L’intervista
«A Leopolda Serra contro i sindacati Tre giorni dopo ecco i manganelli»
Zoggia, minoranza dem: «È inevitabile pensare a strane coincidenze. Siamo più di cento alla Camera. No a scissioni, il partito si può riscalare»
di Fabrizio Roncone
ROMA «Dov’è Davide Zoggia?» Si volta un commesso. «Eccolo laggiù...». I deputati renziani controllano il territorio. Non sfugge la scena di un bersaniano duro e puro che va incontro a un cronista salutandolo con evidente cordialità. Ma Davide Zoggia se ne infischia, dei renziani. «Abbiamo ancora facoltà di rilasciare interviste, sa?». Mentre camminiamo verso il corridoio che sta accanto alla buvette, Zoggia dice con un filo di voce: «Qui alla Camera siamo tra i 70 e gli 80, e dentro ci metto i dalemiani, noi che stiamo con Pier Luigi e quelli di Cesare Damiano. A questi bisogna poi aggiungere i 20 di Cuperlo e i civatiani, che sono 8, forse 10... E anche al Senato, i numeri di quella che sui giornali chiamate “minoranza”, non sono male: perché lì, per dire, faccia conto che siamo già una trentina». Ci sediamo su un divanetto. Dai finestroni entra un riverbero di luce fioca. Atmosfera perfetta per parlare di scissione nel Pd . «Poi le dico cosa penso della scissione. Subito voglio invece dirle che non mi piace un governo che lascia manganellare operai e dirigenti sindacali, com’è successo poco fa, in piazza Indipendenza. Certo non conosco eventuali provocazioni, non c’ero... però è inevitabile pensare a certe coincidenze...».
Può essere più preciso?
«No, dico: alla Leopolda, Davide Serra, il finanziere vip amico di Renzi, prende la parola e dice cose gravi e inaccettabili sul sindacato e sul diritto allo sciopero e poi, tre giorni dopo, che succede? Succede che i poliziotti vedono gli operai, abbassano la visiera del casco e caricano...».
Continui.
«Renzi parla sempre di riforme. Ma non è che le riforme poi puoi andarle a fare a destra, con una cultura di destra. Da quelle parti puoi eventualmente farci un passaggio la domenica pomeriggio, quando decidi di andare dalla D’Urso, su Canale 5, a razzolare un po’ di consenso nazionalpopolare e, appunto, magari anche destrorso. No, ecco: questo tanto per precisare...».
Torniamo all’ipotesi di scissione. Lei prima ricordava a memoria tutti i numeri.
«La prima cosa da dire è che il disagio non c’è tanto qui, in Parlamento, quanto piuttosto sul territorio o nelle piazze. Pensi a piazza San Giovanni: il 90% di quelli che erano lì hanno votato per il Pd. Come si sono sentiti quando hanno ascoltato il loro segretario che parlava d’un “partito di reduci”?».
Renzi, negli ultimi tempi, con voi della minoranza è assai ruvido.
«Troppo ruvido... questa escalation di perfidie e provocazioni, questo continuo forzare la mano è così inspiegabile da risultare sospetto. Ha tutto dalla sua parte: un bel 40,8% delle elezioni europee ancora caldo, la concreta prospettiva di poter governare fino al 2018, un’opposizione praticamente inesistente e però, che fa? Appena può sbeffeggia la minoranza del suo partito. Perché?».
Lo dica lei: perché?
«Vuol far cadere il governo o, piuttosto, cambiare e per sempre il Dna del Pd? I sospetti sono legittimi».
Per capirci: lei pensa che Renzi vi provochi sperando di vedervi andar via?
«Non lo so, può darsi ci sia un progettino di questo tipo. Che, però, va a sbattere contro la nostra cultura politica. Perché noi non siamo abituati a fondare partitini del 10%, noi abbiamo fondato il Pd. E al Pd vogliamo bene e qui dentro, perciò, restiamo. Del resto fummo proprio noi, fu Bersani, nel 2012, a rendere “scalabile” il partito, quando, facendo un favore a Renzi, decise che potesse diventare premier anche chi non era segretario... Beh, adesso, piano piano, lottando da dentro, contiamo di poterlo riscalare noi, fino al prossimo congresso, il partito».
La vedo dura.
«Abbiamo, l’ho spiegato, spinte contrarie e pericolose: Renzi che ci insulta da sopra e i militanti che ci premono, indignati, da sotto. D’Alema e Bersani, che spero Renzi non s’offenda se definisco “padri nobili”, se ne sono accorti e non casualmente invitano alla calma e al confronto politico».
Potete cimentarvi subito: il Jobs act è alla Camera e...
«E le dico subito che se al Senato abbiamo votato una cartellina praticamente vuota, qui le cose, sono in grado di garantirglielo, andranno diversamente. Noi pretendiamo...».
Pretendere è un verbo che a Renzi fa venire le bolle.
«Noi pretendiamo che quel po’ che c’è, dentro il Jobs act, possa essere modificabile ed integrabile, almeno con ciò che fu deliberato dalla direzione nazionale del partito. In caso contrario...».
Voterete contro?
«Ovvio».
Certe interviste sembrano non finire mai e così, alla buvette, davanti a due pessimi caffé, siamo finiti a parlare inevitabilmente del Renzi personaggio. «Quando io ero presidente della Provincia di Venezia, lui guidava quella di Firenze: beh, mi creda, già all’epoca era uno che pensava in grande. Determinato, rapace, mai stanco. Ora non so dirle se tenesse nel mirino Palazzo Chigi: però, giuro, non mi stupirei che...».
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30 ottobre 2014 | 10:25
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