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Autore Discussione: Gianni RIOTTA -  (Letto 91206 volte)
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« Risposta #120 inserito:: Febbraio 09, 2014, 05:20:33 pm »

Editoriali

08/02/2014
Il potere perduto dell’Europa
Gianni Riotta

La diplomatica americana Victoria Nuland è nata nel 1961, ed aveva così solo tre anni quando, il 7 febbraio di 50 anni fa, i Beatles atterrarono nella sua città, New York, per suonare due giorni dopo, 9 febbraio, al leggendario Ed Sullivan Show televisivo. La Nuland è diventata famosa, già lo registra la sua pagina Wikipedia, per avere detto senza troppi riguardi «Si f… l’Unione Europea», liquidando con un «fuck the Eu» gli storici alleati a proposito della crisi in Ucraina. 

Come cambia il mondo in mezzo secolo. Nel febbraio 1964, l’America ancora sotto choc per l’assassinio di John Kennedy, vede arrivare con gioia la band inglese, invitata dal presentatore Ed Sullivan. Due volte bloccato in aeroporto dalle fans di John, Paul, Ringo e George, Sullivan tratta con il loro manager, Epstein, una tournée tv in America. Siglano stringendosi la mano un contratto per 10.000 dollari, allora il salario medio annuo americano era 6000 dollari.

Le tre serate fanno la storia della tv, in sala solo 700 posti, l’ex vicepresidente Nixon invoca un biglietto per la figlia, il compositore Bernstein – ricorda il sito dell’Ed Sullivan Show – rimane fuori, mentre le ragazze urlano e sotto l’inquadratura di John Lennon appare la scritta «Ci spiace ragazze, è sposato». 73 milioni di spettatori, share del 60%, l’America si innamora dei Beatles.

Era ancora un’Europa capace di soft power, l’influenza sottile che passa attraverso la cultura, studiata nel saggio celebre di Joseph Nye tradotto da Einaudi: ai falchi di George W. Bush (tra cui proprio il marito della Nuland, Robert Kagan) Nye contrappone il soft power, accanto alla forza delle armi creare egemonia con arte, costume, moda. Nye lamenta l’arte perduta del soft power Usa, ma davanti al «si f… l’Europa» scandito mezzo secolo dopo la trionfale tournée dei ragazzi di Liverpool vien da chiedersi: e noi europei quando abbiamo perduto il nostro «Potere soffice»? Quando non siamo riusciti a darci una Costituzione condivisa? Quando abbiamo dimenticato il monito del vecchio Churchill, 19 settembre 1946, Zurigo «Dobbiamo costruire gli Stati Uniti d’Europa…»? Quando su Balcani, Ucraina, Medio Oriente, Iran, Siria, balbettiamo nella Babele delle lingue nazionali? Quando abbiam perduto l’occasione di avere al Consiglio di Sicurezza Onu un solo seggio, dall’altissimo prestigio morale e politico, per l’Unione? 

Gli storici decideranno. Nel frattempo i politici minimizzano, in America un «f…» non si nega a nessuno, nel suo ultimo film su Wall Street Leonardo DiCaprio impiega la parolaccia per un record di 506 volte. Ma la verità è che Usa ed Europa sono ormai lontane. Durante la presidenza G.W. Bush tanti, tra gli europei e i democratici Usa, davano la responsabilità ai «neoconservatori» repubblicani. Sciocchezze. La presidenza Obama, che incanta gli europei fin dal discorso da candidato a Berlino, luglio 2008 «L’America non ha migliore amico dell’Europa», lascerà Washington e Bruxelles non più vicine di un pollice. Il patto sul libero commercio Atlantico non scatta, e non per mancanza di interessi, ma perché il negoziato langue burocratico, sterile, senza passione civile.

Nsa e spionaggio, Russia e Cina, shale gas e Ogm, ambiente, troppi attriti tra i partner del dopoguerra. Se non ci offendiamo per il «vaffa» della Nuland, se lo guardiamo in controluce, con nostalgia per la Beatlemania 1964 Usa, quando l’Europa era «cool», forse cogliamo la magia perduta. I nostri leader di oggi, gli incolori Van Rompuy e Lady Ashton, i contendenti alla guida dell’Unione, gli eterni Jean-Claude Juncker, Martin Schulz, Guy Verhofstadt, un conservatore, un socialista, un liberale per tutte le stagioni come mai potrebbero colpire il nipote di una ragazzina urlante del 1964? Immaginate qualcuno a strillare per Jean-Claude, Martin, Guy come per John, Paul o George? Noi no, purtroppo.

Twitter @riotta

Da - http://www.lastampa.it/2014/02/08/cultura/opinioni/editoriali/il-potere-perduto-delleuropa-kQI4kT3yPHEbsiS6c9IdgM/pagina.html
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« Risposta #121 inserito:: Febbraio 21, 2014, 04:58:02 pm »

Articolo tratto dall'edizione in edicola il giorno 20/02/2014.
All’estero l’Italia resta un rischio

Nella sala riunioni di un istituto internazionale che valuta i «rischi-paese» per le aziende globali che investono all’estero, a New York, si è esaminata 48 ore fa la situazione italiana dopo la staffetta Letta-Renzi. Prima di dirvi qual è stato il giudizio finale degli studiosi sulla nostra nazione, voglio raccontarvi di che cosa «non» hanno parlato gli analisti. 

Il look di «Matteo», il chiodo, le camicie bianche, il tifo per la «Fiore», lo streaming con Grillo, andare in giro senza scorta, il gossip popolare, il petulante Totoministri, non sono stati citati. Sia governata da un maturo economista come Monti, un tecnocrate come Letta o un giovane ex sindaco come Renzi, l’Italia non impressiona mercati e cancellerie per l’anagrafe o le personalità. I dati che passavano crudi sono Pil, disoccupazione, produttività, tempi della giustizia, mercato del lavoro vischioso, corruzione, burocrazia, tasse elevate, debito pubblico, scuola e ricerca dietro la media europea, Sud, digital gap, frammentazione politica in Parlamento. 

È un gran bene che, con Matteo Renzi, una nuova generazione prenda il potere in Italia. Si devono assumere decisioni che condizioneranno la vita dei nati dopo il 1975, ed è opportuno che lo faccia chi ne subirà le conseguenze. Il nostro paese è avvitato a favore degli anziani contro i ragazzi, degli occupati contro chi non ha un lavoro, di chi ha connessioni personali, familiari, di lobby, politica o professione con la classe dirigente contro chi invece è un outsider senza raccomandazioni. Che queste ingiustizie vengano corrette, che il paese sia leale, con regole e senza trucchi, è auspicabile.

Renzi ha rotto due tabù a sinistra. Non crede che la Repubblica si fondi su «Viva o Abbasso» Berlusconi («niente viva, niente abbasso» dice un bellissimo racconto di Elio Vittorini), non considera gli elettori del centrodestra marchiati dalle loro idee, anzi li invita apertamente a unirsi nelle urne al centro sinistra, da pari a pari. E non segue, né nei modi, né nel linguaggio, lo stantio galateo dei mandarini da talk show. I suoi comizi sono performances, battute, scherzi, il pubblico, spesso composto da suoi coetanei, ride divertito. Le due novità, frutto della cultura e della storia di Renzi, lo hanno fatto molto criticare, ma alla fine gli hanno consegnato la guida di un Pd smarrito e incerto. Renzi è il primo leader di una sinistra post-berlusconiana, con nuove visioni e idiosincrasie.

Ma l’intera avventura politica di Matteo Renzi si arenerà se lui stesso, o il suo staff, dal raziocinante Del Rio, al blogger Sensi, alla cerebrale Boschi, finiranno per credere alla loro propaganda: che cioè basti non balbettare nell’antico politichese da «militanti severi» della ballata di Guccini, per creare lavoro e far crescere il Pil. I guai italiani, i numeri dell’economia, se ne infischiano della data di nascita del premier, di camicie, «Chi?» e parlantina. Sono scomodi, irriducibili. Ridicole gaffes come denunciare le agenzie di rating perché non considerano il nostro patrimonio culturale ci fan ridere dietro, sembriamo la vecchia aristocratica di La Grande Bellezza di Sorrentino, che rimpiange la nobile culla dove riposava da bambina, ora diventata esca per turisti chiassosi. Il mondo giudicherà Renzi dalle riforme. Quelle che Thatcher e Blair, Reagan e Clinton, Schroeder e Merkel, leader conservatori e progressisti, hanno creato e difeso nei loro paesi. Non da altro.

Le riforme economiche sono invocate dagli esperti, ma alla prova dei fatti gli italiani arretrano davanti al salto, esausti per la crisi e le tasse, nostalgici per gli anni dorati del boom. Grillo e i suoi paladini danno la colpa della paralisi economica alla «Politica», autoassolvendo così cittadini e ordini professionali, manager e sindacalisti, imprese e burocrazie, clan accademici e intellettuali, la ragnatela dello status quo che detesta meritocrazia, trasparenza, impegno. Renzi non troverà applausi quando dovrà chiedere ai cittadini di lavorare, o studiare, più e meglio, tagliare la spesa, ridurre i sussidi a imprese, enti, istituzioni, evitare gli sprechi. Dovrà vivere di maggioranze precarie, prendere posizioni impopolari, con la forza del riformista che mai Berlusconi ha voluto impugnare.

Non sarà una passeggiata, slalom allegro tra tweet e blog, non ce la caveremo con battute toscane, sorrisi accattivanti. Servono sudore e lavoro, strategia, impegno, studi, tenacia, coraggio. I partner europei ci daranno una mano sul benedetto 3%, a patto di vedere che siamo seri nella ricostruzione economica, come Spagna e Grecia, più della malmostosa Francia. Ma sconti non ne faranno. Gli investitori internazionali torneranno se l’Italia sarà trasparente e non corrotta, altrimenti se ne andranno altrove, incuranti dei picchetti in strada e dei tanti editoriali di casa nostra contro Wall Street.

Come se non bastasse servirà che l’Italia dica la sua a testa alta sull’India e l’intollerabile vicenda dei sottufficiali detenuti, che parli sulle violenze in Ucraina e Venezuela, che sia protagonista sulla trattativa in Siria e Iran, insomma ritorni paese degno del suo nome.

Renzi non cambi condotta e personalità, anche volendo non potrebbe. Ma prenda atto, con il suo governo, che non va in gita scolastica, corre una maratona defatigante. Gli analisti del think tank americano non hanno dato un parere favorevole al nostro paese, «Manca in Parlamento una maggioranza per le riforme economiche, dopo Monti e Letta anche Renzi fallirà». Lo stallo tra Pd, Berlusconi e Grillo è visto come cronico, l’outlook, la previsione per noi, non è positiva. Tocca adesso a Renzi dar loro torto: ha dimostrato di amare il rischio come candidato, continui a rischiare da leader. Si esponga sulle riforme e parli chiaro – come sa fare – all’opinione pubblica. Si stupirà, e con lui gli analisti Usa, di quante persone serie e perbene, capaci di scommettere nel futuro, ci siano in Italia, nate tra il 1975 e il 2000 ma anche più indietro, fino agli Anni Venti del secolo scorso. Se non azzarda, è perduto.

Twitter@riotta 

Gianni Riotta

Da - http://lastampa.it/2014/02/20/cultura/opinioni/editoriali/allestero-litalia-resta-un-rischio-lgadPEO0XlMxEWnz8kVXML/premium.html
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« Risposta #122 inserito:: Febbraio 24, 2014, 06:57:11 pm »

Editoriali
24/02/2014

Kiev e le scelte dell’Europa
Gianni Riotta

Nel romanzo «La Guardia Bianca», lo scrittore russo Michail Bulgakov ritrae la tragedia della famiglia Turbin a Kiev nel 1918-19, durante la guerra tra l’armata dei conservatori Bianchi, i Rossi bolscevichi, le effimere milizie del nazionalista ucraino Petlyura. I personaggi usano le due lingue come maschere politiche, proclamandosi fedeli a Mosca o Kiev nei giorni alterni dell’assedio.

Oggi l’Ucraina conosce la seconda rivoluzione dopo il 2004 Arancione, ma, malgrado la fuga del presidente Yanukovich, irriso sul web per il grottesco palazzo con i water decorati da mosaici finto bizantini e il ritorno dell’ex eroina Tymoshenko, il quadro è fermo a Bulgakov: da che parte va Kiev, a Ovest con Bruxelles, o a Est, con Mosca? La mappa delle ultime elezioni è nitida, l’Occidente vota unito l’opposizione democratica, Est e Sud, dove si parla russo, stanno con Putin, spaccati a metà.

Le speranze del 2004 Arancione sono perdute, la Tymoshenko discreditata, nessuno nella piazza che ha rovesciato il regime filorusso dell’ex teppista Yanukovich è leader maturo, non l’ex ministro dell’Economia Yatsenyuk, non l’ex pugile Klitschko. La propaganda di Mosca (e i suoi galoppini in Italia) seminano scandalo per i neofascisti nazionalisti di «Settore Destra», ma la debolezza dell’opposizione non bilancia le colpe del regime, lo sfascio economico, la repressione dei dimostranti anche quando la piazza era ancora non violenta. Anche il falco putiniano Alexei Pushkov, presidente della Commissione Esteri del Parlamento russo, ammette «Yanukovich ha fatto una triste fine».

E ora? Non ci sono «buoni» e «cattivi», in Ucraina tra cui scegliere, ma ricordate che Vladimir Putin non smetterà di interferire: se Kiev entra nell’area di influenza europea, o addirittura della Nato, il sogno neoimperiale di Mosca fallisce. Quando ha fatto strappare a Yanukovich, con la promessa di 15 miliardi di euro e un oceano di gas, l’accordo con i troppo cauti diplomatici europei, Putin voleva per sempre legare Kiev a Mosca, emulo della cacciata della Guardia Bianca 1919. Il Cremlino ambisce alla Crimea, che, si dice, Kruscev abbia assegnato agli ucraini durante una sbronza.

L’ex Consigliere per la Sicurezza nazionale americano Brzezinski e l’ex presidente europeo Prodi hanno, in questi giorni, proposto che, per evitare la guerra civile tra filorussi e filo-Ue che il Cremlino non esiterebbe a scatenare come in Georgia, il paese resti libero ma neutrale, modello Finlandia. Putin si impegna a non mestare negli affari interni, Europa e Stati Uniti sostengono l’economia che è allo sfascio, ma senza alleanze militari. Gli stessi oligarchi ucraini, al sicuro nel lusso di Londra, sembrano comprenderlo, se Rinat Akhmetov, considerato dal Financial Times «l’uomo più ricco in Ucraina» e ex alleato di Yanukovich, dichiara «Voglio un’Ucraina forte, indipendente ed unita e sottolineo unita».

La strada della ragionevolezza ha un solo contro: Putin. Per risolvere la crisi occorre che il duro del Cremlino accetti che, come la sua adorata squadra di hockey non è riuscita ad assicurarsi la medaglia d’oro alle Olimpiadi di Sochi, così anche per lui, dopo i successi di Siria e Iran davanti alle incertezze croniche del presidente Obama, sia venuto il giorno della sconfitta. I dimostranti di Piazza Indipendenza sono riusciti dove ormai nessuno sembrava più riuscire, umiliare Vladimir Putin. Perché il piano per un’Ucraina neutrale passi, occorre che Putin lo accetti, riconoscendo di aver perduto. Nella sua storia non ci sono precedenti di questa saggezza, quando le prende, Zar Putin aspetta, si lecca le ferite e riparte.

Una Seconda Guerra Fredda non è nell’interesse di nessuno, mentre la Cina mobilita la flotta nell’Oceano Pacifico, ma non possiamo farci illusioni. L’Ucraina è divisa, fragile e povera, per sottrarla al Cremlino Usa e Ue devono investire in aiuti finanziari veri, mobilitando una diplomazia meno di porcellana di quella che l’ex Kgb Putin ha fugato con rubli e minacce. Se la Russia scegliesse di vendicare lo smacco, Washington, Bruxelles e Berlino devono avere un Piano B, contrastare l’offensiva russa con caparbietà. La cosmopolita città di Leopoli, (Lviv), teatro negli Anni Trenta di una grande scuola filosofica, ha fatto parte in un secolo di quattro nazioni, impero Austro Ungarico, Polonia, Urss e Ucraina: i suoi studenti sono pronti alla secessione, non intendono vivere sotto il tallone russo. Il Cremlino deve sapere che Usa ed Europa sono pronti al negoziato, ma senza tradire i ragazzi europei di Lviv.

Così è bene che agisca anche l’Italia. Il neo ministro degli Esteri Federica Mogherini ha lanciato su twitter un post che il premier Matteo Renzi ha condiviso: «Con il pensiero, e il cuore, a #Kiev. Che tu sia poliziotto o manifestante, non si può morire così, in #Europa». Giusti sentimenti, a patto di ricordare che non siamo nella poesia di Pasolini dopo gli scontri di Valle Giulia, tra poliziotti e studenti nella democratica Italia 1968. I dimostranti andati pacificamente in piazza, i primi a morire, e le squadracce del regime oggi in fuga vergognosa dopo le violenze, non sono uguali, né politicamente, né eticamente. Il governo proponga in Europa, alla vigilia del semestre italiano, per l’Ucraina un ragionevole compromesso senza gradassate con la Russia, ma con un nitido segnale a Putin: l’Ue non tollererà nuove aggressioni a Kiev. Il 2014 non è il 1918 di Bulgakov.

Twitter @riotta 

Da - http://lastampa.it/2014/02/24/cultura/opinioni/editoriali/kiev-e-le-scelte-delleuropa-nNkaWDsAdvXFYC5Nhbgk2M/pagina.html
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« Risposta #123 inserito:: Marzo 04, 2014, 07:07:23 pm »

Articolo tratto dall'edizione in edicola il giorno 02/03/2014.

Ottimo e abbondante: il futuro non si addice a Cassandra
Contro i profeti di sventura, Peter Diamandis spiega perché l’avvenire è migliore di quanto pensiamo. Un libro da leggere, soprattutto in Italia

Alla fine del XVIII secolo Malthus previde lo sterminio dell’umanità: poiché la popolazione cresceva in progressione geometrica - 1, 2, 4, 8, 16, 32… - il cibo solo in progressione aritmetica - 1, 2, 3, 4, 5 -, tutti morti di fame in poco tempo. Le previsioni tragiche hanno di rado successo, Cassandra non coglie le tragedie vere, guerra nel 1914 e 1939, Aids, crisi finanziaria 2008, e annuncia spaventapasseri innocui. Stanley Jevons ebbe successo nel 1865 scrivendo che il carbone si sarebbe esaurito entro il secolo, il Times di Londra denunciava nel 1894 che entro il 1944 la città sarebbe stata sommersa da tre metri di sterco di cavallo di migliaia di carrozze e tram. Nel 1914 il governo Usa stima la fine del petrolio in 10 anni, e ripete l’errore nel 1939 e 1951. Nel 1972 il Club di Roma - attraendosi le ironie dell’Economist - è certo della fine di petrolio, gas naturale e materie prime, del boom dei prezzi, della depressione globale. Smentito, intigna: sbagliammo allora, ma il Caos resta vicino!

Perché il business di Cassandra non conosce crisi - date un occhio a giornali, tv e web - annunciando ogni sorta di malanno che il futuro non comprova? Secondo lo studioso e investitore Peter Diamandis, autore con Steven Kotler del saggio Abbondanza. Il futuro è migliore di quanto pensiate (Codice Edizioni) è colpa dell’amigdala, la parte del cervello umano che controlla la reazione alla paura e al pericolo. Millenni di sopravvivenza grazie all’amigdala che ci avvisava della bestia feroce in agguato nella boscaglia, del predone con un tomahawk dietro la grotta, ci rendono più sensibili al rischio da prevenire che all’opportunità da cogliere. Ci insegnava il direttore della Columbia Journalism Review, Spencer Klaw: «La gente scambia sempre il commentatore pessimista per autorevole, l’ottimista per superficiale». Amigdala!

Diamandis è un ottimista, la sua X Prize Foundation concede milioni di dollari in finanziamenti a chi realizza progetti pilota, auto elettriche, capsule spaziali economiche. Ed è dunque persuaso, al contrario di Malthus e del Club di Roma, che il futuro sarà migliore del presente, malgrado crisi, cambio del clima, disuguaglianze crescenti. Perché sbagliano le Cassandre, secondo Diamandis? Perché - e qui l’autore ha ragione - calcolano il futuro sui parametri del presente, come se nulla cambiasse e non si introducesse innovazione a mutare le stime. Oggi negli Usa la rivoluzione dello shale gas, energia che solo 10 anni fa valeva nulla, rende il paese libero dal ricatto del petrolio e assai meno vulnerabile dal ricatto energetico di Mosca e del Medio Oriente.  

Siate pessimisti o ottimisti, in Abbondanza troverete spunti affascinanti, il futuro delle energie solari, robot chirurghi, nati in guerra e che adesso lavorano sulle ginocchia infortunate, stampanti tridimensionali con materiale genetico (creeremo pelle sintetica per gli ustionati), energia nucleare pulita entro il 2030, altro che Fukushima, desalinatori per rendere fertile il Sahara e dissetare le megalopoli con l’acqua marina. Ci preoccupiamo tanto della desertificazione, Slow Food e Terra Madre di Carlin Petrini giustamente difendono i venerabili prodotti della terra, mentre Diamandis parla - e va ascoltato - di «agricoltura verticale», grattacieli che hanno a ogni piano una serra gigantesca: sorgendo in periferia della città, tagliano a 0 i costi di trasporto, uso di fertilizzanti, danno respiro ai campi troppo sfruttati, portano frutta e verdura fresca in ogni tavola senza che la carta di credito ci rovini al supermarket.

I critici, come Matt Ridley del Wall Street Journal, contestano a Diamandis che la sua «dematerializzazione», risolvere i problemi con un software o un algoritmo secondo la filosofia di Silicon Valley, non basta a eliminare disoccupazione, inquinamento, miseria. Diamandis risponde che si tratta di processi, non di formule magiche (il dibattito Ridley-Diamandis al sito http://goo.gl/tRzejN).

Per chi ama il realismo, senza farsi condizionare dalle fobie dell’amigdala o dalle utopie tecnologiche, Abbondanza suscita due riflessioni. La prima: libro assolutamente da leggere in un Paese drogato di pessimismo come l’Italia, tra profeti cupi, persuasi che il web crei ignoranza, lo shale gas terremoti, gli Ogm mostriciattoli verdastri, le infrastrutture mafia…, per ricordarsi quanto le Cassandre abbiano sbagliato negli ultimi due secoli e sbaglino nel 2014. La seconda: verissimo che il presente è migliore di quanto i nostri nonni non sognassero e la realtà diversa dalle chiacchiere dei talk show (negli Usa il 5 per cento dei più poveri è, in media, più ricco del 5 per cento degli indiani più ricchi, nessuno ve lo dice e vale la pena di riflettere su cosa significhi questa cifra…), ma come il futuro ci sorprende in bene, ci sorprenderà anche nel male. Chi avrebbe detto, ai tempi degli abbracci tra Reagan e Gorbaciov, che un nuovo leader del Cremlino avrebbe mandato truppe oltre i confini russi? Purtroppo all’impotenza di Obama e degli europei, l’ottimismo condivisibile di Diamandis nessun aiuto offre. Davanti ai carri armati di Putin servono Machiavelli e Churchill, non bastano le stampanti 3D.

Twitter @riotta
Gianni Riotta

Da - http://www.lastampa.it/2014/03/02/cultura/ottimo-e-abbondante-il-futuro-non-si-addice-a-cassandra-HclUNu6XGaX5iMCiLwENLM/premium.html
« Ultima modifica: Marzo 04, 2014, 07:11:02 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #124 inserito:: Marzo 04, 2014, 07:11:35 pm »

Editoriali
04/03/2014

Il premio come avvertimento
Gianni Riotta

Il cinema italiano ha vinto dodici Oscar prima del trionfo di domenica con Paolo Sorrentino e «La Grande Bellezza». Vittorio De Sica e Federico Fellini da soli ottengono sette statuette (più l’Oscar alla carriera per Fellini). 

E d è «Sciuscià» di De Sica, vincitore nel 1948 di quello che allora si chiamava «Oscar Speciale», a metter le basi per il futuro «Premio al miglior film straniero». Prima di De Sica Hollywood guardava e premiava se stessa, indifferente a quanto accadeva lontano da Los Angeles e dalla scritta immensa sulla collina franosa, un tempo «Hollywoodland», poi orgogliosamente solo “Hollywood”. 

Il cinema che l’America premia nel dopoguerra è il cinema italiano della realtà. De Sica vince nel 1948 con il bianco e nero tragico di «Sciuscià», neologismo italo-americano per «lustrascarpe», in un Paese che dal ’43 al ’45 conosce l’umiliazione della prostituzione, gli stupri di massa delle truppe coloniali. Nel 1950 De Sica rivince con «Ladri di biciclette», l’Italia che lo studioso Edward Banfield disprezza in un celebre saggio per il «familismo amorale», trova invece nella famiglia il riscatto, quando lo Stato crolla.

Hollywood premia l’Italia che eravamo davvero, e i critici nostrani parrucconi contestano il neorealismo, vergognandosi che i panni non vengano lavati in casa. De Sica rivince nel 1965 con «Ieri, oggi, domani», e già l’Italia della povera contrabbandiera Adelina - Sofia Loren -, costretta a restare sempre incinta per non andare in galera (personaggio ispirato dalla cronaca, con le 19 gravidanze di Concetta Muccardi, venditrice di Marlboro illegali) incontra il boom. Lo spogliarello sexy-ironico della Loren davanti all’incantato Marcello Mastroianni strega gli americani, sulle note di Abat-Jour di Henry Wright.

Anche l’Italia di Fellini oscilla tra realtà e fantasia, da «La strada» e «Le notti di Cabiria», premiati nel 1957 e 1958, alla nostalgia di «Amarcord», premio 1975, passando per il capolavoro «8 ½» statuetta 1965. È l’Italia del miracolo economico, in 15 anni passata da appena 7 case su 100 con acqua corrente, fognature e elettricità all’Oscar della valuta per la Lira, concesso nel 1960 dal Financial Times al Governatore di Bankitalia Menichella, da 430.000 automobili a 5 milioni di utilitarie e spider a scorrazzare in autostrada. Un’Italia ricca, che non lucida più scarpe o ruba biciclette, sensuale, ma incerta sul futuro, Dio, la politica, la propria identità. L’Italia senza Oscar di Antonioni.

La nostalgia per il Paese perduto rimpianto da Pasolini, commuoverà gli Usa con «Nuovo Cinema Paradiso» di Tornatore nel 1990, e l’ambiguità dell’italiano mandolinaro, eterno vitellone che non fa la guerra ma gli amorazzi ed elogia la vita come fuga da se stessi, colpisce Hollywood nel 1992 con «Mediterraneo» di Salvatores. Benigni, con la favola «La vita è bella», fa storia a sé.


L’America applaude quando ricordiamo ai membri dell’Academy il Paese che eravamo e più non siamo, o quando ci lanciamo nel Carnevale infingardo da Arlecchino e Pulcinella, pasticcioni, eleganti, sexy, pronti alla risata ma se c’è da fare sul serio, impegnarsi per un ideale, scappiamo con un flirt, un Gin Tonic, una bella pensione. In villa se va bene, altrimenti ci si accontenta della panchina. E gli intellettuali? Sproloquiano tronfi, dalla «Terrazza» di Ettore Scola con Gassman, a «La Grande Bellezza» di Sorrentino (guardate le perfette facce dell’editor Severino Cesari, che debutta come attore interpretando il marito della Direttrice nana).

Film italiani «duri», «La battaglia di Algeri» di Pontecorvo, «Gomorra» di Garrone, «Il generale Della Rovere» di De Sica, «Salvatore Giuliano» di Rosi, «Baaria» o «La migliore offerta» di Tornatore, dove la realtà prevale sulla malinconia, non persuadono l’Academy. L’Italia deve avere sapore di «Eataly», essere commestibile, Doc, a chilometro 0, ruspante e chic, piccante e senza colesterolo, colta e divertente, come i siti web delle agenzie turistiche propongono al viaggiatore Business Class. 

Paolo Sorrentino – cui vanno vive congratulazioni per la vittoria, che speriamo riporti un po’ di ottimismo in giro da noi - firma il film dell’Italia rassegnata a non avere credibilità: le grandi aziende fuggono, i fondi di Borsa non investono, i laureati emigrano. Il suo è un apologo - giornalisti con attico sul Colosseo e feste da Grande Gatsby non ce ne sono più -, per mostrare il Paese com’era, vedi la cartolina dei primi 20, calligrafici, minuti. Il resto sono pasticci, smorfie, battute grevi alla «Jep» Servillo. La sua maschera, contrapposta da Sorrentino all’eleganza del Mastroianni di Fellini in «8 ½», ricorda un dribbling di Rivera davanti a un tackle di Gattuso, il design di un computer Olivetti di Sottsass contrapposto al piatto di «cacio e pepe» ammannito nei ristoranti trappola per turisti oggi. Il Paese che sperava e cresceva del 6% e il Paese che non sogna e cresce, dopo una generazione di stagno, dello 0,1%.

La nobildonna di Sorrentino guarda affranta la culla nella vecchia casa diventata Museo e noi siamo come lei. Mentre il Paese manda al governo con Renzi il leader più giovane da sempre, «La Grande Bellezza» è un monito: continuiamo così e finiamo eleganti straccioni a guardare il passato, vincendo magari un sacco di Oscar, ma senza un domani dignitoso.

Gianni Riotta@twitter

Da - http://lastampa.it/2014/03/04/cultura/opinioni/editoriali/il-premio-come-avvertimento-XagkFySpeTCZIYlqpMoonK/pagina.html
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« Risposta #125 inserito:: Marzo 18, 2014, 12:16:23 pm »

Editoriali
17/03/2014

Il rischio che lo Zar rilanci

Gianni Riotta

Viviamo in Ucraina la più grave crisi internazionale dalla fine della Guerra Fredda. Le tragedie delle guerre civili in Africa e nei Balcani, l’eterno Medio Oriente da Israele e Palestina alla Siria, due guerre in Iraq e una in Afghanistan, la tensione con la Cina sulle isole Senkaku-Diaoyu, non hanno mai posto a rischio l’equilibrio intero del pianeta. Lo scontro su Kiev non è ancora allarme rosso come i giorni dei missili a Cuba nel 1962, quando il presidente Kennedy e il leader russo Kruscev si sfidarono sull’orlo della guerra atomica, ma è duello senza regole certe, con possibili errori gravi, da una parte e dall’altra.

Il referendum farsa imposto da Mosca alla Crimea si risolve come stabilito, gli exit polls parlano di 95% a 5 per il ritorno a Mosca. La Casa Bianca e l’Europa considerano l’annessione di Sebastopoli inammissibile e si apprestano a imporre sanzioni contro Mosca. 

Il Cremlino reagirà con analoghe misure, nel galateo inamidato delle ripicche diplomatiche, poi arriverà la sostanza: Putin si accontenta della Crimea o vuole nuove aree ucraine, gli basta una Kiev intimidita che resti a mezz’aria tra Bruxelles e Mosca, o la vuole di nuovo vassalla, come ai tempi del Pcus? La posta in gioco è storica, Vladimir Vladimirovich Putin si difende dall’espansione occidentale a Est o sogna un nuovo impero Urss?

L’astuta condotta del Cremlino tiene in sospeso i rivali, a tratti persuasi che Putin voglia forzare la mano, altre che stia bluffando. Qual è la verità? A stare alla propaganda dei media russi «i fascisti» hanno conquistato Kiev, spalleggiati da americani ed europei, e la Crimea deve essere protetta da rappresaglie contro la popolazione amica di Mosca. La scusa per queste sciocchezze viene dal tentativo di abolire la lingua russa in Ucraina, subito bloccato dal presidente pro tempore Oleksandr Turchynov. Di scuse Putin ne troverà di nuove -ricordate la favola del Lupo e dell’Agnello?- e Kiev denuncia già scorrerie oltre il confine con morti. Se ci fosse un raid con vittime, una provocazione dei fascisti ucraini di Settore Destra, un attentato misterioso, Mosca potrebbe intervenire ancora.

L’Europa e gli Stati Uniti sono perplessi. Davanti alla Crimea, da sempre legata a Mosca e solo nel 1954 ceduta all’allora repubblica sovietica dell’Ucraina, né il cauto Obama né la prudente signora Merkel, alzeranno il tiro, tanto più che gli americani sono, come la Teresa Batista del vecchio romanzo di Jorge Amado, «stanchi di guerra» e gli europei legati al petrolio e al gas russi (Svezia e Gran Bretagna pressano per sanzioni dure, Spagna e Italia per sanzioni wafer, la Germania media). Ma se Putin marciasse verso ovest e il confine Nato della Polonia, malgrado tutte le paure e le riluttanze occidentali, qualche cosa si romperà.

 
Polonia e Svezia hanno scelto il riarmo, a Parigi e Londra si ripensa ai tagli al bilancio della Difesa, i Paesi baltici sono allarmati ed è forse prematuro, da noi, interrogarsi sull’abolizione dell’Aeronautica come ha fatto ieri la ministro della Difesa (dovremmo anche - per logica conseguenza tattica - abolire carri armati, artiglieria e, di conseguenza, le Forze armate: opinabile scelta in questo clima). La crisi è dunque in mano a Putin, se ordina l’escalation apre scenari imprevedibili.

Ieri il presidente russo ha, come sempre, scelto l’ambiguità: al telefono con la Merkel ha ripetuto il suo sdegno per le minacce ucraine ai cittadini di origine russa, ma poi non s’è detto ostile a una mediazione Osce (l’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa), mentre il suo ministro Lavrov discuteva con il segretario di Stato Usa Kerry di «riforme costituzionali» a Kiev per risolvere lo stallo.

Molti incoraggiano la cautela, ma occorre fare attenzione che Putin non legga la diplomazia come timore, e scateni la Fase II della sua «guerra speciale», occupare l’Ucraina con truppe mascherate da milizie locali. Per questo il quotidiano Washington Post, da sempre attento agli equilibri globali, propone ora una linea dura: le sanzioni e il blocco dei visti di viaggio vanno imposte non verso i pesci piccoli in Ucraina (come suggerisce anche la diplomazia italiana) ma direttamente contro «Gli oligarchi e mandarini del potere intorno a Putin… e tra loro Igor Sechin, presidente della compagnia petrolifera Rosneft, Vladimir Yakunin, presidente delle Ferrovie Russe, Alexei Miller, presidente di Gazprom (la grande compagnia del gas ndr). La Russia è governata da una cosca mafiosa. Se i boss non pagano pegno, le sanzioni occidentali avranno poco effetto».

È un linguaggio insolito nel felpato mondo di Washington e non basta la nuova proprietà multimedia di Jeff Bezos, il fondatore di Amazon a spiegarla. Il Washington Post indica al presidente Obama e agli europei il dilemma strategico: la strada della pace e della diplomazia passa stavolta da una linea forte, che tolga a Putin la voglia di attaccare ancora. Perché se Putin marciasse mai su Kiev anche il XXI secolo avrebbe la sua crisi di Cuba. Meglio non indurre il Cremlino in tentazione dunque, come ha fatto la Cina rompendo la tradizionale condotta filo-russa al Consiglio di Sicurezza Onu e astenendosi sulla condanna dell’invasione in Crimea. Pechino dice a Putin a suo modo «Fermati!», ora tocca agli occidentali farlo.

Twitter @riotta 

Da - http://lastampa.it/2014/03/17/cultura/opinioni/editoriali/il-rischio-che-lo-zar-rilanci-ShNaoCEqqNC7GtJwy5X62M/pagina.html
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« Risposta #126 inserito:: Marzo 29, 2014, 12:17:17 pm »

Editoriali
28/03/2014

Lo scambio tra Difesa ed Economia

Gianni Riotta

Se vi è ormai nota la percentuale del «3%» di Maastricht, camicia di forza che il premier Matteo Renzi prova ad allentare, imparatene una nuova, il «2% Nato». È la percentuale di Prodotto Interno Lordo dei Paesi dell’Alleanza Atlantica che i patti prevedono venga destinata alle spese militari. Gli americani fanno i generosi, con il 4,1% del Pil, gli europei i taccagni, in media solo l’1,6% Pil alla Difesa.

La missione europea del presidente Barack Obama, nel mezzo della crisi ucraina seguita all’annessione della Crimea da parte di Vladimir Vladimirovich Putin, si condensa giusto nel brand «2%». Finite le cerimonie, i picchetti in alta uniforme, i palazzi scintillanti del Vecchio Continente, Obama ha detto in soldoni: «Fratelli, Putin è alle porte. Nessuna sa quando colpirà di nuovo dopo Cecenia, Georgia e Ucraina, forse tra Moldova e Transnistria dove ha già milizie. Se si muoverà, la Nato dovrà esser pronta e noi americani non possiamo pagare da soli».

Il presidente Obama resta popolare in Europa, malgrado le incertezze su Siria, Iraq e Afghanistan e la prudenza nel riformare la raccolta dei metadati Nsa dopo le rivelazioni dell’ex agente Snowden ne abbiano appannato l’aureola. 

Ma l’offensiva di Putin costringe Casa Bianca e Unione Europea a ripensare il vecchio matrimonio senza amore. Obama non può solo dedicarsi al «pivot» verso la Cina, anche se nella sua prossima missione in Asia, in aprile, parlerà meno di Nato e più di frizioni Pechino-Giappone. Gli europei non possono più fingere di vivere nel 1962, con i Beatles, le minigonne a Carnaby Street, Kennedy a proteggere l’Occidente a Cuba.

Chi fosse pessimista sul viaggio di Obama in Italia, rilegga però le cronache dopo la visita del presidente Richard Nixon a Roma, 27 febbraio 1969. Lo storico Guido Panvini ricostruisce quei giorni terribili, i militanti neofascisti e del Msi che ricordano la morte dello studente cecoslovacco Jan Palach e scrivono sui muri «W la visita di Nixon», (oggi molti dei loro eredi flirtano con Putin), mentre un corteo rivale di migliaia di giovani marcia verso l’Ambasciata Usa in via Veneto, con alla testa parlamentari del Partito Comunista e dello Psiup e striscioni contro «Nixon Boia», la «X» deformata in svastica. Scontri con la polizia, cariche, poi all’università lo studente anarchico pugliese Domenico Congedo cade da un cornicione e muore a 24 anni. Le proteste persuadono Nixon ad annullare la conferenza stampa a Roma.

I distinguo di oggi scompaiono davanti alla violenza dei giorni di Guerra Fredda 1969: Obama definisce ora il presidente Napolitano «un amico», «uno statista», confidando di contar su di lui per la stabilità in Europa e in Italia. Altrettanto caloroso l’«endorsement», il sostegno che Obama offre a Renzi, lodandone «energia, ambizione, visione» e se in Italia «ambizione» è parolaccia, in America è virtù cardinale.
Obama sa che l’Italia, con Austria e Cipro, è il Paese più cauto davanti alle sanzioni contro Putin, per l’interscambio economico che lega Roma a Mosca. Non chiede a Renzi di diventar falco come svedesi o come il ministro Sikorski in Polonia (nei discorsi da sindaco di Firenze, però, Renzi è molto «atlantico», rispetto a tanti nella sinistra). Gli chiede di restar fedele al ruolo italiano nella Nato, alleato fedele che conta poi su una mano di Washington nei giochi delle cancellerie europee, vedi entusiasmo per l’Expo 2015 di Sala. Obama mette le due cifre sul tavolo: se Renzi lavora al 2% sulla Difesa (senza obblighi sugli aerei F35 ma senza smobilitare le Forze Armate), lui lo copre con la Merkel sul 3% Maastricht. Può non bastare all’austera Cancelliera, ma meglio di niente.

La Nato, Obama non ne fa mistero quando i reporter queruli si allontanano, non è in forma. Mentre Nixon e i parlamentari del Pci si fronteggiavano a Roma 1969, gli americani avevano in Europa 400.000 soldati. Oggi 67.000. Allora erano pronti al decollo 800 aerei militari Usa, adesso ne son rimasti 172, comprese 12 innocue cisterne volanti e 30 aerei cargo. La Marina aveva 40.000 uomini in Europa, per una flotta guidata da maestose portaerei. Sono rimasti in 7000 e non ci sono più portaerei a stelle e strisce di stanza nel Mediterraneo. Gli alleati han fatto di peggio, Londra ha sotto le armi 82.000 uomini, meno, osserva il New York Times citando l’ex capo di Stato Maggiore Dannatt, di quanti ne avesse Lord Wellington ai tempi della battaglia di Waterloo, 1815. Parigi taglia la Difesa a ogni finanziaria.

La scommessa euro-americana su pace e status quo è dunque travolta dall’impeto di Putin, lamenta in un amaro editoriale l’ex ambasciatore Usa a Mosca McFaul http://goo.gl/uM00a6 . Ma, nota il professor Schindler del War College della Marina, il mea culpa di McFaul suscita a Mosca l’orgogliosa reazione di Vyacheslav Nikonov, sul giornale del Cremlino Rossiyskaya Gazeta: «La Russia ha vinto – scrive Nikonov - perché l’America è odiata, l’Europa dipende da noi, i Paesi emergenti detestano Washington, Cina e India ci sono amici e noi russi agiamo sul serio, gli americani no. La genealogia rende l’articolo (in versione russa http://goo.gl/EB6A3e) ancor più sprezzante, Nikonov è il nipote del ministro stalinista Molotov, autore del patto con il nazista Ribbentrop.

Il dilemma strategico per americani ed europei resta oscuro, il Pentagono esclude ogni pressione militare su Mosca per l’Ucraina ma le sanzioni non funzioneranno subito, «Ogni ragazzo moscovita perbene – scrive Nikonov - ambisce a stare nella lista nera della Casa Bianca». La prossima mossa Usa-Ue andrà dunque ben ponderata. Oggi per Obama, la difficile tappa in Arabia Saudita, alleata dal 1933 con le prime trivellazioni Aramco, che contesta gli stop and go in Siria, Iran, Medio Oriente. Quanto al colloquio con il Papa, un osservatore attento dice «Obama ha apprezzato il Santo Padre, il Vaticano è più cauto. Obama parla di povertà nel mondo, il Segretario di Stato Parolin critica la riforma sanitaria e la politica familiare dei democratici». Ieri Obama ha chiuso la missione a Roma al Colosseo con il ministro Franceschini, senza blindarsi come Nixon 1969. Ma se Usa e Ue non vogliono dar ragione al nipotino di Molotov «la Russia ha vinto!», il lavoro davanti resta lungo, i sacrifici ardui, non come i comunicati al giulebbe.

Twitter@riotta 

Da - http://lastampa.it/2014/03/28/cultura/opinioni/editoriali/lo-scambio-tra-difesa-ed-economia-6ISOhH6pSEgTAYjeZMVuHP/pagina.html
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« Risposta #127 inserito:: Maggio 01, 2014, 07:37:33 pm »

Editoriali
01/05/2014

Se la Cina sorpassa un’America distratta

Gianni Riotta

Thomas Polgar, ultimo capo della Cia a Saigon e uno degli ultimi americani a lasciare la capitale del Vietnam nei giorni della disfatta 1975, scomparso da poche settimane a 91 anni, amava dire: «Abbiamo perso la guerra in Vietnam per il golpe in Cile e la guerra del Kippur». A chi chiedeva stupito, come un colpo di Stato in America Latina e una guerra in Medio Oriente del 1973, avessero innescato una sconfitta nel Sud-Est asiatico, Polgar spiegava tranquillo che il Congresso, furioso per l’appoggio della Cia e del segretario di Stato Kissinger al golpe di Pinochet, non concedeva più spazi di manovra, civili o militari, al Vietnam, e che l’impegno economico per sostenere Israele dopo il Kippur, nel pieno della crisi energetica del petrolio, impedì ogni resistenza in Vietnam.

Avesse torto o ragione su Saigon, il metodo della vecchia spia Polgar è spesso utile. Fatti lontani nel presente, si rivelano cruciali causa ed effetto nella storia. Noi viviamo giorni storici, il mondo che ne nasce sarà diverso da quel che immaginiamo.

Ma dobbiamo almeno provare a cercare i nessi decisivi. La classe dirigente tedesca, per esempio, resta filo Putin, persuasa che l’interesse energetico a breve cancelli ogni preoccupazione strategica: e, a stare ai dispacci diplomatici, la cancelliera Merkel avrebbe persuaso il nostro governo a questa linea «morbida», corroborata sembra dall’interpretazione delle fonti russe sulla telefonata tra il leader del Cremlino e il nostro primo ministro Renzi. Come è cambiato il mondo! Milizie filorusse organizzate da Mosca in Ucraina orientale (quelli del passamontagna per capirci) sequestrano i sei osservatori Osce di un team tedesco, si rifiutano di trattare con il ministro degli Esteri di Berlino Steinmeier con tale protervia da venirne definiti «disgustosi». Infine però Berlino porge l’altra guancia: e, badate, le fonti confermano che l’ex ragazza della Germania Est, Angela Merkel, è la più dura del Paese, industria e finanza, guidate dall’ex cancelliere socialista Schroeder lobbysta di Putin, accetta che la Russia, dopo porzioni di Georgia e Crimea, ingoi anche l’Ucraina, purché l’Ebitda non ne risenta.

Cosa può fare allora il presidente Obama? Poco. La spaccatura Usa-Ue, che la guerra in Iraq del 2003 non provocò, ma solo aggravò, è compiuta, e in poche ore il leader della Casa Bianca legge sui bollettini che la Cina è prossima al sorpasso economico 2014 su Washington, con gli Stati Uniti che perdono la testa del pianeta per la prima volta dal 1872, quando alla Casa Bianca venne rieletto il generale Grant. Non basta: i dati sul Pil, malgrado le scuse sul pessimo inverno, parlano di una crescita «all’italiana» 0,1%, sotto le pur mediocri previsioni Federal Reserve 1,1%. Peggio, un sondaggio del quotidiano finanziario «Wall Street Journal» stima che la metà degli americani, 47%, è stufa e stanca di intervenire nel mondo, e vuole la Casa Bianca concentrata sull’occupazione.

America isolazionista come negli Anni Trenta? Le sfortunate guerre in Afghanistan e Iraq, costate miliardi di dollari e migliaia di vite umane, hanno disgustato gli americani, eppure la maggioranza dei cittadini ritiene «troppo prudente» Obama in Ucraina, mentre il 53% boccia la sua intera politica estera e il 58 l’economica. Lo studioso conservatore Max Boot nota il paradosso: l’America non vuole impicciarsi con il mondo, ma non approva la politica estera di un presidente che se ne impiccia pochissimo. Che succede?

Succede che i nessi vanno ricercati lontano, abbiamo dimenticato che il presidente Roosevelt non riuscì a far dichiarare guerra al Congresso prima di Pearl Harbor, e anche dopo l’attacco giapponese il Parlamento nicchiò ad attaccare Italia e Germania, che fecero da sole l’errore di affrontare lo Zio Sam. Gli europei non capiscono che, in un mondo instabile, i commerci rischiano, gli americani non comprendono come leadership economica, politica e morale sono integrate, non si può essere Paese numero 1 in un solo ambito. La classe media Usa, a lungo la più benestante, è sorpassata dai canadesi, perde ricchezza e status; le infrastrutture Usa, strade, ponti, edifici pubblici, comunicazioni, sono bocciate una per una, «da terzo mondo» dal devastante rapporto «Financial Times».

Ma chi ha in America la forza di proporre un piano di lavori pubblici, scuole migliori, Difesa high tech e senza sprechi, tagliando i sussidi a industrie obsolete? Provateci e la sconfitta elettorale è certa. Dunque il mondo, in giorni di storici eventi che non fanno titoloni sui siti web, non vede i nodi che il futuro considererà con acribia. L’America crede di poter essere leader senza sacrifici; Putin si illude di potere entrare in tutta l’Ucraina, non capendo che la sua crescente aggressività ha già svegliato polacchi, svedesi e baltici e domani sveglierà gli altri europei; la Cina è, per ora, vincitrice della «guerra speciale» in Ucraina, con Casa Bianca e Cremlino in gara per corteggiarla, mentre gode dei comunicati «Numeri 1 economici!», ma ci vorranno al ritmo attuale decenni, prima che la classe media cinese abbia il tenore di vita europeo o americano, il disastro demografico rallenta la corsa, crescono in piazza e sul web malumori politici e sociali.

Siamo un mondo di miopi, grandi e piccoli. La lezione di Polgar brilla adesso con il Vietnam, che temendo l’invadenza cinese, si avvicina ai vecchi nemici del 1975, gli americani. Per dieci anni Washington ha perduto partner per eccesso di aggressività. Putin in Ucraina e i cinesi nelle isole Sankaku-Diaoyu chiariscono a tanti (forse perfino agli europei a un certo punto) che forse è comunque meglio esser amici degli americani nel duro XXI secolo. E gli americani intanto cantano «Che mi importa del mondo…». Povero Polgar: riposi in pace!

Twitter @riotta

Da - http://lastampa.it/2014/05/01/cultura/opinioni/editoriali/se-la-cina-sorpassa-unamerica-distratta-bRbOPXKDSEefNNS5ciEraK/pagina.html
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« Risposta #128 inserito:: Maggio 05, 2014, 11:50:18 pm »

Editoriali
05/05/2014

Le zone franche dove lo Stato non comanda

Gianni Riotta

Provate ad immaginare lo Yankee Stadium di New York circondato da sparatorie, con pistolettate e feriti lungo le Avenues. Considerate lo stadio Stamford Bridge di Londra, casa del Chelsea, ostaggio di un avanzo di galera, imparentato con la mafia, detto Genny The Scum, che discute con i garbati bobbies, i poliziotti, e il capitano dei Blues da pari a pari. Completate il viaggio nell’Impossibile con l’Allianz Arena di Monaco, l’elegante struttura disegnata dagli architetti Herzog&deMeuron, assordata dall’esplodere di bombe carta ed ordigni così potenti da far piangere, terrorizzata, la bambina della Cancelliera tedesca: fuori la capitale bavarese preda della guerriglia urbana.

Spiace ammettere subito che nessuna delle situazioni descritte è lontanamente possibile nella realtà, in America, Gran Bretagna, Germania. Paesi che hanno profondi problemi sociali, ma in cui lo sport non può finire in mano a racket violenti perché mai lo Stato cederebbe all’anarchia spazi pubblici. Capire come invece noi italiani ci siamo ridotti così è stilare una diagnosi che ci porta subito lontani dal calcio-sport, 4-4-2, falso 9 centravanti, ripartenze di fascia, gioco che milioni di tifosi perbene adorano, «la cosa più importante tra le non importanti» nella definizione del mister Arrigo Sacchi. La Repubblica italiana ha progressivamente ceduto il controllo di territori nazionali, il potere, a minoranze faziose, organizzate, estremisti politici, ultras del calcio, criminalità organizzata, devianze e soggetti eversivi. Citare insieme questi usurpatori del diritto di controllo sociale non significa pensare che No Tav violenti, Commandos della Serie A, Clan camorristi, gang di quartieri, siano la stessa cosa, abbiamo gli stessi obiettivi o siano pericolosi alla pari, come i soliti faziosi insinuano online.
 
Malgrado i rapporti di Polizia, Carabinieri, gli studi di sociologia e le cronache dei reporter testimonino di larghe aree di convivenza tra i settori illegali – e il signor Gennaro De Tommaso, corpulento ultras detto Genny a’ carogna, figlio di un camorrista, condannato e bandito dagli stadi ne è prova vivente - le violenze pubbliche hanno motivi, strategie e radici diverse.

Quel che le unisce però, ed è il veleno che la Repubblica dovrebbe combattere, temere e neutralizzare, è il monopolio della violenza nei territori che presidiano, siano quartieri, valli, impianti sportivi, porti, traffici, commerci. Il cardine di una democrazia è la delega dell’uso della forza alla comunità e «the rule of law», la legge, in vigore sull’intero Paese, senza nessuna franchigia, zona franca, dove il diritto non si possa applicare, come capitava nei periodi bui del Medio Evo, nella Cina dei Signori della Guerra, nel Far West americano. 

Davanti alle autorità, dal presidente del Consiglio tifoso della Fiorentina, alla seconda carica dello Stato, il presidente del Senato Grasso che festeggiava nel cuore la promozione del suo Palermo, i violenti, dentro e fuori lo stadio Olimpico, fischiando l’inno nazionale, fermando la partita, bloccando la Capitale, hanno provato che la Repubblica non è più, ovunque, sovrana. Questo è un pericolo così drammatico, vera emergenza nazionale, che ci si aspetterebbe dalla politica, e dalle istituzioni, uno scatto unito, per una volta, per dire «Basta!». Le forze dell’ordine hanno da tempo proposte, in parte di repressione in parte di bonifica sociale, per contrastare la rivolta ultras.

Bene ha fatto il premier Renzi a chiamare la signora Raciti, vedova di un funzionario dello Stato ucciso mentre faceva il suo dovere da un ultras, a Catania, che sconta pochi anni di pena mentre i suoi sodali lo elogiano dalle telecamere. Ma i leader politici per troppo tempo hanno offerto totali, o parziali, giustificazioni ai violenti, e oggi non hanno credibilità. Sentire online chi parla del doloroso caso del giovane Aldrovandi, per coprire i violenti, è sintomo di una comunità dispersa. Se la violenza è commessa da studenti autonomi, contadini anti Europa, tifosi arrabbiati, estremisti anti sindacato, abusivi di ogni risma, c’è sempre in parlamento un drappello di deputati pronti a dire «ben altri sono i problemi, la violenza va compresa».

No, va repressa. E poi vanno recise le eventuali ragioni di ingiustizia che l’hanno prodotta. Ma provare a blandire la piazza per una manciata di voti è grave. Spiace dunque che ieri, nel condannare il caso Olimpico con toni per una volta misurati, il leader del movimento di opposizione più forte, Beppe Grillo fondatore del M5S, non abbia saputo resistere all’insulto elettorale contro Renzi. Piccolezze che indeboliscono la reazione alla violenza e indeboliscono lo Stato. Grillo ha ormai un potere grande nella Repubblica: deve gestirlo con responsabilità, o finirà travolto come capita sempre agli Apprendisti Stregoni.

Chi ha vissuto gli Anni di piombo seguiti al 1969 sa che la violenza, una volta accesa la miccia, brucia senza quartiere. La crisi economica da cui l’Italia non sa uscire lascia milioni di giovani disoccupati a vita, senza speranze, valori, indicazioni. Nelle periferie, soprattutto al Sud, arruolarsi nella criminalità è spesso il solo cursus honorum. Qualche intellettuale blatera ancora di «decrescita felice», ma questo è il volto della decrescita, la trasformazione di ragazzi in gamba in plebei pronti ad arruolarsi per una mancia, generazione sfortunata relegata al ruolo di Lazzari senza arte e destino.

È questo che vogliamo per i nostri figli più deboli? Che andare in piazza con casco, spranghe, fumogeni, ordigni, pistole sia la loro università e Genny ’a carogna il leader di riferimento?

twitter @riotta 

da - http://lastampa.it/2014/05/05/cultura/opinioni/editoriali/le-zone-franche-dove-lo-stato-non-comanda-FGmnwW66QiVvfk7ifWD6IK/pagina.html
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« Risposta #129 inserito:: Maggio 22, 2014, 05:40:30 pm »

Editoriali
21/05/2014
Non votare contro il futuro

Gianni Riotta

Con ventisei milioni di cittadini senza lavoro, la disoccupazione è epidemica in Europa: eppure, senza Europa, i disoccupati cresceranno, non diminuiranno. 

Con il Parlamento europeo a legiferare senza sosta per regolare – o almeno provare a goffamente regolare - tecnologie, innovazione, ricerca scientifica, l’Europa perde colpi davanti a Silicon Valley e Bangalore nel software: eppure senza Europa nessuna azienda o laboratorio Ue avrebbe peso nel mondo, e il CERN – culla del bosone di Higgs e del world wide web - chiuderebbe i battenti. I parlamentari che eleggeremo il 25 maggio, riottosi, populisti e in vena di protezionismi economici e culturali, vogliono bocciare, malauguratamente, il patto di libero scambio con gli Usa: eppure senza Europa nessuna capitale del vecchio continente avrà peso specifico trattando con Washington. Fa disperare la pavidità con cui Bruxelles fronteggia l’aggressività di Putin, fino ai pasticcini offerti da Lady Ashton al ministro degli Esteri russo Lavrov mentre in Ucraina si moriva in strada: eppure senza Europa il Cremlino non avrà rivali tra la Moscova e il Potomac, fiume della capitale americana.

È il paradosso delle VIII elezioni europee dal 1979: l’Ue genera talmente tanti problemi che il 50% dei cittadini ne diffida, meno della metà andrà alle urne e un terzo degli elettori sceglierà simboli anti Unione, destra o sinistra, Le Pen a Parigi, Farage a Londra, Grillo a Roma, Alba Dorata o Tsipras ad Atene. 380 milioni di elettori, il secondo corpo democratico del pianeta Terra dopo l’India, l’Europa è accusata – e spesso colpevole - di colpe gravi, che però il ritorno a Stati nazionali e valute locali, moltiplicherà, non sanerà.

Riflettano le lettrici e i lettori infuriati con Bruxelles e l’euro: le lagnanze che mugugniamo all’ombra della bandiera blu a stelle d’oro sono le stesse che hanno portato alla vittoria in India il nazionalista hindu Modi, in America azzittiscono il dialogo tra Congresso e Casa Bianca, e che così bene Vladimir Vladimirovich Putin strumentalizza a Mosca. Mal comune, non solo dell’Europa comune.

L’Europa esaspera, vero. Berlino combatte fantasmi dell’inflazione alla Weimar, invisibili ormai come la ballata del Mackie Messer 1928, predicando l’impossibile sermone «tutti i Paesi possono essere esportatori sul modello teutonico». Italia e Francia non riescono a completare le riforme e contenere il debito. Spagna e Grecia, dopo i disastri, colgono i benefici tardivi della svolta. Una pletora di burocrati e tecnocrati grigi ci stucca e tre candidati leader, Juncker, Schulz e Verhofstadt, sembrano a volte la caricatura populista del «Solito Politico».

 Ma – è questa la posta in gioco - se il 25 maggio prevarranno le forze della disunione, della frammentazione nazionalistica, con veti e dazi a bloccare emigrazione, commerci, mercato, nella nuova Europa, tra i canti di vittoria Cinque Stelle, Ukip e Fronte Nazionale, vivremo peggio, non meglio. Quando l’ultima diaspora antieuropea travolgerà le speranze, magari solo i sogni, di quella che «La Stampa» ha definito Generazione Erasmus, i ragazzi che studiano all’estero, prima leva davvero «europea» nella nostra storia recente, non avremo il ritorno all’armonia, con artigiani operosi da villaggio delle fiabe, l’Europa «all’antica» cara alla propaganda anti-Ue: avremo una «generazione Hobbes», europei lupi tra loro.

Non ci faremo subito la guerra, anche se le tensioni nei Balcani, in Ungheria, al confine tra Polonia e Ucraina, o al Nord tra scandinavi, baltici e russi, sono serie, ma ciascuno darà il peggio di sé, tedeschi a farla da padroni, inglesi chiusi oltre Manica come il vecchio John Bull, europei dell’Est ripresi dai rancori che hanno insanguinato il XX secolo, noi latini sedotti dalla droga svalutazione e debito facili, a sostenere mediocri prodotti da esportazione. E l’italiano Mario Draghi, che giusto sulla linea ha salvato l’euro, sarà sommerso di autogol.

Non ascoltate dunque Gatti e Volpi populiste. I nostri guai sono i guai del tempo, globalizzazione che marginalizza, tecnologia che elimina ceti medi e operai, flussi migratori che non sappiamo qualificare o formare, incertezza sul futuro che ci ha tolto le identità, pur dolorose, di nonni e genitori. Non è detto – il lieto fine era scontato in tv solo prima di Troni di Spade, mai nella Storia - che l’Europa riesca a uscire libera, unita e prospera dalla crisi politica, economica e morale di questa stagione. Ma se la «Generazione Hobbes» prevarrà sulla «Generazione Erasmus», se i populisti prevarranno alle urne, è detto che lo spirito europeo declinerà. I leader hanno perso il diritto di criminalizzare gli elettori che sceglieranno, disgustati da inerzia e corruzione, le sigle di un Ritorno al Passato camuffate da Futuro. Non erano forse intonati a «Avvenire» e «Giovinezza» gli inni totalitari di destra e sinistra un secolo or sono? Ma chi vota contro il futuro, prepara a se stesso, e a tutti noi, un futuro buio.

Twitter @riotta 

Da - http://lastampa.it/2014/05/21/cultura/opinioni/editoriali/non-votare-contro-il-futuro-HbRE6MA4qdMj9Uq4ybvr0K/pagina.html
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« Risposta #130 inserito:: Maggio 28, 2014, 11:13:24 pm »

Editoriali
28/05/2014

Angela e Matteo contro Le Pen e Putin

Gianni Riotta

Le due Europe, l’Europa dei populisti intenti a disfare l’Ue, e l’Europa che dovrà contrastarli, guidata dalla strana coppia Merkel-Renzi, non fanno in tempo a chiudere con i commenti tv e twitter che da Est si alza, acre, il fumo dei combattimenti. Si muore a Donetsk, in Ucraina, dove durante la II Guerra Mondiale - si chiamava allora Stalino - si batterono divisione Celere, Lancieri di Novara e Savoia Cavalleria.

Si parla di oltre 50 morti tra i separatisti filorussi, ma Alexandr Borodai, premier della secessionista Repubblica Popolare del Donetsk rilancia: «Le nostre perdite sono gravi, ma i lealisti han più morti». 

La Storia non concede tregue. Chi si illudeva che il nuovo Parlamento - dove gli ostili alla vecchia Europa, Farange, Le Pen, Grillo, hanno un quinto dei seggi - avesse tempo per show contro il patto commerciale Usa-Ue, rilancio dei dazi e stucchevoli manfrine per eleggere il solito Juncker, sbatte subito nella guerra ai confini dell’Unione, terra di Gogol, Bulgakov, Grossman, autori europei.

A colloquio con il premier Renzi, il presidente russo Vladimir Vladimirovich Putin ha fatto il primo commento sulla battaglia di Donetsk, intimando al neo presidente ucraino, Petro Poroshenko, di fermare l’offensiva contro i ribelli. Putin arma, organizza, gestisce le rivolte nell’Est ucraino, persuaso fossero una passeggiata, bande, divise da parà, retorica «antinazista», come l’annessione della Crimea. Ma ha sbagliato i conti. Le sue milizie son restie a combattere se si spara davvero e la repressione di Kiev, vicino casa, meno inefficace. L’incapacità americana, europea e Onu di dire no a Putin, spacciata dai profeti dello status quo per «realismo davanti agli interessi russi e ai bisogni energetici europei», spesso in cambio, vedi l’ex cancelliere tedesco Schroeder, di pingui sovvenzioni Gazprom, si rivela per quel che è sempre stata, disfattismo inerte, che rinfocola la guerra in Europa, semina la zizzania del terrorismo, mettendo a rischio l’approvvigionamento del gas.

La Cina ha ben colto la fragilità di Putin, il cui fronte di attacco è troppo esteso, e gli ha imposto un contratto capestro sul gas, sancendo che Pechino conta più di Mosca. Solo, ahinoi, in Italia, la lettura del patto è opposta, vuoi per interessi o subalternità al Cremlino. La battaglia di Donetsk cancella ogni ipocrisia. Putin ha nel nuovo parlamento europeo amici, alleati, manutengoli. Il trattato commerciale Europa-America, che Mosca detesta, è avversato dai populisti, soprattutto francesi e italiani. I toni xenofobi, anti emigrazione ed Islam diffusi dal governo in Russia, sono comuni agli estremisti Ue. Marine Le Pen del Fronte Nazionale francese, Nigel Farage dell’Ukip britannico e Heinz-Christian Strache del Partito della Libertà austriaco hanno difeso l’invasione russa in Crimea. Il «Patto Le Pen-Putin» sogna un continente chiuso all’innovazione; Asia, America, Africa e globalizzazione nemici; il passato come trincea nostalgica, l’ex impero sovietico e un’Europa Strapaese, «sangue e zolla» si diceva un tempo.

 

Con il premier inglese Cameron e il presidente francese Hollande azzoppati alle urne, tocca inaspettatamente alla Cancelliera Angela Merkel e al Presidente Matteo Renzi difendere la libertà economica, la pace sociale e l’indipendenza in Europa. La Germania è filorussa al midollo, la Confindustria tedesca lancia proclami pro Putin, l’ex cancelliere socialdemocratico Schmidt slogan di antiamericanismo duro. Ma la Merkel, memore della gioventù in Germania Est, ha tenuto una dignitosa linea autonoma, senza cadere in grotteschi bellicismi, senza seguire il presidente Obama ciecamente, ma senza svendere la dignità europea per un metro cubo di gas. I Paesi critici con Putin, Polonia, i Baltici, la Gran Bretagna, guardano preoccupati alla mediazione con Berlino, cui, da sempre, l’Italia fa da contrappeso negativo ponendo il veto alle misure contro Mosca.

Renzi ha ribadito che l’Italia è un Paese fondatore dell’Unione, cui il risultato elettorale assegna il compito di leader alla vigilia del semestre di guida Ue. Vero. Un leader però non guarda solo all’interesse meschino di parte, uggiolando con la coda tra le gambe in attesa della ciotola. Un leader guida. Matteo Renzi può guidare l’Ue d’intesa con la signora Merkel, senza mettere a rischio gli interessi nazionali italiani - dopo il diktat cinese, l’Europa è il solo cliente per il gas russo, Putin ha perso l’arma delle sanzioni - ma eliminando la dialettica negativa «Filorussi-Antirussi». Può spingere, tarati bene i dettagli, la firma del patto economico Usa-Ue, può forzare Poroshenko a chiudere l’escalation e fronteggiare corruzione e neonazisti, ma al tempo stesso chiarire a Putin che non può insinuarsi nelle divisioni dell’Europa democratica e deve fermarsi. Poi si possono trattare neutralità, convivenza e sussidi per l’Ucraina, rassicurando i popoli confinanti.

L’audacia nelle primarie Pd, nella staffetta di governo, in Parlamento e alle elezioni europee, ha dato a Renzi un 40% che la Dc ottenne solo nel 1948 e 1958, costruendo su quei successi due generazioni di governo. Un’Italia non più «filorussa ad ogni costo», un’Italia «europea», capace di dar forza e consiglio alla Germania, farebbe di Renzi qualcosa di più di un brillante leader di partito e promettente premier, gli indicherebbe la strada verso una condotta da statista europeo.

Twitter @riotta 

Da - http://lastampa.it/2014/05/28/cultura/opinioni/editoriali/angela-e-matteo-contro-le-pen-e-putin-PoyC85yb8KEoEzYp7Gju7O/pagina.html
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« Risposta #131 inserito:: Giugno 04, 2014, 12:29:31 pm »

Editoriali
04/06/2014

Cercando una nuova Alleanza atlantica
Gianni Riotta

Qual è il vero Obama? Il presidente cauto che si vanta all’Accademia di West Point, «è vero abbiamo il miglior martello del mondo», la Difesa americana, «ma non ogni problema è un chiodo», ricordando che al suo ingresso alla Casa Bianca nel 2009 c’erano 180.000 militari Usa in Iraq e Afghanistan, mentre ce ne saranno solo 10.000, intorno a Kabul, nel 2015? O il Presidente muscolare che atterra in Polonia, parla subito ai militari schierati sulla pista e annuncia di voler chiedere al Congresso 750 milioni di euro per dislocare più truppe a rotazione in Europa centrale e orientale, cuscinetto contro l’aggressività russa in Ucraina?

Se lo chiedono in queste ore i leader europei, che Obama incontrerà in un rispolverato G7 senza Vladimir Vladimirovic Putin, punito per l’annessione della Crimea. Si interroga anche l’opinione pubblica americana, spesso sconcertata dall’amletico presidente, Premio Nobel per la Pace ma durissimo nell’uso dei droni killer contro i terroristi, certo che la nuova frontiera fosse il Pacifico e il partner-rivale la Cina, almeno finché Putin non ha riacceso i fuochi all’antico confine cosacco, persuaso che fosse la cyberguerra dei cinesi il nuovo allarme e non più il terrorismo, salvo poi riparlare di Al Qaeda pericolo N. 1. L’Obama marziale che impone l’ultimatum ad Assad in Siria, o lo studioso cerebrale che fa marcia indietro davanti alle rimostranze di Congresso e Papa?

Una condotta ondivaga che, insieme agli alleati, sembra star però confondendo anche il Cremlino. Putin sarà alla celebrazione dello sbarco in Normandia, in nome dell’alleanza tra democrazie e Stalin. Ha alle spalle l’ambiguo patto energetico con la Cina, che gli fa pesare la forza nel XXI secolo, e la promessa di un miliardo e mezzo di euro in aiuti alla Bielorussia con un pacchetto da approvare, altrettanto pingue, al Kazakistan pur di stabilizzare le aree dell’ex Urss contro le sirene filo europee. Ma il gioco che ha funzionato in Georgia e Crimea non funziona in Ucraina, le elezioni si sono svolte regolarmente eleggendo il presidente Poroshenko e le milizie infiltrate dall’intelligence russa, anche dalla Cecenia, sono efficaci nelle provocazioni, pavide se c’è da battersi.

Obama leader irresoluto darà ai polacchi ragione per essere nervosi, senza più fondi e uomini e mezzi subito ma solo promesse, mentre i russi insisteranno nel bluff militarista. Ma se Obama è l’uomo che sulla lotta al terrore ha parlato di pace preparando la guerra, e sull’espansione cinese ai confini del Vietnam e del Giappone lavora a una coalizione asiatica, il quadro cambia, Putin va sulla difensiva.

Domani Mario Draghi alla Bce potrebbe fare esattamente il contrario di quanto ci si aspetta dalla sua collega Yellen, rilassando l’austerità, per incoraggiare l’economia del vecchio continente davanti allo spettro della deflazione, tagliando il costo del denaro e imponendo tassi negativi sui depositi inerti delle banche. Il patto economico atlantico Bruxelles-Washington non decollerà a breve, stoppato dall’affermazione dei partiti che lo osteggiano alle recenti elezioni europee. Eppure a 70 anni dall’inizio della fine di Hitler e a 25 dalla caduta del Muro di Berlino, americani ed europei, senza chewing gum e boogie woogie  come nel 1944, senza spumante a pioggia sulla cortina di ferro che aveva diviso l’Europa da Danzica a Trieste come nel 1989, devono fronteggiare nuove sfide comuni, ben più radicali di dazi sulle bistecche, divergenze sugli Ogm, metadata Nsa.

Chi comanderà nel XXI secolo? La Cina e i suoi satelliti? Putin e un’Urss con il petrolio al posto di falce e martello? L’Onu esangue? Un’Europa senza difesa e divisa in diplomazia ed economia? L’America stanca di guerra dopo Baghdad e Kabul? Paradossalmente più, da Washington al Middle West, prevale negli Usa l’umore di lasciare il pianeta – che lo Zio Sam considera ingrato – ai suoi guai senza «martellare ogni chiodo», più chi si sente nudo davanti alle nuove potenze riscopre Old Glory, la bandiera a stelle e strisce, perfino ex nemici come il Vietnam e il Giappone.

Che farà l’Europa? Darà voce a chi teme Putin, svedesi, polacchi, baltici, inglesi, o a chi cerca sconti sul gas, spagnoli, greci, l’armata filorussa Le Pen-Farange? Obama sa che la chiave sta nella strana coppia che ha vinto le elezioni Ue, la cancelliera Merkel e il premier Renzi. Dall’intesa o dal dissenso di questi tre leader, inaspettatamente al centro del ring, amici e nemici capiranno di che pasta è fatta l’alleanza atlantica 2014.

Twitter @riotta 

Da - http://lastampa.it/2014/06/04/cultura/opinioni/editoriali/cercando-una-nuova-alleanza-atlantica-hTFi23qVovhSvjZKwABvdI/pagina.html
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« Risposta #132 inserito:: Giugno 10, 2014, 11:10:35 am »

Società
08/06/2014 - Dai Racconti di Canterbury al “longread”

Se il web ora scopre la lettura lunga

Gianni Riotta
New York

Nei «Racconti di Canterbury», classico inglese del XIV secolo, Geoffrey Chaucer racconta i disastri del quinto marito della Donna di Bath, che lei vorrebbe sempre sedurre a letto e che invece si rintana nella protettiva lettura di un libro. 

Anche lo scrittore Italo Calvino, ne «Gli amori difficili» scrive de «L’avventura di un Lettore», sempre distratto dalla sua amata lettura. E nell’affascinante serie tv «Ai confini della realtà» (Twilight Zone), come dimenticare la storia del povero impiegato che non riesce mai a trovare il tempo per leggere e che la fine del mondo illude finalmente di riuscirci?

La lotta per leggere in pace sembra una costante nella nostra vita e oggi spesso, invece, i critici del web, e ce ne sono di seri, imputano alla Rete l’eccesso di rapidità, l’illusione che a volo d’uccello si possa leggere e informarsi, magari con i 140 caratteri contenuti in un tweet o nel flash delle poche parole e immagini consentite in un Vine, senza l’impegno dei lettori di Chaucer e Calvino. L’accusa ha del vero, quando calcoliamo il tempo che gli utenti trascorrono in Rete su una singola voce, un giornale online, una photo gallery, siamo spesso sorpresi dalla velocità del consumo e dalla rapidità effimera con cui si passa da un tema all’altro. 

I giornali quotidiani riservano ancora alla homepage del loro sito la stessa cura amorosa che in chiusura dei quotidiani, nelle vecchie tipografie odorose di inchiostri e piombo fuso, si dedicava all’ultima edizione della prima pagina. Purtroppo i lettori arrivano quasi sempre non dalla homepage, ma dai motori di ricerca e dai social media, tanti click (ne scriverà in una prossima inchiesta il Wall Street Journal) sono ignari, - leggo un articolo de L’Eco di Peretola online, ma non so neppure cosa sia la testata, sono arrivato solo grazie a una search su Google -, oppure comprati alle grandi aste semiclandestine dei contatti (tema caldo, occhio!).

Ma davvero il web incoraggia la superficialità? Davvero costringe la nostra mente a spasmi frenetici nella banalità? Il tema non è frivolo e va discusso a fondo. La prima obiezione che potrebbe avanzarsi è che «breve» non è mai sinonimo di «sciocco». I dieci Comandamenti della Bibbia occupano a stento tre tweet e sono riproducibili in tre Vines, eppure la saggezza e il diritto della civiltà occidentale poggia su quei due tweet e mezzo. 

Anche la tradizione orientale usa haiku e aforismi, il poeta greco Callimaco, lavorando alla Biblioteca di Alessandria, ci ammoniva «I libri lunghi sono lagne», Cicerone elogiava la «concinnitas», armonia del discorso senza dilungarsi.

«Breve» non è dunque «sciocco», ma la vera, finale, obiezione è che online un tweet, un post di poche righe su Google o un blog, è solo la chiave che apre una biblioteca, e così il saggio cardinale Carlo Maria Martini considerava Internet, biblioteca del sapere a tutti aperta, che occorre imparare a compulsare con lo studio. 

Qui si afferma la fortuna del genere che il gergo web definisce «longform», «longread», articoli e saggi lunghi, un tempo soprannominati ironicamente «articolesse». Guardate il sito Arts and Letters Daily, www.aldaily.com, forse uno dei più interessanti online, un’attenta selezione dei migliori saggi dalle autorevoli riviste di cultura in lingua inglese. Seguendo giorno per giorno Aldaily avete accesso alla conversazione degli intellettuali, con i suoi tic e tabù, come sedendo in un salotto illuminista dei XVIII secolo: ne apprezzate la ricerca colta, ridete agli eccessi di narcisismo.

La rivista The Atlantic svolge la stessa funzione con il sito longreads.com , antologizzando i testi impegnativi per i propri utenti, mentre il quotidiano inglese The Guardian mobilita insieme i giornalisti, i lettori e robot guidati da algoritmi per l’esperimento (dall’alterna fortuna, a mio avviso) che segnala quali articoli lunghi siano i più seguiti online. Il genere dilaga, Daily Beast ha i suoi «long read», ogni testata raccoglie il meglio – vero o presunto - della propria produzione.

Se dunque online la lettura di testi non sincopati è di moda, se un tweet può solo essere la chiave che apre la Biblioteca di Babele del sapere universale l’ultima domanda da farsi prima di registrare il successo del longread è: dove mai, nella frenetica sarabanda delle nostre giornate, lavoro, famiglia, trasporti, burocrazie, troviamo il tempo per leggere pagine e pagine di testo? 

La risposta sta nei tablet, da Samsung a iPad e nei nuovi smartphone a schermo grande, che permettono di leggere con comodità e senza aguzzare la vista sui tram, in auto, in aereo, nella pausa pasto, non appena ci tocchi un momento di quiete. Quante volte vi capitava di ritrovarvi nella sala d’attesa di un ambulatorio, fuori dal colloquio con i professori dei figli, bloccati in coda a uno sportello alle Poste o alle Ferrovie? Senza un libro, senza una rivista a portata di mano sfogliavate annoiati i fascicoli vecchi di un anno abbandonati da chissà chi, o passavate il tempo leggendo frusti annunci pubblicitari. 

Adesso queste pause inaspettate son benvenute, salta fuori di tasca il Samsung 8.0, il Kobo, il Kindle, il vostro supporto preferito e come d’incanto siete trasportati nella vostra lettura come gli eroi medievali, moderni o postmoderni di Chaucer, Calvino e Confini della Realtà.

Twitter @riotta 

Da - http://lastampa.it/2014/06/08/societa/se-il-web-ora-scopre-la-lettura-lunga-QTv2gxmRVqMbZhdnuKNoAI/pagina.html
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« Risposta #133 inserito:: Luglio 19, 2014, 06:29:53 pm »

Editoriali
18/07/2014

Bruxelles fermi l’escalation
Gianni Riotta
Segue dalla prima pagina

L’Unione europea è circondata da guerre a bassa intensità e conflitti armati tradizionali su un fronte di migliaia di chilometri da Tripoli a Kiev. Libia ed Egitto, dopo i cambiamenti di regime, sono accesi da attentati e scontri, la guerra tra il regime di Assad - sostenuto dalla Russia - e i ribelli in Siria ha fatto centosettantamila vittime e milioni di profughi.

In Iraq le milizie islamiste dell’Isis occupano città e posti di confine con la Giordania, mentre a Nord i peshmerga curdi si mobilitano intorno ai pozzi di petrolio. 

Hamas e Israele si scontrano a Gaza, mentre in Ucraina il neo presidente Petro Poroshenko sferra l’offensiva per liberare le zone Sud orientali, occupate da miliziani filorussi. 

Questo drammatico teatro geopolitico non sembra turbare finora troppo né i governi, né le diplomazie, né le opinioni pubbliche dell’Unione Europea che, dopo i Mondiali di calcio, sono intenti a seguire le lottizzazioni per il governo europeo, nominato l’eterno presidente Juncker.

L’aereo malese MH17, abbattuto sui cieli tra Ucraina e Russia, in aree controllate dai miliziani secessionisti anti Kiev, ci sveglierà ora dal torpore estivo? Il presidente americano Barack Obama e il leader russo Vladimir Putin, ai ferri corti da mesi, hanno brevemente discusso del caso al telefono, mentre i rivali sul terreno si rimpallavano le responsabilità in una battaglia psicologica combattuta sui social media. Gli esperti danno per scontato che come il volo coreano Kal 007 del settembre 1983, abbattuto da un caccia sovietico e il volo Iran Air 655 distrutto da un missile della nave Usa Vincennes nel luglio 1988, anche l’aereo Malaysia Airline MH 17, 280 passeggeri – di cui 23 cittadini americani, pare - e 15 membri dell’equipaggio, sia stato vittima di un attentato.

Da giorni nella zona si parlava di rampe di missili Buk, progettati dai tecnici russi dell’istituto Tikhomirov, montati su mezzi corazzati o camion, con una gittata di 22 chilometri, capaci dunque di colpire il jet che volava a circa 10.000 metri. E secondo il portavoce ucraino Anton Gerashenko, proprio un Buk sarebbe stato usato ieri. Mercoledì un caccia Sukhoi 25 dell’aviazione di Kiev era stato abbattuto da un missile aria-aria russo, secondo le autorità ucraine, mentre i ribelli si vantavano online di aver colpito, con missili terra-aria a spalla, altri due Sukhoi 25 lealisti (il governo di Poroshenko parla solo di un aereo colpito).

 È ipotizzabile che i secessionisti siano responsabili della tragedia? Sono in corso verifiche ed inchieste, ed è ora possibile solo ragionare su cosa sta accadendo al confine Russia-Ucraina. Dopo l’occupazione della Crimea, accolta dalla popolazione locale con simpatia, il Cremlino ha provato a destabilizzare anche l’Ucraina, contando sulle incertezze di Obama e l’inerzia dell’Unione Europea, condizionata dagli ambienti filorussi, nei Paesi latini e fra gli imprenditori tedeschi, mentre il presidente francese Hollande vende sofisticate navi alla Marina di Mosca, addestrandone gli specialisti. Ma non tutto funziona stavolta bene nella strategia di Vladimir Vladimirovich Putin. In casa il suo consenso resta stellare, intorno all’80% (il doppio di Obama in America), ma i cittadini russi non vogliono l’invasione dell’Ucraina, memori dei disastri dell’attacco a Kabul 1979 che condusse alla dissoluzione dell’Urss. 

Putin deve dunque usare i miliziani locali per indurre il presidente Poroshenko a staccarsi dall’Europa, tra sabotaggi, terrorismo, atti di guerra coordinati da militari russi. Kiev però rompe la tregua e libera le città occupate dai secessionisti, Slovyansk, Artemivsk, Druzhkivka. La popolazione è divisa, al contrario che in Crimea, ed è difficile per le milizie agire liberamente: ripiegano dunque su Donetsk, un milione di abitanti, perché l’attacco frontale di aviazione e mezzi corazzati contro un centro popolato avrebbe un numero alto di vittime, operazione complicata per Poroshenko.

I ribelli sentono però che Putin s’è molto raffreddato nei loro confronti. Non è la parata trionfale di Sebastopoli, i militari ucraini combattono, accettano le perdite, contano sull’aiuto Usa (solo equipaggiamento «non letale», giubbotti antiproiettile, elmetti, visori notturni) mentre i secessionisti imprecano contro gli sponsor tirchi del Cremlino. Un sito web a loro vicino rivendica subito l’abbattimento del MH17, dopo avere fatto sfoggio di rampe Buk, ma non appena i media di Kiev rilanciano foto e notizie, i comunicati vengono cancellati. È opinione diffusa nell’intelligence Usa che i ribelli abbiano confuso l’aereo malese per un jet ucraino, colpendolo. Radicalizzare lo scontro, a loro parere, potrebbe riaprire il conflitto e, nella ritirata verso Donetsk, i capi più estremisti sembrano aver preso la guida delle operazioni.

Le teste calde potrebbero avere invece aperto una falla clamorosa nella politica estera di Putin. Molto efficace nell’accusare gli ucraini di «fascismo e nazismo», rinfocolando il patriottismo della II guerra mondiale - 20 milioni di morti in Russia -, Putin non può attaccare Kiev in forze, né sostenere un’armata di terroristi che ormai non controlla più, mentre Poroshenko si avvicina all’Europa, costretta malgrado tutto a non isolare il pur cauto Obama sulle sanzioni. Lo sdegno per un missile dei ribelli contro il MH 17 sigillerebbe questa realtà. Il premier russo Medvedev esprime perciò cordoglio su twitter e l’ambasciatore Churkin rispolvera lo stile ruvido del ministro Urss Gromyko: «Non siamo stati noi». La guerra in Europa aggrava la sua l’escalation: sarebbe opportuno ne tenessero conto governi e Commissione Ue nel formare una solida squadra di leader tosti intorno al burocratico Juncker.

www.riotta.it 

Da - http://lastampa.it/2014/07/18/cultura/opinioni/editoriali/bruxelles-fermi-lescalation-9n5Cf578OK3rXzkzUh5tUM/pagina.html
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« Risposta #134 inserito:: Luglio 26, 2014, 11:12:46 am »

Editoriali
21/07/2014

Quei corpi accusano l’Europa

Gianni Riotta

Nell’Iliade, l’epica greca celebra le onoranze funebri ai defunti come comandamento etico del mondo classico: il poema si conclude, nella traduzione di Monti, con «questi furo li estremi onor renduti al domator di cavalli Ettorre». E nel dialogo tra il Re troiano Priamo, che gli chiede il corpo straziato del figlio Ettore, e il crudele guerriero mirmidone Achille, i due eroi trovano un momento di comune compassione umana, al di là del conflitto feroce in corso. 

Da Omero alle tregue della I guerra mondiale per recuperare i caduti, fino al credo del corpo Usa dei Marines non lasciare mai un compagno indietro, vivo o morto che sia, e alle donne che corrono al Santo Sepolcro per accudire il cadavere di Gesù, trovandolo risorto, il valore del corpo delle vittime è cruciale nella nostra cultura. Troppo tempo, ahinoi, sembra dividerci dai classici cui facciamo risalire, con trascurata arroganza, le radici della civiltà, se i cadaveri dei 298 esseri umani del volo MH17, travolti dalla ferocia dei separatisti ucraini del capobanda «Bes», guidati da specialisti militari russi, possono giacere sui campi tra Snizhne e Torez, adulti e bambini «di cani e d’augelli orrido pasto» – come ha descritto nel suo impressionante reportage Lucia Sgueglia - e poi venire traslati su vagoni merci, senza che la coscienza di europei e americani sia travolta dallo sdegno. 

La maggior parte degli innocenti immolati in Ucraina a una folle rivolta, che il leader russo Vladimir Putin, qualunque sia il suo ruolo nella strage MH17, ha incoraggiato, finanziato e fomentato, sono cittadini dell’Unione Europea, che si vanta di essere faro di diplomazia, pace, convivenza. In realtà, mentre la Casa Bianca – che ha sul tavolo, come gli europei, le prove della colpa dei separatisti ucraini e del coinvolgimento diretto dei russi - prova a alzare di un filo il tono, gli europei proseguono nel frusto cerimoniale, feluche e poltrone da occupare, note di ambasciatori consegnate tra un tè e un ballo, attentissimi a non turbare un solo contratto, un appalto, un import-export.

I cadaveri dei nostri concittadini, saccheggiati, sporcati, derubati dai mercenari raccolti in nome di una causa violenta oggi e perdente domani, intenti a occultare sacrileghi le prove del loro criminale intento, saranno nei libri di storia di domani accusa feroce a questa Europa, che fingendo di detestare la guerra e di parlare di pace per far business, stolidamente semina la zizzania della prossima guerra ai confini dell’Unione. Che arriverà e sarà crudele.

www.riotta.it

DA - http://lastampa.it/2014/07/21/cultura/opinioni/editoriali/quei-corpi-accusano-leuropa-DM1CojYXDZn73oV8MHbQdK/pagina.html
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