LEADER
Capo del governo, leader di partito
Normalità europea, eccezione italianaDi Ricardo Franco Levi
È utile che il capo del governo sia anche e contemporaneamente leader del proprio partito? O è meglio che i due incarichi siano separati? Di questo, e per la verità non solo di questo, si sta discutendo all’interno del Partito democratico, con esponenti di primissimo piano come Pier Luigi Bersani e Massimo d’Alema che apertamente chiedono al presidente del Consiglio Matteo Renzi di concentrarsi unicamente sul proprio ruolo di governo lasciando ad altri la guida del partito.
La questione ha un rilievo che va ben al di là della disputa tra maggioranza e minoranza del Pd, tanto che può essere utile proiettarla sul più vasto orizzonte europeo per vedere quali siano gli assetti prevalenti nelle democrazie nostre vicine.
Ebbene, la prassi è che il leader del partito che, solo o in coalizione con altre forze, vince le elezioni diventi capo del governo conservando la guida del partito.
È stato ed è così per Angela Merkel, per David Cameron, per Mariano Rajoy e per quasi tutti i capi di governo europei. Non per François Hollande, ma questo si spiega col fatto che egli ha conquistato la carica non di primo ministro ma di capo dello Stato e a quel punto, come presidente di tutti i francesi, è stato tenuto ad abbandonare la guida del suo partito.
Che il leader del partito che abbia vinto le elezioni diventi capo dell’esecutivo senza cedere la sua posizione di comando alla testa della propria forza politica non deve stupire. Nelle democrazie compiute, verrebbe da dire nei Paesi normali, i partiti, persino quelli più piccoli, sono per loro natura «partiti di governo», nel senso che hanno come obiettivo la conquista del potere quale strumento per la realizzazione dei propri programmi.
In questa prospettiva, essi scelgono i propri leader non per la semplice attitudine ad essere il primo degli iscritti ma in funzione della capacità di condurli alla vittoria e, quindi, di guidare il Paese. Con il «duplice cappello» di capo dell’esecutivo e del partito, il leader vittorioso è simbolo e garanzia del successo e della promozione della linea politica del partito che, con i propri voti e i propri eletti, diventa naturalmente il «partito del premier», assicurandogli la forza e il tempo necessari per realizzare, spesso nell’arco di più di una legislatura, il programma presentato agli elettori e da loro premiato.
L’eccezione a questa prassi si ebbe nella Germania del 1998 quando i socialisti della Spd si presentarono alle elezioni con Oskar Lafontaine, esponente di punta della propria ala sinistra, presidente del partito e Gerhard Schröder, portatore di una politica più moderata, candidato cancelliere. Dopo la vittoria, che pose fine al lungo regno di Helmut Kohl, il contrasto tra i due non tardò ad esplodere con il conseguente abbandono di tutte le cariche di governo (dove era ministro delle Finanze) e di partito da parte di Lafontaine che, pochi anni dopo, sarebbe uscito dalla Spd per fondare una forza dichiaratamente di sinistra.
Rivolte di partito determinate non da una sconfitta elettorale ma da un normale esaurimento della leadership , determinarono, peraltro, nella Gran Bretagna culla della democrazia, la fine della carriera politica di due premier potentissimi come Margaret Thatcher, prima, e Tony Blair, poi. A dimostrazione che, per quanto il sostegno al premier e alla sua politica diventi elemento essenziale della vita del partito vittorioso e, in particolare, della sua rappresentanza parlamentare, questo, nella concreta esperienza delle democrazie europee, non comporti necessariamente e all’infinito lo spegnimento del dibattito interno.
Rifiutare l’accoppiata premier-segretario è spia di una scelta a favore di un partito non pienamente «di governo» ma, piuttosto e ancora, «di lotta e di governo». Di un partito, cioè, che, pur di fronte a un governo espressione della propria affermazione elettorale, ritiene comunque di dover mantenere spazi di manovra sufficienti per dare voce a sensibilità, interessi, componenti sociali che consideri non sufficientemente rappresentati nell’azione dell’esecutivo e per promuovere, quindi, misure e strategie diverse e, se necessario, alternative a quelle sostenute dal governo.
Tornando al punto di partenza, cioè al dibattito attualmente in corso in seno al Pd, non si può evitare di rilevare che questa posizione contrasta con la logica delle primarie, parte costitutiva, come spesso si dice, del DNA del partito. Primarie aperte a tutti gli elettori, con milioni di votanti, si giustificano ed hanno senso perché la posta in gioco è il ruolo di candidato premier. Se si trattasse solo di eleggere il segretario del partito, basterebbero e si dovrebbero chiamare al voto solo gli iscritti.
Del resto, l’errore che, solo pochi mesi fa, finì per costare il governo a Enrico Letta non fu proprio quello di non presentarsi alle primarie, pensando di poter tenere l’esecutivo e il proprio ruolo di premier al di fuori della contesa, e di non comprendere, o accettare, che in palio, indissolubilmente legata alla carica di segretario del partito, c’era la guida del governo?
E, andando un poco più indietro negli anni, non è forse vero che una fragilità di fondo dei due governi di Romano Prodi fu il fatto che egli era solo il premier e non anche il capo del suo partito?
14 settembre 2014 | 17:10
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