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Autore Discussione: Danilo TAINO  (Letto 13884 volte)
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« inserito:: Agosto 18, 2014, 11:25:24 am »

COMPETITIVItà

I dati dell’eurosclerosi: il 7% della popolazione “brucia” 50% del welfare
Corrono solo le economie dei Paesi emergenti e degli Stati Uniti. Anche la Germania, che ha un’economia forte, competitiva ma che non si può definire dinamica

Di Danilo Taino

Da anni, Angela Merkel tiene in tasca un foglietto con tre statistiche che cita in continuazione. Le permettono di inquadrare la posizione dell’Europa nel mondo: il continente ha il 7% della popolazione, il 25% del Prodotto lordo, il 50% delle spese per Welfare State. Ieri, forse, la cancelliera ha dato un’altra occhiata ai tre numeri, quando ha saputo che nel secondo trimestre dell’anno l’economia dell’Eurozona è tornata a essere stagnante. A differenza di altre volte, però, le conseguenze dovrà almeno in parte trarle non solo per i partner europei ma per la stessa Germania, il cui Pil si è ristretto dello 0,2%. È che, dal 2008 e ancora di più dal 2010, l’Europa ha vissuto nell’emergenza, è passata da interventi di salvataggio a nuovi vincoli di bilancio senza soluzione di continuità, con l’obiettivo di non fare crollare la moneta unica. Inevitabile: ma i vecchi mali di cui si discuteva prima, la famosa eurosclerosi, sono scivolati in secondo o in terzo piano. Restano però ancora lì: in buona parte anche in Germania, che è un’economia forte, competitiva ma che non si può definire dinamica e sicura del futuro in tutti i settori. Il dato di fatto è che quella del Vecchio Continente è oggi l’unica importante economia del pianeta (forse assieme a quella giapponese) a non crescere: immagine di un’area in perdita continua di peso di fronte alla potente e dinamica economia americana e a quelle emergenti.

La fotografia della stagnazione resa pubblica ieri da Eurostat ha già fatto dire a molti che alla sua origine ci sono le politiche di austerità volute da Berlino e Bruxelles negli anni della crisi. Ma, dal momento che molto difficilmente il «Fiscal Compact» europeo sarà rimesso in discussione, è forse meglio focalizzare l’attenzione proprio sull’eurosclerosi persistente, sulla storia raccontata dalle tre percentuali di Frau Merkel. La situazione si può riassumere così: la popolazione europea tende ad avere un peso sempre minore rispetto a quella mondiale perché gli europei fanno decisamente pochi figli (Germania e Italia sono i casi più acuti); la stagnazione farà diminuire, dal 25% di oggi, anche la quota di Pil prodotto; e, chiaramente, la generosità inefficiente del Welfare State europeo (il 50% delle spese mondiali per il 7% della popolazione) non può essere sostenuta ed è un elemento che pesa sulla competitività (i Paesi emergenti tendono ad aumentare la spesa per la sicurezza sociale, ma non illudiamoci che lo facciano a scapito della loro capacità concorrenziale). Un circolo vizioso. Nel 2000, Bruxelles lanciò l’Agenda di Lisbona: interventi per fare della Ue «l’economia della conoscenza più competitiva e dinamica del mondo» entro il 2010. Un fallimento. Ora la questione si ripropone in termini probabilmente meno ambiziosi ma più urgenti. Cosa si tratta di fare è noto.

L’Ocse ha elaborato riforme finalizzate a migliorare la competitività di ogni Paese. E, fatto interessante, l’Europa ha in casa i modelli di riforma più di successo, quelli applicati dai Paesi nordici che nei decenni scorsi sono usciti da una profonda apatia. Con scelte coraggiose che hanno abbassato le tasse e ridotto la spesa pubblica senza massacrare, anzi spesso migliorandola, la politica sociale.

La Svezia, per dire, nel 1993 aveva una spesa pubblica pari al 67% del Pil: da allora l’ha ridotta di quasi venti punti ma mantiene un sistema di protezione elevato perché ha fatto riforme serie, per esempio nell’istruzione ha introdotto il sistema dei voucher universali che ha messo in concorrenza scuole pubbliche e private. La flexsecurity del mercato del lavoro danese è diventata un esempio. Non che i Nordici siano necessariamente modelli esportabili: dicono però che le riforme strutturali si possono fare. Vale anche per la Germania.

Il presidente della Banca centrale europea Mario Draghi ha differenziato le difficoltà di crescita tedesche, «tecniche» dovute per esempio alla crisi in Ucraina, da quelle «strutturali» di Italia e Francia. Ed è vero che Berlino ha riformato il mercato del lavoro e ha una struttura dei salari che si adatta bene al ciclo economico. È però anche vero che ha un settore dei servizi ancora fortemente regolato, dagli orari dei negozi alle professioni. E che il governo di Grosse Koalition sta rimangiandosi alcune riforme, ad esempio con l’abbassamento (parziale) dell’età pensionabile. I tre numeri del foglietto di Frau Merkel, invece, dicono che, per prosperare, oggi occorre essere dinamici, flessibili, capaci di creare quella fiducia nel futuro senza la quale la gente fa pochi figli e si accontenta di un Welfare State che sarà sempre più difficile finanziare. Altrimenti è la vecchia eurosclerosi, che ieri si è ripresentata con la faccia della stagnazione, senza risparmiare nessuno.

16 agosto 2014 | 09:56
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DA - http://www.corriere.it/economia/14_agosto_15/i-dati-dell-eurosclerosi-7percento-popolazione-brucia-50percento-welfare-3f349a8e-24b8-11e4-a121-b5affdf40fda.shtml
« Ultima modifica: Settembre 06, 2014, 05:07:42 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #1 inserito:: Settembre 06, 2014, 05:08:17 pm »

Forza e limiti della Banca centrale
Ma più di così sarà difficile

Di DANILO TAINO

Ieri sera, un importante banchiere svizzero diceva che Matteo Renzi è un ragazzo fortunato. Le misure di politica monetaria annunciate da Mario Draghi, in effetti, sono il massimo che ci si potesse aspettare: anzi, vanno al di là delle aspettative della gran parte degli economisti. Attraverso misure convenzionali e non convenzionali - cioè ordinarie e straordinarie - e anche dividendosi al proprio interno, la Banca centrale europea ha ridotto al minimo possibile i tassi d’interesse; si prepara a comprare debiti degli operatori economici (raccolti in pacchetti) per liberarne i bilanci e spingerli a chiedere credito; fornirà denaro alle banche a costi che più bassi non potranno mai essere in modo che li prestino a imprese e famiglie. È lo stimolo monetario più poderoso che i Paesi dell’Eurozona abbiano mai avuto: quel Quantitative Easing (allentamento monetario) teso a spingere la crescita, a creare inflazione e a indebolire il cambio dell’euro.

Renzi è un ragazzo fortunato nel senso che nessun presidente del Consiglio ha mai avuto un aiuto del genere dalla Bce. Questo però significa che non potrà chiedere più nulla a Draghi: il governatore è arrivato al limite estremo (salvo un difficile, eventuale programma di acquisto di titoli di Stato) a cui poteva arrivare. D’ora in poi, tutto è nelle mani dei governi. E, anche da questo punto di vista, Draghi è stato esplicito nel chiarire il suo pensiero su cosa occorre fare, pensiero in una certa misura distorto dalle letture che del suo discorso al seminario dei banchieri di Jackson Hole (Wyoming), a fine agosto, avevano dato alcuni media (ad esempio il Financial Times ) e alcuni leader europei (ad esempio il ministro delle Finanze tedesco Wolfgang Schäuble).

Il governatore ieri ha chiarito ancora una volta che dei tre strumenti per rafforzare la crescita - politica monetaria, politica di bilancio, riforme strutturali finalizzate a liberare l’offerta - «il primo e prioritario» è quello delle riforme strutturali. Senza un’economia efficiente, ogni stimolo finisce nella sabbia. In più, ha precisato di non avere mai messo in discussione il Patto di stabilità europeo, che anzi ritiene «l’àncora per la fiducia» economica. Le flessibilità di cui ha parlato - ha detto - sono interne al Patto, non ne devono «danneggiare l’essenza» e, affermazione non secondaria, ha spiegato che nella politica di bilancio il taglio delle tasse stimola (sempre mantenendo i conti in ordine) l’economia più di quanto non faccia l’aumento della spesa pubblica. «Il punto chiave - ha ribadito - sono le riforme strutturali», che devono essere «ambiziose, importanti e forti». Inoltre, ha voluto fare un’aggiunta che va inevitabilmente letta come indirizzata all’Italia: dal momento che le basse aspettative sul futuro e sulle prospettive dell’economia limitano le possibilità di ripresa, sarebbe bene recuperare la fiducia con «prima una discussione molto seria sulle riforme strutturali e dopo sulla flessibilità».

Draghi e la Bce hanno dunque preso tutte le decisioni di politica monetaria possibili. Ora, le scelte cadono sui governi nazionali. In Italia, significa che Renzi e il governo devono realizzare riforme economiche vere e serie; almeno una, ad esempio quella del mercato del lavoro, in fretta, prima del vertice europeo sulla crescita del 7 ottobre. Non può essere come nella canzone di Jovanotti, dove al «ragazzo fortunato» di dieci cose fatte (o dette) ne è «riuscita mezza».

@danilotaino
5 settembre 2014 | 08:21
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_settembre_05/forza-limiti-banca-centrale-ma-piu-cosi-sara-difficile-de8e00a8-34bb-11e4-8bde-13a5c0a12f77.shtml
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« Risposta #2 inserito:: Settembre 06, 2014, 05:56:21 pm »

Dopo il malore A LATORRE
Marò, non si può più perdere tempo
La scelta dell’arbitrato è vicina
Alla Farnesina serve continuità per il dopo Mogherini

Di Danilo Taino

La storia e la cronaca non hanno i tempi della politica e della burocrazia. Spesso accelerano e sorprendono. Nella notte tra domenica e lunedì, nell’ambasciata italiana di New Delhi, si sono prese carico della vicenda dei due marò. Nella forma drammatica dell’ischemia di Massimiliano Latorre, hanno introdotto una nuova dinamica nel caso dei due pescatori indiani uccisi il 15 febbraio 2012, della cui morte Latorre è accusato assieme al commilitone Salvatore Girone. L’urgenza di prendere iniziative per portare al più presto i due fucilieri di Marina fuori dall’India a questo punto diventa pressante.

Il ministro della Difesa Roberta Pinotti ha detto che la vicenda è una priorità «ancora più oggi alla luce di quanto avvenuto e della situazione di difficoltà che si è creata». Si tratta ora di stabilire come la vicenda di domenica notte cambi il quadro di un caso che si trascina da oltre due anni e mezzo senza che i due militari abbiano avuto un giusto processo, nonostante le assicurazioni prodotte dalle autorità indiane.

Al momento, gli elementi importanti che la crisi di Latorre mette in movimento sembrano essere due. Il primo è l’accelerazione che può prendere il contenzioso tra Roma e Delhi sulla vicenda. L’Italia rifiuta la giurisdizione indiana, sia perché ritiene che quel 15 febbraio i marò fossero in missione ufficiale, coperti dall’immunità data dalla loro funzione e quindi da processare in Italia o in un tribunale terzo, sia perché la giustizia indiana ha dimostrato di non essere in grado di istruire un processo capace di dare garanzie di imparzialità e di rapidità. L’ultima volta nell’autunno scorso, aveva assicurato che una soluzione sarebbe stata «fast and fair», rapida e giusta. Da allora, niente è successo. Ora, il malore di Latorre può essere considerato - anche se gli indiani potrebbero contestare questa lettura - il risultato di uno stress cronico provocato dalla situazione non solo di pseudo-cattività dei due militari (obbligati a risiedere a Delhi, nell’ambasciata italiana) ma anche di quotidiana incertezza sul loro futuro.

Si tratta di una tesi forte che può essere messa sul tavolo del governo di Narendra Modi per forzarlo ad aprire un canale di colloquio diplomatico che il primo ministro indiano finora non ha escluso ma che nemmeno ha attivato. Soprattutto, la condizione di grave disagio dei due fucilieri - va ricordato anche il messaggio video altamente emotivo prodotto da Girone lo scorso 2 giugno - può essere un’argomentazione decisiva quando l’Italia dovesse decidere, a questo punto in tempi decisamente brevi, di ricorrere a un arbitrato internazionale sulla base dell’Annex 7 dell’Unclos, la Convenzione delle Nazioni Unite sulla legge del mare. Il quale Annex 7 contempla anche l’eventualità di misure provvisorie determinate da situazioni particolari, come potrebbe essere lo stato di stress continuo dei due fucilieri.


Una misura provvisoria potrebbe essere quella, decisa da una corte internazionale, di permettere a Latorre e Girone di lasciare l’India per andare in un Paese terzo in attesa del processo. Questa ipotesi di ricorso all’arbitrato è da sempre sul tavolo: ora diventa di attualità e paradossalmente ha una maggiore forza giuridica.

La seconda dinamica importante messa in moto dal malore di Latorre riguarda la scelta del ministro che dovrà sostituire Federica Mogherini agli Esteri quando questa assumerà la funzione di Alto rappresentante della politica estera della Ue. Essendo la questione marò uno degli elementi centrali della politica estera italiana dei prossimi anni, sul quale si determinerà una parte consistente della reputazione e della credibilità internazionali del Paese, sembra naturale che il prossimo ministro degli Esteri debba essere individuato e indicato in tempi brevi e che sia qualcuno che ha una forte sensibilità rispetto alla vicenda, in termini di conoscenza del dossier diplomatico e giuridico. La continuità d’azione, in questo caso, può rivelarsi decisiva. L’angosciosa notte di domenica costringe politici e funzionari a non perdere più un minuto.

@danilotaino
2 settembre 2014 | 07:59
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Da - http://www.corriere.it/esteri/14_settembre_02/maro-non-si-puo-piu-perdere-tempo-scelta-dell-arbitrato-vicina-2d921954-3265-11e4-8a37-758af3cd4875.shtml
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« Risposta #3 inserito:: Settembre 14, 2014, 06:31:56 pm »

Un milione di romeni
Record in Italia
Sono 16 le comunità di stranieri con più di centomila componenti
Di Danilo Taino

Per la prima volta nella storia, l’Italia ha una comunità nazionale di immigrati ufficiali che supera il milione di unità: sono i romeni, un milione e diecimila nel 2013 . Una crescita straordinaria: nel 2010 erano 850 mila , nel 2000 solo 120 mila e nel 1990 circa 40 mila . Si tratta - secondo la classificazione che ne fa la United Nations Population Division - di persone nate in Romania e che vivono in Italia da un anno o più. Il dato è rilevante praticamente da ogni punto di vista. Da quello sociale, perché romeni e romene sono una presenza con la quale gli italiani entrano in relazione sempre più spesso. Da quello economico, perché gran parte di loro è inserita nel mondo del lavoro. Da quello commerciale, in quanto una comunità di un milione di persone inizia a essere seriamente interessante per chi vuole offrirle servizi, ad esempio viaggi e istruzione, o prodotti, con pubblicità annessa. Anche dal punto di vista politico, la spinta al rafforzamento di un rapporto tra Roma e Bucarest è quasi obbligata.

Questo tipo di considerazioni andrà fatto sempre più spesso nei prossimi anni. Innanzitutto perché i residenti immigrati complessivi crescono a un ritmo non indifferente: nel 1990 erano un milione e 430 mila , nel 2000 erano due milioni e 120 mila , nel 2010 erano saliti a quattro milioni e 800 mila e l’anno scorso sono arrivati a cinque milioni e 720 mila . Ma anche per il cambiamento di provenienza di questi flussi migratori, negli ultimi vent’anni fortissimo. Nel 1990 , appena caduto il Muro di Berlino e alla vigilia del crollo dell’Unione Sovietica, la comunità di immigrati più consistente era quella marocchina: 170 mila persone. Seguivano i tedeschi, circa centomila . Tutte le altre comunità si contavano solo nell’ordine delle decine di migliaia: tunisini e filippini erano 70 mila , come i francesi; egiziani, albanesi, serbi, senegalesi erano attorno ai 40 mila ; e i cinesi 30 mila . L’immigrazione era decisamente poco visibile e poco significativa dal punto di vista sociale, del business e della politica.

Nel 2013 , oltre a quella romena, altre comunità di immigrati sono diventate importanti per numero. Gli albanesi sono diventati 450 mila , i marocchini 430 mila , gli ucraini 210 mila , i cinesi 180 mila , i moldavi 150 mila , i filippini 130 mila (ci sono anche 230 mila tedeschi, 210 mila svizzeri, 150 mila francesi, ma si tratta di immigrazione diversa). Al momento, in Italia ci sono 16 comunità di residenti nati all’estero con più di centomila componenti. (Questi dati - ordinati in forma interattiva da Pew Research per l’intero pianeta su www.pewglobal.org - non misurano la dimensione delle comunità etniche presenti in un Paese, nel senso che considerano solo i nati all’estero, non i figli degli immigrati).
I numeri e le tendenze raccontano che queste comunità sono qui per restare e per crescere. Per politica, business, media, pubblicitari, prenderne atto può essere un’opportunità.
@danilotaino

14 settembre 2014 | 09:22
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_settembre_14/milione-romeni-record-italia-1034e742-3bde-11e4-b554-0ec832dbb435.shtml
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« Risposta #4 inserito:: Ottobre 05, 2014, 07:46:51 pm »

Editoriale
Figli e figliastri delle rigidità

Di Danilo Taino

L a decisione annunciata ieri da Parigi, unilateralmente, di volere ritardare di altri due anni il rientro del suo deficit pubblico nei limiti stabiliti dai patti europei è un passaggio destinato a testare la solidarietà tra i 18 partner dell’eurozona. A verificare la tolleranza reciproca che ancora esiste tra i Paesi al cuore della moneta unica, innanzitutto la Germania, e i cosiddetti periferici, tra i quali l’Italia e sempre più la Francia. Sarà una navigazione burrascosa. Già ieri, Angela Merkel ha ribadito che non ci può essere crescita senza conti pubblici in ordine: si può prevedere che la posizione di Berlino - ripresa poi a Bruxelles - nei prossimi giorni sarà anche più netta. Ciò nonostante, questa può essere l’occasione per introdurre una nuova dinamica nella gestione della crisi.

Le regole europee di stabilità sono importantissime, ma non possono diventare il feticcio contro il quale schiantare l’eurozona se non si trova un punto di mediazione tra chi non lo sopporta e chi lo difende. Ed è la storia stessa dell’euro a indicare metodo e contenuto dell’approccio che Bruxelles e le capitali nazionali possono seguire per affrontare il momento critico di un’area in semi-recessione e vicina alla deflazione. Tra il 2003 e il 2004, proprio Germania e Francia decisero di non rispettare gli impegni presi con il Trattato di Maastricht sui loro deficit: segno che possono esserci passaggi economici e politici che in casi eccezionali spingono in quella direzione.

E ciò che valse per due capitali dai muscoli robusti non può non valere oggi per altri se ciò ha una giustificazione. Berlino, però, usò lo spazio di bilancio conquistato per rendere meno dolorose le riforme, soprattutto del mercato del lavoro, che in quegli anni realizzò; Parigi non fece alcuna riforma strutturale.

Una lettura dei patti europei flessibile per quel che riguarda i tempi in cui rispettarli potrebbe dunque avere un senso se legata a impegni precisi, contratti stipulati a Bruxelles tra Paesi, sulle riforme da fare ai livelli nazionali. Un piano riformista europeo vincolante, approvato e monitorato da Bruxelles - come immaginato dal presidente della Bce Mario Draghi - in cambio di flessibilità è un’ipotesi che potrebbe evitare una scissione verticale all’interno dell’eurozona, la rottura ufficiale dell’asse Berlino-Parigi e vedere un ruolo attivo di Paesi come l’Italia che hanno bisogno sia di riforme sia di manovrare un po’ il bilancio. Fatti salvi i vincoli europei, che se venissero ripudiati creerebbero - come ha avvertito Draghi - sfiducia diffusa nei mercati e nell’economia.

Il passaggio è stretto, la crisi è diventata del tutto politica e mette in difficoltà domestiche il presidente francese Hollande come la cancelliera Merkel. Se la situazione sfuggisse di mano, la stessa Bce finirebbe stretta tra veti nazionali incrociati, impossibilitata a realizzare le iniziative di stimolo che ha annunciato nelle settimane scorse. Chiamata forte per i leader europei.

2 ottobre 2014 | 07:28
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DA - http://www.corriere.it/editoriali/14_ottobre_02/figli-figliastri-rigidita-e2306bb8-49f3-11e4-9fe4-a545a65e6beb.shtml
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« Risposta #5 inserito:: Novembre 03, 2014, 05:24:23 pm »

Un segnale incoraggiante Più occupati e disoccupati
Le statistiche della discordia
Per Cipolletta il metodo di calcolo basato sul fatturato, utilizzato ad esempio in Germania, riesce a cogliere con più precisione l’economia moderna

Di Danilo Taino

Strabismi statistici dei momenti di crisi. Dice l’Istat che aumentano l’occupazione e la disoccupazione. Il che, a prima vista, è come dire che aumenta la temperatura e fa più freddo. In realtà, succede che gli ingressi (o i ritorni) nel mercato del lavoro fanno sì che il numero di occupati cresca di 82 mila unità; allo stesso tempo, però, il tasso di disoccupazione sale di un po’, al 12,6%, in quanto ci sono più persone in cerca di lavoro. In una fase di crescita economica decisa, occupazione e disoccupazione si muoverebbero in senso inverso l’una rispetto all’altra. In una fase incerta, la contraddizione apparente non è strana.

E, nel complesso, il dato comunicato ieri è un piccolo segnale di vita del mercato del lavoro. La curiosa divaricazione statistica, però, ci ricorda l’importanza dei numeri che misurano l’economia nazionale. E il fatto che spesso li trattiamo con sufficienza, con il risultato che non sempre sono capaci di raccontare la realtà; anzi, spesso finiscono per penalizzare l’Italia, per rimpicciolirla. Il metodo di rilevazione del valore della produzione nazionale utilizzato dall’Istat, per esempio, secondo l’economista Innocenzo Cipolletta è viziato da una mancanza di adeguamento alla modernità. In una società fondata sui consumi e sui servizi, siamo rimasti fordisti nel leggere le statistiche: legati all’epoca della fabbrica.

Cipolletta - che tra l’altro fu anche direttore generale della Confindustria - dice che l’Istat farebbe bene a cambiare metodo. Da sempre - spiega - l’Istituto di statistica raccoglie, in prima istanza, i dati sulla quantità di produzione: numero di scarpe, di maglie, di biciclette realizzate. All’uscita dalla fabbrica. Il fatto è che in questo modo si tende a sottostimare la realtà produttiva: si fatica a cogliere le differenze qualitative della produzione, non si valuta correttamente il valore aggiunto e non si misurano attività che si materializzano nel momento della vendita, tipicamente i servizi. Il metodo basato sul fatturato, utilizzato ad esempio in Germania, si applica invece al momento in cui avviene la vendita e riesce a cogliere con più precisione l’economia moderna.

Cambiare scelte del passato non è facile. Ed è costoso. Vista però l’importanza dei dati nel dibattito economico e nel confronto europeo, anche l’Istat può fare meglio.

1 novembre 2014 | 08:46
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Da - http://www.corriere.it/economia/14_novembre_01/piu-occupati-disoccupati-statistiche-discordia-2b722378-6193-11e4-8446-549e7515ac85.shtml
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« Risposta #6 inserito:: Giugno 30, 2015, 06:33:33 pm »

Declino Grecia, gli errori (e le colpe)

Di Danilo Taino

Dunque, alla fine lo hanno fatto: Alexis Tsipras e Yanis Varoufakis hanno spostato sulle spalle dei cittadini greci l’alternativa tra l’accettare il programma dei creditori, e dunque restare nell’Unione monetaria, oppure rifiutarlo, e quindi avviarsi verso l’uscita. In nome di un’idea oscillante di democrazia: io, governo, ho fallito nelle trattative; ora vedi tu, popolo. Una scelta pasticciata, che fa precipitare la situazione ma che Syriza ha tenuto come una carta da giocare nel finale di partita sin dal momento in cui ha vinto le elezioni, lo scorso25 gennaio. Qualsiasi sia il risultato del referendum indetto per domenica prossima, la crisi che si è aperta è probabilmente la più grave nella storia dell’Unione europea, non solo dell’Eurozona.

Le responsabilità sono in gran parte del governo di sinistra di Atene. Durante l’intera trattativa con i creditori (Ue, Banca centrale europea, Fondo monetario internazionale), il premier Tsipras e il ministro delle Finanze Varoufakis non hanno mai dato l’idea di agire in buona fede, con l’obiettivo di raggiungere un accordo. Non hanno mai preso in considerazione seriamente l’idea di introdurre riforme capaci di fare della Grecia un Paese che riesce a competere sui mercati internazionali; hanno respinto proposte sempre più a loro favorevoli; hanno fatto passi indietro su decisioni prese dai governi precedenti. Soprattutto, hanno convinto i partner di puntare solo al denaro degli europei, senza dare in cambio garanzie. La decisione di indire il referendum - un abbandono di responsabilità, anche se si trattasse di una folle tattica negoziale per piegare i creditori - ha chiuso il cerchio.

Ciò non significa che gli altri 18 membri dell’Eurozona si siano mossi in modo brillante. È mancata una leadership capace di dare il senso politico di quanto stava succedendo. I negoziati tecnici, inevitabili, sono rimasti il solo terreno di trattativa. Anche Angela Merkel non è riuscita a sviluppare un minimo di leadership che spostasse la discussione da un mero confronto contabile tra creditori e debitore a una prospettiva politica che rendesse difficile a Syriza di rifiutare un accordo.

In cinque mesi di negoziato - di applicazione della Teoria dei Giochi, direbbe Varoufakis - l’unica istituzione a svolgere un ruolo è stata la Bce di Mario Draghi. Non solo perché, nonostante la precarietà della situazione, ha continuato a fornire alle banche greche iniezioni periodiche di liquidità di emergenza che hanno consentito loro di non farle fallire, di fronte ai massicci prelievi dei cittadini preoccupati dalla possibilità di ritrovarsi i conti correnti denominati in dracme. Soprattutto perché, con il programma di acquisto mensile di 60 miliardi di titoli sui mercati, Draghi ha creato le condizioni per attutire il possibile effetto di contagio della crisi ellenica.

A questo punto, la Bce dovrà muoversi all’interno delle regole, che le impediscono di fornire liquidità alle banche se non c’è in essere un programma di aiuti per la Grecia (scade martedì). Sarà però necessario fare un salto di qualità, dare l’idea non solo che la Grecia è un caso irripetibile ma anche che l’Eurozona impara dalle crisi e sa ridisegnare l’architettura che sostiene la moneta. In passato, Draghi e Merkel hanno saputo sviluppare una leadership congiunta su questo terreno: sono di nuovo alla prova, quella più dura. E più importante: anche per i greci.

28 giugno 2015 | 09:08
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_giugno_28/grecia-default-errori-colpe-editoriale-taino-001ffd26-1d5e-11e5-8ee0-8912bb49d278.shtml
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« Risposta #7 inserito:: Luglio 01, 2015, 05:32:15 pm »

LA STRATEGIA DI BERLINO   
Crisi Grecia, così la Merkel perde la battaglia (per vincere la guerra)
La cancelliera sacrifica la partita greca per superare un’altra prova: salvare l’Europa

Di Danilo Taino

DAL NOSTRO CORRISPONDENTE BERLINO Nel finale della partita greca, Angela Merkel ha scelto di sacrificare il breve termine per il lungo: non salvare necessariamente la Grecia rinnegando i principi ma cercare di proteggere l’euro. Decisione rischiosa: non si può sapere cosa abbia in serbo il futuro. Ma decisione in parte obbligata e potenzialmente saggia: l’evoluzione della realtà è spesso benigna per gli statisti pronti a perdere una battaglia per vincere la guerra.

La rottura delle trattative tra creditori e Atene è una sconfitta per la cancelliera, che per mesi ha cercato il compromesso. Non è riuscita a esercitare quella leadership che le chiedevano mezza Europa, la Washington di Barack Obama, politici e autorità economiche dall’Asia al Sudamerica. Non solo: se la crisi greca non sarà gestita con maestria dalla stessa signora Merkel e dall’Eurozona, potrebbe iniziare il tramonto dell’Unione europea come l’abbiamo conosciuta, quella uscita dalla Guerra fredda, modello di pace a espansione continua. La «ragazza» un tempo pupilla del «cancelliere della riunificazione» tedesca e dell’Europa unita, Helmut Kohl, passerebbe alla storia come la cancelliera della divisione del Vecchio Continente. In gioco c’è molto, per la leader e per l’intera Ue.

A questa situazione si è arrivati per più di un motivo. Frau Merkel voleva con determinazione un accordo con Atene. La sua convinzione-ritornello è sempre stata «se fallisce l’euro, fallisce l’Europa». Aveva però di fronte due ostacoli non indifferenti. Sul piano interno, una maggioranza dell’opinione pubblica tedesca contraria a dare nuovi aiuti alla Grecia in cambio di nulla; sostenuta da una larga maggioranza di parlamentari. Sul piano esterno, un gruppo nutrito di partner dell’Eurozona che non avrebbe mai accettato regali ad Atene: perché i sacrifici per rimettere in piedi le loro finanze pubbliche li avevano fatti, ad esempio Irlanda, Portogallo, Spagna, Lettonia; oppure perché con redditi pro capite (e salari minimi) più bassi di quelli greci, ad esempio la Slovacchia e la Lituania.

A questo si aggiungeva una crescente sfiducia nel governo greco di Alexis Tsipras e Yanis Varoufakis, che conduceva le trattative in modo da convincere via via praticamente tutti in Europa che in realtà non volesse un accordo ma solo soldi. In questa cornice, fare la scelta di dare denaro ad Atene senza un programma di riforme avrebbe voluto dire non solo mettersi contro tutti, in Germania e in Europa: avrebbe significato soprattutto rimuovere la pietra angolare dell’Eurozona a 19 Paesi, cioè il fatto che l’unico modo per sperare di stare assieme in un’Unione monetaria è rispettarne le regole. Superata quella linea rossa, liberi tutti, qualsiasi cosa sarebbe potuta succedere. Lunedì ha spiegato che se l’Europa rinnegasse i suoi principi «anche solo momentaneamente, nel medio e lungo termine ne soffrirebbe i danni». Tra cercare di vincere una battaglia sbagliata e cercare di vincere una guerra giusta, la cancelliera ha scelto la seconda strada. E ha dunque modificato il paradigma: salvare l’euro per salvare l’Europa non comporta più l’obbligo di salvare Atene.

Il problema è che, in qualsiasi modo finisca, la campagna di Grecia ha lasciato sul terreno feriti. Un Paese nel caos. Enormi dubbi sulla capacità politica dei leader europei. La dimostrazione della fragilità dell’architettura su cui poggia l’Unione monetaria. Si dice che di solito la Ue non spreca le proprie crisi, le usa per andare avanti nell’integrazione. Come fare, anche in questo caso, non è un mistero. Sul tavolo dei governi è arrivato da pochi giorni un documento, il «Rapporto dei 5 presidenti», che propone quali misure prendere per rafforzare la governance dell’Eurozona e in quali fasi farlo. Lo hanno preparato Jean-Claude Juncker, Mario Draghi, Donald Tusk, Jeroen Dijsselbloem, Martin Schulz. È ambizioso: punta a una progressiva convergenza strutturale delle economie dell’euro, a un’unione economica, finanziaria, di bilancio e politica che in un decennio dovrebbe essere realizzata.

Finora, Frau Merkel non ha preso l’occasione di questo documento per cercare di rilanciare la credibilità dell’Europa di domani. L’aspettativa è che lo faccia forse già dalla settimana prossima: d’altra parte, il Rapporto e la riforma della Ue chiesta dalla Gran Bretagna sono le due occasioni che l’Europa ha per non finire, dopo la crisi greca, in un gomitolo di recriminazioni, accuse reciproche e chiusure ma di rilanciare una prospettiva. Strada impervia. Ma l’alternativa, per Frau Merkel, è passare alla storia come colei che disfece ciò che Kohl costruì.

1 luglio 2015 | 07:24
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Da - http://www.corriere.it/economia/15_luglio_01/crisi-grecia-cosi-merkel-perde-battaglia-per-vincere-guerra-e37a32e0-1fb0-11e5-a401-e3fdb427a19f.shtml
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« Risposta #8 inserito:: Luglio 05, 2015, 10:06:07 am »

L’editoriale


Di Danilo Taino

Fine dei giochi. A meno di un colpo a sorpresa ad Atene - ad esempio la caduta del governo di sinistra - domenica prossima i greci voteranno. Nominalmente, sul programma di aiuti proposto dai creditori del Paese, in pratica sulla permanenza o meno della Repubblica ellenica nell’Unione monetaria. Ieri, il premier Alexis Tsipras ha spezzato anche l’ultimo filo che si pensava potesse portare a un compromesso: di notte ha mandato una lettera ai creditori per dire che accettava parte delle loro proposte, 15 ore dopo - prima di ricevere risposta - li accusava in televisione di «ricatto» al popolo greco. Schizofrenia da panico di chi ha perso il controllo della situazione. Oppure propaganda per cercare di convincere i greci a votare No. Probabilmente entrambe le cose.

Nelle intenzioni di Tsipras e del governo di Syriza, il referendum era l’opzione nucleare. La minaccia che avrebbe messo con le spalle al muro la Ue, la Banca centrale europea, il Fondo monetario internazionale: nella convinzione che i pavidi rappresentanti del capitalismo davanti alla possibilità che un Paese esca dall’euro sarebbero crollati e avrebbero accettato di dare altro denaro alla Grecia in cambio di promesse generiche. Pur non essendo dei cuor di leone, i leader europei non sono invece stati i primi a sbattere le ciglia, nella partita a poker: ancora ieri hanno detto che la Grecia ha in mano il suo destino, rispetteranno le scelte dei cittadini. Angela Merkel ha chiarito che a questo punto la decisione è affidata al referendum e che comunque l’Europa è in grado di sostenerne qualsiasi esito.

Il calcolo di Tsipras e del suo ministro delle Finanze Yanis Varoufakis, che si ritenevano in una posizione di rendita non attaccabile e vedevano nei creditori la voglia di cedere, si è rivelato sbagliato. Nel cosiddetto «game of chicken» - le due auto che corrono una contro l’altra per vedere chi scarta prima - i creditori hanno tenuto la strada, Atene ha curvato verso il referendum. E ha rivelato che nelle sue intenzioni non c’è mai stata l’opzione collaborativa. Soprattutto, è successo che, nel nome della democrazia, il governo di sinistra ha usato il popolo greco come un’arma, non per farlo esprimere sui suoi interessi ma per cercare di schierarlo contro gli avversari, che sarebbero rappresentanti del capitalismo europeo che ricatta i greci, come ama dire Tsipras. Convocando il referendum, più che dare la parola al popolo lo hanno chiamato a dare l’assalto al Palazzo d’Inverno dell’eurozona.

Non c’è niente di cui gioire. Come ha più volte detto ieri in Parlamento il ministro delle Finanze tedesco Wolfgang Schäuble, c’è da essere tristi per il popolo greco. A questo punto, anche chi vorrebbe votare «no» domenica prossima per fare riprendere al Paese una sua sovranità dev’essere seriamente perplesso all’idea di restare poi con un governo che nella migliore delle ipotesi è irresponsabile e nella peggiore avventurista.

Resta il fatto che, qualunque sia il risultato del referendum di domenica prossima, l’eurozona e la Ue hanno due grandi responsabilità. La prima: fare in modo che Atene resti aggrappata all’Europa e che la popolazione greca sia aiutata a uscire al più presto dalle sofferenze in cui si trova. Non sarà facile ma è un obbligo del quale gli europei devono farsi carico. La seconda: garantire che la crisi greca, iniziata male e gestita peggio, sia la lezione che permette a tutta l’area euro, a 18 o a 19 membri, di cambiare e di costruire un’architettura solida e accettata dai cittadini. Altrettanto obbligatoria.

@danilotaino
2 luglio 2015 | 08:26
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_luglio_02/editoriale-taino-grecia-crisi-referendum-futuro-ue-c95cd73c-2078-11e5-b510-55e71b40db58.shtml
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« Risposta #9 inserito:: Luglio 09, 2015, 07:09:17 pm »

Il SUMMIT Capi di Stato e di Governo
Quei sospetti di Berlino per il vertice salva euro
«No a diritti speciali» Il vicecancelliere. Gabriel: concedere diritti speciali alla Grecia, sarebbe la fine dell’eurozona

Di Danilo Taino
DAL NOSTRO CORRISPONDENTE

BERLINO Ieri, Angela Merkel è andata a Parigi, a incontrare François Hollande, con in testa una certezza: non possiamo premiare i greci che non hanno rispettato gli impegni e penalizzare gli altri partner dell’euro che li hanno messi in pratica. La conseguenza, nella lettura dell’esecutivo di Berlino, sarebbe il caos definitivo nell’eurozona. Per dire che, dopo il No greco di domenica, la situazione è grave come mai prima. Concetto sottolineato anche dalla Banca centrale europea, che non ha dato nuova liquidità alle banche greche e ha segnalato loro che sono a pochi centimetri dall’inizio dell’uscita dall’Unione monetaria.

Non è dato sapere come, con il presidente francese, Frau Merkel abbia esplicitato il suo pensiero. Il risultato sono però state comunicazioni nelle quali i due leader si presentano uniti e tengono la porta aperta ad Alexis Tsipras ma gli dicono che il problema è suo, non degli altri: faccia proposte, in fretta, perché al momento le condizioni per un nuovo negoziato «non sono presenti» (Merkel). Si torna alla casella del Via: ma per l’ultimo giro.

Oggi pomeriggio, si terrà un vertice tra i capi di governo dell’area euro: si svolgerà tra sospetti e sfiducia. Tutti i governi che vi partecipano hanno agende politiche nazionali che terranno in gran conto. Su queste, però, aleggerà l’ombra della rischiosità di negoziare con Atene in questa fase. La convocazione a sorpresa del referendum da parte di Tsipras, a trattativa aperta, è stata una mossa che ha lasciato gli europei senza armi di difesa, considerata una rottura del modo di negoziare. Mentre parlava di teoria dei giochi, l’ex ministro delle Finanze Yanis Varoufakis titillava l’asso spurio che teneva nella manica - si diceva ieri a Berlino. Le sue stesse dimissioni sono state viste come un ulteriore colpo di teatro che non cambia sostanzialmente le cose ma ha l’obiettivo di tenere l’attenzione dell’opinione pubblica lontana dalla realtà dei problemi.

La giornata di oggi sarà importante non solo per il vertice dei governi ma anche per capire come evolve la situazione delle banche elleniche, che rimangono chiuse nonostante Syriza avesse promesso di riaprirle oggi. La Banca centrale europea non ha dato altra liquidità agli istituti di credito greci e li ha lasciati con pochi o zero margini di manovra futuri, cioè senza garanzie da offrire in cambio di altra liquidità. Nel giro di giorni o di ore rimarranno senza denaro. Prima di prendere altre iniziative, Mario Draghi e i governatori aspettano di vedere se sul piano politico ci siano le condizioni per una nuova trattativa che porti a un programma di aiuti ad Atene: in caso positivo potranno erogare liquidità, diversamente no.

Il vertice dei capi di governo di oggi e quello dei ministri delle Finanze, dunque, dovranno dare risposte non generiche e urgenti. La posizione con la quale arriva la Germania, Paese chiave, alla discussione è dura: in una conferenza stampa, il vicecancelliere Sigmar Gabriel, socialdemocratico, ha detto tra l’altro che dare «diritti speciali» alla Grecia, cioè permetterle di non rispettare i patti, «sarebbe la fine dell’eurozona e significherebbe il ritorno dei nazionalismi nella politica europea».

È su queste basi che il vertice potrà decidere se andare avanti con un nuovo negoziato con Atene, se Tsipras porterà una proposta non penalizzante per i partner e per l’eurozona, oppure dovrà studiare il modo di preparare un percorso di uscita gestita della Grecia dall’euro: la meno traumatica possibile, che cerchi di tenere il Paese agganciato alla Ue (e forse formalmente anche all’eurozona pur con una valuta parallela) e prepari un «piano umanitario» per i greci, idea della quale si parla ormai molto. Nei prossimi giorni ci saranno probabilmente tanti stop and go: ma le prime due scelte alle quali è di fronte l’Europa sono queste.

7 luglio 2015 | 16:52
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Da - http://www.corriere.it/economia/15_luglio_07/quei-sospetti-berlino-dd2cdfa4-24b6-11e5-8714-c38f22f7c1da.shtml
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« Risposta #10 inserito:: Luglio 12, 2015, 06:08:12 pm »


Il referendum e lo scontro che ne è seguito hanno reso tutto più difficile

Di Danilo Taino, corrispondente da Berlino


La tentazione sarebbe sostenere che il referendum di domenica scorsa in Grecia è stato irrilevante. La vittoria è stata schiacciante per i No ma ha prodotto il risultato per il quale hanno votato i Sì: Alexis Tsipras ha presentato ai creditori una proposta quasi identica a quella che aveva invitato gli elettori a rifiutare. Sarebbe però parziale fermarsi a questo. Il referendum e la successiva kolotoumba di Tsipras - così chiamano i greci la capriola - sono stati devastanti dal punto di vista economico e potrebbero rivelarsi un errore fatale dal punto di vista politico.

Sui mercati si fanno calcoli di ogni genere, in queste ore. Uno - sviluppato per esempio da Hugo Dixon di «BreakingViews» - stima che le scorse due settimane abbiano distrutto il 4% del Prodotto interno lordo greco e peggiorato il deficit pubblico del 2% del Pil: la chiusura delle banche, decisa in conseguenza della convocazione del referendum, ha congelato l’economia. Visti su tempi un po’ più lunghi, gli effetti della stagione di Syriza al governo sono questi: a novembre, prima delle elezioni del 25 gennaio, il Fondo monetario internazionale prevedeva che la Grecia sarebbe cresciuta quest’anno del 2,9%; ora, i calcoli che vanno per la maggiore indicano una caduta del Pil nel 2015 del 3%; 6 punti percentuali in meno. Atene è tornata alla casella di partenza, ma con un’economia che a fine anno scorso dava segni di ripresa e oggi è in netta recessione. Sul piano politico, la convocazione e la gestione del referendum hanno avuto due effetti. Innanzitutto, hanno molto irritato gli altri 18 Paesi dell’eurozona: se nel mezzo di una trattativa cerchi la prova di forza, significa che non vuoi più essere un partner ma un avversario - è stato il ragionamento di molti, in Germania ma non solo. Sul piano interno, l’inutilità della mobilitazione di domenica scorsa presenterà il conto, piuttosto prima che poi probabilmente.

Il referendum e lo scontro che ne è seguito hanno reso tutto più difficile. Riaprire le banche sarà un’impresa, in qualsiasi modo vadano i vertici dei prossimi giorni per decidere un nuovo piano di aiuti ad Atene o la sua uscita dalla moneta unica: anche nel caso di un accordo, avrebbero bisogno di un’immediata e massiccia immissione di liquidità da parte della Banca centrale europea per rispondere alla domanda dei cittadini tenuti a 60 euro al giorno per due settimane. I controlli sui movimenti di capitale resteranno probabilmente a lungo, fino a che la situazione non si sarà stabilizzata. Il costo di rimettere sulle proprie gambe l’economia ellenica e di riportare i conti pubblici sotto controllo è a questo punto molto maggiore di quello che era anche solo tre settimane fa. Infine, la sfiducia dei membri dell’eurozona nei confronti del governo greco è così alta che, anche di fronte al programma più rigido immaginabile, molti politici, soprattutto nel partito di Angela Merkel, sono convinti che comunque Tsipras non rispetterà gli impegni: ragione per la quale non sarà facile convincerli a sostenere un accordo e un alleggerimento del debito ellenico.

Niente, dunque, in questo weekend di vertici è scontato. Niente, però, è perduto, qualsiasi esito si profili. Anzi. «Mai permettere che una buona crisi vada sprecata» - dicono gli anglosassoni. Per quanto il referendum greco sia stato una sventura, è ormai storia passata: l’Europa ha vissuto una grande lezione, in qualsiasi caso non la può sprecare.

11 luglio 2015 | 08:10
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_luglio_11/grecia-lezione-che-non-va-sprecata-cb0d50ce-278b-11e5-ab65-6757d01b480d.shtml
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« Risposta #11 inserito:: Luglio 12, 2015, 06:11:14 pm »

La scelta impossibile di Merkel Rompere col partito o con l’Europa
Qualsiasi strada imbocchi, la cancelliera dovrà poi giocare la carta del futuro della Ue.
La minaccia di uscita dalla Ue della Gran Bretagna apre un altro rischio esistenziale

Di Danilo Taino

BERLINO In quasi dieci anni di governo, Angela Merkel non è mai stata in una posizione difficile come quella in cui si trova oggi. La proposta che, secondo la Frankfurter Allgemeine Sonntagszeitung, il ministro delle Finanze Wolfgang Schäuble avrebbe fatto alla riunione dell’Eurogruppo - cioè la sospensione di Atene dall’euro per cinque anni a meno di garanzie reali a fronte di prestiti - è il segno delle decisioni draconiane alle quali è di fronte il governo di Berlino. Il problema è che, qualsiasi orientamento prenda, la cancelliera finirà con il perdere qualcosa sul piano interno o su quello europeo. Oppure su entrambi.

In queste ore, però, c’è di più della situazione strettamente ellenica a metterla in difficoltà. Si tratta di una questione apparentemente meno immediata ma ancora più rilevante: il futuro dell’Unione Europea e il ruolo della Germania nel disegnarlo.
Già in questo weekend, Frau Merkel ha di fronte due scelte inconciliabili. A Berlino, il suo partito, la Cdu, è estremamente scettico nei confronti di un nuovo piano di aiuti, il terzo in cinque anni, alla Grecia. Se ci sarà, andrà presentato in Parlamento. Numerosi deputati cristiano-democratici sono però restii a votarlo: non credono che, qualsiasi cosa firmi, il governo di Atene poi lo metta in pratica. Non si fidano. E Schäuble riflette pienamente questa sfiducia.

Se ciò nonostante la cancelliera lo approverà, per farlo passare al Bundenstag dovrà probabilmente ricorrere ai voti dell’alleato di governo, la Spd, e delle opposizioni, i Verdi e la Linke. Ma se il partito, del quale finora è stata regina indiscussa, le votasse contro in misura massiccia, la sua posizione ne subirebbe un colpo duro. Dalle conseguenze non prevedibili. Se poi il programma greco dovesse avere tra i contrari Schäuble - che gode di enorme prestigio e seguito nel partito e fuori - la situazione della cancelliera diventerebbe difficile da sostenere.

Se invece dovesse schierarsi con le posizioni sostenute ieri dal suo ministro delle Finanze e con chi ritiene che la soluzione migliore per Atene e soprattutto per l’euro sia l’uscita della Grecia dalla moneta unica, Merkel rischierebbe rotture nella Ue, soprattutto con Parigi, e con gli Stati Uniti. Sarebbe accusata di scegliere una strada avventurista, che non si sa dove porti. Un capo di governo della Germania postbellica ha sempre l’unità dell’Europa tra le priorità e la signora Merkel del tenere uniti gli europei ha fatto una strategia, dalla gestione della crisi ucraina all’approccio alla questione dei migranti. Fare una svolta a «U», ora, sarebbe un passo di rilevanza enorme.

La cancelliera ha in genere una grande capacità di analisi. È famosa per procedere prendendo in considerazione tutti i dati di un problema e decidere solo dopo essersi fatta un’opinione che a quel punto non abbandona. Nella vicenda greca degli ultimi mesi, di fronte al modo di muoversi «non ortodosso» del governo di Syriza, non ha però mai dato l’impressione di sapere affrontare come al solito gli «stop and go» di Alexis Tsipras e di Yanis Varoufakis. Spiazzata da un modo di fare che nelle ultime settimane l’ha portata a passare dall’obiettivo della mediazione a pensare - come da tempo pensa Schäuble - che non ci sia alcuno spazio di accordo per mancanza di volontà greca, ai dubbi di stanotte.

Questa perdita del dominio dell’iniziativa politica l’ha frenata, ora si trova dietro la curva, superata da altri. E non solo dal suo ministro. Qualsiasi strada scelga, soprattutto se dovesse prevalere quella che porta alla Grexit, sarà obbligata a giocare poi la carta del futuro della Ue, cioè di una riforma sia dell’eurozona che dell’Europa a 28: per spostare in avanti il terreno di confronto.

La crisi greca ha colpito al cuore l’architettura dell’euro; e la minaccia di uscita dalla Ue della Gran Bretagna apre un altro rischio esistenziale per il Vecchio Continente. La cancelliera può sperare di uscire dai guai in cui è finita mostrando leadership di fronte a queste sfide.

C’è però un ostacolo serio. La Francia di François Hollande si è mossa. E il risultato è qualcosa di più dell’allentamento del rapporto Berlino-Parigi che si è visto nell’ultima parte della crisi greca, quando il governo tedesco si è irrigidito e quello francese ha invece fatto il mediatore fino al punto di guidare la mano di Alexis Tsipras nella scrittura del suo piano di aiuti.
A Berlino si sospetta che Hollande voglia evitare che l’uscita di Atene dall’euro apra un varco per una riforma forte dell’eurozona. Una riforma che avverrebbe sulle linee della Germania, cioè di una maggiore integrazione non solo di bilancio ma anche delle riforme strutturali e in prospettiva del governo europeo. Sarebbe un’Europa sempre più tedesca, che Parigi non vuole. Meglio dunque la scelta conservatrice, dal punto di vista di Hollande: continuare con Atene come si è fatto per cinque anni, anche a costo di un nuovo programma di aiuti che difficilmente sarà risolutivo per la Grecia; l’importante è non creare il caso, la Grexit, che costringa a fare riforme «merkeliane».

Per recuperare l’iniziativa, Frau Merkel potrà cercare di fare avanzare comunque un’agenda di cambiamento. Ma una riforma dell’eurozona e della Ue contro Parigi è qualcosa che nessuno ha ancora immaginato. È così che l’Europa cammina verso il proprio futuro.

12 luglio 2015 | 08:03
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Da - http://www.corriere.it/economia/15_luglio_12/merkel-grecia-giorni-piu-difficili-04735fe6-285b-11e5-8e27-9292b85fb2a2.shtml
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« Risposta #12 inserito:: Luglio 19, 2015, 06:12:44 pm »

L’editoriale
L’ultimo filo spezzato

Di Danilo Taino

Fine dei giochi. A meno di un colpo a sorpresa ad Atene - ad esempio la caduta del governo di sinistra - domenica prossima i greci voteranno. Nominalmente, sul programma di aiuti proposto dai creditori del Paese, in pratica sulla permanenza o meno della Repubblica ellenica nell’Unione monetaria. Ieri, il premier Alexis Tsipras ha spezzato anche l’ultimo filo che si pensava potesse portare a un compromesso: di notte ha mandato una lettera ai creditori per dire che accettava parte delle loro proposte, 15 ore dopo - prima di ricevere risposta - li accusava in televisione di «ricatto» al popolo greco. Schizofrenia da panico di chi ha perso il controllo della situazione. Oppure propaganda per cercare di convincere i greci a votare No. Probabilmente entrambe le cose.

Nelle intenzioni di Tsipras e del governo di Syriza, il referendum era l’opzione nucleare. La minaccia che avrebbe messo con le spalle al muro la Ue, la Banca centrale europea, il Fondo monetario internazionale: nella convinzione che i pavidi rappresentanti del capitalismo davanti alla possibilità che un Paese esca dall’euro sarebbero crollati e avrebbero accettato di dare altro denaro alla Grecia in cambio di promesse generiche. Pur non essendo dei cuor di leone, i leader europei non sono invece stati i primi a sbattere le ciglia, nella partita a poker: ancora ieri hanno detto che la Grecia ha in mano il suo destino, rispetteranno le scelte dei cittadini. Angela Merkel ha chiarito che a questo punto la decisione è affidata al referendum e che comunque l’Europa è in grado di sostenerne qualsiasi esito.

Il calcolo di Tsipras e del suo ministro delle Finanze Yanis Varoufakis, che si ritenevano in una posizione di rendita non attaccabile e vedevano nei creditori la voglia di cedere, si è rivelato sbagliato. Nel cosiddetto «game of chicken» - le due auto che corrono una contro l’altra per vedere chi scarta prima - i creditori hanno tenuto la strada, Atene ha curvato verso il referendum. E ha rivelato che nelle sue intenzioni non c’è mai stata l’opzione collaborativa. Soprattutto, è successo che, nel nome della democrazia, il governo di sinistra ha usato il popolo greco come un’arma, non per farlo esprimere sui suoi interessi ma per cercare di schierarlo contro gli avversari, che sarebbero rappresentanti del capitalismo europeo che ricatta i greci, come ama dire Tsipras. Convocando il referendum, più che dare la parola al popolo lo hanno chiamato a dare l’assalto al Palazzo d’Inverno dell’eurozona.

Non c’è niente di cui gioire. Come ha più volte detto ieri in Parlamento il ministro delle Finanze tedesco Wolfgang Schäuble, c’è da essere tristi per il popolo greco. A questo punto, anche chi vorrebbe votare «no» domenica prossima per fare riprendere al Paese una sua sovranità dev’essere seriamente perplesso all’idea di restare poi con un governo che nella migliore delle ipotesi è irresponsabile e nella peggiore avventurista.

Resta il fatto che, qualunque sia il risultato del referendum di domenica prossima, l’eurozona e la Ue hanno due grandi responsabilità. La prima: fare in modo che Atene resti aggrappata all’Europa e che la popolazione greca sia aiutata a uscire al più presto dalle sofferenze in cui si trova. Non sarà facile ma è un obbligo del quale gli europei devono farsi carico. La seconda: garantire che la crisi greca, iniziata male e gestita peggio, sia la lezione che permette a tutta l’area euro, a 18 o a 19 membri, di cambiare e di costruire un’architettura solida e accettata dai cittadini.

Altrettanto obbligatoria.

@danilotaino
2 luglio 2015 | 08:26
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« Risposta #13 inserito:: Settembre 22, 2015, 06:24:50 pm »

Le emissioni «truccate»
Scandalo Volkswagen, la Germania delle regole colpita al cuore
Merkel e quel passo indietro da fare
La casa automobilistica tedesca ha ammesso di aver falsificato i test sull’inquinamento

Di Danilo Taino, corrispondente da Berlino

BERLINO - C’è il crollo dei titoli in Borsa. C’è la multa che sarà comminata negli Stati Uniti e potrebbe essere molto, molto alta. Ci saranno le conseguenze sul vertice e forse sugli assetti azionari. Nel caso dei dati truccati sulle emissioni di alcuni modelli in America, c’è però anche la perdita di prestigio per il gruppo Volkswagen. E, a dire il vero, non solo per la casa automobilistica: più in generale per la “Deutschland AG” che della correttezza, dell’affidabilità, del rispetto delle regole ha fatto negli anni non solo una bandiera ma anche uno scudo anticrisi. E che oggi si trova invece esposta in uno scandalo - perché di scandalo si tratta - nato proprio in quel gruppo che era fino a ieri il modello numero uno dell’industria tedesca e del suo modo di operare e conquistare i mercati.

E c’è soprattutto un imbarazzo per la Germania stessa - a sentire molti commenti, a Berlino, compreso quello del ministro dell’Economia e vicecancelliere Sigmar Gabriel: se l’industria dell’auto è un orgoglio nazionale, la Volkswagen ne era l’avanguardia, con la sua collezione di oltre dieci marchi di prestigio e la sua continua espansione globale. Fino a ieri. Oggi è diventata un guaio in un momento delicato per il Paese.

La questione non è formale. O di generico danno d’immagine. Da qualche tempo, soprattutto in occasione delle crisi europee in questo 2015, la Germania sta sviluppando una propria leadership. Magari non l’ha cercata, in buona parte le è stata imposta dagli eventi. Fatto sta che l’ha assunta e, soprattutto, l’ha caratterizzata con un concetto che per i tedeschi è indiscutibile: le regole si rispettano.

Che il maggiore campione dell’industria nazionale, più volte sostenuto e protetto dal governo di Berlino proprio in tema di emissioni e di obblighi europei, abbia imbrogliato sulle regole fa vacillare la credibilità e la non negoziabilità dell’essere in toto e sempre in linea con le norme. L’accusa di essere rigidi con gli altri e furbi quando si viene ai propri comportamenti già sta circolando.

Il gruppo dirigente della Volkswagen, a cominciare dal numero uno Martin Winterkorn, prenderà le sue iniziative. Che dovranno essere radicali, non una semplice inchiesta interna. Ma anche il governo di Berlino farebbe bene a non spendere, sul caso, solo parole. Questa è un’occasione per mettere più distanza tra la politica e il Big Business: quando la vicinanza è troppa, come sicuramente lo è da sempre tra Volkswagen e tutti i governi di Berlino, le aziende si sentono inattaccabili perché protette: onnipotenti e sopra le regole. Dovrebbe essere il resto dell’industria tedesca il primo a pretenderlo: una concentrazione esagerata di potere politico ed economico è sempre un danno per i mercati e per i consumatori. E anche Angela Merkel potrebbe fare una riflessione: questa volta, la vera leadership sta nel fare un passo indietro.

@danilotaino
21 settembre 2015 (modifica il 21 settembre 2015 | 17:10)
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Da - http://www.corriere.it/economia/15_settembre_21/germania-regole-colpita-cuore-taino-17a52984-6071-11e5-9acb-71d039ed2d70.shtml
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« Risposta #14 inserito:: Settembre 22, 2015, 06:46:11 pm »

Confini e paradossi d’Europa

Di Danilo Taino

Se l’euro non è morto con la crisi greca, è perché è troppo importante: i Paesi membri non lo vogliono lasciare morire. Lo stesso vale per Schengen. Assieme alla moneta unica, la libertà totale di movimento tra Paesi è, per i cittadini, il segno più rilevante dell’esistenza dell’Europa. Il trattato può essere sospeso - come d’altra parte è previsto dalle norme che lo regolano - in casi eccezionali. Ed eccezionale è, in queste ore, l’arrivo di migliaia di rifugiati in cerca di asilo che vanno organizzati e messi al riparo, in attesa di soluzioni stabili. Ma, a meno di catastrofi non prevedibili, rimarrà e, lentamente, tornerà a funzionare. Non sarà più lo stesso; ma se la Ue non vuole suicidarsi rimarrà.

Il problema è che, come è successo all’eurozona, di fronte a una grande crisi Schengen vacilla. In un campo diverso, con altre caratteristiche: ma anche questa volta l’architettura che doveva sottostare alle frontiere aperte non ha resistito alla pressione degli eventi. Le regole della Convenzione di Dublino si sono accartocciate su se stesse e la Commissione di Bruxelles non è riuscita a dare una prospettiva unitaria ai 28 membri della Ue. Solo quando, dopo avere a lungo sottovalutato la situazione, Berlino ha preso la guida degli eventi, la crisi ha cambiato di segno. È venuta alla luce in tutta la sua portata e si è anzi gonfiata, ma ha anche trovato una direzione sorprendente: Angela Merkel ha deciso che la Germania (ma in parallelo anche l’Europa) dovrà prendersi carico delle sue responsabilità morali e politiche nei confronti di chi cerca asilo.

La cancelliera lo dovrà fare anche a costo di sottoporsi a una trasformazione sociale e culturale radicale. Come si è subito visto, non sarà una passeggiata. L’imposizione dei controlli temporanei alle frontiere tedesche (e di un’altra decina di Paesi) dà il senso della difficoltà della sfida logistica. Sul fatto che la Germania riesca a superare gli ostacoli organizzativi, e quindi a tornare nella dimensione di Schengen, il governo di Berlino non ha dubbi, e non ci sono ragioni per dubitarne: fisicamente, i profughi verranno sistemati, grazie allo «sforzo nazionale» chiesto dalla cancelliera.

La difficoltà maggiore sarà piuttosto tenere unita l’Europa che in questo momento è profondamente divisa sia sull’analisi di quel che sta accadendo (evitabile o inevitabile) sia sulle soluzioni (quote rigide o volontarie). E sarà ancora la Germania a dovere indicare un piano per evitare che la grande migrazione si trasformi in tensioni sociali e politiche non gestibili.

Per la prima volta, Berlino ha dato l’impressione di non essere costretta a guidare l’Europa ma di volerlo fare. Sembra avere abbandonato la leadership riluttante del passato. A questo punto, però, la leadership dovrà essere determinata e consapevole: tornare indietro sull’apertura a chi chiede asilo non è possibile; lasciare che l’Europa si divida tra accoglienti e respingenti è altrettanto da evitare. Ancora: per la prima volta in dieci anni di guida della Germania, Frau Merkel ha parlato in termini epocali, di cambiamento profondo del Vecchio Continente, verrebbe da dire con una «visione». Alla novità e all’analisi dovranno però seguire idee e gambe per integrare probabilmente qualche milione di nuovi arrivi. Le difficoltà possono essere superate dai benefici che ne deriveranno: c’è chi, a Berlino, pensa che la grande migrazione possa essere l’alba di un nuovo miracolo economico. Ma tutto questo dovrà essere declinato in una prospettiva europea. Anche con flessibilità, tenendo conto dei timori forti in quei Paesi, in particolare dell’Est europeo, arrivati da poco alla prospettiva del benessere e spaventati all’idea che un siriano e un afghano glielo tolgano. Solo così le divisioni di oggi potranno essere ridotte e il ritorno a Schengen reso possibile.

Il 2015 passerà alla storia come l’anno test per l’Europa. Per la moneta unica e per le masse di profughi in movimento. Crisi gemelle in pieno svolgimento (domenica prossima si vota in Grecia) che hanno rivelato come l’Unione Europea fatichi a trovare soluzioni stabili ma voglia a tutti i costi mantenere un’unità, fuori dalla quale nessuno ha intenzione di andare.

Quando si è trattato di votare, nonostante le sofferenze patite, i greci hanno deciso di rimanere aggrappati all’euro, costasse quel che costasse. Straordinario. Si può prevedere che, nel medio periodo, lo stesso succederà con la crisi dei rifugiati e con Schengen: i costi di rimanere indietro rispetto a un resto d’Europa che evolve possono essere troppo alti. Come nel caso di Atene, saranno trattative dure, scontri, minacce e risentimenti.

Anche questa volta, la Germania sarà chiamata a essere protagonista; e parte da una posizione non debole, con Paesi come la Francia, la Spagna e soprattutto l’Italia che hanno sfumature diverse sulla soluzione della crisi ma nella sostanza ci sono. È che la forza dell’Europa sta nel fatto che nessuno vuole seriamente abbandonarla: questo è ciò che davvero racconta il 2015. Cosa direste ai vostri figli se si tornasse alla lira e si chiudessero le frontiere?

16 settembre 2015 (modifica il 16 settembre 2015 | 08:09)
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