Pensioni
Un’idea di vecchiaia ormai superata
Di MAURIZIO FERRERA
Mentre in Parlamento si consuma l’ennesimo tiro alla fune sulle pensioni, può essere utile proporre qualche riflessione sui presupposti di quella idea di «vecchiaia» che abbiamo ereditato dal Novecento e che ancora oggi è largamente radicata. «Pensione» deriva dal verbo latino pendere (pesare) e in epoca tardo-romana assunse il significato di «pagamento a cadenza regolare». All’inizio del secolo scorso il termine si diffuse in molte lingue europee quando lo Stato iniziò a corrispondere assegni periodici, appunto, a chi non era più in grado di mantenersi con il proprio lavoro. La parola vecchiaia acquistò un’accezione giuridica e diventò sinonimo di una fase di «spegnimento» fisico ed esistenziale, meritevole di essere tutelata dallo stato. Tale periodo cominciava intorno ai 65 o 70 anni (la soglia legale per la pensione), era breve e riservato a una minoranza di persone che riusciva a sopravvivere fino a quella età.
Nel corso del Novecento si compì una lenta rivoluzione: la vita delle persone divenne più lunga e più sana; l’età di «ritiro dal lavoro» si abbassò fino a raggiungere i 60 o 55 anni; gli assegni divennero più consistenti e più generosi rispetto ai contributi versati. Nacque così il pensionamento come fase distinta del ciclo di vita per la stragrande maggioranza della popolazione: un lungo periodo di «quiescenza» o «collocamento a riposo». Negli anni Cinquanta, in Italia la speranza di vita era pari a 67 anni; l’età effettiva di uscita dal lavoro era pari a 66 (maschi). Nel 2010 la speranza di vita era salita oltre 80 anni, l’età effettiva di uscita era scesa a 58 anni. Si tratta di dati medi, ovviamente. Non tutti fruiscono della pensione per 20 anni o più, per molti il trattamento è basso, alcuni arrivano a sessant’anni con seri problemi di salute, magari usurati da lavori pesanti. Una quota sempre più ampia di persone ha però oggi la possibilità di non dover più dipendere (interamente) dal proprio lavoro nella cosiddetta terza età e di disporre più liberamente del proprio tempo.
Dobbiamo considerare questi sviluppi come una storica conquista sociale? Certamente. Ma è lecito anche porsi due grandi interrogativi. Il primo è ben noto: la conquista è finanziariamente sostenibile? La risposta è: fino a un certo punto. In questo mondo non ci sono «pasti gratis», ogni mese lo Stato italiano deve pagare più di 17 milioni di pensioni e lo può fare solo prelevando contributi dai redditi dei 22 milioni di occupati. Senza le riforme che sono già state fatte, fra qualche anno saremmo arrivati al punto che ciascun lavoratore italiano avrebbe dovuto mantenere almeno un pensionato.
Dobbiamo anche chiederci se un’idea di vecchiaia come periodo di «quiescenza» che inizia d’un colpo e si protrae per molti anni sia non solo sostenibile, ma anche socialmente desiderabile. Molti di quei 17 milioni hanno esperienze e competenze che è un peccato non valorizzare, anche a tempo parziale e in settori diversi. Invece di concentrare tutta la «quiescenza» nell’ultima fase della vita, non sarebbe poi preferibile disporre di più reddito e soprattutto di più tempo in alcuni snodi cruciali antecedenti la pensione? Ad esempio quando nasce un figlio, quando si desiderano acquisire competenze per un nuovo lavoro o semplicemente si vuole tornare a studiare per un po’? Un filosofo francese, Alain Supiot, ha proposto di riorganizzare il welfare introducendo nuovi «diritti sociali di prelievo»: chi desidera può ottenere tempo e/o reddito a valere su un conto personale fruibile lungo tutto l’arco della vita.
I Paesi nordici hanno già avviato sperimentazioni in questa direzione. L’Italia si trova in una situazione molto diversa e non possiamo certo permetterci fughe in avanti. È però utile iniziare a riflettere e discutere di strategie. Valutando non solo i pregi ma anche i difetti delle conquiste passate e progettando, con un po’ di ambizione, quelle per il futuro.
5 agosto 2014 | 07:41
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