LA-U dell'OLIVO
Aprile 30, 2024, 12:51:21 am *
Benvenuto! Accedi o registrati.

Accesso con nome utente, password e durata della sessione
Notizie:
 
   Home   Guida Ricerca Agenda Accedi Registrati  
Pagine: [1]
  Stampa  
Autore Discussione: Paolo PANERAI - I segnali più forti sono l'investimento della People's Bank ...  (Letto 3040 volte)
Admin
Utente non iscritto
« inserito:: Aprile 10, 2014, 12:20:51 pm »

I segnali più forti sono l'investimento della People's Bank of China in Eni ed Enel, e la crescita a oltre il 5%

in Unicredito, Intesa, Mps e Banco Popolare di BlackRock, il più grande fondo al mondo. La scelta da parte della

banca centrale cinese delle due più strategiche società controllate dallo Stato, e quella del fondo americano

delle prime tre banche del Paese e della più grande popolare italiana indicano in maniera inequivocabile il

ritorno di fiducia nell'Italia, ma si tratta di investimenti finanziari, quindi a determinarli è stato sicuramente

anche il livello basso di capitalizzazione delle società e delle banche prescelte in relazione a omologhi

internazionali. In altre parole sia People's Bank of China che BlackRock sono entrati nel capitale delle due

società di energia e nelle banche perché stimano che il loro investimento si rivaluterà significativamente. Con

una motivazione in più da parte della banca centrale cinese, poiché l'investimento include anche un segnale di

amicizia verso lo Stato italiano.

Allo stesso modo dei due grandi investitori si sono comportati e si stanno comportando altre decine e centinaia di

fondi e operatori stranieri che, spinti anche dal forte vento di rinnovamento soffiato dal presidente Matteo

Renzi, stanno acquistando titoli quotati a Piazza Affari. «Erano anni che non si vedeva una richiesta di

investimento dall'estero come quella degli ultimi mesi», spiega Francesco Perilli, amministratore delegato di

Equita Sim, il principale broker italiano. «Certo, conta un buon ritorno di fiducia verso l'Italia, ma il

movimento è strettamente connesso anche al ritiro di una parte delle ingenti liquidità dai Paesi in forte sviluppo

del continente asiatico».

Così come la grave crisi dei mercati italiani era stata provocata dalla volontà di cogliere il momento magico dei

Paesi in via di sviluppo oltre che alla sfiducia per la crisi politica in atto, ora il cammino è esattamente

opposto. C'è quindi da rallegrarsi ma da non cullarsi sugli allori, perché è noto che i grandi capitali sono in

continuo movimento alla ricerca dell'investimento più remunerativo del momento. Come dire che gli investimenti

finanziari hanno una notevole importanza per la bilancia valutaria del Paese ma hanno un peso duraturo solo quando

l'ingresso in una società italiana avviene attraverso la sottoscrizione di un aumento di capitale come sta

avvenendo soprattutto sulle banche. E da questo punto di vista è davvero importante il risultato ottenuto da Pier

Francesco Saviotti, che ha convinto BlackRock a comprare il 5% dell'aumento di capitale di 1,5 miliardi di Banco

Popolare.

È giusto quindi parlare, come dice il titolo di copertina, di Penisola del tesoro, ma gli investimenti esteri in

un Paese sono anche di altre tre tipologie che conviene analizzare per comprendere quanto solida sia la visione

dell'Italia come Penisola del tesoro.

La prima delle tre tipologie è quella che viene classificata sotto la sigla M&A, cioè merger e acquisition. Anche

in questa tipologia c'è grandissima vivacità. Non passa giorno che non ci sia l'annuncio di un'acquisizione di

un'azienda italiana da parte di gruppi stranieri. Un trend che in realtà non si è mai interrotto ma che negli

ultimi mesi si è accentuato principalmente nel settore del fashion e del lusso (più indietro nel tempo Bulgari,

più recente Loro Piana sempre da parte del gruppo Lvmh) ma non solo: lo stesso Lvmh, numero uno al mondo nel

lusso, ha rilevato il locale Bar - Pasticceria Cova di via Montenapoleone, mentre un gruppo cinese ha acquistato

una delle principali industrie olearie, Olio Berio di Lucca, che fattura intorno a 350 milioni. Rispetto a queste

acquisizioni c'è chi grida al depauperamento del sistema economico italiano. Niente di più sbagliato. Chi compra

dall'estero aziende italiane lo fa perché l'eccellenza di certi prodotti, anche nel campo della meccanica, viene

raggiunta proprio in Italia, che rappresenta ancora oggi, nonostante la crisi, il secondo Paese manifatturiero

d'Europa dopo la Germania.

A dimostrare quanto sia improprio il timore di un depauperamento del Paese, basta guardare a come si comportano

gli acquirenti: non solo lasciano in Italia fabbriche e comando di queste aziende, ma grazie alla disponibilità di

maggiori capitali inducono forti investimenti. È il caso di Gucci, che prima acquistato dagli arabi di Investcorp,

poi diventato public company sotto la guida di Domenico De Sole e ora posseduto dal gruppo francese Kering della

famiglia Pinault, ha moltiplicato i posti di lavoro in Italia e il fatturato nel mondo. Ora alla guida c'è

Patrizio Di Marco, dopo la sua esperienza da Prada, e lo sviluppo in Italia continua anche con interventi di

salvataggio di marchi storici che rischiavano la chiusura come Richard Ginori, ricco di storia e di qualità nel

campo delle ceramiche e della tavola. Richard Ginori era un problema per il tessuto industriale fiorentino: in

amministrazione straordinaria rischiavano il licenziamento alcune centinaia di dipendenti; con la gestione di Di

Marco è destinato a nuovo sviluppo e a un recupero della ricchezza di un museo straordinario.

Idem per le acquisizioni del passato di Lvmh: per esempio Fendi, che ha sempre il suo cuore a Roma. Ma lo stesso

accadrà anche per Loro Piana, vertice assoluto del made in Italy, che aveva e ha come concorrente diretto Hermès,

il quale tuttavia fattura quasi 10 volte di più. La scelta di vendere da parte di Sergio e Pier Luigi Loro Piana è

stata fatta per poter garantire la competizione con Hermès non certo per la malattia di Sergio, che al momento

della scelta non si era manifestata. È sicuro che Bernard Arnault e suo figlio Antoine, che segue Loro Piana,

svilupperanno ulteriormente l'azienda senza spostare una produzione o un posto di lavoro, perché sanno bene che la

qualità dei prodotti è frutto della sapienza sintetizzata nel made in Italia. Del resto anche le borse, le scarpe,

gli abiti che vengono venduti con vari marchi internazionali sono quasi sempre prodotti in Italia.

Perché questo mondo continui a svilupparsi sono necessari capitali freschi e quindi ben vengano le acquisizioni

straniere con l'ingresso di capitali in Italia. Può dispiacere che il controllo non sia più italiano, ma ai fini

della ripresa dello sviluppo queste acquisizioni sono più che salutari.

La seconda tipologia di investimenti con capacità di generare crescita positiva sono quelli immobiliari. Mentre

molti italiani si sono spaventati dall'inasprimento fiscale, operatori e fondi stranieri stanno tornando ad

acquistare immobili in Italia. Il meccanismo è analogo a quello degli investimenti in borsa. I prezzi sono scesi a

livelli che, confrontandoli con quelli internazionali, appaiono molto convenienti con il valore intrinseco

destinato a risalire significativamente. Valga per tutti l'investimento importante del fondo del Qatar nella

realizzazione da parte di Hines dei grattacieli nell'area delle ex Varesine a Milano. Ma a comprare, appartamenti

o interi palazzi, sono anche ricchi russi o cinesi. Non solo nel centro delle città ma anche in località amene

come le ville sui laghi della Lombardia. A Lecco c'è un professore cinese che, oltre ad aiutare aziende cinesi

interessate a investire in Italia, fa comprare immobili sul Lago di Como.

Anche città come Roma, Firenze e Venezia, ma anche campagne e località di villeggiatura della Toscana e della

Sicilia sono tornate nel mirino di chi ha accumulato capitali e investe o per poter godere direttamente

dell'investimento o per poter realizzare un plusvalore, visti i prezzi di acquisto confrontati a quelli di altri

Paesi, esattamente come avviene per le azioni delle società quotate.

La terza tipologia di investimenti, molto importante per lo sviluppo dell'economia, è quella che in inglese viene

chiamata greenfield, cioè investimenti partendo da zero, come un prato verde. Purtroppo questo tipo di

investimenti è quasi inesistente e per più motivi: per la complessità della legislazione e della burocrazia

italiana, per la non stabilità fiscale, per i rischi di una giustizia lenta e non di rado animata da interessi

diversi da quelli di una giustizia oggettiva. Sono quindi fondamentali in questa direzione le riforme

istituzionali annunciate dal presidente Renzi. Se l'ex sindaco di Firenze saprà realizzarle rispettando i tempi, è

sicuro che in Italia pioveranno investimenti per creare attività da zero, un po' in tutti i campi, dal turismo al

digitale.

Tuttavia, mentre il governo Renzi deve cambiare le condizioni ambientali, è anche necessario che l'Italia faccia

quanto altri Paesi hanno già realizzato per la promozione degli investimenti dall'estero.

Oggi le strutture di promozione sono sostanzialmente tre: Invitalia, sicuramente efficiente nella gestione delle

attività di incentivazione con contributi e assistenza una volta che un imprenditore straniero abbia deciso di

investire nel Bel paese. Ma Invitalia non ha una rete internazionale di promozione. C'è poi Simest, che per lungo

tempo si è occupata di appoggiare e accompagnare le aziende italiane nel loro sviluppo all'estero. Oggi può

operare anche in Italia ma non ha una rete estera.

Chi ha la rete estera, finalmente connessa con le ambasciate e i consolati italiani nei vari Paesi, è la ex Ice,

ora Agenzia per l'internazionalizzazione, presieduta da Riccardo Monti con lunga esperienza in Cina e in molti

altri Paesi. Ma la struttura estera è stata finora dedicata a favorire l'export italiano, non la raccolta di

capitali da far investire in Italia. Negli altri Paesi, in Germania, in Gran Bretagna, in Francia, nella logica

della globalizzazione oggi sono state unificate le funzioni di export e di import, per così dire di capitali.

L'ex ministro Corrado Passera aveva avviato un processo in questa direzione, ma la caduta del governo Monti e la

successiva iniziativa del presidente Enrico Letta di lanciare il progetto Destinazione Italia ha rallentato la

realizzazione delle idee di Passera, mentre il progetto di Letta è di fatto monco dopo la caduta del suo governo.

Urge, quindi, che il presidente del Consiglio Renzi con i ministri interessati compia una ricognizione anche in

questo campo per attrezzare meglio il Paese. Probabilmente andranno meglio integrate e fortificate le reti

diplomatiche e quelle dell'ex Ice, assegnandogli compiti specifici di promozione degli investimenti in Italia. Una

forma di investimento in Italia può essere considerato anche lo sviluppo dell'afflusso turistico, con la

conseguente auspicabile decisione di integrare nella rete diplomatica e dell'ex Ice anche l'Enit e la creazione di

un ministero autonomo del Turismo. Averlo legato al ministero dei Beni culturali fa sì che sia considerato, quando

viene considerato, solo il turismo culturale, mentre l'offerta italiana ha una ricchezza infinita, dal turismo

balneare e di montagna al turismo termale, a quello enogastronomico. Per sua funzione il ministero dei Beni

culturali è conservativo, mentre per lo sviluppo del turismo occorre innovazione. Naturalmente senza dimenticare

la forte attrattiva dei giacimenti culturali italiani, che sono inesauribili e quindi di ben maggiore valore.

Infine, c'è la tipologia di investimenti non in Italia ma all'estero che tuttavia riverberano effetti

straordinariamente positivi sull'economia italiana. È il settore dei grandi lavori all'estero. Non a caso Guido

Carli, quando lasciò il governatorato della Banca d'Italia, con tutte le opzioni offerte da Giovanni Agnelli che

poteva avere, scese di fare il presidente di Impresit, la società di grandi lavori all'estero. Carli spiegava che

le straordinarie grandi opere realizzate dalle aziende italiane in tutti i continenti erano il segno

dell'efficienza italiana. In Italia ci sono ancora oggi aziende in grado di competere, prima di tutto Salini

Impregilo (dove da tempo è confluita Impresit), Astaldi, Maire Tecnimont che proprio nei prossimi giorni firmerà

un importante contratto in Egitto.

Per aggiudicarsi questi grandi lavori occorrono un'offerta tecnica (dove l'Italia è competitiva) e una finanziaria

che richiede assicurazioni e finanziamenti internazionali. Sace, la società che sta per essere privatizzata, è

molto efficiente nel campo dell'assicurazione e anche dei finanziamenti, ma in Germania e in Francia è lo Stato

che dà garanzie e quindi l'offerta diventa più rapida e a più buon mercato. Chi potrà dare un'ulteriore spinta al

recupero di efficienza delle aziende italiane è Cassa depositi e Prestiti (Cdp). Se anche questo intervento

avverrà, il circuito investimenti in Italia dall'estero e italiani all'estero per un ritorno di ricchezza in

Italia sarà completo.
(Riproduzione riservata)

Paolo Panerai

Da - http://www.milanofinanza.it/talkback/orsietori.asp
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #1 inserito:: Maggio 16, 2014, 06:07:11 pm »

Alì Babà (staccato e con gli accenti) era sempre rappresentato con i 40 ladroni. Senza accento e tutto attaccato (Alibaba) è il più grande sistema di e-commerce al mondo. Cinese, ma di fatto ormai americano e giapponese. Non solo perché a possedere le quote più importanti sono l’americana Yahoo e la banca online giapponese SoftBank, rispettivamente con il 22,6 e il 34%, ma anche perché, ormai, il collocamento è avviato, si quoterà al Nasdaq di Wall Street e fra le banche che effettueranno il collocamento non c’è neppure una banca cinese o di Hong Kong. Tutte americane (Goldman Sachs, Jp Morgan, Morgan Stanley, Citigroup) e solo una tedesca, Deutsche Bank. Si può pensare che il governo cinese sia contento di queste scelte del fondatore, Jack Ma (nome tutto cinese, Ma Yung) e dei suoi soci? La domanda è retorica. A Pechino, sia pure con diplomazia, nelle stanze del potere politico, economico e bancario, non si fa mistero che veder trasformare in una società di fatto americana la piattaforma di e-commerce usata da 600 milioni di cinesi e attraverso la quale passano circa 240 miliardi di dollari di transazioni non sia il miglior spettacolo che avrebbero voluto vedere. Anche per un’altra ragione specifica: i vertici cinesi sanno che in futuro Alibaba si orienterà sempre di più nella finanza. Le prove generali le ha fatte nell’imminenza dell’ultimo Capodanno cinese che è caduto alla fine di gennaio. La piattaforma ha lanciato l’emissione di quote di un fondo monetario, con taglio minimo anche di pochi renminbi, cioè l’equivalente di 2 o 3 euro. Cogliendo il desiderio di fare regali a parenti e amici, che è tipico dei cinesi prima di Capodanno, quelle quote del fondo (ribattezzato Yu’ebao) sono state un successo immediato. In un brevissimo lasso di tempo sono stati raccolti 49 miliardi di dollari, battendo ogni record di tempo per una tale raccolta. Pensare che Alibaba di fatto americano possa raccogliere risparmio cinese da impiegare al di fuori dalla Cina non piace certo ai vertici cinesi. Come non piace che di fatto, sia pure con un business model che trae il 60% dei ricavi dalla pubblicità, Alibaba abbia una quota di mercato dell’e-commerce cinese pari all’80%. Non è certo l’ideale per uno Stato che a partire dagli anni 90 ha smantellato molti monopoli, a cominciare da quello delle poste che controllavano anche le telecomunicazioni, facendo nascere China Unicom, il primo a introdurre il cellulare Gsm in Cina, e a seguire China Telecom, che ha gemmato China Mobile. Per tutti questi motivi, come nella favola araba il taglialegna Alì Babà, nascosto sopra un albero ascolta il capo dei 40 ladroni e scopre la parola magica (Apriti Sesamo) per entrare nella caverna dove i ladroni avevano ammassato tesori immensi, le società più vicine allo Stato da tempo stanno studiando Alibaba per catturarne i segreti e costruire una piattaforma B2B e una Bt2C assolutamente più performanti di Alibaba e capaci di diventare il riferimento dell’e-commerce cinese. In cinque anni l’obiettivo è di arrivare a un giro d’affari reale di 150 miliardi di dollari, ma con un business model assolutamente diverso da quello creato da Ma, basato non tanto sugli introiti dalla pubblicità (solo il 20%) quanto sui ricavi per la vendita a 3 milioni di retailer (negozi) e a 170 milioni di famiglie che hanno in casa i decoder di China Telecom. La sfida inizierà a ottobre, poco tempo dopo la quotazione a Wall Street di Alibaba. E sarà una sfida senza esclusione di colpi. Anche perché l’idea agevolata dal governo cinese si pone l’obiettivo di avere una sistema di distribuzione capillare che oggi in Cina non esiste. Lo sanno bene gli esportatori italiani (e non solo) con quale difficoltà si riesce a coprire tutta la Cina. Un’operazione finora impossibile per la vastità del territorio e per la particolarità del sistema di abitazione al di fuori delle città. Con la piattaforma agevolata dal governo che è in avanzata preparazione, sfruttando la rete a banda larga di cui il vecchio Impero celeste si è dotato, sarà possibile coprire ogni parte della Cina. Sarà quindi una vera rivoluzione di segno completamente opposto al tentativo fatto dal governo della Turchia, che ha investito capitali enormi senza riuscire a ottenere risultati di vendita adeguati dei prodotti turchi. Semplicemente per un motivo: perché c’era la piattaforma di distribuzione ma mancavano e mancano i compratori, che possono essere privati cittadini (e allora occorre avere la capacità di attrarli con un servizio perfetto) oppure negozi anche atipici come un albergo, un circolo del golf e via dicendo. A un probabile fallimento appare indirizzata anche la piattaforma Storytalia fatta nascere dalla Confindustria per aiutare le piccole e medie aziende a esportare, avendo come operatore le Poste Italiane, che sicuramente sono preparate sul piano tecnologico (grazie all’ex ad, Massimo Sarmi) ma non su quello commerciale fuori dall’Italia. La piattaforma è stata in gestazione quattro anni e contrariamente a quanto era stato dichiarato un anno fa non comincerà a operare in Cina (il più grande mercato del mondo) bensì in Europa. Per fortuna degli aderenti alla Confindustria è stata abbandonata, dopo alcune aperture sperimentali, l’idea di vendere attraverso una serie di negozi. L’esito del test è stato fortemente negativo e per questo si è passati al web per il tessile-abbigliamento, calzature, profumeria e occhialeria. La gestione del sito sarà affidata a Postecom, la società di Poste specializzata nei servizi web e di logistica. Nel 2016 dovrebbe esserci lo sbarco un Usa, ma le previsioni di ricavi sono modeste: 10 milioni di euro in più anni. Se vogliamo, quello di Storytalia è un esempio emblematico di come, escluso Yoox, realizzato con grande abilità da Federico Marchetti, in Italia la cultura dell’e-commerce sia ancora agli albori. A parte Yoox ci sono alcune piattaforme che imitano quanto fatto all’estero, come Saldi Privati, che imita Vente Privée francese, oppure altri piccoli che imitano Saldi Privati. Sicuramente il più avanti di tutti, a parte l’imitazione del sito di maggior successo francese ora sbarcato anche in Italia, è Paolo Ainio con Saldi Privati, ma nonostante la sua esperienza di pioniere (è stato il fondatore di Matrix e di Virgilio) ha qualche difficoltà a raggiungere una dimensione significativa. E quando Ainio parla di borsa, lo fa per Banzai, la holding che include non solo Saldi Privati ma una serie di siti o portali, da Zafferano (cucina) a Studenti.it, al Post, in cui per sostenerne l’audience è stato fuso Soldionline, che faceva utenti unici con molte altre cose al di là della finanza. In Cina il fenomeno e-commerce è esploso ed esploderà molto presto, ancora di più perché di fatto il Paese ha saltato vari passaggi della tecnologia e oggi è, come succede in questi casi, all’avanguardia. Soprattutto i suoi abitanti fanno quasi tutto con gli smartphone, quindi in movimento. I cinesi che hanno un computer non sono moltissimi, perché la scelta degli smartphone è stata indirizzata dalla bravura di Samsung, la grande casa coreana che ha prodotto telefoni di dimensione nettamente superiore a quelli in uso in Occidente, a metà strada fra il tablet e il telefono, quindi con uno schermo sufficiente a vedere la televisione o appunto a fare tutte le operazioni di e-commerce. Ma i cinesi sono un po’ diffidenti e quindi quando con lo smartphone hanno individuato il prodotto che gli interessa, se è un prodotto di qualità e costoso cercano di andare a vederlo fisicamente in un negozio. Il dato emerge da una approfondita analisi condotta da Havas, la grande società di pubblicità e marketing, controllata da Vincent Bolloré. Per questo la formula a cui sta pensando il governo cinese con 3 milioni di retailer sembra avere grandi chance di tagliare la strada ad Alibaba. Se l’Italia è in arretrato per l’esistenza di forti piattaforme di e-commerce multi prodotto, è invece al passo per le piattaforme private dei grandi brand, specialmente del fashion. Sta avendo un significativo successo The Luxer, realizzato da Tod’s. Il fatturato dei primi mesi è stato già di alcuni milioni. In questo caso è stata capitalizzata l’esperienza negativa fatta alcuni anni fa da Diego e Andrea Della Valle in società con Luca Cordero di Montezemolo: il portale che avevano creato fu chiuso dopo alcuni mesi e perdite non indifferenti. Sulla scia di Tod’s ci sono molti altri marchi italiani che cercano di pareggiare i conti con iniziative e-commerce dei grandi brand stranieri. Il più forte di tutti, come pure nel commercio fisico con centinaia e centinaia di boutique, è Bernard Arnault, il quale con la enorme disponibilità di capitali che ha, da anni aveva creato fondi specializzati nella nuova tecnologia e in particolare nell’e-commerce. Mentre Giorgio Armani si è appoggiato per primo su Yoox, ora anche Prada ha un e-commerce dinamico esclusivamente per i suoi brand. Naturalmente con l’e-commerce si sviluppa anche l’attività internazionale. Proprio per questo motivo i progetti cinesi non prevedono di inserire sulle loro piattaforme i grandi brand, ma i secondi di qualità. Una straordinaria opportunità, in questo caso vera, per le centinaia di migliaia di piccole e medie aziende italiane. Purché possano dire che i loro prodotti sono made in Italy.

(Riproduzione riservata) Paolo Panerai


Da - http://www.milanofinanza.it/talkback/orsietori.asp
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #2 inserito:: Ottobre 21, 2014, 05:32:25 pm »

Dialoghetto morale e materiale alla fine della cena in onore del primo ministro cinese Li Keqiang e dei suoi ministri a Palazzo Barberini. Da una parte Matteo Renzi, pressato dalla imminente riunione notturna per mettere a punto la legge di Stabilità poi presentata mercoledì 15, ma sempre attratto dal dialogo diretto con imprenditori e banchieri; dall'altra vari imprenditori, pubblici e privati, ma in prima fila Patrizio Bertelli di Prada. Quindi, dialoghetto morale e materiale fra un fiorentino e un aretino, tutti e due con la lingua sciolta e la schiettezza prima di tutto.

Renzi. Ohè, Patrizio, come andiamo? (pensando forse alla riduzione del 20% dell'utile di Prada nell'ultimo trimestre).

Bertelli. Caro Matteo, qui se non si cambia l'Italia va a fondo.

R. Il governo ha tolto ogni alibi a voi imprenditori perché torniate a investire e assumere: art. 18, sblocca Italia, una sola camera per legiferare e nella legge di Stabilità tre anni senza contributi da pagare da parte dell'azienda per chi assume a tempo indeterminato...

B. Sì Matteo, ma non basta. È qui, nella zucca, che l'Italia deve cambiare. Vedi, in Cina vanno bene perché sono un popolo pragmatico: se il governo fissa la crescita al 7,5%, la gente spende, se il governo deve scendere al 7%, la gente spende meno... In Italia manca la fiducia e non si spende più. Quindi bisogna che tu non ti fermi... Ce n'è tanta di strada da fare. Ne vuoi una? Noi siamo quotati a Hong Kong. La loro borsa dall'Italia é ancora considerata un mercato black list, che ci crea un sacco di problemi pratici. Se investiamo a Londra non abbiamo problemi, ma se da Londra trasferiamo risorse in Italia, Dio ce la mandi buona...

R. Ma Prada come va nel mondo, per esempio negli Usa?

B. Negli Usa molto bene, come i nuovi negozi di Madrid, Istanbul e come l'Inghilterra...

R. Certo in UK hanno abbassato le tasse, anche se non ho capito bene come... E in Asia?

B. Bene la Corea, idem il Giappone. Vedi, questi sono Paesi organizzati, pragmatici... Con mentalità imprenditoriale...

R. E io ho cercato di far entrare imprenditori al governo (fissando lì, davanti a lui, Andrea Guerra, co-presidente del Business Forum Italia-Cina). Sembrava fossi stato io a creargli problemi in Luxottica, chiedendo ad Andrea di entrare nel governo. Mi pare che i fatti... In ogni caso, anche a lui il governo ha tolto ogni alibi per non impegnarsi nell'esecutivo...


B. Matteo, non importa se fai qualche cazzata: la strada è giusta e bisogna andare avanti su questa...

R. Ah già, tu sei quello che, mi pare a un convegno di un giornale internazionale, disse: con la sinistra non si fa nulla, con la mano sinistra gli uomini possono fare solo una cosa? che non ripeto perché qui ci sono la Boschi, la Mogherini, la Guidi...

B. Si vede che tu sei del Val d'Arno fiorentino...

Ma se c'è da impegnarci, se c'è da mettere la faccia, io ci sono, Matteo...

* * *

Quindi, se Guerra resta ancora imperscrutabile, comunque con l'aria sorniona di chi l'ha vista giusta sulla sua ex azienda, l'aretino Bertelli si spinge a dire che è pronto a metterci la faccia. Se non bastasse, nella sua commossa partecipazione a Porta a Porta, mercoledì 15, per il commiato dalla Ferrari, Luca Montezemolo ha usato parole concilianti verso il presidente del Consiglio, tali da consentire la riapertura di un dialogo offuscato dalla mossa dell'ex sindaco di Firenze di andare a rendere omaggio a Sergio Marchionne a Detroit a pochi giorni dell'apertura di un'inchiesta fiscale su Fiat da parte dell'Europa. Un bel conforto per Renzi, nella settimana appena finita di frenetica attività, fra legge di Stabilità e contatti a 360° con il primo ministro cinese, ormai palesemente amicone e sempre sorridente quando parla con il presidente del Consiglio del Val d'Arno fiorentino. Ma frenetica attività anche per gli incontri diretti con almeno un'altra quindicina di capi di governo asiatici.

Renzi è nato davvero con la camicia: nell'arco di un anno ha potuto o potrà essere protagonista internazionale. È potuto andare in visita ufficiale in Cina, l'11 giugno scorso, alla vigilia di diventare presidente di turno dell'Unione europea, offrendosi quindi al presidente Xi Jinping e al primo ministro Li Keqiang come interlocutore non solo per i fatti italiani ma per tutta l'Europa, e quando è arrivato nella capitale cinese aveva all'occhiello il 41% di voti alle elezioni europee, record di qualsiasi partito della Unione; come non bastasse, da Pechino è tornato con l'appuntamento già fissato per il vertice Asia Europa, per la prima volta in Europa, e per la prima volta quindi a Milano: un'occasione straordinaria, anche se faticosissima per trattare e rafforzare il rapporto non solo con il primo ministro cinese ma anche con Putin, con il capo del governo giapponese, con quello coreano, dei Paesi petroliferi ex Unione Sovietica; ma non è finita, perché proprio durante il vertice milanese ha preso di fatto avvio il pre-Expo, che per sei mesi, dal 1º di maggio 2015, metterà Milano e l'Italia sotto i riflettori di tutto il mondo e in particolare della Cina, che sta realizzando ben tre padiglioni ufficiali e due di singole società.

Per celebrare una sorta di così favorevoli congiunture astrali, Renzi ha voluto stabilire, come ha dichiarato, il record di detassazione nella storia d'Italia attraverso la manovra da 36 miliardi nella legge di Stabilità.

E ha fortissimamente voluto che in quella che fu la Legge finanziaria venisse inserita anche l'ultima idea, emersa non molte settimane fa per il suggerimento del professor Stefano Patriarca, ex Formez, Cisl e Cgil, e cioè la possibilità di avere in busta la quota del Tfr. Il lavoro per trovare la soluzione tecnica a un provvedimento che, su base volontaria, potrà essere scelto da non moltissimi lavoratori, meno affezionati all'idea di quella sorta di risparmio forzoso per il momento della pensione o per momenti di emergenza.

A dare una mano sostanziale per mettere a punto il meccanismo è stato, così come per l'incasso dei crediti delle aziende verso lo Stato, il solido e ricco di esperienza (in senso giuridico) presidente della CdP, Franco Bassanini.

La soluzione trovata consente di non aumentare l'indebitamento delle aziende e di far emergere il cash a tassi veramente ridotti. In estrema sintesi, a pagare il Tfr ai lavoratori che lo chiederanno saranno le banche, che in prima istanza saranno garantite dalle aziende che hanno sui loro conti il Tfr accantonato; il tasso che verrà applicato dalle banche dovrà essere molto basso perché potranno attingere il denaro dalla Bce e perché oltre che dall'azienda il pagamento sarà garantito dal Fondo, giustappunto di garanzia del Tfr presso l'Inps; questo fondo è sempre stato capiente per pagare il Tfr ai lavoratori di aziende fallite o chiuse non in bonis; se il Fondo di garanzia non ce la facesse, potrà essere aumentata di un punto, dallo 0,2 o 0,3% la ritenuta alla fonte, ma in ogni caso la garanzia finale la darà lo Stato, che potrà esso stesso assicurarsi pagando, si calcola, uno 0,10%. Con la garanzia dello Stato scatterà la condizione favorevole, già verificata nell'incasso dei crediti della Pubblica amministrazione, per cui i prestiti (di fatto sono tali) effettuati per l'anticipazione del Tfr non consumeranno capitale delle banche, per il rapporto che deve sempre esserci fra denaro prestato e patrimonio proprio. E la non riduzione di capitale delle banche avviene per una ragione molto semplice: la garanzia dello Stato è, per definizione, sicurezza e certezza, quindi non discutibile anche per uno Stato super indebitato come l'Italia.

Fra lavoratori che ritireranno il Tfr (non moltissimi) da una parte, e dall'altra, di fatto, un aumento della capacità di credito della banca, la cifra che verrà fuori sarà tutt'altro che trascurabile ai fini della circolazione della moneta e delle possibilità di far crescere i consumi. Temi molto caldi anche in Cina.

Nei discorsi ufficiali e nell'intervista che ha concesso a Class Cnbc (canale 507 Sky) e a MF-Milano Finanza (visibile anche nel sito milanofinanza.it), tradotta in testo all'interno di questo giornale, ha fatto un'analisi veramente interessante del momento in cui si trova l'economia cinese il presidente della Bank of China, Tian Guoli. Guoli è un grande banchiere, presidente anche di tutti i banchieri dell'ex Celeste impero, ed è innamorato come pochi dell'Italia. Guoli parla dei rapporti fra le pmi italiane e quelle cinesi e il ruolo che può avere la sua banca nello sviluppo delle relazioni economiche fra i due Paesi, anche attraverso l'adozione del renminbi come moneta di scambio, come stanno già facendo la Francia e la Gran Bretagna. Guoli non ha esitato a indicare che dopo 30 anni di crescita a due cifre era inevitabile che fosse deciso un rallentamento della corsa per aggiustare i problemi di produzione o anche di eccessiva capacità produttiva, di inquinamento e di problematiche sociali e ambientali. La scelta di scendere dal 10 al 7,5% di crescita del pil è stata quindi deliberata con determinazione dal governo. Anche perché la Cina, in base al pil, è già diventata la seconda economia mondiale e secondo le stime della Banca Mondiale elaborate sulla base del potere d'acquisto, il Paese è già al primo posto.

Alcuni economisti pensano che ogni 1% di pil in meno faccia perdere ai cinesi un milione di posti di lavoro: in realtà, l'anno scorso l'attuale governo, pur con la riduzione della crescita, ha creato oltre 10 milioni di posti di lavoro. Come ha fatto? Semplice da spiegare, secondo il presidente della Bank of China: molti lavoratori sono stati impiegati nel terziario, un settore che rispetto agli altri è capace di occupare molte risorse. E, a giudizio di molti, se la crescita rimane stabile la disoccupazione diminuisce. E il governo sta già affrontando di petto il tema dell'inquinamento ambientale, che diventerà fonte di altro sviluppo.

Una lezione per Renzi? Anche con il presidente della più autorevole banca cinese, quinta nel mondo, il presidente del Consiglio ha stabilito un solido rapporto. L'aiuto che Bank of China può dare allo sviluppo dei prodotti italiani in Cina è altissimo anche attraverso il sostegno della piattaforma di e-commerce BtoB, CCIG/Mall, di cui è partner Class Editori, come Tian Guoli spiega nell'intervista. Ma c'è un altro punto su cui è totale il consenso fra Renzi, la Banca di Cina e il primo ministro Li Keqiang: il ruolo decisivo della scuola, della cultura, dell'innovazione. Lo hanno testimoniato con la presenza, l'introduzione dei due primi ministri e la relazione di Tian Guoli al convegno presso il Politecnico di Milano di cui si dà conto anche all'interno di questo numero. «Senza il Rinascimento italiano non ci sarebbe stata la rivoluzione industriale che ha sottratto i popoli alla povertà», ha detto deciso il primo ministro cinese. «Infatti, l'innovazione, prima ancora che dalla tecnologia, è generata dalle idee. Ciao studenti del Politecnico, siete fortunati a studiare qui...». (Riproduzione riservata)

Paolo Panerai

Da - http://www.milanofinanza.it/blog/orsi-e-tori
Registrato
Pagine: [1]
  Stampa  
 
Vai a:  

Powered by MySQL Powered by PHP Powered by SMF 1.1.21 | SMF © 2015, Simple Machines XHTML 1.0 valido! CSS valido!