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Autore Discussione: Il momento delle sanzioni  (Letto 2460 volte)
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« inserito:: Ottobre 20, 2007, 11:53:11 pm »

Il momento delle sanzioni

Ugo Papi


La Birmania sembra essere caduta di nuovo in un assordante silenzio dopo la forte emozione suscitata dalle manifestazioni dei giorni scorsi e la conseguente brutale repressione da parte della giunta militare. La coincidenza degli eventi con l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha amplificato la drammaticità degli eventi e reso abbastanza rapide le reazioni della comunità internazionale.

Anche l’Europa è presto arrivata a decidere nuove sanzioni economiche e l’Italia sta facendo la sua parte concordando con sanzioni che pure colpiscono i nostri imprenditori, soprattutto nel campo dell’export di legname.

Aung San Suu Kyi che ho avuto il privilegio di incontrare due volte negli anni scorsi, ha sempre insistito su questo punto. Il suo popolo vede come un segno di solidarietà le sanzioni internazionali. Questo nuovo silenzio e il disinteresse nel quale la Birmania e il suo popolo può di nuovo cadere, rappresenterebbero un favore insperato per i militari.

Su quel silenzio i dittatori birmani contano da almeno cinquanta anni e nemmeno la sollevazione popolare del 1988 ha potuto fermare l’opera di repressione orwelliana del loro popolo. Secondo attendibili fonti dell’opposizione democratica a rimanere in galera dopo la rivolta popolare sono in migliaia, non 468 come comunicato dai militari nei giorni scorsi. Questa gente marcisce in galera, è torturata e uccisa come avviene da anni per i prigionieri politici. È quindi necessario tenere viva l’attenzione e il livello della pressione internazionale. Ma qui nascono i problemi: la Birmania è oggi sostenuta per ragioni economiche e geopolitiche dalle maggiori potenze dell’area, la Cina e l’India. La prima controlla già l’economia del nord di Myanmar. In alcune province di frontiera la moneta corrente è lo Yuan cinese e i contratti della telefonia mobile si pagano a Pechino, non a Yangon. Mandalay, la seconda città del Paese ha solo alberghi cinesi così come cinesi sono i commerci dell’area. Ma soprattutto la Birmania rappresenta un canale alternativo allo stretto di Malacca per il trasporto delle merci e dell’energia. Il Pacifico è ancora strettamente controllato dall’America e da suoi alleati nell’area e questo può rappresentare per la Cina, un pericolo per il futuro. L’India dopo anni di prudenza ha intensificato le relazioni per bilanciare l’influenza cinese e perché si sente una potenza regionale. Non bisogna dimenticare che fino alla seconda guerra mondiale la Birmania faceva parte dell’Impero indiano e l’India aveva relazioni fortissime con il Paese delle pagode. La stessa eroina birmana, Aung San Suu Kyi è cresciuta in esilio in India con la madre dopo l’assassinio del padre, leader dell’indipendenza, nel 1947.

Nei recenti colloqui avuti in India dal ministro degli Esteri D’Alema con quel governo, emerge un analisi fondata sulla realpolitik. Gli indiani sanno di essere l’unico Paese dell’area ad essere una democrazia e pur auspicando cambiamenti preferiscono mantenere relazioni con tutti i loro vicini, nel loro interesse nazionale. Comprensibile forse, ma meno giustificabile. Soprattutto da parte di una opinione pubblica mondiale che ha visto uccidere e massacrare in diretta gli inermi monaci buddisti.

Le ragioni che hanno innescato la protesta sono state materiali, l’aumento smisurato del prezzo del carburante e del riso. Per un popolo ridotto alla fame è stato veramente troppo. La protesta ha coinvolto i monasteri. Solo chi non conosce la Birmania e le comunità monastiche del sud est asiatico può stupirsi del loro impegno sociale e della loro determinazione. Al contrario di quel che si pensa i monasteri birmani non sono solo luoghi di ricerca interiore e raramente sono isolati dal contesto sociale. I giovani birmani ricevono nei monasteri un educazione che altrimenti non avrebbero mai. Imparano l’inglese e dopo alcuni anni per la maggior parte tornano laici e fanno la loro vita. Dopo la chiusura delle università, dopo i moti giovanili del 1988 sedati con altro sangue, il regime teme la cultura ma non può andare contro il buddismo. Per questo le manifestazioni hanno rappresentato un drammatico campanello d’allarme. È evidente che i birmani non ne possono più della mancanza di libertà, del lavoro forzato, della pulizia etnica delle minoranze e della prigione per chi protesta. Che vogliono la libertà lo hanno già dimostrato con le libere elezioni del 1990, vinte dalla Lega nazionale per la Democrazia di Aung San Suu Kyi, nonostante fosse agli arresti domiciliari da due anni.

Allora ben vengano nuove sanzioni, sapendo che la loro efficacia sarà comunque limitata, ma rappresenteranno comunque un forte segnale politico. D’altronde è la stessa opposizione birmana a chiederle a gran voce.

Più efficace sarà non dimenticarsi di sollevare il problema birmano con i Paesi che difendono la dittatura o sono più prudenti. Che si tratti della Cina o dell’India, della Russia o dei Paesi dell’Asean che pure hanno lanciato netti segnali di protesta. La formula della “non ingerenza negli affari interni di un altro Stato” è vecchia, sbagliata e non più utilizzabile da parte di chi ancora la usa come alibi per copri-re nefandezze e violazioni dei diritti. Il peso più grande di questa lotta ricade però sul coraggioso popolo birmano. Solo dall’interno può arrivare quella spallata ad un regime feroce e violento che non si ferma davanti a nulla. È a quel popolo che deve continuare ad arrivare tutta la nostra solidarietà.

Nelle ovattate sedi della politica internazionale è bene non dimenticare le immagini di quel monaco trucidato e riverso nel fiume Irawaddy. Quando si parla di Birmania è di quel monaco che stiamo parlando

Consigliere del ministro degli Esteri





Pubblicato il: 20.10.07
Modificato il: 20.10.07 alle ore 8.39   
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