Ieri, nell’aula di palazzo Madama, il senatore berlusconiano Francesco Nitto Palma, nella cui carriera di magistrato a Roma rifulge la preziosa amicizia con Cesare Previti, ha aggredito Furio Colombo. Subito dopo il minuto di silenzio dedicato alla memoria dell’eroico maresciallo Daniele Paladini, egli ha preso la parola e ha onorato da par suo le istituzioni con una gragnuola di insulti. Mescolando brani di articoli diversi scritti da Colombo su l’Unità ha cercato di dimostrare che l’autore aveva offeso la dignità del Senato. Non è così ma il diritto di critica andrebbe riconosciuto perfino a uno come Nitto Palma se poi non diventasse il pretesto per attacchi volgari all’avversario politico, definito, tra gli altri complimenti, un «poveraccio».

Segue la reazione indignata del senatore Zanda che a nome del gruppo Pd solidarizza con Colombo. Il quale ottiene faticosamente la parola al fine di smascherare il falso. Si chiude con la predica del presidente Marini che, salomonicamente, rimprovera sia l’aggressore che l’aggredito deplorando i giudizi irrispettosi sul Senato, «con la parola e con gli scritti». Se non fosse che mentre la «parola» di Nitto Palma, ben supportato dal leghista Castelli, appariva di pura denigrazione, gli «scritti» di Colombo erano a difesa della senatrice Rita Levi Montalcini oggetto di incredibili offese da parte del Nitto Palma e dei suoi degni amici. Ci dispiace veramente che il presidente Marini non abbia colto questa non piccola differenza.

Pubblicato il: 28.11.07
Modificato il: 28.11.07 alle ore 13.19   
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« Risposta #22 inserito:: Novembre 30, 2007, 12:03:27 am »

La Repubblica delle mani libere

Antonio Padellaro


Mani libere strilla Dini. Mani libere ripete Boselli. Mani libere conferma Diliberto. Mani libere ringhia Fini. La repubblica delle mani libere, ribelle e trasversale, è sicuramente figlia del sistema elettorale che potrebbe esserci ma non c’è ancora. Quel tedesco più o meno annacquato che prima del voto libera tutti dai vincoli di coalizione, e poi si vede. Forse però c’è dell’altro.

Drappelli di senatori sul mercato. Minuscole rendite di posizione da ottimizzare. Minacce cifrate. Ma anche insofferenze personali troppo a lungo sopite. Mani libere per fare cosa? Quelle dell’Unione, intendiamoci, sono sempre state legate dall’interesse comune a non farsi male. Scontri, polemiche, annunci di cataclismi ma poi al momento del voto in Parlamento tutti inquadrati e coperti. Mani libere adesso vuol dire: caro Prodi potremmo farti cadere ma non lo faremo se non esageri. È il preannuncio di qualcosa di sgradevole per il governo che solo un evento salvifico e alquanto nebuloso potrebbe impedire. È la cosiddetta verifica che il premier ha retrocesso a innocua riunione per fare il punto, e poi si ricomincia.

Più pericolose (per Berlusconi) le mani libere di Fini. Espresse con parole inconcepibili per le orecchie del cavaliere. Giustizia e tv ha sibilato gelido il leader di An, parlando con la stessa lingua dei perfidi comunisti quando attentano alla roba del sire di Arcore. Giustizia significa rinvangare le orribili leggi ad personam, l’epoca buia di quando la legge era uguale per tutti tranne che per uno. Ma evocare le tv vuol dire, orrore, che perfino il cuore Mediaset dell’impero non è più al sicuro. Televisioni che l’alleato tradito vuole disarmare prima che siano puntate contro di lui come lo furono contro la sinistra. Ci si chiederà: ma non è quello stesso Fini che allora approvò sottomesso tutte le schifezze richieste? Mani libere sì ma anche memoria corta.

Pubblicato il: 29.11.07
Modificato il: 29.11.07 alle ore 8.37   
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« Risposta #23 inserito:: Dicembre 01, 2007, 11:03:44 pm »

Benigni e l'italica commedia

Antonio Padellaro


Giovedì sera, Roberto Benigni ha reso un pessimo servizio a chi come noi cerca di raccontare la politica italiana sui giornali. Eppure sentiamo di doverlo ringraziare per le ragioni che spiegheremo.

Davanti a dieci milioni di spettatori (che si aggiungono alle folle che in questi mesi hanno riempito teatri e tendoni, da Torino a Reggio Calabria), Benigni ha mostrato una galleria dei personaggi che occupano ogni giorno le nostre pagine (per pagine e pagine), e che ogni sera tracimano implacabili da tutte le tv. E li ha ri-raccontati per ciò che realmente sono. Non si tratta di una recensione alla straordinaria interpretazione della commedia dantesca che su queste colonne ha già impegnato firme illustri. Per noi ancora più folgoranti sono stati quei trenta minuti iniziali sulla italica commedia del potenti. Certo, un bestiario tutto da ridere, fino alle lacrime, ma reso tragicamente irresistibile dall’autenticità dei fatti e delle facce. Sbeffeggiate, parodiate come giusto che sia ma tutta vera cronaca estratta, parola per parola, macchietta per macchietta dagli articoli che scriviamo e impaginiamo come se fosse roba seria.

Non è vero forse che Berlusconi ha creato un partito stando sul predellino di un auto? Che Prodi deve sperare, e pregare, che a nessuno degli augusti senatori a vita che tengono il governo in vita venga un raffreddore? Non è vero che Calderoli ha definito una porcata la legge elettorale da lui medesimo scritta? Che i Savoia hanno chiesto allo Stato italiano 260 milioni di euro come risarcimento per il loro esilio? E che una commissione parlamentare abbia indagato per anni su Prodi spia del Kgb è forse soltanto una barzelletta, neppure tanto spiritosa? E che un’altra solenne istituzione bicamerale abbia tenuto in piedi delle gravissime accuse di corruzione contro lo stesso Prodi, Dini e Fassino sulla base di un tale conte Igor noto imbroglione, è solo pura comicità demenziale? E il greve vernacolo di Storace e la maschera eterna di Andreotti sono per caso creazioni romanzesche?

E i vizi privati e le pubbliche virtù di onorati onorevoli che di giorno manifestano in favore della famiglia e la notte fanno quello che fanno, è roba riciclata da un avanspettacolo stantio o vita orribilmente vissuta? E il turpiloquio che nelle intercettazioni accompagna sempre la compravendita di banche, di ragazze e di partite di calcio è il frutto di una comicità estremista o si riferisce a fatti realmente accaduti?

Si dirà: da che mondo e mondo compito della satira è quello di svelare e svergognare la vera natura del potere; ed è compito dei buffoni sghignazzare sul re che è nudo. La differenza è che qui da noi tutto si svolge sotto gli occhi di tutti. Qualcuno ha scritto che Benigni si è divertito a mettere in mutande le classi dirigenti. No, lui quei signori li ha immortalati esattamente per come sono. Tali e quali. Lo ha fatto, moderno Charlie Chaplin, suonando l’intera tastiera della comicità politica. Concentrando storie ridicole e personaggi grotteschi in modo che l’effetto accumulo, tra una risata e l’altra, suscitasse un comune moto dell’animo. Ma come è stato possibile? Ma in che razza di Paese viviamo? Siamo convinti che tra i dieci milioni dell’altra sera, spento il televisore questo l’avranno pensato in tanti.

Il problema adesso è nostro. La regola sarebbe questa: ai giornali la realtà, ai comici la finzione. Ma se una certa realtà della politica è quella raccontata da Benigni, ciò che appare sui giornali non sarà in qualche misura una sorta di finzione? Un modo per rendere credibile ciò che non si presenta come tale? Per dare dignità a chi ne ha fatto un uso limitato? D’altra parte molti dei personaggi messi alla berlina detengono un enorme potere decisionale. Il Berlusconi che gira con la bandana e fonda partiti a ripetizione è lo stesso Berlusconi da cui dipende il futuro delle riforme, e con cui bisogna trattare. Il Calderoli delle porcate siede al vertice della Lega ed è vicepresidente del Senato. E se il Mastella degli aerei di Stato si arrabbia, addio governo. Per forza, la politica seria dovrà continuare a farci i conti.

Certo è che nel dopo Benigni sarà più difficile vagare tra mani libere, rimpasti, verifiche e aghi della bilancia senza scoppiare a ridere.

Pubblicato il: 01.11.07
Modificato il: 01.12.07 alle ore 9.02   
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« Risposta #24 inserito:: Dicembre 08, 2007, 03:24:06 pm »

Perché basta

Antonio Padellaro


Non capita spesso che i lettori approvino un titolo del giornale come se lo avessero fatto loro. È successo ieri mattina davanti a quel «Basta!» de l’Unità stampato grande, quel grido di rabbia che sovrastava la foto degli operai dell’acciaieria ThyssenKrupp di Torino. Immagini di pianto e di paura dopo che il fuoco dell’incuria aveva bruciato i corpi di sette loro compagni, uccidendone quattro e lasciando che per gli altri poveri corpi ustionati non si sapesse bene cosa sperare. Ma sotto quel basta c’erano anche le notizie sulle divisioni nella maggioranza che avevano messo a serio rischio la fiducia chiesta dal governo sul decreto sicurezza. E ottenuta per un solo voto, grazie alla generosità del senatore Cossiga.

Enormemente diversi i due fatti. Incomparabile con la gravità di una strage che si unisce a centinaia di altre stragi sul lavoro è il consueto e meschino tira e molla di una politica che non cambia mai. Ma il non poterne più riguarda la soglia di sopportazione collettiva poiché ci sono notizie, parole e facce che noi per primi ci siamo stancati di pubblicare. Quando però la casualità dell’informazione mette in cortocircuito, la realtà della sofferenza umana con la irrealtà delle discussioni incomprensibili, allora è davvero troppo.

Ci dispiace per i bravi colleghi del Tg1, ma ieri sera un sommario probabilmente sbagliato rendeva insopportabile il collegamento tra il servizio Uno: apertura della Scala con un illustre critico musicale che parlava amabilmente di se stesso. Con il servizio Due: dichiarazioni stravolte di Mastella e Di Pietro sulla fine o sulla minaccia di fine della maggioranza politica. Con il servizio Tre: riprese della fabbrica con gli estintori scarichi, foto di Antonio Schiavone da vivo che lascia una moglie e tre figli, e altre mogli e di altri figli, immobili e disperati nel corridoio di un ospedale. Ora, qui non c’entra l’antipolitica ma è stato il peggior servizio che si potesse rendere a Mastella e a Di Pietro.

E con loro a tutto il vano agitarsi di figure e figurine teodem, postcom e neodc che indefessamente si dedicano alla demolizione di un governo e di una maggioranza votati da diciannove milioni di italiani (sulle sceneggiate di Berlusconi non sprecheremo parole). Perché nelle sequenza non c’era nesso alcuno tra le minacce dei leader e le sofferenze delle persone. Come se i primi agissero e si muovessero in una dimensione astratta, artificiale, lontana. In un luogo e in un tempo completamente avulsi dai problemi e dalla condizione dei comuni esseri umani. Basta è il minimo che si possa dire a parlamentari e ministri disposti a far cadere il governo su una giusta norma che prevede la punibilità di chi commette atti di discriminazione fondati sull’orientamento sessuale o sull’identità di genere. Basta è la parola che rende il senso del fastidio di fronte a scelte misteriose ad opera di forze esterne ma incombenti (in questo caso il Vaticano). Basta è l’unico commento che ci sentiamo di fare di fronte alla non percezione del disastro in cui ci stanno precipitando.

Pubblicato il: 08.12.07
Modificato il: 08.12.07 alle ore 7.10   
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« Risposta #25 inserito:: Dicembre 29, 2007, 06:04:37 pm »

19 milioni di ragioni

Antonio Padellaro


Nel tentativo di riportare Lamberto Dini sulla retta via il comportamento di Prodi ci ricorda quella famosa scena del «Natale in casa Cupiello» quando al grande Eduardo, paziente e fiducioso artefice di capanne e bambinelli, il figlio viziato e malmostoso risponde sempre che no, il presepe non gli piace. Questa volta però la recita si svolge davanti a 19 milioni di italiani (per la precisione 19.002.598), quelli che dopo avere votato per il governo dell’Unione non possono certo sorridere alla prospettiva che la loro volontà valga zero davanti al voltafaccia dei cinque o sei senatori a cui il presepe prodiano non piace più. Qui siamo di fronte a un gigantesco problema di democrazia se per calcolo, impuntatura o per ragioni di coscienza anche le più nobili, cinque o sei persone possono decidere per tutti, sissignore anche per l’altra metà del Paese che ha votato Berlusconi. Il quale infatti sostiene di volere certamente la fine di Prodi ma poi le elezioni subito, e non la costituzione di quel governo istituzionale o tecnico o di transizione che i cinque o sei dicono di voler agevolare con il loro dietrofront. Si dirà che la storia della cosiddetta prima Repubblica è piena di governi fatti cadere con imboscate improvvise di franchi tiratori, e che non mancano i casi di presidenti del consiglio mandati a casa per un solo voto. Ma le regole erano diverse e la precarietà delle maggioranze, il loro farsi e disfarsi era quasi un male accettato. Così come il susseguirsi degli esecutivi assicurava un sistema in qualche modo redistributivo delle poltrone. Quanto al voto che nel 1998 affondò Prodi, tutt’altro che imprevisto fu la conseguenza ultima del lungo strappo con cui Rifondazione comunista mise fine a un appoggio esterno e poco caloroso.

Ma nel 2006 i patti furono altri. Solenni cerimonie sancirono l’adesione all’Unione di tutti i contraenti. Piuttosto che rischiare contestazioni successive sì preferì scrivere un programma esageratamente monumentale e minuzioso che tutti volontariamente sottoscrissero.

E a cementare l’insieme provvide quella porcata di sistema elettorale che mandando in Parlamento i deputati e i senatori indicati non dagli elettori ma dai partiti li vincolava per lo meno a una sorta di elementare codice di lealtà nei confronti delle coalizioni di appartenenza.

Ora, restando (come è giusto) il mandato parlamentare individuale e personale nessuno può impedire ai cinque o sei senatori, o a chiunque altro, di far cadere il governo Prodi. Di questo loro progetto conosciamo per filo e per segno motivazioni e insofferenze, illustrate in centinaia di interviste. Sicuramente avranno mille ragioni ma il punto non è questo. La domanda da rivolgere ai senatori Dini, Scalera, D’Amico, Bordon, Manzione, Fisichella e Pallaro è semplice: nel decidere il vostro definitivo no a Prodi avete pensato ai 19.002.598 elettori dell’Unione, a ciò che gli togliete e a come la prenderanno? Conosciamo già l’obiezione: quei milioni di voti si sono drasticamente ridotti a giudicare dai sondaggi che danno ai minimi la popolarità del governo (per colpa soprattutto delle liti tra i partiti). Posto che il confronto è tra voti reali e voti virtuali tutti da dimostrare, è strano che i suddetti senatori nell’approssimarsi dell’ora fatale non sembrano neppure sfiorati dal minimo problema di coscienza. Eppure abbandonare la maggioranza con cui si è stati eletti per causare la caduta del governo, non è questione da poco. Solo il senatore Fisichella, da quel galantuomo che è ammette: «Non so se ho sbagliato. Ma quel che è certo è che non l’ho fatto a cuor leggero» Corriere della sera). E, se non abbiamo letto male, il senatore Bordon, altro galantuomo, starebbe pensando alle dimissioni. Una scelta senza dubbio dignitosa. Non si condivide più la politica del governo? Si ammette di aver sbagliato a farsi eleggere con l’Unione? Si lasci il posto ad un altro. Non si tratta di augurarsi punizioni o vendette ma, lo ripetiamo, di porre una questione fondamentale di democrazia.

Auspichiamo come molti una legge elettorale meno iniqua ma sarà difficile escogitare un sistema che ci difenda tutti quanti dai veleni del trasformismo o dagli imbrogli dei voltagabbana se poi a chi fa politica e concorre alle cariche elettive manca un’assunzione piena di responsabilità. È prima di tutto una questione di rispetto nei confronti dei cittadini che molti continuano a trattare da popolo bue, da massa di manovra da ingannare a proprio piacimento. Così facendo l’antipolitica ci sommergerà. Perciò quando Prodi dice che un governo si abbatte con uno voto di sfiducia, alla luce del sole, ciascuno mettendoci la faccia, il nome e il cognome e l’indirizzo ha non una ma diciannove milioni di ragioni.

apadellaro@unita.it

Pubblicato il: 29.12.07
Modificato il: 29.12.07 alle ore 8.34   
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« Risposta #26 inserito:: Gennaio 05, 2008, 06:45:48 pm »

Lettera di un elettore del Pd

Antonio Padellaro


Sono un elettore del Pd e non mi sento tanto bene. Avevo chiuso l’anno vecchio con Prodi ottimista sul futuro del governo e della nostra Italia (sono contento che il rapporto deficit-Pil sia sceso al 2 per cento anche se so che questo non cambierà la mia vita e neppure il prezzo della benzina). E mi ero addormentato con Veltroni sorridente che diceva quella bella frase sul Pd e sul governo che hanno gli stessi obiettivi (noi elettori del Pd desideriamo più di ogni cosa che Prodi e Veltroni vadano d’accordo e che il Pd e il governo si sostengano a vicenda). Però, quando mi sono svegliato con l’anno nuovo, accidenti, era cambiato tutto e al posto del sole ho visto solo neri nuvoloni. Prima ho visto in tv Prodi che sciava tranquillo con la signora Flavia e con in testa quel buffo casco nero (sempre meglio del cranio incatramato di quell’altro). Di Veltroni invece non si parlava ma ho pensato che stava giustamente ricaricando le batterie (noi elettori del Pd teniamo molto alla salute dei nostri leader).

Purtroppo era la quiete prima di una tempesta scatenata (l’ho scoperto poi) da un’intervista del numero due del Pd Dario Franceschini (sembra impossibile, una persona così posata) sul sistema elettorale francese. A questo punto devo fare una premessa. Noi elettori del Pd su questa storia dei sistemi elettorali non ci stiamo a capire più niente. Perfettamente d’accordo che l’attuale porcata di Calderoli, che moltiplica partiti e partitini, venga cancellata anche se ci ha fatto vincere le elezioni (noi elettori del Pd siamo persone responsabili e ci facciamo carico della governabilità del paese). Ogni giorno, tuttavia, spunta fuori un sistema diverso. Quelli che mi ricordo sono sei (e davvero si può pensare di appassionare la gente trasformando la politica in un frullato incomprensibile di soglie di sbarramento e premi di maggioranza)? Prima la bozza Chiti. Poi il modello tedesco. Poi quello spagnolo. Poi il Vassallum. Poi la bozza Bianco. Adesso rispunta l’elezione diretta sul modello francese che era quello che all’inizio volevano in molti (parlo dei nostro schieramento) perché riducendo le forze in campo garantirebbe la governabilità (di cui ci facciamo carico). Poi apprendiamo che il francese non si può fare perché, come ho letto da qualche parte, non si è mai visto un tacchino partecipare volentieri al pranzo di Natale.

Il tacchino sarebbero i partiti minori che non ci stanno (giustamente dal loro punto di vista) a farsi cucinare da Franceschini, ed eccoli infatti subito lì a minacciare la crisi di governo.

È vero che a queste ricorrenti bufere ci siamo abituati (vedi Mastella), ma questa volta noi fiduciosi elettori del Pd abbiamo tentennato quando abbiamo sentito D’Alema dire: siamo impazziti?, qui salta tutto. Ora, si sa che D’Alema fa il ministro degli Esteri a tempo pieno. E che alle prese con i grandi problemi internazionali non ha il tempo (e forse neppure la voglia) di occuparsi della politica di casa nostra. Ho pensato perciò che se D’Alema smette improvvisamente di occuparsi della gravissima situazione nel Pakistan e delle stragi in Kenya per dire che qui in Italia siamo impazziti e salta tutto (e dal tono doveva essere di umore nerissimo come i nuvoloni di cui sopra), beh allora significa che siamo messi proprio male. Sul momento ho pensato anche: ma è mai possibile che D’Alema smette improvvisamente di occuparsi del Pakistan e del Kenya (e della Cina e della Russia e delle primarie in America) per prendersela con Dario Franceschini (con tutto il rispetto per la persona e per il politico)? E infatti, a leggere bene, D’Alema si rivolge al numero due del Pd ma in realtà parla al numero uno (Veltroni) a cui in sostanza dice: caro Walter, qualcosa mi sfugge visto che sei un politico accorto che calcola sempre le sue mosse ma stai attento che Prodi non è per niente contento di questa trovata del sistema francese. E neppure io.

Da quel momento in poi ne abbiamo lette e sentite di tutti i colori. È (ri)scoppiata la guerra Veltroni-D’Alema. Veltroni vuole il referendum in modo che Prodi cade e si può fare il governo istituzionale con Berlusconi. No, al contrario Veltroni vuole sinceramente arrivare a una riforma elettorale il più possibile condivisa per evitare il referendum perché quello sì, costringendo i partiti minori a fare coalizione con i partiti maggiori farebbe saltare la maggioranza (per i vari Mastella & soci, insomma, meglio del referendum sarebbero le elezioni anticipate subito; la solita storia dei tacchini e del Natale).

Sono un elettore del Pd e non mi sento tanto bene perché comincio a temere che non sia poi così vero che governo e Pd si sostengono a vicenda. Ho come la sensazione che ci sia qualcosa che non ho capito o che non mi è stato spiegato bene. E vorrei che fosse Veltroni a chiarirmi le idee non solo perché di lui mi fido ma perché una volta ha detto (nel discorso del Lingotto credo) che nel Pd non troverà mai posto la vecchia politica dei trabocchetti e della doppia verità (di Veltroni mi fido anche se non ho capito come faccia lui a fidarsi di Berlusconi che mentre fa finta di dialogare fissa i tempi per la prossima spallata al governo, pronto a ricominciare con il mercato dei senatori).

Sono un elettore del Pd e mi sento tanto male quando vedo la spazzatura che sommerge Napoli e la Campania. Quando mi rendo conto che le responsabilità di tanto degrado sono soprattutto del centrosinistra visto che governa la Regione e la città da molti anni. Quando mi chiedo se può continuare ad interessarmi una politica concentrata sulle dispute bizantine e sommamente lontana dai problemi vitali della gente.

(Questo testo mette insieme e riassume i contenuti delle lettere e dei messaggi che pervengono all’«Unità» in questi giorni).



Pubblicato il: 05.01.08
Modificato il: 05.01.08 alle ore 14.00   
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« Risposta #27 inserito:: Gennaio 10, 2008, 10:57:50 am »

Mai più

Antonio Padellaro


Sulla reale efficacia delle misure annunciate da Prodi, si vedrà. Restano, accanto alle centomila e più tonnellate di spazzatura che qualcuno prima o poi raccoglierà, i danni incalcolabili che questo disastro ha causato alla credibilità dello Stato, della democrazia e del centrosinistra. Ci sarà tempo e modo per riflettere sulle cause più profonde di quanto accaduto, per accertare meglio colpe e responsabilità.

Ma c’è qualcosa che abbiano visto e sentito in queste orrende giornate che vorremmo comunque non vedere e non sentire più. Non vedere più, ministro Amato, quel poliziotto che a Pianura manganella e manganella sulla testa un dimostrante per farlo scendere da un bulldozer.

I violenti che distruggono e incendiano vanno presi e associati alle patrie galere. Quella gente però, come ha spiegato il parroco, non andava bastonata ma convinta (e lì non c’era nessuno a farlo). Non sentire più quelle frasi su camorristi, preti e ambientalisti fondamentalisti che brigando e intimidendo impediscono da sempre che allo smaltimento dei rifiuti venga data una soluzione da mondo civilizzato. Le crediamo, presidente Bassolino, ma doveva dirlo prima e saremmo stati tutti con lei se lo avesse gridato subito alto e forte.

Così come, sindaco Iervolino, che un anno fa aveva avvertito Prodi della catastrofe incombente, a che serve raccontarcelo adesso? E non vogliamo più, ministro Pecoraro Scanio, che i verdi si distinguano solo per i loro veti. Perché sarà pur vero che il crack dell’inceneritore di Acerra è colpa dell’Impregilo ma cosa abbiate fatto voi, concretamente, per evitare tutto questo sinceramente non lo abbiamo ancora capito. Insomma, cari amici, se davvero vogliamo fare punto e a capo finiamola di scaricare altrove (sulla destra che è quella che è) o sulla camorra (alimentata dalla cattiva politica) gli errori e i fallimenti che ci appartengono.

Pubblicato il: 09.01.08
Modificato il: 09.01.08 alle ore 14.29   
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« Risposta #28 inserito:: Gennaio 11, 2008, 11:22:29 pm »

Parole sbagliate

Antonio Padellaro


Se con la dura sgridata contro Veltroni voleva suscitare grande imbarazzo e sorpresa, papa Ratzinger ha indubbiamente ottenuto il suo scopo.

Non certo per la denuncia dei mali della capitale, esistenti e che il vescovo di Roma ha tutto il diritto di sottolineare. E neppure per le ormai consuete lamentazioni sulla famiglia insidiata, figuriamoci, da un registro delle unioni civili subito affossato in Campidoglio. E neanche per aver bussato cassa esclusivamente a favore degli ospedali cattolici, come se quelli pubblici nuotassero nell'oro.

L'imbarazzo e la sorpresa derivano semmai dal complesso di tutte queste cose esternate con lo stesso linguaggio, poco rispettoso dei rispettivi ambiti Stato-Chiesa, a cui ci aveva abituati il cardinale Ruini prima del suo pensionamento. Tanto più che l'occasione consisteva nell'annuale saluto che i vertici politici del Lazio hanno portato in Vaticano, con spirito di rispetto e di cortesia. E dunque che bisogno c'era di usare quel tono sprezzante in risposta al saluto del sindaco di Roma, accompagnato da numeri e fatti sulla crescita, malgrado tutto, della città e sull'impegno che non da oggi l'amministrazione dedica ai più deboli, a chi soffre, agli «invisibili»?

Possibile che il raffinato teologo tedesco non abbia pensato che di fronte, oltre che il politico quanto mai attento al dialogo tra laici e cattolici (forse troppo secondo alcuni), aveva il leader del Partito democratico, fulcro della maggioranza di governo? Confermare che la gerarchia vaticana, al più alto livello, persegue non il dialogo ma l'interferenza, e dare spago alle deprimenti speculazioni della destra più genuflessa: era questo il risultato che gli estensori del discorso papale si proponevano? È già accaduto (vedi Ratisbona) che le parole di Ratzinger fossero male interpretate. Seguirono precisazioni e chiarimenti. Restiamo in attesa. 

Pubblicato il: 11.01.08
Modificato il: 11.01.08 alle ore 8.21   
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« Risposta #29 inserito:: Gennaio 12, 2008, 10:30:24 pm »

La Chiesa e il fattore Pd

Antonio Padellaro


Alla fine il Papa ha riconosciuto l’impegno del sindaco a rendere la Capitale «sempre più bella ed accogliente», Veltroni ha molto gradito mentre un comunicato della Sala stampa vaticana ha deplorato la «strumentalizzazione politica» seguita alle parole di Ratzinger aprendo a destra il festival della coda di paglia vinto da Casini. Dunque l’incidente formale può dirsi chiuso e non staremo a sottilizzare in forza di quale miracolo della fede Roma, che il giorno prima era luogo di «gravissimo degrado», il giorno dopo può diventare «bella ed accogliente». Ma la questione politico-religiosa resta più che mai aperta poiché al di là dei toni eccessivi e delle espressioni poco felici, successivamente corrette, il discorso di Benedetto XVI ai vertici amministrativi del Lazio (oltre a Veltroni, Marrazzo e Gasbarra, tutti del centrosinistra) appare coerente con le posizioni di fondo che la gerarchia cattolica ha già espresso al più alto livello. La dottrina Ruini, per intenderci, contrassegnata dalla sostanziale sfiducia nei confronti del Partito democratico.

Lo ha dichiarato «apertis verbis» a Famiglia Cristiana il cardinale Tarcisio Bertone esprimendo l’auspicio che «i cattolici non siano mortificati nel nascente Pd». Frase che nel linguaggio curiale equivale a un’accusa precisa, tanto più che qualche riga sotto il segretario di Stato vaticano afferma che la Chiesa era più rispettata ai tempi del vecchio Pci.

Qualche giorno dopo, il 4 gennaio, in una intervista al Corriere della sera il presidente della Cei Angelo Bagnasco, sempre molto attento sui giudizi politici ha chiesto la revisione della legge sull’aborto contrapponendosi di fatto alla posizione ufficiale del Pd.

Negli anni 70, Alberto Ronchey coniò la fortunata espressione «Fattore K», per dire che difficilmente ci si poteva fidare di un partito komunista che tardava a recidere i suoi legami con Mosca. C’è da chiedersi se oggi, per il Vaticano, non esista un analogo «Fattore Pd». Una sorta di sfiducia pregiudiziale nei confronti di un partito aperto al dialogo con il mondo cattolico ma che ritiene suo valore irrinunciabile la tenuta sulla laicità della politica, delle istituzioni e dello Stato.

Difficile ipotizzare dove voglia arrivare con questa strategia della diffidenza la gerarchia ecclesiastica. Secondo alcuni l’obiettivo è la costruzione del grande partito moderato dei cattolici, la cosiddetta «Cosa Bianca». E dunque la disarticolazione del Pd, partito a vocazione maggioritaria che da sinistra punta a occupare anche il centro. Ma la tesi prevalente che più si addice al carattere evangelico ed universale della Chiesa è quella della conversione. Convertire il Pd, costringerlo a ripiegare sui temi etici. Convincere il suo gruppo dirigente a ridiscutere le leggi già esistenti (quella sull’aborto) e ad accantonare quelle in cantiere. Come del resto sta accadendo con le unioni di fatto, il testamento biologico e la ricerca scientifica sulla staminali. Il pericolo ha scritto Riccardo Barenghi sulla Stampa è che a furia di cedimenti, retromarce e dialoghi si accetti la subalternità dei valori altrui. E in cambio di cosa?, chiediamo noi. Di un’opzione su quel voto cattolico che è una sorta di chimera elettorale: che ci sia ognun lo dice, dove sia nessun lo sa. Siamo così sicuri, per esempio, che le donne favorevoli all’attuale legge sull’aborto siano tutte a sinistra? Che agli occhi dei giovani che votano An o Forza Italia, i pacs siano il demonio? Che la questione omosessuale nelle sue implicazioni legali e affettive non sia trasversale alla destra e alla sinistra?

Resta da chiedersi (ma è la domanda più importante) come debba rispondere il Pd, sottoposto alle pressioni (e alle sgridate) di un potere che non è soltanto spirituale. Per Angelo Panebianco (Corriere della sera del 10 gennaio) una possibile via d’uscita «è un vero partito americano: nel quale abortisti e antiabortisti, mangiapreti e clericali, socialisti e liberali, cattolici conciliati con i cosiddetti tempi e cattolici contro possano combattersi, anche aspramente, senza che ciò minacci la sopravvivenza del partito». Soluzione suggestiva, anche se non risulta che i democratici americani abbiano dovuto mai affrontare problemi connessi alle reciproche sfere d’influenza stato-chiesa. Là non può accadere che qualche cardinale si metta a bacchettare Hillary Clinton o Barack Obama, e il massimo d’interferenza è di qualche telepredicatore.

Sbagliato però pensare che rispetto al passato la politica si mostri oggi più debole davanti alla Chiesa. È un problema che viene da molto lontano. Marco Revelli ha raccontato su «MicroMega» che tutto iniziò nel 1947, quando il Pci guidato da Togliatti (e oggi elogiato da Bertone) votò compatto per iper-realismo l’articolo 7 della Costituzione. Un testo implicitamente «confessionale», incardinato sui Patti lateranensi celebrati da Mussolini, fortemente voluto dalla Dc. Voto che molti anni dopo farà dire a Vittorio Foa: «Quello fu un giorno cupo, era la svolta del Pci che ci umiliava». Scoprire cioè, commenta Revelli, che di fronte a un tema decisivo come la concezione laica dello Stato la sinistra era divisa, che la principale forza politica su quel tema non era disposta ad impegnare il proprio peso; che i laici erano in Italia, politicamente, una fragile minoranza. Un destino che accomunò anche i democristiani meno genuflessi. Alcide De Gasperi che nel 1952 per non aver voluto avallare il fronte anticomunista di Luigi Gedda e padre Lombardi si vide rifiutare da Pio XII l’udienza privata. Senza contare il complotto ordito contro Fanfani dal partito dei monsignori e degli industriali per impedire la nascita del primo centrosinistra.

Come sempre, in questi casi, l’unica arma vera resta la difesa puntigliosa della propria identità e dei propri princìpi. Pensiamo che dopo la brutta udienza dell’altro ieri Veltroni si sia fatto sentire. Da questo punto di vista l’immediata correzione di rotta vaticana è una buon risultato.

apadellaro@unita.it


Pubblicato il: 12.01.08
Modificato il: 12.01.08 alle ore 8.25   
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