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« inserito:: Ottobre 20, 2007, 06:31:25 pm » |
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Comitive di gitanti da tutta Italia che s’ingozzano di patatine fritte e innamorati che approfittano del “panorama” per baciarsi...
Sulla diga trasformata in attrazione
Simonetta Zanetti
Alcune lapidi e un sopravvissuto ricordano la strage.
Ma questo è un cimitero profanato Uno spettacolo da tutto esaurito. E’ la genesi della tragedia del Vajont nella mente di chi il 9 ottobre del ’63 non c’era o era troppo giovane per angosciarsi. Una sorta di circo mediatico casereccio costruito sui monologhi di Marco Paolini e il film di Renzo Martinelli. Volevano denunciare una delle peggiori pagine della storia italiana e hanno finito per fare da involontaria cassa di risonanza a un evento catastrofico ripescato da un passato in bianco e nero che attira pubblico al pari di The day after tomorrow o Deep impact. Un genere che fa botteghino, ora lo sanno anche a Erto.
Un trentenne in gita con la compagna si avvicina alla guida, chiede spiegazioni. Ammette: «Non avevo mai sentito parlare del Vajont, prima di vedere lo spettacolo di Paolini. Mi ha incuriosito». Complimenti. L’anziano incassa, spiega, ricorda, racconta che in Parlamento si parla di trasformare la zona in patrimonio dell’Unesco, di fare del 9 ottobre la giornata della memoria dei disastri industriali. Sì, se ne parla ancora dopo 44 anni, guarda caso sempre a ridosso dell’anniversario. Del resto per gran parte dei post ’60 la sinfonia non è molto diversa: questa è la generazione dell’11 settembre. E la frana che ha provocato quasi 2000 vittime è un ritratto sfocato di malgoverno e corruzione, l’ennesima versione delle prevaricazioni sulla povera gente, la vergogna dell’immobilismo. Ma soprattutto una catastrofe di cui ancora c’è traccia.
Sulla diga si arriva con il pullman, intere comitive fin giù dal Lazio «’anvedi quanto è alta ’sta cosa», o alla spicciolata, tutta la famiglia in gita sul luogo della tragedia, un paradiso per i motociclisti che rombano sfiorando i visitatori. Cinque euro per il biglietto, quaranta minuti di visita guidata con il superstite chiamato a ripercorrere dieci-cento volte, instancabilmente, la storia della diga e della frana che gli ha spazzato via un pezzo di vita. In piedi su un masso, di fronte al santuario, sollecito nel rispondere anche alle domande più ovvie di chi vuol far colpo sulla platea. Ma forse è vero che non si può morire più di una volta. A due passi, in bilico su un masso che guarda il vuoto, due fidanzatini si sbaciucchiano, nemmeno fosse il luogo più romantico del mondo. Pressoché sotto i loro sederi, le parole poste a memoria di «voi travolti dalla morte sul posto di lavoro». I due non se ne curano, a travolgere loro è l’amore.
Si accede alla diga fino alle 15, ma a mezzogiorno e mezzo i biglietti sono già esauriti. Non per niente si parla DI migliaia di visite in poche settimane. Chi aspetta intanto si mangia un panino, ma nel chioschetto vicino c’è anche la pizza. Ciascuno inganna il tempo come preferisce, acquistando il libro - c’è anche quello fotografico - seguire il percorso guidato con il telefonino - solo per possessori di blue tooth - o sgranocchiando una vaschetta di patatine fumanti, mentre i bimbi si rincorrono e Fido si sgranchisce le zampe sul Toc franato, cercando un po’ di pace per far pipì. Forse la ressa è davvero tanta anche per lui, che almeno non è costretto a infilarsi in un bagno chimico che sa di peste. «E’ una cosa vergognosa...» commenta una signora.
Si fa coda per tutto: per il biglietto - se ce ne sono ancora - per lo spuntino e, ovviamente, per accedere alla diga, stretti tra chi va e chi viene, a sinistra la montagna traditrice, a destra, tra le gole, Longarone. Ma costeggiano la strada lungo la galleria che riporta a valle è possibile ammirare un altro spettacolo. Qui una ringhiera separa l’asfalto dallo strapiombo: basta un balzo per essere dall’altra parte. Un rischio che vale la pena correre per immortalare la fidanzata capelli al vento sul telefonino. Una scenografia che piace anche alle comitive sorridenti in posa come se da un momento all’altro alle loro spalle dovesse spuntare Topolino, neanche fossimo a Disneyland. E’ memoria, questa? E’ conoscenza?
Al cancello, posto su uno slargo pericoloso che affaccia sulla strada, costeggiato dalle lapidi, il primo ingresso della diga. Si legge di «Erminio Bertolin ghermito sul lavoro dall’onda della morte»; un passo più in là, tra i fiori, si ricorda «Corona Luigi Stock tragicamente deceduto nel lavoro della diga del Vajont». E per un momento, per la prima volta, sembra di stare davvero in un cimitero. Un cimitero profanato.
(19 ottobre 2007)
da espresso.repubblica.it
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