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Autore Discussione: Gianni RIOTTA -  (Letto 90947 volte)
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« Risposta #60 inserito:: Novembre 03, 2012, 12:09:36 pm »

Editoriali
03/11/2012

Ma con Barack c’è solo mezza America

Gianni Riotta

Alla vigilia del voto di martedì 6 novembre, la sfida per la Casa Bianca tra Barack Obama e Mitt Romney è dove è rimasta per l’intera campagna elettorale, poco avanti il Presidente democratico, soprattutto negli Stati cruciali, vedi Ohio, un’incollatura dietro l’ex governatore repubblicano. Sarebbe però un errore concludere dunque che «nulla è cambiato». Barack Obama, eletto da una nuova generazione nel 2008, campione carismatico, laureato in fretta col Nobel per la Pace, elogiato in libri e opere d’arte, anche vincendo uscirà dalla gara ridimensionato, «normale Presidente» a rischio bocciatura come Carter ’80 e Bush padre ’92. Ha sì controllato la crisi e lanciato la riforma sanitaria, ma senza ispirare unità o forzare alle intese i repubblicani al Congresso.

 

Romney ha cancellato l’immagine di estremista preda dei Tea Party che la poderosa macchina democratica voleva affibbiargli. Governatore del progressista Massachusetts ha approvato una riforma sanitaria copia di quella di Obama, anatema a destra, e in politica estera offre solo una versione «effervescente» delle idee del Presidente. E’ forse il suo piano fiscale, meno tasse, meno spesa pubblica ma più spesa militare, a lasciare perplessi gli elettori moderati, specie se non abbienti, donne, emigranti.

 

L’eclisse di Obama, da profeta a politico incapace di riscaldare il cuore dell’americano medio, Joe Six Pack, preoccupato dal salario medio di 50.000 dollari l’anno che scende per i nuovi assunti a 30.000, e la rimonta di Romney da capitalista duro dei licenziamenti a centrista, non sembrano però ribaltare ancora la scena. I sondaggi di Nat Silver, il sito realclearpolitics, assegnano 7 possibilità su 10 ai democratici. Il paradosso si spiega analizzando i dati sulla disoccupazione, diffusi ieri, 171.000 nuovi posti, tasso che scende a 7,9%, un modesto 0,1 sotto la cifra di 8% che, per tradizione, elimina i Presidenti. L’economista James Marple, in una sintesi che dovrebbe far riflettere in Europa, dice «Lasciate perdere i profeti di sventura. L’economia Usa dimostra un’incredibile grinta davanti a guai seri. Malgrado restino dubbi acuti sul destino dell’abisso fiscale e con l’economia globale in panne, l’America genera lavoro a ritmi rispettabili».

 

Se martedì anche Obama si unirà ai 171.000 e terrà il posto di lavoro, si dovrà a questi numeri e a niente altro. Il carisma fu sigla 2008, il tasso di disoccupazione a 7,9, lo stimolo economico della Federal Reserve di Bernanke e il piano di salvataggio dell’auto, le sigle 2012. Guardate lo Stato dell’Ohio, che da mezzo secolo vota il Presidente vincente. Tutto quello che so dell’America, tutta la tradizionale analisi politica di maestri come David Broder a Bill Schneider, lascerebbero ipotizzare un Presidente in difficoltà tra i riottosi elettori di uno degli ultimi laboratori di manifattura Made in Usa. Invece Obama in testa, Romney arrancante: perché? Perché, come il Michigan vive di General Motors, Ford e Chrysler, l’Ohio vive di indotto auto. Il piano di Obama significa disoccupazione «solo» al 7% e difesa di 150.000 posti «auto motive». Nel 1990 gli operai erano in Ohio 1.100.000, oggi sono rimasti in 657.000. Molti ascoltano volentieri gli appelli di Romney e del suo candidato vicepresidente Paul Ryan a ridurre tasse e spesa, lanciando start up, li condividono magari. Ma quando guardano a mutuo, salario che non cresce, figli da mandare al college, pensano che il grigio status quo di Obama e Bernanke – per ora - sia rassicurante. Giudizi da metalmeccanico dell’Ohio al coffee shop, condivisi però dal premio Nobel per l’economia del Mit Peter Diamond e dalla firma del «Financial Times» Martin Wolf con lo slogan geniale «Negli Stati Uniti la disoccupazione è una “crisi”, il debito pubblico un “problema””. Obama ha parlato, sia pur con tono accademico, di “emergenza lavoro”; Romney, non estremista e rassicurante in tv, s’è però concentrato sul “problema debito”, senza chiarire come tagli alle tasse, modesti tagli alla spesa sociale e robusto incremento alla spesa militare possano risolverlo. Secondo l’antico proverbio di buon senso yankee “First things first”, un guaio alla volta, gli elettori, soprattutto indipendenti e moderati, pensano oggi alla “crisi lavoro”, domani al “problema debito”».

 

La campagna, costata la fantastica cifra di sei miliardi di dollari (4,6 miliardi di euro), è in queste ultime ore affidata agli esperti di statistiche e Big Data, che – la cosa forse divertirà i lettori - applicano alla politica i metodi di calcolo informatico creati per il baseball, come nel film «L’arte di vincere». Nate Silver, blogger dell’austero «New York Times», s’è fatto le ossa sui risultati delle partite al «Baseball Prospectus». Potete accecarvi per ore su curve e diagrammi, il risultato, nazionale o stato per stato, cambia poco, Obama ha qualcosa in più di 3 chance su 4 di vincere, l’ultima va a Romney. I politologi scettici, Brooks, Scarborough, Podhoretz, ridono: «Se vince Romney, quelli alla Nat Silver tornano al baseball». Sciocchezze, «probabilità» non è «certezza», ma voi non prendereste mai un aereo che ha una chance su 4 di cadere, mentre vi precipitereste a comprare biglietti di una lotteria con una chance su 4 di vincere.

 

Queste dunque le probabilità estreme. Le certezze, per Obama o per Romney, sono i guai a venire: lavoro da creare; innovazione e produttività, migliori che in Europa, ma da sostenere; il «problema» debito pubblico che si farà «crisi» se non affrontato; un buco nella domanda interna, che malgrado consumatori «cicala», resta vertiginoso; la disuguaglianza sociale che non mobilita intorno a Occupy Wall Street, ma vede giovani e ceto medio perdere potere d’acquisto e status sociale; Washington politica polarizzata e incapace di negoziare accordi tra Casa Bianca e Congresso. Alla fine il piano Obama-Bernanke sembra più realista e meno ideologico dell’appello al mercato di Romney: pesa sull’elettorato la consapevolezza che nessun repubblicano vota per un aumento delle tasse dal 1990, una generazione intera. Ma, come ha scritto il vecchio Richard Cohen sul «Washington Post», «chiunque si fosse illuso di riconoscere in Obama il nuovo Bob Kennedy ha fatto in tempo a ricredersi». Il paragone è ingiusto per il giovane Presidente, l’America è ormai divisa, mancano luoghi di vita sociale comuni, come erano una volta scuole, esercito di leva, campi da gioco, quartieri popolari. Cittadini dell’economia digitale e Cittadini della vecchia economia non si incontrano neppure più, se non per strada. Obama aveva fatto sperare non in un abbraccio, ma almeno, nel dialogo fra le Due Americhe. Ha fallito. Sarà forse rieletto, ma da una sola metà, la democratica. Quest’anno non si sogna, si contano dollari, lavoro, «bills», bollette da saldare ogni fine di mese.

 

Twitter @riotta 

da - http://www.lastampa.it/2012/11/03/cultura/opinioni/editoriali/ma-con-barack-c-e-solo-mezza-america-zlH7dv0pGju8AAqEITLXOL/pagina.html
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« Risposta #61 inserito:: Novembre 07, 2012, 04:12:23 pm »

Presidenziali USA 2012
06/11/2012

Barack o Mitt: chiunque vinca camminerà sull’abisso fiscale

Il nuovo Presidente si troverà di fronte ai mille miliardi del deficit pubblico

Gianni riotta
New York

Sarebbe molto diversa l’America del presidente numero 45, Mitt Romney, da quella del presidente rieletto, il 44, Barack Obama? Si direbbe di sì a leggere la dichiarazione, che tradisce troppa adrenalina di fine campagna, del candidato vicepresidente repubblicano Paul Ryan «quella di Obama è strada pericolosa, aumenta il peso dello stato, restringe libertà e diritti civili, compromette i nostri valori giudeo-cristiani di paese grande e unico». Ryan non è felice, Romney l’ha lasciato in panchina con il suo piano per la riduzione di tasse, spesa e debito. Sa che il voto nazionale dà ancora alla pari i repubblicani, sa che Obama sembra in vantaggio negli stati chiave – vedi Ohio – e medita la statistica maledetta che lo fa tremare: dal 1900 dei 28 candidati vicepresidenti sconfitti solo nove tornarono poi in corsa per la Casa Bianca ma uno solo eletto davvero, Franklin Delano Roosevelt. 

Ryan esagera, non è in gioco la radice occidentale, ebraica e cristiana d’America. Ed esagera anche l’ex presidente Bill Clinton, che dimentica di avere definito Romney «ottimo manager», e arringa all’ultimo comizio.

«I repubblicani vogliono cancellare ogni progresso!». Guai e opportunità d’America resteranno simili, giuri a gennaio il «44» Barack o il «45» Romney. L’economia migliora, pur troppo piano, un rapporto di Wall Street sintetizza: «Comunque vadano le elezioni l’economia crescerà nei prossimi quattro anni. I consumatori tornano a comprare dopo avere ridotto il debito personale ai minimi dal 2003. I prezzi delle case risalgono dopo il meno 30 per cento dal record 2006. Le banche concedono prestiti dopo avere puntellato il capitale per oltre 300 miliardi dal 2009. Il boom dello “shale gas” continua». 

Tutto bene dunque? No, il deficit di un trilione di dollari è considerato dagli esperti del Council on Foreign Relations, «insostenibile», bisognerà ridurlo, ma come, visto che Casa Bianca e Congresso non sanno mai né contrarre le spese, né aumentare le tasse e neppure discutere insieme? La campagna di Obama s’è giocata sul lavoro, crearlo, e spendere con la Federal Reserve, la Banca Centrale di Bernanke, perché tecnologie e Cina non lo dissolvano. La campagna di Romney su meno tasse, meno spesa (tranne per la Difesa), lotta al deficit. Wall Street ha appoggiato i repubblicani, sedotta dalla sirena di tagli alle tasse e spaventata da più pressione fiscale su profitti e investimenti. Obama non è riuscito a farsi apprezzare, né dai grandi finanzieri di Wall Street né dai proprietari di negozietti «pop and mum», giudicato da tutti anti-business. E contro di lui, sostenuto dalle minoranze e non dai bianchi riaffiora sinistro il razzismo. Guardate le grazie concesse ai condannati dalla Casa Bianca: Reagan ne concedeva una ogni 3 suppliche, Clinton una ogni 9, G.W. Bush una ogni 33, Obama è il più arcigno di tutti, solo una grazia ogni 50 suppliche. Vuol rivelarsi duro, ma non basta purtroppo.

Studi di Market Watch e della Barclays, un po’ scolastici, prevedono che chi possiede azioni tifi Romney, chi titoli di stato Obama ma la tenuta di Wall Street e bond Usa dipende invece da fattori globali che la Casa Bianca non gestisce. È sì possibile una ripresa della Borsa se i repubblicani vinceranno, soprattutto per titoli finanziari, assicurativi, cui Romney ha promesso la fine di controlli severi, forse della stessa riforma Dodd-Frank la più tosta dagli anni Trenta: ma potrebbe rivelarsi effimera, poi la realtà detterà i numeri. A cominciare da Capodanno 2013 quando scatterà il cosiddetto «abisso fiscale», tagliola legale che potrebbe innescare riduzioni di spesa per 600 miliardi di dollari e alzare le tasse, per contribuenti e aziende, per effetto del Budget Control Act 2011. Si rischia, secondo la Federal Reserve e il Congressional Budget Office, «una nuova recessione». Partiranno anche le tasse per la riforma sanitaria di Obama, mentre tagli automatici colpiranno un migliaia di programmi di spesa, da Medicare al Pentagono. Investitori guidati da Black Rock e da importanti fondi pensioni hanno comprato pagine intere di pubblicità ieri ammonendo sul rischio «abisso fiscale».

Come sempre, scoppiati i palloncini rossi e blu della campagna, la festa si spegne. Obama dovrebbe finalmente aprire a business e mercato, ma l’appoggio dei tantissimi sindacati, cruciali in Ohio con la ridda di sigle AFL-CIO, AFSCME, NATCA, TWU, AFT, UFCW, IUPAT, andrà ripagato. E Romney scoprirà come faticosa sia la strada per bocciare la riforma sanitaria di Obama, specialmente se il Senato resterà democratico. E poi Siria, Afghanistan all’ultimo anno di guerra, Cina che elegge i nuovi leader in questo storico novembre, Europa stanca di debito e desiderosa di leadership. A guida democratica o a guida repubblicana l’America, per fortuna, resterà l’America. Chissà se Obama e Romney, nei migliaia di chilometri macinati in Ohio, hanno mai avuto modo di passare a Youngstown, tra Pittsburgh e Cleveland, dove l’Istituto Namii brevetta «printer a 3 dimensioni» capaci di «stampare» oggetti a partire da un semplice disegno al computer. Sarà la nuova rivoluzione industriale, non più prodotti di massa, ma oggetti singoli, ad hoc per un solo cliente come nell’antico artigianato, pezzi unici riprodotti per voi, anche a casa vostra, su vostro desiderio. La capacità di «stampare futuro» nell’antico paese è la speranza d’America, guidino i repubblicani o i democratici, come già tante volte in oltre due secoli di democrazia.

Twitter @riotta 

DA - http://lastampa.it/2012/11/06/esteri/speciali/presidenziali-usa-2012/barack-o-mitt-chiunque-vinca-camminera-sull-abisso-fiscale-szKmV7x3WCnqgNBypIa2ON/pagina.html
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« Risposta #62 inserito:: Novembre 07, 2012, 04:15:33 pm »

Editoriali
07/11/2012

America, un Paese che insegue l’Unità

Dopo un anno di risse la Casa Bianca dovrà cercare di riconciliare un paese diviso

Gianni Riotta

L’America è divisa e chiunque abbia diritto da gennaio al titolo di Presidente dopo le elezioni costate 6 miliardi di dollari e seguite in diretta tv e web nel mondo non saprà unirla. La divisione tra il presidente uscente Barack Obama, democratico, e l’ex governatore del Massachusetts e uomo d’affari repubblicano Mitt Romney, è presentata spesso come una novità, seguita alla «guerra culturale» tra conservatori a progressisti. Il paese è «polarizzato», si dice, da radio talk show revanscisti alla Rush Limbaugh, reti di destra alla Fox News e di sinistra alla Msnbc, blog vicini ai movimenti anticapitalistici Occupy Wall Street e cortei pro business Tea Party, perfino il liberal New York Times si radicalizza come il liberista Wall Street Journal. La tensione è tanta che migliaia di avvocati, convocati da repubblicani e democratici, hanno fatto la notte in bianco in cerca di eventuali brogli e per presentare subito ricorsi. 

 

Alla fine della campagna tante le voci di rimpianto per un Paese unito, con interessi nazionali condivisi, culture diffuse, senza la frattura che il nuovo Presidente dovrà affrontare. Ma è così? Davvero nel passato gli Stati Uniti d’America erano meno polarizzati? No. Nel XIX secolo gli Usa non apparivano certo Paese unito, sanguinosa Guerra Civile tra Nord e Sud a parte. Jules Verne, autore del popolare romanzo «Il giro del mondo in 80 giorni», quando fa finalmente approdare in America l’eccentrico gentleman inglese Phileas Fogg, lo lancia subito in una terribile rissa elettorale tra i militanti di due candidati, Kamerfield e Mandyboy, così scatenata che il protagonista viene aggredito e chiede perplesso a che carica i due concorrano: «Giudice di pace!» si sente ribattere.

 

L’America divisa del dopo voto vagheggia la sua immaginaria, e inesistente, unità, ma già per i nostri antenati era nazione pronta a fare a cazzotti per eleggere un giudice di pace, figuratevi un Presidente. Lo Stato dell’Ohio, che dal 1960 vota come l’America, è celebre per detenere le chiavi della Casa Bianca, 11.536.504 abitanti, poco meno di sei milioni di elettori, una contea, Hamilton County nel primo Distretto, che premia G. W. Bush con appena il 51%, poi Obama col 55%, fulcro della leva politica. Ma se riguardate la storia antica dell’Ohio trovate una sorpresa dietro la tradizione operaia, la terza manifattura d’America erede di Standard Oil dei Rockefeller, dei fratelli Wright pionieri dell’aviazione, della Procter&Gamble. La sorpresa è la divisione ancestrale dell’Ohio, raccontata da Michael Barone nel suo formidabile classico «The Almanac of American Politics». In origine lo Stato, disegnato a tavolino dopo la Rivoluzione, venne colonizzato a Nord da fieri yankee venuti dal Nord Est, soprattutto dal Connecticut, e a Sud da eredi delle famiglie della Virginia. Yankee col pallino dell’industria contro «Butternut», sudisti legati ai campi, mai andati d’accordo, divisi anche durante la Guerra Civile.

 

La «guerra culturale» delle due Americhe non è dunque fenomeno dei talk show in tv o dei blog arrabbiati sul web. Populismo, paranoia, tolleranza, riforme, avventura, individualismo e comunità si sono sempre affrontati con foga. Il New Deal del presidente Roosevelt fu contrastato passo passo dalla Corte Suprema conservatrice, gli intellettuali cari al democratico Stevenson detestavano Eisenhower, l’ultima visita di Kennedy a Dallas fu preceduta da minacce di morte dei razzisti, nel 1968 e 1972 le Convenzioni furono bolge politiche, Nixon odiava ed era odiato dai suoi avversari, Reagan - che pure come Clinton sapeva unire - era irriso nei campus nobili delle università Ivy League, contro Clinton i repubblicani lanciarono una violenta campagna culminata nelle richieste di impeachment. La mezza America che ha amato George W. Bush ha odiato Obama, e viceversa.

 

Barack Hussein Obama ha dichiarato di volere riunire il Paese nei suoi bei libri, ma alla fine la politica ha prevalso e ha dovuto mobilitare solo la base, sperando nei 270 voti elettorali del Collegio che assegna, arcaico, la vittoria al Presidente americano. Romney ha scommesso sulla destra per ottenere la nomination in primavera, poi pian piano ha recuperato l’aplomb centrista, sperando nel paradosso di unire estremisti e moderati, tradizionale coalizione repubblicana cara a Bush padre e così fuori moda oggi.

 

La divisione profonda che il nuovo Presidente dovrà affrontare non è colpa dei media, vecchi o nuovi che siano. Scaturisce da interessi diversi, culture opposte, desideri inconciliabili. I repubblicani che mandano i figli a scuola privata, si curano con assicurazioni sanitarie private, vivono in «gated community» dove si entra solo mostrando i documenti e pagano la propria pensione autonoma, trovano ingiusto pagare le tasse, perché non hanno più dallo Stato servizi sociali comuni. I democratici che vivono di questi servizi, dalla scuola alla sanità alla pensione, temono ogni taglio alla spesa. L’esercito professionale è raro ponte tra le due comunità, i repubblicani presenti con le famiglie tradizionali del Sud, i democratici con i figli delle minoranze povere e urbane.

 

Le due coalizioni che si sono scontrate ieri non potrebbero essere più diverse, con Romney maschi bianchi sia ricchi che lavoratori, il ceto medio, Wall Street, l’America rurale, le piccole e medie imprese; con Obama le metropoli delle due coste, i tecnocrati del digitale, le minoranze dagli afroamericani agli ispanici, gli intellettuali e Hollywood, gli operai salvati dal piano auto, i sindacati di scuola e fabbrica. In mezzo le comunità incerte, cattolici, asiatici, anziani e pensionati, professionisti.

 

Se i dati dell’ultima ora si confermano, i democratici dovrebbero tenere il Senato e i repubblicani la Camera: ma, ammonisce la Banca Centrale, davanti all’emergenza lavoro, al dilemma di deficit e debito pubblico e al «fiscal cliff», i tagli automatici alla spesa per 600 miliardi di dollari che scatteranno a Capodanno 2013, la fragile ripresa economica potrebbe essere a rischio. Chiunque sieda a gennaio alla Casa Bianca dovrà allora riaprire il Rapporto sulla politica fiscale redatto dalla Commissione indipendente Simpson-Bowles che Obama ha elogiato e poi, sbagliando, dimenticato sul tavolo. Ancora oggi la capacità di innovazione tecnologica e sociale d’America non ha pari nel mondo ma un equilibrio fiscale, sociale, di comunità resta indispensabile: vedi le emergenze clima da Katrina a Sandy. Anche oggi le Americhe restano due, ciascuna con i suoi torti e ragioni, ma il Presidente deve essere interprete tra clan, non limitarsi a guardare la scazzottata tra i militanti di Kamerfield e Mandyboy, come lo scettico Fogg nel Giro del Mondo.

 

Twitter @riotta 

da - http://lastampa.it/2012/11/07/cultura/opinioni/editoriali/washington-presidente-cercasi-per-rimettere-insieme-l-america-bw69BN7Y0z76tKCDPAq6qN/pagina.html
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« Risposta #63 inserito:: Novembre 08, 2012, 11:22:00 pm »

Esteri
08/11/2012 - I segreti del team di Obama

Come un mago del baseball ha scoperto la nuova America

Al maxi centro congressi di Chicago esplode la gioia del nocciolo duro dei sostenitori di Obama che hanno lavorato per la sua vittoria

Il blogger sondaggista del New York Times ha ispirato gli strateghi democratici

Gianni Riotta

New York

Alle sei del mattino, dal buio seminterrato che ospita la redazione del canale tv Fox News, azzimato in un cappotto nuovo, esce sul marciapiede di fronte al leggendario teatro Radio City Music Hall Dick Morris, consigliere repubblicano, guru di Clinton, ora commentatore della rete conservatrice.

E’ pensieroso, Morris, ha ripetuto tutta notte ai microfoni «Gli elettori han capito bene, il presidente Obama non ha messaggio, né idee e neppure una spiegazione di quel che ha fatto per quattro anni. Romney vincerà le elezioni con 325 voti elettorali, Obama 213». Sui teleschermi della buia newsroom, rossi e blu come bandiere, lampeggiano i veri risultati: 303 Obama, 206 Romney, i 29 punti della Florida, inutili, in attesa. 

A chi gli chiede ragione della sconfitta imprevista, Morris risponde con il sorriso di chi le ha viste tutte, «things change», le cose cambiano, e non sa forse che è il titolo di una deliziosa commedia di David Mamet sul corto circuito Potere&Caso. Come Morris, era certa del trionfo di Mitt Romney tutta la vecchia e intelligente guardia repubblicana. In diretta su Fox Karl Rove, l’uomo che portò per due volte alla vittoria G.W. Bush, ha imprecato sull’Ohio ad Obama, come tifoso al rigore negato. Alla Cnn, Peggy Noonan, soave scrittrice dei discorsi migliori di Reagan, «it’s morning in America», si fa giorno America, se la prende un po’ con Romney un po’ col destino. George Will, analista raziocinante dei conservatori, dava il successo a Romney 321 a 217.

Che cosa è successo? E perché sul blog del New York Times, giornale liberal accusato di non avere il polso del paese, il blogger Nate Silver azzecca la previsione in 50 Stati su 50, dopo il già ottimo 49 a 50 del 2008? Per capire perché, dobbiamo tornare a primavera, quando - come conferma una ricostruzione del Wall Street Journal - il consigliere di Barack Obama, Jim Messina, si presenta al presidente e, facendo scattare dal computer una visualizzazione dati (attenti al linguaggio!, non una banale videografica, una visualizzazione dati, realtà che si fa immagini da guardare, Big Data), gli propone una strategia rivoluzionaria. Anziché attendere, come da tradizione, le Convenzioni per poi attaccare il rivale repubblicano, Messina persuade Obama a investire subito ogni risorsa in spot tv che accusino Romney di avere distrutto, alla testa della finanziaria Bain, posti di lavoro. L’idea di indicare Romney come un moderato travestito da estremista per ottenere i voti di destra è invece scartata, grazie all’ex presidente Clinton: «magari la gente crede sia davvero moderato no?».

Mentre Romney non ha soldi per replicare agli attacchi democratici (la legge gli vieta di usare durante le primarie i fondi accantonati per il voto generale) Obama, a rischio di restare con le casse vuote a settembre, ne definisce la figura davanti agli elettori. Benché Romney vinca poi il primo dibattito tv, faccia una buona campagna e sia votato dalla stragrande maggioranza degli elettori bianchi, il blitz di Messina riesce. Tanti elettori vedranno Romney come disegnato da Obama e «il fiuto» degli esperti repubblicani si asciugherà, come il naso di un cane da caccia incimurrito.

Perché Obama e Messina scommettono la Casa Bianca su un azzardo? Per capirlo dobbiamo lasciare Washington e volare a Chicago, dove, in un edificio anonimo, sorge il centro Big Data del presidente. Qui ragazzini computeristi «nerd» e server giganti che ronzano operosi vagliano i dati di milioni di americani, gusti privati, opinioni politiche, idee, opinioni, pregiudizi ed elaborano il messaggio politico a partire dalla loro realtà. Contea per contea, Stato per Stato, i sondaggisti costruiscono poi modelli per vincere, sommando le varie comunità e valutando le scelte di voto. Perfino i 700.000 volontari del 2008 sono intervistati e schedati, uno a uno, per capire cosa funziona e cosa no: Big Data.

Lo stesso lavoro che Jim Messina fa a Washington e i ragazzi dello scantinato a Chicago, occupa a New York le giornate dell’eccentrico matematico Nate Silver, 34 anni, figlio di un politologo e una militante comunista, statistico che s’è fatto le ossa al blog sportivo Baseball Prospectus e ora interpreta sondaggi e Big Data per il New York Times, sul blog www.fivethirtyeight. Irriso dagli analisti tradizionali, «dopo le elezioni sarai disoccupato!», Silver assicura che guardare al voto nazionale è ormai inutile, tanto il Paese è diviso, serve piuttosto fare somme locali dei campioni di comunità. E calcola secchione: la «new coalition» di Obama è composta da giovani, minoranze, laureati, soprattutto donne, dottori di ricerca, città; Romney prevarrà tra gli operai bianchi (tranne che in Ohio grazie al piano auto), tra chi guadagna oltre 50 o 100 mila dollari l’anno, nella comunità finanziaria, tra i laureati maschi, nelle campagne e nei sobborghi. Silver stima, e Messina e i Big Data di Chicago si mobilitano di conseguenza. Dove la «new coalition» non è abbastanza numerosa, Obama parla ai sindacati, dall’Iowa al Wisconsin.

Nell’anticipare la vittoria di Obama, Silver identifica la vera ragione dell’azzardo vincente di Messina. Il presidente è debole, la Camera resta ai repubblicani, i 600 miliardi di tagli di spesa dell’«abisso fiscale» scattano come ghigliottina a Capodanno, mettendo a rischio la ripresa economica. I democratici guadagnano però nella nuova America, votati da 9 afroamericani, 7 ispanici e 6,6 asiatici su 10. Messina conosce, via Chicago, i dati di Silver e scommette che più immigrati andranno al voto, esattamente il 28%. Così è martedì, troppi nuovi cittadini alle urne contro i repubblicani. Negli Stati dove la coalizione multietnica non basta, Virginia, Colorado, Nevada, Florida, Obama fa leva sulla paura di perdere il lavoro, e somma all’80% delle minoranze il 40% dei bianchi: pochi ma bastano, Big Data non mente. 

Il National Journal calcola i dati della fragilità del fronte Obama, primo presidente da Andrew Jackson, 1829-1837, a rivincere con una minor percentuale di voto popolare. Nel 2008 i bianchi diedero al repubblicano McCain +12% su Obama, martedì +20% a Romney. Meno bianchi in media han votato il vittorioso Obama dello sconfitto 2004 Kerry. I Big Data di Messina riportano Obama alla Casa Bianca, ma governare nella sfiducia del ceto medio sarà difficile. La riforma sanitaria, ad esempio, piace a 3/5 degli ispanici, 3/4 degli afroamericani ma 3/5 dei bianchi vogliono cancellarla subito.

Romney avrebbe dovuto ascoltare meno gli arguti intellettuali conservatori e - come faceva ai tempi di Bain - masticar numeri. Non basta ai repubblicani vincere un record, 3/5 del voto bianco, per avere la Casa Bianca. Nessun candidato Gop dal 1988 supera il 50,8% del voto popolare, una vasca di consensi che si vuota. Nel 2004, quando i Big Data debuttavano, per tutto il martedì elettorale i sondaggi indicavano Kerry vincente. Vinse Bush, perché l’alacre Rove mobilitò a sorpresa la base cristiano-fondamentalista, che era fuori dal campione. In otto anni il campione e l’informatica si sono raffinati, i Silver son cresciuti, il colpo gobbo di Rove è ormai impossibile. O i repubblicani imparano a riconoscere dai numeri la nuova l’America, parlando alle minoranze etniche senza durezze, alle donne senza confondere aborto e contraccezione, o finiranno nell’angolo come i democratici dal 1968 al 1992.

Nell’alba grigia della sconfitta Morris non perde il sorriso ma medita: ai repubblicani servono nuovi numeri, nuove idee, nuovi leader. Come ad Obama serve nuova capacità di dialogare col Congresso diviso, se non vuol finire presidente vincente e dimezzato. Tutti guardano con reverenza alla nuova macchina della verità, i Big Data, capaci di svelare il Dna politico del Paese a chiunque abbia l’umiltà e l’intelligenza di studiarli. In America oggi, in Italia domani.

Twitter @riotta 

da - http://lastampa.it/2012/11/08/esteri/come-un-mago-del-baseball-ha-scoperto-la-nuova-america-dfXwbWGaKFhxP2iwtpjgYP/pagina.html
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« Risposta #64 inserito:: Novembre 18, 2012, 03:13:22 pm »

Editoriali
18/11/2012

Obama in viaggio nel futuro

Gianni Riotta

Un rapporto dell’Ocse calcola che da qui al 2060 la Cina produrrà il 28% del Prodotto interno lordo del pianeta Terra contro il 17 di oggi, gli Stati Uniti scenderanno dal 23 del 2012 al 16%, l’India dal 7 salirà al 18%. Per avere un’idea del mondo che il presidente Barack Obama incrocerà nel viaggio verso il Sud Est asiatico, India e Cina hanno oggi insieme un’economia che pesa meno della metà degli orgogliosi paesi industriali G7. Nel 2060, l’era dei nostri figli e nipoti, l’economia di Pechino e Nuova Delhi varrà più di una volta e mezzo del G7. 

Bastano questi numeri (rapporto Ocse completo http://goo.gl/NyoMQ ) per comprendere come ad Oriente sorga davvero l’alba del XXI secolo. Del primo mandato di Obama gli storici ricorderanno la «svolta verso il Pacifico» come la scelta strategica centrale. La vocazione di Washington in Asia, antica come la flotta del commodoro Perry che nel 1854 con la Convenzione di Kanagawa aprì il Giappone alla modernità, è destino della prossima generazione.

 

La forza cinese, con la nuova leadership del partito determinata a pesare anche militarmente come deciso dal presidente uscente Hu Jintao, spaventa i vicini. Il Vietnam guarda agli Usa, già acerrimi nemici, per protezione. I marines sono di stanza in Australia. Il Giappone coordina manovre navali e aeree col Pentagono.

 

In ogni capitale asiatica si fanno le formazioni, dopo il congresso del Pc cinese: dei candidati al Politburo i riformisti Li Yuanchao e Wang Yang restano in panchina, mentre i conservatori Zhang Dejiang e Liu Yunshan sono convocati. Gli altri cinque, da Xi Jinping, futuro presidente, a Li Keqiang, Zhang Gaoli, Yu Zhengsheng e Wang Qishan hanno poco nel curriculum che li indichi come i «Gorbaciov» della trasparenza cinese. 

E’ il tipo di missione che il Presidente appena rieletto predilige, dove rischi e opportunità vengono dal futuro, non dal passato. Il mondo delle sue origini e infanzia, Africa e America, Hawaii e Indonesia, è quello in cui si sente a proprio agio per visione e cultura. Mentre è in imbarazzo, o distratto, davanti alle ancestrali faide del Medio Oriente, Israele, Egitto, Palestina, Siria. Una regione, ai suoi occhi, anchilosata in una perenne vendetta, mentre il futuro avanza dalla Cambogia alla Thailandia.

 

Anche in Asia, però, il Presidente si imbatterà in insidie e pericoli. Per anni gli studenti americani hanno firmato petizioni a sostegno della premio Nobel per la pace birmana Aung San Suu Kyi, costretta agli arresti da una giunta militare sostenuta da Pechino. Quando il paese ha avviato caute riforme, liberando la signora Suu Kyi, sono riemerse però antiche fratture: nello Stato del Rakhine forze di sicurezza ed estremisti buddhisti hanno riacceso un clima di violenza, vittime i musulmani. Un rapporto del Council on Foreign Relations denuncia come alle organizzazioni internazionali, Medici senza Frontiere per esempio, sia stato impedito di soccorrere migliaia di rifugiati. La guerra civile incendia anche lo Stato di Kachin, imbarazzando il presidente Thein Sein. La Nobel per la Pace finora non è intervenuta contro le violenze, ma dovrà presto esporsi per evitare imbarazzanti omertà.

 

Né Obama troverà pace in Thailandia, dove il re è ammalato e Yngluck Shinawatra e suo fratello Thaksin non riescono a fermare la corruzione, né a isolare le proteste del movimento Pitak Siam. Insomma il maggior alleato di Obama in Asia sembra la paura della Cina e il sogno di sviluppo economico. Perché, se India e Cina vantano tassi formidabili di crescita negli ultimi 20 anni, centinaia di milioni di loro cittadini stentano ancora a trovare uno standard di vita decente. Nel 2060 Pechino e Nuova Delhi saranno officina del mondo, ma il reddito pro capite in Cina resterà appena il 59% di quello americano e in India un assai modesto 27%.

Nella valigetta diplomatica di Obama è ancora l’innovazione il bene più prezioso, quello che fa degli Stati Uniti i leader del presente e del futuro. Un paese irriverente, dove l’anticonformismo è incoraggiato non emarginato come in Asia, dove rompere le regole della produzione e della cultura può ricevere premio, non castigo. Dove ci sono istituzioni come il Media Lab all’Mit dove solo idee «strane» sono accolte e sperimentate, stile che gli ingegneri del Politburo a Pechino non solo non amano, ma temono.

 

Per questo Obama va in Asia con entusiasmo e un po’ di magone. Felice di una rielezione mai scontata, concentrato sul futuro che gli è caro e in cui crede di poter pesare al contrario che in Europa e Medio Oriente, preoccupato per l’affaire Petraeus. Con la sua sub cultura di pettegolezzi e volgarità, dame scalatrici sociali, vestite alla moda e scolpite dalla chirurgia plastica come cloni della modella Kim Kardashian, e ufficiali di mezza età, depresse Madame Bovary con le stellette e la divisa. Con l’Fbi cui basta nulla per aprire la mail del capo della Cia, e repubblicani e democratici al Congresso pronti a reciproche calunnie sull’esito infelice del raid al consolato Usa a Bengasi. Lo stesso paese che sa di poter essere il più ricco tra mezzo secolo, cui gli ex nemici guardano con speranza, che vanta leadership tecnologica senza rivali, si perde in intrighi non da bassa corte degli Annali di Tacito, ma da serie televisiva americana dei Borgia, sesso, corruzione, potere e banchetti lascivi.

Felice di essere leader del mondo, Barack Obama parte a testa alta, ma passerà ore sui dispacci della pochade Petraeus: perché tanti scandali americani cominciano da sciocchezze e poi bruciano nel loro falò i giganti di Washington.

Twitter @riotta 

da - http://lastampa.it/2012/11/18/cultura/opinioni/editoriali/obama-in-viaggio-nel-futuro-44hSxYQ6Mf85zm0KFpkocI/pagina.html
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« Risposta #65 inserito:: Novembre 24, 2012, 05:38:57 pm »

Editoriali
24/11/2012

Ciechi e sordi a Bruxelles

Gianni Riotta

Sarebbe bello convincere il Museo di Capodimonte, a Napoli, a prestare per qualche tempo la tela di Bruegel, «La parabola dei ciechi», 1568, a una galleria di Bruxelles, così che i leader europei possano ammirarne la tragica dinamica, gli sfortunati in fila a reggersi a vicenda, tutti prossimi a precipitare in un crepaccio secondo i versetti del Vangelo di Matteo (XV, 14) «Se un cieco guida un altro cieco, ambedue cadranno nella fossa». 

Dopo l’esito infelice del summit europeo sul bilancio dell’Unione, la confederazione dei paesi del Nord guidati dalla cancelliera Merkel con Olanda, Finlandia e Londra in panchina, potrà sostenere che il cieco capofila siano i paesi latini, Spagna, Francia e Italia. 

 

Il presidente francese Hollande potrebbe - davanti ai poveri ciechi fiamminghi che insieme vagolano senza direzione - accusare invece i «rigoristi» di non saper trovare la strada giusta: alla fine poco importa. 

Quel che davvero conta è che l’Europa, con la disoccupazione giovanile crescente e una generazione intera ormai «senza-lavoro», con l’innovazione che langue, la crisi del debito contenuta dalla Bce di Draghi ma latente e le sfide del mondo ribollente, dalla nuova Cina al vecchio Medio Oriente, rinvia le scelte, tira a campare, guadagna tempo.

 

Ha ragione il presidente del Consiglio italiano Mario Monti, che ha tenuto duro contro la rigidità fiscale tedesca spacciata per «rigore» ma in realtà solo blandizie agli elettori teutonici, a dire «Non aver raggiunto un accordo non pregiudica nulla… Il risultato non c’è stato, non è la prima volta e non sarà l’ultima. È successo altre volte che l’accordo sul bilancio settennale non sia stato chiuso al primo tentativo, non bisogna stupirsi» perché «Si tratta di un lavoro fondamentale, di grande complessità e dovremmo essere in grado di colmare le distanze esistenti».

 

Non è una catastrofe, il bilancio dei sette anni si raggiungerà, Nord e Sud troveranno l’intesa. Noi speriamo prevalgano le ragioni di Monti e Hollande, e se qualcuno sospetta che in questo auspicio ci sia campanilismo da Europa meridionale, farebbe bene a rileggere l’editoriale del New York Times, foglio poco «latino» si direbbe: «Da almeno un anno la cancelliera tedesca Merkel spinge in modo distruttivo i partner a una politica che prolunga la recessione, perché i tetti rigidi ai deficit negano ai paesi quella flessibilità fiscale che, in certe fasi, è necessaria a rilanciare la crescita». Semplice teorema di politica economica che il giornale liberal di New York, il socialista Hollande e il liberale Monti possono condividere, perché corroborato dalla realtà.

 

L’accordo verrà, certo: ma il giudizio deprimente sul naufragio a Bruxelles è nello scarto tra leader europei ed emergenza dell’Unione, hic et nunc. Le piazze si incendiano a Madrid, Roma ed Atene, l’opinione populista sobbolle nei siti e nei talk show da Helsinki a Palermo, le menti migliori dell’ultima generazione ponderano se emigrare e lo Stato Maggiore dice compunto, Buon Natale cittadini, ci rivediamo a Carnevale. Gli estremisti accumulano rancore, i populisti cinismo, e come obiettare? La distanza tra le due fazioni era di 30 miliardi di euro, forte ma davvero impossibile da superare? Il bonario van Rompuy non si emoziona «Non c’è da drammatizzare», ed è vero se pensate che il problema sia il bilancio dei 7 anni. E’ sbagliatissimo se i problemi sono, come sono, i disoccupati, i cinquantenni rimandati a casa, il debito, la crescita disomogenea e flebile.

C’è una flemma da circolo aristocratico incurante della piazza, un distacco da Bella Epoque che stucca. A riguardare le bozze di bilancio che van Rompuy computava con la pazienza del buon ragioniere, cascano le braccia. L’agricoltura, che già oggi assorbe le voci più esorbitanti del bilancio, avrebbe ricevuto 7,7 miliardi di euro in più (con effetti negativi per i contadini dei paesi poveri) e modesti effetti sull’occupazione. Il piano infrastrutture e broadband per internet perdeva 5,5 miliardi di euro, investiamo sul passato anziché sul futuro che moltiplica il lavoro. Hollande e Monti hanno difeso gli 11 miliardi di euro per le zone da promuovere, ma erano già caduti gli otto miliardi per ricerca e piccole e medie imprese, motore di crescita in Europa. Tanto per mandare un messaggio all’Africa, nostra vicina di Mediterraneo, al Medio Oriente, e ai paesi in via di sviluppo sono stati depennati i 5,5 miliardi di aiuti internazionali. L’Europa, fresca di premio Nobel per la pace, dice al mondo: Non ho spicci, ripassa in primavera.

 

Infine, non c’è bisogno di essere Beppe Grillo, un ragazzo del 5 stelle o un’assatanata antikasta per deprecare che nel testo di van Rompuy non un centesimo fosse tagliato da stipendi e prebende dei funzionari, malgrado il gran parlare che si fa delle cantine colme di pregiato euro-vino. L’amarezza del fallimento del vertice non sta solo nei suoi esiti, un accordo si troverà. Sta nelle premesse, è come se alla maggioranza dei leader sfuggissero l’emergenza, l’urgenza, la drammaticità del tempo. Che richiede sì rigore fiscale e però anche investimenti, che impone di preservare la qualità della vita europea ma senza tagliar fuori i giovani. Nessuno chiede a un summit panacee impossibili: ma si poteva dimostrare a milioni di cittadini che le loro ansie sono, almeno, ascoltate. La sordità totale di Bruxelles, invece, spaventa, sdegna, alimenta rancori.

twitter @riotta 

da - http://lastampa.it/2012/11/24/cultura/opinioni/editoriali/ciechi-e-sordi-a-bruxelles-wO18gNUySFFAVHH1sot1OO/pagina.html
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« Risposta #66 inserito:: Dicembre 09, 2012, 10:01:44 pm »

Editoriali
09/12/2012

Le paure di chi ci guarda da fuori

Gianni Riotta

Come vedranno fuori d’Italia, nel mondo delle cancellerie, dei mercati e degli «influencer» - i leader dell’opinione sul web -, la fine del governo Monti e le nostre prossime elezioni? 

A prima vista non ci sarà grande differenza con il 2008. Allora l’ex premier Berlusconi rappresentava il centrodestra alleato alla Lega Nord di Bossi, contro Veltroni, leader del Partito democratico, il centrista Casini e la sinistra di Bertinotti a chiudere il quadro. 

 

Dopo un lustro di rivolgimenti, la fine del terzo governo Pdl-Lega, la stagione dei tecnici di Monti, le primarie Pd, sarà l’attuale segretario del Pd, Bersani, a candidarsi per il centrosinistra, la destra, per la sesta volta in 18 anni, verrà rappresentata da Berlusconi, Casini prova a rimotivare il centro, mentre la sinistra radicale cerca di rientrare in Parlamento con Vendola. Nella realtà la fine brusca di Monti, invano esorcizzata dal presidente Napolitano, muta il quadro a fondo. E chi l’ha favorita, rischia di passare da apprendista stregone. Ora si rischia infatti che unico elemento di novità appaia il Movimento 5 Stelle. Beppe Grillo, che dopo il successo alle regionali in Sicilia è accreditato, nei sondaggi, di un pacchetto tra 100 e 120 deputati, tutti fedelissimi dell’ex showman. 

 

Le reazioni internazionali alle notizie di ieri sera mostravano già, pure a Borse chiuse, qualche nervosismo. The Atlantic, la rivista americana, legge nella parabola di Monti e nel mancato rinnovamento del centrodestra la stanchezza italiana, che rischia di far perder interlocutori a Casa Bianca e Unione Europea, nella difficile crisi economica e del debito europeo. Il giudizio personale su Bersani non è ostile, «un pragmatico» scrive il Financial Times, le perplessità riguardano l’ala sinistra di partito, sindacato e coalizione: riuscirà il segretario, se eletto, a continuare le riforme o i radicali lo trascineranno nelle sabbie mobili come fecero con Prodi nel 1998 e nel 2008?

 

In Italia, e sarà così anche nella fase conclusiva del governo Monti, il giudizio del mondo suscita due diverse, ed ugualmente errate, reazioni. Gli «Esterofili» trasformano ogni paragrafo del primo corrispondente di passaggio a Roma in Tavole del Giudizio di condanna apocalittica del nostro Paese, ignorandone successi, cultura, economia, manifattura e ricchezza. Gli «Esterofobi» dimenticano che il mondo conta, lo spread conta molto, le agenzie di rating saranno pure antipatiche come professoresse arcigne, ma come loro bocciano, e il giudizio dei leader alleati infine regala, o nega, opportunità. Se l’Italia è giudicata bene nel mondo arrivano fondi ed investimenti, altrimenti no, e non si perde un titolo simpatico sull’Economist, si perde lavoro per gli italiani.

 

Oltre il provincialismo comune a Esterofili ed Esterofobi, è bene quindi che il «caso Italia 2013», non più garantito dalla credibilità super partes di Mario Monti, sia percepito all’estero con precisione, nella sua forza e nei suoi limiti, con i 1900 miliardi di euro di debito e i 9000 di ricchezza privata, con il 35% dei ragazzi senza lavoro e la seconda manifattura d’Europa, sesta del mondo. Perché, al di là di quel che appare, il voto 2013 è radicalmente diverso dal 2008, un copione teatrale inedito, malgrado i troppi attori veterani. Berlusconi 2008 raccolse la vittoria dopo il suicidio degli avversari. Berlusconi 2013 è reduce dal suicidio del suo governo, e si arrocca con la Lega di Maroni, contando su un 20% dei voti, che – come indicano gli studi elettorali del professor D’Alimonte - può innescare un’impasse al Senato, grazie a Lombardia, Veneto, Piemonte e Sicilia. Sa di non poter vincere, vuol pareggiare e poi trattare.

 

Anche Bersani conduce una partita diversa da Veltroni cinque anni or sono. Allora il segretario Pd, conscio di non poter prevalere, ottenne un lusinghiero risultato e propose al centrodestra il «dialogo» che i falchi Pdl rifiutarono, pentendosene nei giorni dell’avvento di Monti. Ora il segretario del Pd è accreditato da sondaggi che gli schiudono chance di vittoria, dopo la brillante campagna di primarie con Matteo Renzi. Il suo problema – davanti al mondo - è provare che, dopo vent’anni di travagli, la sinistra italiana è finalmente capace di vincere e governare per una legislatura senza psicodrammi, completando le riforme. Non si chiede a Bersani di guidare un Monti bis mascherato, ma di restare il liberalizzatore del 2006.

Anche Casini ha una parte diversa da recitare. Dopo la scommessa di autonomia dal Pdl, deve mettere insieme tecnocrati e politici, in grado di dare al Pd un interlocutore serio al centro. Non è poco. Non si tratta, se davvero Monti uscirà di scena, di insistere con slogan del Monti bis, si tratta di imporre al Paese la filosofia riformista che, nei giorni migliori, ha animato il governo Monti.

 

Nessuno, nei centri di studio e potere che contano, dal Council on Foreign Relations al Carnegie Endowment, dalla Casa Biancaall’Eliseo e Downing Street, chiede a Bersani e al Pd – in caso di vittoria - di adottare gli editoriali del Wall Street Journal come linea, né di indossare gli abiti di Monti. Si chiede di non ricadere nell’instabilità e restare partner credibili per Obama e Hollande, sulla linea della crescita a bilanciare i conservatori della cancelliera Merkel. Questo ruolo prezioso il professor Monti ha saputo svolgere, e questo ruolo i suoi eredi riformisti devono continuare a interpretare. Che l’Italia debba tornare a svilupparsi, che una generazione non debba schiattare di austerità, è chiaro agli alleati: senza però follie fiscali e innovando il Paese. Quando Bersani ha detto, nel faccia a faccia con Renzi, di non volere raccontare favole e che governare è anche «sorprendere», è sembrato davvero un «pragmatico». Per vincere le «primarie mondo» deve vaccinare con questa virtù partito e coalizione. 

 

Il centrodestra deve meditare sul suo isolamento: né i rigoristi alla Merkel, né i keynesiani alla Hollande-Obama contano sul Pdl come alleato. La diplomazia muta al mutar del vento, ma per ora il vento va così e non basterà un discorso per riaverlo nelle vele, come quando George W. Bush invitava Berlusconi a parlare al Congresso Usa, raro privilegio per leader amici.

Anche Beppe Grillo ha la sua partita internazionale e, finora, l’ha giocata abilmente. Il suo consigliere Gianroberto Casaleggio ha incontrato Michael Slaby, Capo dell’innovazione e dei Big Data alla Casa Bianca, durante la sua missione ufficiale in Italia. Non un endorsement, ma almeno una cortesia per un movimento screziato di antiamericanismo, per esempio sull’Iran. I media internazionali, web o classici, adorano già Grillo, a partire dal primo, raggiante, ritratto del New Yorker. Piace il 5 Stelle nemico della corruzione, se ne leggono con distratta disinvoltura i programmi, il risultato è bonaria simpatia.

 

L’Italia ha bisogno del mondo, alleati e investimenti. Ma il mondo ha bisogno dell’Italia, partner di stabilità nella faticosa uscita dalla crisi finanziaria 2008. Per questo la nostra scelta 2013 sarà seguita con attenzione in tante capitali, per questo dovremo farla con saggezza, lungimiranza e raziocinio.

Ci sarà tempo per un giudizio storico preciso su Monti e i suoi tecnici. Avrebbero certo potuto essere più calorosi nei giorni delle emergenze del terremoto in Emilia e del naufragio della Concordia, Avrebbero a volte dovuto spiegare le riforme e le tasse con meno algoritmi e sussiego, con più visione e compassione. Ma se possiamo guardare alla primavera con preoccupazione e non angoscia si deve alla saggezza di Napolitano e all’aplomb di Monti e dei suoi. Nessuno può dimenticarlo se non vogliamo che il mondo veda nel 2013 italiano un grottesco festival di demagogia.

Twitter @riotta 

da - http://www.lastampa.it/2012/12/09/cultura/opinioni/editoriali/le-paure-di-chi-ci-guarda-da-fuori-D4cyyHRXinRVi5tG4x82LM/pagina.html
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« Risposta #67 inserito:: Dicembre 24, 2012, 06:47:37 pm »

Cronache
24/12/2012

Sarà l’anno dei Big Data

Dal secolo delle masse al secolo delle persone


Gianni Riotta

Sarà l’anno dei Big Data, i grandi dati, la mole immensa di informazioni, transazioni, acquisti, registri, che ciascuno di noi semina ogni giorno online. Parlando con gli amici su Facebook, seguendo la campagna elettorale su Twitter, facendo la spesa, a casa, in ufficio, lasciamo un segnale di noi, un dato. Ecco i Big Data, che hanno permesso al presidente Obama di rivincere la Casa Bianca, che danno a una compagnia aerea informazioni sui propri clienti, che informano del valore reale di un calciatore, di un parroco, di un prodotto. Immaginate la sterminata biblioteca di dati che il web custodisce mentre leggete queste righe: bene, nelle prossime 11 ore sarà raddoppiata, Internet si moltiplica per 14 ogni settimana. Chi controllerà i dati, come proteggere la privacy se ciascuno di noi li immette volontariamente nei social network? Sono preoccupazioni concrete, ma gli ecologisti, gli epidemiologi, i microbiologi analizzandoli possono salvare specie animali a rischio, curare malattie, vaccinare bambini. I dati e la teoria delle reti, come studiata da Albert-Làszlò Barabàsi, connettono politica, cultura, società a noi stessi, un uomo, una donna. Il secolo delle masse, il XX, lascia il posto al secolo delle persone, il XXI. Siamo tutti in reti globali, ma ciascuno ne è un nodo singolo, indipendente, orgoglioso. Per la Chiesa, i partiti, la scuola, le aziende tutto cambia: un giornale, una tv, un sito non si rivolgono più al «pubblico», ma studiando Big Data possono rivolgersi a ogni individuo, un singolo. I pessimisti pensano al Grande Fratello. Gli ottimisti delegano loro la democrazia digitale. Nella realtà saranno la vostra vita, e prima ne sarete padroni meglio sarà. 

da - http://lastampa.it/2012/12/24/italia/cronache/sara-l-anno-dei-big-data-dal-secolo-delle-masse-al-secolo-delle-persone-WCf2ty5kqJDcr9jkOvdIcK/pagina.html
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« Risposta #68 inserito:: Dicembre 28, 2012, 11:53:46 pm »

Editoriali
28/12/2012

L’abisso Usa che spaventa il mondo

Gianni Riotta

In America è il numero 13, non il 17, che porta sfortuna e spesso lo si cancella in ascensori, hotel aerei. Nessuno però sfuggirà, tra Capodanno e 4 gennaio 2013, alla iettatura che i giornali chiamano «fiscal cliff», abisso fiscale. O il presidente Obama e i repubblicani della Camera, guidati dallo Speaker John Boehner, trovano un accordo o scattano 600 miliardi di dollari (€ 460 miliardi) in tasse e tagli alla spesa automatici, inclusi 50 miliardi di dollari alla Difesa. Senza intesa, l’Ufficio del Bilancio stima una caduta del 4% nel prodotto interno Usa, il Paese che scivola in recessione, sei mesi con caduta libera fino a -2,9 nella crescita e solo da giugno a dicembre 2013 un lentissimo ritorno a un gracile +1,9%. Tutti gli americani, ricchi e poveri, pagheranno più tasse, tre milioni di disoccupati, da qui a marzo, perderanno i 290 dollari di sussidio settimanale, 25 milioni di lavoratori a basso salario non riceveranno più vari sussidi, da sanità a scuola. Otto milioni di bambini rischiano la povertà.

 

Numeri che basterebbero a forzare democratici e repubblicani al tavolo della trattativa, se l’ideologia non irrigidisse tutti. I repubblicani non votano un aumento delle tasse al Congresso dal 1992, e quando lo Speaker Boehner ha proposto una timida apertura a più imposizione fiscale per i super ricchi, la base s’è rivoltata, minacciando la sua poltrona. Quanto basta perché un politico di oggi perda subito animo.

 

I mercati e Wall Street hanno scommesso dapprima sull’accordo, giocando al poker delle previsioni, ora hanno paura e vanno in negativo. Obama ritorna in anticipo dalle vacanze alle Hawaii per aggiungere dramma alla situazione e mettere pressione ai rivali. Non bluffa: se il Paese si ribalta nell’«abisso fiscale» darà colpa ai repubblicani, per costringerli di più nell’angolo dopo la sconfitta di novembre. Anche la sua base ringhia, il «New York Times» lo considera troppo disposto a fare cessioni.

 

Gli ultimi saggi moderati del partito che fu di Nixon e Reagan, senatori centristi, chiedono ai repubblicani di trattare, lo stesso Boenher vorrebbe, ma il giuramento «Mai Tasse» che lega troppi deputati ai radicali del movimento Tea Party, può rendere il 2013 anno sfortunato. La trattativa andrà avanti, tra accordi sottili e rotture, metà corte assurda di Bisanzio, metà sfida di pistoleri da Far West, e vedremo come si evolverà. Il lettore può già però trarne insegnamenti utili, perché se lo Zio Sam cade, sia un abisso o solo una botola fiscale, anche l’Unione Europea e l’Italia si faranno male. L’America in recessione, il caos a Washington, la rissa politica permanente dell’ultima potenza, non gioveranno nei prossimi 12 mesi, con il Giappone che prova nuovi equilibri politici, la leadership debuttante in Cina, Italia e Germania alla vigilia di difficili elezioni. 

 

La lezione americana, comunque finisca, indica elementi di nuova, ruvida, politica che anche da noi presto si imporrà. Il no alle tasse dei repubblicani, radicato da una generazione, non è politico ed economico, è culturale. Indica la fine di un senso civico di comunità, non si vogliono pagare imposte perché tanti ceti si rivolgono a scuola, sanità e pensioni private, vivono in «gated community», quartieri residenziali chiusi, e trovano assurda l’idea di provvedere ai concittadini meno fortunati. La politica, il governo, le burocrazie federali, hanno dissipato, tra sprechi, corruzione e inefficienze, la loro credibilità davanti a milioni di cittadini. Egoismo, certo, ma anche sfiducia consumata nello Stato fiscale, il welfare, la spesa. Mezzo secolo fa i democratici di Kennedy e Johnson dichiararono guerra alla povertà, investirono miliardi per debellarla, ma oggi le minoranze più prospere sono quelle che hanno scommesso su se stesse, sul lavoro, il business, l’etica del lavoro, non sui sussidi pubblici: gli asiatici.

 

Per tornare alla solidarietà diffusa il presidente Obama dovrebbe dimostrare che tasse e spesa, sostenute dalla pattuglia di economisti guidati dal Nobel Krugman, sono ancora indispensabili a soli 5 anni dalla crisi del 2008, che chiudere il sostegno, passare a un rigore «tedesco» nella grande America, rischia di duplicare lo stop che colpì lo stesso leggendario presidente Roosevelt quando pensò troppo presto di essere uscito dal disastro del 1929 e dovette aspettare la Seconda Guerra Mondiale per rilanciare il Paese. Errore che, fin qui, la Banca centrale di Ben Bernanke ha saputo evitare.

 

L’America non ha più la leva militare, la grande scuola pubblica s’è sfasciata nelle metropoli, i college statali come il City di New York, popolati una volta da grandi scienziati, stentano a chiudere i bilanci. La riforma sanitaria di Obama è detestata da metà del Paese. È vero che la classe dirigente oggi è mediocre, è vero che il Presidente non ha dimostrato grandi doti negoziali, ma se si gioca alla roulette americana, non russa stavolta, sull’orlo dell’abisso, è perché manca un tessuto comune, solidale.

 

Da qui a gennaio, con una possibile, drammatica, coda fino a primavera, il duello fiscale continuerà, poi gli Stati Uniti troveranno un accordo, vedremo quanto fragile e provvisorio. Ma, come dicevano gli antichi favolisti latini, De te fabula narratur, la favola dell’abisso fiscale parla di noi, italiani, europei. Le divisioni politiche, sia pur radicali, sono la forza della democrazia, l’alternanza di proposte liberiste e keynesiane, accompagna feconda le diverse stagioni economiche. Quel che rischia di fermare tutti è il contrapporsi di sprechi, corruzioni, egoismo, guerra di tribù sociali. Non è il 13 a rendere sfortunato il 2013, è lo smarrimento del senso e della ragione di cittadinanza comune. I Tea Party originali, nel Settecento, chiedevano «No taxation without representation», niente tasse senza diritti politici pieni, perché erano fieri dei diritti e della politica che li rappresentava ed erano disposti a pagarne il prezzo fiscale. Perduta la fiducia nella politica, il prezzo del biglietto fiscale sembrerà sempre troppo esoso, in America e da noi.

 

Twitter @riotta 

da - http://lastampa.it/2012/12/28/cultura/opinioni/editoriali/l-abisso-usa-che-spaventa-il-mondo-4k4cLmbdTGRSaLH8JAO5sM/pagina.html
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« Risposta #69 inserito:: Gennaio 01, 2013, 05:38:10 pm »

Editoriali
31/12/2012

In cerca di una nuova normalità

Gianni Riotta

E se il 2013…? E se il 2013 non fosse «l’ultimo anno della crisi», e nemmeno «l’anno della ripresa», ma almeno «L’Anno Con Qualche +», il primo dal 2008 in cui cominciamo ad aggiungere il segno positivo davanti a qualche dato, in economia, lavoro, sviluppo? E se nel 2013, come già in Asia e in America Latina, tornasse uno sprazzo d’azzurro tra le nuvole plumbee della recessione d’Europa? E se il 2013, qui i lettori e le lettrici guardando i prezzi del Cenone di San Silvestro arricciano il naso increduli, qualche segno «+» scattasse anche da noi, in Italia, o magari un «meno» davanti a voci come «disoccupazione giovanile», «lavoratori di mezza età senza posto», «aziende chiuse», «lavori pubblici fermi», «start up digitali che non decollano», «restrizioni burocratiche all’innovazione»? 

 

Non gettate via infastiditi la vecchia, cara Stampa, lettori, non è il classico pezzo di Capodanno intriso di ottimismo, che già domani svapora, coppa di spumante dimenticata dopo la festa. E per convincervi che «se il 2013…» può essere, a costo di fatica e idee, portafortuna efficace, vi riporto a un anno fa, 31 dicembre 2011. Solo dodici mesi or sono la Grecia era spacciata, la Spagna a un passo dalla catastrofe, l’Italia a due passi. Nelle birrerie tedesche non si vedeva l’ora che l’euro fallisse, discutendo se fosse meglio tornare al marco o a un euro di serie A per il nord Europa e uno di serie B per i Paesi del Sud. Davanti alla Tempesta Default il naufragio d’Europa era certo: come nel film La Vita di Pi, la questione non era «se», ma «quando» la Tigre della crisi avrebbe sbranato il pivello Pi della nostra economia, alla deriva nell’Oceano Debito. 

 

Non è andata così. La Grecia è in Europa, malmessa ma c’è. L’euro è vivo, grazie alla frase storica di Mario Draghi, un italiano alla Bce: «Faremo tutto il necessario per salvarlo». L’austero The Economist ricorda che -secondo Citigroup- la Grecia ha ancora 60% di possibilità di lasciare la divisa comune, ma un anno fa era al 90%. L’arcigna agenzia S&P ha aumentato da poco (avete letto bene: «aumentato!») il rating della Grecia fino a un imprevedibile B-. 

 

Grazie al lavoro di Mario Monti, alla sagacia del presidente Napolitano, alla maggioranza dei partiti tutti che, pur tra turbolenze, hanno sostenuto il governo e soprattutto grazie agli italiani che hanno accettato i sacrifici, consapevoli che milioni di evasori irresponsabili se la ridono, il nostro paese lascia il 2012 non risanato, non riformato, senza segni «+», ma capace almeno di porsi la domanda «E se il 2013 fosse l’inizio della fine dei tempi cupi?».

 

Cina e India cresceranno nel 2013, meno del previsto ma cresceranno, con i cinesi a rodare il nuovo governo e gli indiani con un problema «italiano», tagliare la burocrazia, liberalizzare o fermarsi. L’America, se il presidente Obama non sprofonda nell’«abisso fiscale», potrebbe crescere del 2%, Tokyo e Londra dell’1%, l’Europa solo di un modesto «0, E Se…?». Ma davanti a questi numeri anemici, brindando a mezzanotte, ricordate le profezie nefaste del 2011. E alzate il bicchiere anche ai pessimisti, che lasciandoci intravedere il disastro vicino ci hanno spronato ad evitarlo.

 

Curioso 2013: chi potrà mai negare che, senza stimolare ancora l’economia occidentale, rischiamo di lasciare un’intera generazione senza lavoro, famiglia, speranze? Ma chi può non vedere che senza rigore, con bilanci formato chewing gum, si spaventano i mercati e creano velenose bolle speculative? Chi governerà a Berlino e a Roma, le arene delle due grandi elezioni europee 2013, dovrà essere un virtuoso, ogni giorno leggere insieme le pagine sulla crescita di Lord Keynes, alternandole ai classici liberisti. Stato e Mercato son parole che profumano di XIX secolo: l’economia digitale le assorbe insieme, ha bisogno di scuole e infrastrutture, libere idee, liberi scambi. Sfida affascinante e paradossale: l’America, patria del capitalismo, sceglie Obama che difende la spesa pubblica, la Germania del «capitalismo sociale» deve innovare e aprirsi o si fermerà a sua volta. 

 

Da noi «E se il 2013…?» significa che, dopo una campagna elettorale in cui il favorito Bersani, il debuttante Monti, il redivivo Berlusconi, gli outsider Grillo e Ingroia se le daranno di santa ragione come inevitabile, dovremo avere un governo capace di riforme, crescita, rigore, trasparenza, onestà e lotta alla corruzione e alle mafie. Di creare lavoro, scegliere chi merita, ridare alla politica forza, rispetto, autorevolezza. Chi sa di poter vincere dovrà contenere i colpi della campagna, per non compromettere i negoziati e le intese dopo il voto. Difficile, ma possibile «Se nel 2013…».

 

Ciascuno di noi, nella sua famiglia e comunità, può sperare che il 2013 sia ricordato non come l’anno in cui i problemi sono finiti, ma come la ripartenza, in modo che nei cenoni futuri si possa dire lieti «…In fondo da quel 2013 in poi…». Non fidatevi quindi di astrologi, calendari e oroscopi, ricordate che i disastri annunciati nel 2011 li abbiamo evitati lavorando sodo, innovando con fantasia e coraggio, anche noi italiani. Con questa speranza, auguri 2013!

 

Twitter @riotta 

 http://lastampa.it/2012/12/31/cultura/opinioni/editoriali/in-cerca-di-una-nuova-normalita-N1zuzerahlZZI6F2TSXBMI/pagina.html
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« Risposta #70 inserito:: Gennaio 10, 2013, 07:43:25 pm »

Editoriali
10/01/2013

Hiroshima, l’ombra velenosa del fungo atomico

Gianni Riotta


Il fungo atomico spaccato a metà non l’avevamo visto, le foto di Hiroshima cui siamo abituati noi figli della Guerra Fredda sono quelle riprese dall’alto, dall’aviazione americana. Ora un’istantanea trovata negli archivi della Scuola Elementare Honkawa, ad Hiroshima, mostra l’attacco dal suolo. 

 

In primo piano sembra già di scorgere la devastazione, il fungo che ha scandito con la sua brutalità gli anni della sfida Usa-Urss si è diviso in due tronconi velenosi, il «cappello» vola in alto a seminare fall-out radioattivo sul Giappone, il «gambo» precipita a terra a finire i superstiti all’esplosione.

È il 6 agosto del 1945. La guerra in Europa è finita in primavera, ma il Giappone non capitola. Lo stato maggiore è persuaso che, in caso di resa, gli americani destituiranno l’imperatore Hirohito e introdurranno la repubblica, temono la rivoluzione comunista e, nel caos che regna mascherato da ferrea disciplina, sperano assurdamente nella mediazione del leader russo Stalin contro gli Alleati. Il nuovo presidente Truman, il leggendario F.D. Roosevelt è scomparso in aprile, legge i dati delle perdite durante gli attacchi alle isole del Pacifico, verso il Giappone. Iwo Jima, difesa dallo stoico generale Tadamichi Kuribayashi, è uno scoglio rispetto alle grandi isole giapponesi, eppure è costata agli americani 6.821 morti e 19.217 feriti, al Sol Levante 21.844 morti. 

 

Come racconta Kumiko Kakehashi nel saggio «Così triste cadere in battaglia» (Einaudi) e ricorda Clint Eastwood nel film «Lettere da Iwo Jima», Kuribayashi, un ufficiale elegante che aveva studiato a lungo in America e sapeva che la guerra era perduta, «troppo forte la potenza industriale Usa», disobbedisce agli ordini di caricare con valanghe umane suicide le spiagge dopo l’invasione, fortifica le grotte interne e rende un calvario l’occupazione. Se riprodotta in Giappone, la sua tattica terribile avrebbe prodotto secondo i calcoli americani un milione di morti Usa, 500.000 inglesi e 10 milioni tra i giapponesi. Secondo lo stato maggiore di Tokyo i morti sarebbero stati tre milioni tra gli Alleati, venti tra i giapponesi.

 

Il fungo spezzato che vediamo nella tremula immagine riapparsa 68 anni dopo si lascia dietro – secondo le stime dello storico Antony Beevor nel suo recente saggio «The second world war» - centomila morti, con altre migliaia spenti nei mesi a seguire dalle radiazioni. Quarantotto ore dopo Stalin attacca il Giappone, puntando a conquiste territoriali. Gli Alleati hanno già chiesto, con il documento di Potsdam, la resa, ma i militari sono divisi tra intrighi e codice samurai di resistenza, impotenti ma arroganti. Il 9 agosto Truman ordina un secondo bombardamento, stavolta sulla città di Nagasaki: muoiono in 35.000. 

 

L’imperatore Hirohito, amante della poesia classica giapponese, dice basta e vuol comunicare, nell’arcaica lingua di Corte che alla radio nessuno comprenderà, come un bollettino letto in latino, la resa. Prima che ci riesca, il 15 agosto, il generale Hatanaka Kenji guida il Secondo Reggimento della Guardia a distruggere il testo registrato. Il colpo di stato fallisce per la reazione del Ciambellano Koichi Kido, Kenji fa harakiri, il suicidio rituale.

 

Sessant’anni sono molti nella vita degli uomini, pochi per la storia, nulla per l’etica. Quando guardiamo la foto della scuola elementare Honkawa, pensiamo alla sorte del fotografo che la scattò, sentimenti di orrore e solidarietà ci assalgono per le altre vittime. Il fungo spezzato pesa sulla vita dei baby boomers, i nati tra il 1946 e il 1966, Beatles, jeans, ’68, personal computer. Nel 1958 il poeta beat Gregory Corso scrive un poema le cui righe stesse formano il fungo nucleare «Bomba», «Tu Bomba, giocattolo dell’universo…». Scienziati occidentali - come il nostro Pontecorvo - fuggono a Mosca con l’alibi dell’«equilibrio atomico», i padri del fungo si dividono tra falchi alla Teller, colombe alla Oppenheimer, scienziati neutrali come Fermi. Alle Nazioni Unite Washington e Mosca spendono decenni in difficili accordi che impediscano nuove foto come quella ritrovata ieri. 

 

In una passeggiata nei boschi intorno a Ginevra i diplomatici Paul Nitze e Yuli Kvitsinsky si accordano, nel 1982, su un piano per ridurre le testate atomiche fino a zero. Reagan e Gorbaciov non accettano il patto radicale della «passeggiata nel bosco», ma la tensione nucleare decresce. «Tutto il mondo pensa che siamo andati vicini alla guerra atomica nei giorni della crisi di Cuba, nel 1962 - mi disse una volta il diplomatico americano McGeorge Bundy - in verità fu nel 1955, durante la crisi dimenticata per gli isolotti sperduti di Quemoy e Matsu, fuori Taiwan, che fummo davvero sull’orlo della nuova Hiroshima». Il comando della Marina suggerisce apertamente alla Casa Bianca di bombardare con testate nucleari la Cina, il presidente Eisenhower si oppone: aveva comandato la guerra in Europa, sapeva che il mondo sarebbe finito.

 

Dalla guerra mondiale i Paesi sconfitti, Germania, Italia, Giappone, escono con costituzioni e psicologie pacifiste. Davanti ai morti di Hiroshima e Nagasaki ci impietosiamo, ma dimentichiamo il verso terribile del generale Kuribayashi, «Come è triste cadere in battaglia», che rigetta l’etica militaresca del «dulce et decorum est pro patria mori». Senza i due atroci funghi, i morti non si sarebbero contati in decine di migliaia ma in milioni. E il Giappone, ridotto a un deserto, sarebbe finito colonia per tutto il XX secolo.

 

Riguardiamo dunque il fungo spezzato di Hiroshima. E lodiamo le generazioni che, tribolando, hanno impedito che un terzo venisse deflagrato in ostilità. Ma, guardando questa storica foto, non rivolgiamo lo sguardo solo al passato, album polveroso. Guardiamo alla frontiera atomica India-Pakistan, guardiamo all’Iran che prova a comprare l’uranio dai siti di Assad in Siria, per innescare la corsa atomica in Medio Oriente, con Israele. Mentre parliamo di crisi fiscale euro e dollaro, il fungo del XX secolo lancia la sua ombra velenosa sul XXI.

 

Twitter @riotta 

da - http://lastampa.it/2013/01/10/cultura/opinioni/editoriali/l-ombra-velenosa-del-fungo-atomico-MknTkgrY0uZSfmQsT7Ky1K/pagina.html
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« Risposta #71 inserito:: Gennaio 18, 2013, 11:48:22 pm »

Editoriali
18/01/2013

Quanto pesa il piccolo schermo


Gianni Riotta

Quanto peserà la televisione nella campagna elettorale 2013? Sarà decisiva per i risultati o prevarranno i new media, web, blog, twitter, Facebook, YouTube? La domanda corre dopo il ritorno di Silvio Berlusconi sugli schermi e la rimonta sul Pd di Pierluigi Bersani che i sondaggi stimano tra il 2 e il 3%. E tornano le fruste risposte che circolano dal 1993. Chi crede e chi teme che la tv aiuti Berlusconi, chi spera e chi depreca che i talk show corrida diano una mano alla sinistra, chi invece, ultimi in ordine di tempo, irride la tv come obsoleta e giura che a decidere sul filo di lana sarà internet.

 

Per trovare la soluzione, occorre sgombrare un quarto di secolo di equivoci. Per cominciare non è vero che Berlusconi abbia dominato per anni «perché ha le televisioni». Questa analisi rozza, muove da una corretta premessa, che cioè il conflitto di interessi tv aiuti la destra. E’ vero, e va regolato l’equilibrio proprietario dei network per impedire che un giocatore solo sia politico e imprenditore della comunicazione.

Ma chi guarda agli esiti elettorali dal 1994 con serenità, sa che Berlusconi ha sempre vinto partendo dall’opposizione, nel 1994, nel 2001 e nel 2008, e ha sempre perduto dopo avere nominato i vertici della tv pubblica, al massimo del consenso tv quindi, 1996 e 2006. Se la tv fosse dirimente, un esito del genere sarebbe impossibile.

 

La verità è che l’analisi del centro destra, da Forza Italia al Pdl, come semplice «partito di plastica», che tanti danni ha fatto a sinistra, è smentita dalla realtà. Berlusconi e i suoi alleati hanno oggi intorno al 25% dei consensi. L’Spd tedesca, storico partito che risale fino al remoto Programma di Gotha criticato da Karl Marx, non va per ora oltre al 29 per la sfida contro la Merkel. La destra scommette per una sorpresa al Senato sull’area forte del paese, Piemonte, Lombardia, Veneto, come sul Sud, Campania e Sicilia, grazie a un radicamento sociale, a ceti, dinamici o parassitari, con cui la sinistra non sa bene dialogare. Certo che la tv conta: ma in quanto amplifica i messaggi concreti e li fa arrivare a chi, altrimenti, non li ascolterebbe. Ma senza un leader, un messaggio politico, una coalizione sociale, tutta la tv del mondo non basta.

 

La Lega di Bossi si radicò senza tv. Romano Prodi, considerato da tutti gli «esperti» un candidato senza alcun appeal mediatico, sbaragliò per due volte Berlusconi, mago delle tv, perché il suo messaggio pacato persuase la sua coalizione. Vale anche in tv la micidiale «Prima Legge» coniata dalla studioso Melvin Kranzberg «la tecnologia non è buona, né cattiva e neppure neutrale». Non è la tv a decidere, arbitro assoluto, l’esito di un’elezione, ma il suo intervento influenza i risultati. Obama ha messo a rischio la vittoria su Romney col primo dibattito flop, ma poi ha comunque prevalso. Beppe Grillo, che rivendica il primato politico digitale, e guida un ottimo blog e un discreto account twitter, deve però il successo in Sicilia non alla rete, ma alla vecchia tv: sono gli show da artista del video a renderlo popolare anche in aree della popolazione non avvezze ai computer.

 

In una stagione di polarizzazione delle coscienze, è quasi impossibile che un cittadino di destra voti a sinistra e viceversa. La tv e il web mobilitano la base e richiamano dall’astensione i simpatizzanti delusi. Lo studio dei Big Data conta i propri consensi e quelli dell’avversario per accertarsi di avere un voto in più. Bersani e Pd hanno galvanizzato la base democratica con una perfetta stagione di primarie con Matteo Renzi, consolidando gli elettori tradizionali, fidelizzandone di nuovi. Ora Berlusconi parla ai suoi, evoca la loro cultura e le loro idee: sa di averli irritati, ma sa che non sono diventati di sinistra. Non è «la tv» a farlo rimontare, sono i loro interessi e valori che si risvegliano a voto vicino.

 

E’ giusto che tv private e pubbliche offrano eguale spazio ai candidati, ma non sarà un minuto in più o uno in meno a decidere delle elezioni. Sarà l’uso raziocinante che i leader faranno del mezzo tv, e i riformisti di Monti e Bersani, privi di tv private, dovranno lavorare a una riforma tv di equilibrio e professionalità. Il populismo tv, ormai rodato da vent’anni, premia i candidati con messaggio diretto, «di pancia», Berlusconi e Grillo. 

Qui, e sarà l’effetto sorpresa, entra in gioco il web. I dati del Censis e di McKinsey confermano che la maggioranza degli italiani è online e la rete muta la televisione. Da mezzo unidirezionale, il leader parla i cittadini ascoltano magari commentando tra moglie e marito sul sofà, la tv diventa assemblea. Durante il confronto Bersani-Renzi, durante lo show che ha dato a Berlusconi voti e a Santoro audience (simbiosi Paguro Bernardo Attinia perfetta) giornalisti e cittadini hanno commentato online la tv, creando quella che lo studioso Weinberger chiama «camera intelligente», dibattito dove i ragionamenti vanno via via raffinandosi. La convergenza «old e new media», tv e web, è il teatro di battaglia 2013.

 

Infine ci sarebbero i faccia a faccia. Berlusconi li chiede quando è in svantaggio e nega quando è in vantaggio. La sinistra può essere tentata di rendergli la pariglia. Vanno invece imposti, se non per legge almeno per consuetudine come in America. Leader, messaggi, coalizioni di interessi e valori sociali in contrasto davanti alla tv, con il paese che si confronta online preparandosi al voto: così funziona la democrazia del XXI secolo e prima ne accettiamo il codice più in fretta rinnoveremo la classe politica e metteremo alla prova la nostra cittadinanza.

 

Twitter @riotta 

da - http://lastampa.it/2013/01/18/cultura/opinioni/editoriali/quanto-pesa-il-piccolo-schermo-387djS2lxJpyOHfURhBCuI/pagina.html
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« Risposta #72 inserito:: Gennaio 23, 2013, 09:06:11 am »

Editoriali
22/01/2013

Fisco e sfida alla Cina: dall’utopia alla realtà

Gianni Riotta

Gli studenti che quatto anni fa, mischiati in piazza a un milione e mezzo di americani, festeggiarono il primo giuramento di Barack Obama alla Casa Bianca, sono andati ieri al lavoro, almeno quelli fortunati abbastanza da avercene uno. 

 

Gli altri sono andati a cercarsi un lavoro, come ogni lunedì. Il brusco passaggio dall’utopia alla realtà è la cifra del secondo mandato di Obama. Nel 2009 il presidente guidava l’America appena caduta nella crisi finanziaria peggiore dal 1929 e aveva davanti le due guerre seguite all’11 settembre 2001, Afghanistan e Iraq.

 

La sua amministrazione doveva suturare le ferite del passato, anabolizzare di dollari e spesa pubblica l’economia, concertando la ritirata strategica da Kabul e Baghdad. La caduta libera nell’abisso della crisi è stata stoppata, mentre le due sfortunate campagne vanno verso l’ammainabandiera senza vittoria: la I Guerra Globale contro il terrorismo fondamentalista islamico si sposta nel deserto del Mali, guidata ora dagli ex «pacifisti» di Parigi.

 

Oggi i dossier sul tavolo di Obama riguardano crisi fiscale americana, rapporti con la Cina, controllo delle armi da guerra sul mercato americano e riforma dell’emigrazione, che nelle speranze del Presidente dovrebbe fare il paio con la controversa riforma sanitaria del primo mandato.

 

Di tutte le scelte che attendono Obama II al giudizio della storia, il ritorno a un equilibrio fiscale a Washington è la più importante. Il Presidente non è riuscito in alcun modo ad aprire un dialogo tra i partiti, e la politica americana è così incancrenita che l’ex senatore repubblicano Hagel, nominato da Obama segretario alla Difesa, incontra la feroce opposizione dei suoi ex compagni, che lo considerano un traditore anti Israele. Senza un accordo, i 16.000 miliardi di dollari di debito sfasceranno la società, la politica, l’economia americana, disperdendo l’influenza Usa nel mondo. Non si può più - Obama lo sa, ma non ha fatto nulla, perfino stracciando le proposte di una commissione bipartisan convocata sul tema - spendere come se le tasse Usa fossero altissime e tassare come se la spesa Usa fosse ridottissima. Alta spesa e basse tasse sono, da G. W. Bush soprattutto, somma rovinosa. Con un numero record di americani che vanno in pensione, figli del boom del dopoguerra, le tre voci di spesa, difesa, sanità e pensioni, vanno tagliate. Gli economisti più intelligenti, come Rogoff, propongono di «tagliare la spesa attraverso l’innovazione», riformando cioè esercito, ospedali, sussidi agli anziani e scuole con le tecnologie, per fornire servizi a spesa ridotta. Ma nessuno ha il coraggio di dirlo agli elettori.

 

La seconda voce di intervento riguarda la Cina. Pronta al sorpasso economico sugli Usa, previsto per il 2017-2018, la Cina teme che la crisi demografica, troppe poche nascite e troppe poche bambine, la indebolisca a partire dal 2030. Dieci anni cruciali per l’egemonia sul Pacifico, e per questo Pechino vara la flotta d’alto mare, la prima portaerei e litiga con il Giappone sulle isolette Senkaku. Il nuovo leader, Xi Jinping, deve scegliere se dialogare con Obama, scivolare verso la guerra fredda o combattere in armi. Vietnam, India, Filippine, Malesia, Birmania, Australia, chiedono agli Usa protezione contro l’offensiva cinese e il Giappone del nuovo premier Shinzo Abe vuol cancellare la costituzione antimilitarista di Tokyo, redatta paradossalmente dal generale americano MacArthur, aumentare la spesa per l’esercito e far riscrivere i libri di storia per le scuole in modo che ritraggano il Sol Levante come vittima, non aggressore nella Seconda guerra mondiale.

 

Panne fiscale in America e sfida strategica con la Cina basterebbero a colmare il secondo mandato di ogni Presidente. Obama ha davanti, inoltre, il vecchio Medio Oriente, dove nulla fa prevedere progressi tra Israele e i palestinesi, il nuovo volto del mondo arabo dopo la Primavera, il ricatto dell’Iran sulla corsa alle armi nucleari, un Putin indebolito dal calo del prezzo del petrolio ma deciso a non mollare il potere, il rapporto da rivitalizzare con l’Europa ormai talmente ripiegata sulla crisi dell’euro da non essere più partner interessante per Washington da anni.

 

A questo già turbolento menu, Obama vuole aggiungere il divieto alle armi automatiche, dopo la strage nella scuola di Newtown e dopo che le sue lacrime in diretta lo hanno impegnato davanti al Paese a fare qualcosa. Infine - in debito di gratitudine per gli elettori etnici, ispanici ed asiatici, che gli hanno riconsegnato la Casa Bianca preferendolo al repubblicano Romney - Obama lavora a una riforma dell’emigrazione, con amnistia per i clandestini (intorno a 15 milioni) che da anni vivono negli Usa, e riaprendo visti e permessi di soggiorno e lavoro a studenti e tecnici qualificati, mentre ai braccianti, oggi spesso intimiditi, potrebbe offrire ingressi legati ai lavori agricoli, avviando poi l’accesso alla cittadinanza. I due politici repubblicani che sognano la Casa Bianca, Marco Rubio e Paul Ryan, hanno visto come la diserzione degli elettori ispanici abbia sconfitto Mitt Romney, computano la crescita del voto etnico in chiave Casa Bianca 2016 e 2020, e sono pronti a collaborare, per non lasciare ai democratici il vanto della riforma emigrazione.

 

Questi gli ostacoli che la cronaca mette davanti al secondo mandato del presidente Barack Hussein Obama. Le emergenze, le tragedie e le opportunità che la Storia, come sempre, saprà creargli nessuno le conosce: e come sempre sarà proprio la sua reazione alle mosse della Storia che ci dirà che Presidente davvero sia l’amletico Obama.

 

Twitter @riotta 

da - http://lastampa.it/2013/01/22/cultura/opinioni/editoriali/fisco-e-sfida-alla-cina-dall-utopia-alla-realta-0U7X3bLDMSFXBJH1dhT37I/pagina.html
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« Risposta #73 inserito:: Gennaio 28, 2013, 11:48:44 pm »

Editoriali
28/01/2013

Messaggio agli irriducibili di destra

Gianni Riotta

Le dichiarazioni del leader Pdl Silvio Berlusconi su fascismo e dittatura, rese ieri nel giorno dedicato alle vittime dell’Olocausto, non sono una gaffe, ma un’indicazione di voto diretta ai settori irriducibili della destra italiana. Strati sociali e culturali, radicati nelle periferie e tra i più giovani, che trovano nel disagio e nel tam tam del web, idee, mobilitazione, propaganda. Il sociologo Renato Mannheimer indica nei sondaggi che il 6% degli elettori ex Lega guarda ora ai neofascisti mentre il 21% degli elettori Pdl è ancora incerto, con il 10% tentato dal Movimento 5 Stelle. Beppe Grillo stesso ha aperto, qualche giorno fa, ai neofascisti del gruppo Casa Pound, perché legge gli stessi dati e decide che, in una corsa drammatica, non c’è da fare troppo i gentlemen.

 

Sulla sostanza del giudizio di Berlusconi, ha detto bene – con sofferenza - il presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, Renzo Gattegna: «Le dichiarazioni appaiono non solo superficiali e inopportune.

 

Ma là dove lasciano intendere che l’Italia abbia deciso di perseguitare e sterminare i propri ebrei per compiacere un alleato potente, destituite di senso morale e di fondamento storico… Le persecuzioni e le leggi razziste antiebraiche italiane hanno avuto origine ben prima della guerra e furono attuate in tutta autonomia sotto la piena responsabilità dal regime fascista, in seguito alleato e complice volenteroso e consapevole della Germania nazista fino a condurre l’Italia alla catastrofe. Furono azioni coerenti nel quadro di un progetto complessivo di oppressione e distruzione di ogni libertà e di ogni dignità umana». 

 

Il giudizio storico sui venti anni di dittatura è ormai assodato, incluso il consenso di cui a lungo Mussolini godette e che proprio le leggi razziali del ’38 e la guerra del ’40 gli fecero, in poco tempo, disperdere. Gli studi degli storici De Felice e Pavone, i libri di Primo Levi e Beppe Fenoglio lo raccontano per sempre. Il Paese distrutto, la diaspora degli intellettuali da Fermi alla Levi Montalcini, l’economia spezzata, le vittime: 313.000 militari, 130.000 civili, un milione di prigionieri tra cui 600.000 ufficiali e soldati nei lager nazisti, migliaia di ebrei deportati, pochissimi sopravvissuti allo sterminio, su una popolazione che allora era appena di 44 milioni. Non c’è ancora oggi famiglia che non pianga un lutto, una perdita. La cancelliera Angela Merkel e papa Benedetto XVI, due tedeschi, hanno ricordato con parole misurate, e di responsabilità, gli stessi eventi, ed è grave e triste che un pugno di voti basti a cancellare tanta tragica storia.

 

La campagna elettorale sta cancellando ogni decenza, ogni comune interesse nazionale, nascondendo con superficiale vacuità i problemi che ci attendono dal 25 febbraio in poi tra slogan, demagogia, populismo. Un dirigente di Rifondazione Comunista partecipa al funerale del capo brigatista Gallinari, membro del commando della strage di via Fani e dell’assassinio di Aldo Moro, trasformato in grottesca manifestazione politica. Di Grillo e Casa Pound s’è, purtroppo, detto. Su tutt’altro versante, le malversazioni del caso Monte dei Paschi di Siena vengono strumentalizzate, dagli opposti schieramenti e al loro interno tra fazioni rivali, non per trovare finalmente equilibrio tra ragioni dello Stato e interessi del mercato, ma per regolare conti e occupare posizioni. Una furiosa rissa da saloon cominciata già prima dello scioglimento delle Camere, con la campagna politica, tanto faziosa quanto immotivata, contro il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano.

 

Il risveglio, dopo il voto, sarà brusco. Non una delle ragioni che hanno portato alla crisi del gabinetto Berlusconi nel 2011 è venuta meno. La disoccupazione giovanile, la difficoltà dei lavoratori e dei ceti medi, un sistema fiscale, una scuola e una giustizia obsoleti, imprese e burocrazie paralizzate, una classe dirigente e intellettuale avvitata su se stessa, poco coraggiosa. A leggere i piani proposti da Cgil e Confindustria, fra spunti interessanti, si nota però quanto poco scommettano sull’innovazione, sulle tecnologie, le nuove produzioni di servizi e manifattura, il digitale, cioè la ricchezza del lavoro oggi. Sindacato e imprese chiedono al nuovo governo investimenti, motivandone diversamente l’utilizzo, ma entrambi ipnotizzati dallo status quo, sordi all’irrinviabile riforma del Paese.

 

In questo clima, il governo che nascerà, se i sondaggi saranno confermati guidato dal centrosinistra di Pierluigi Bersani, avrà il suo da fare per reggere il timone. Guardate alla Francia, dove il presidente Hollande non ha potuto varare una sola delle misure socialiste promesse in campagna elettorale. La crisi che morde Parigi gli ha impedito perfino di tenere testa alla cocciuta austerità della Merkel, fronteggiata da Mario Draghi alla Bce e, per quel che ha potuto, da Mario Monti. Per recuperare consensi Hollande vara l’operazione militare in Mali: necessaria sì, ma gestita alla G. W. Bush, unilateralmente, ammiccando alla destra degli ultimi poujadisti francesi.

 

La crisi economica, dall’Ungheria alla Grecia, dalla Finlandia agli stessi Stati Uniti, lascia nella disperazione chi perde lavoro e benessere, seminando risentimento razziale, cinismo, basi ideali per destra estremista e sinistra populista. Governare sarà difficile. Berlusconi, ieri, ha sbagliato e si è allontanato ancora una volta dal centro conservatore europeo. Presto potrebbe pentirsi di aver evocato questi fantasmi, per nulla docili, sempre pronti al caos. I saggi, gli uomini e le donne di buona volontà in tutti gli schieramenti, dovrebbero ricordarsi che dopo la legittima battaglia per il consenso elettorale di febbraio, verranno una aspra primavera e un autunno caldo, in cui il paese insieme dovrà guardare oltre la crisi. È bene non scherzare con il fuoco perenne dell’odio che, come insegna la storia del Novecento, si appicca con facilità e si spegne solo dopo immani dolori e sacrifici.

 

Twitter @riotta 

da - http://lastampa.it/2013/01/28/cultura/opinioni/editoriali/messaggio-agli-irriducibili-di-destra-vMvkEzjwY45Xzb8s14dhuI/pagina.html
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« Risposta #74 inserito:: Gennaio 30, 2013, 05:32:06 pm »

Società
20/01/2013

Kissinger: “Fu il primo uomo globale, l’ultimo del Rinascimento”

L’Avvocato a Torino con l’amico Henry Kissinger

focus  L’Avvocato dieci anni dopo   
 

“Mi manca moltissimo, er 20 anni ci siamo parlati ogni due giorni”

Gianni Riotta

«Di cosa si occuperebbe oggi il mio amico Gianni Agnelli?». L’ex segretario di Stato americano e premio Nobel per la Pace Henry Kissinger sorride un attimo, poi detta la risposta senza dubbi: «Di Torino, Italia, Fiat, Europa, America, di arte e Juventus, della sua famiglia e degli amici, come sempre. Ma ci chiederebbe di Internet, del mondo digitale, e sa perché? Perché Gianni è stato uno dei primi uomini globali nel ’900, intuiva che viviamo in una rete - politica, industria, nazioni e individui. Il web stimolerebbe la sua onnivora curiosità».

 

Il primo lavoro che affida in azienda al nipote John Elkann è guidare la transizione digitale del gruppo, Fiat, Juve, Ferrari, La Stampa. Impresa tosta, mettere online i metalmeccanici: «Considerava i nipoti suoi inviati nel futuro, ma li guidava alla Storia. Una volta mi invita a Torino: “Se non capisci Torino e la Fiat, non capirai l’Italia”. C’era una mostra su Cavour che fa la guerra in Crimea per ridare all’Italia peso in Europa. Mi porta a visitare lo scranno di Cavour in Parlamento, e con sé ha John. Lezione per due».

A noi cronisti, l’Avvocato ordinava: imparate da Kissinger la storia profonda, oltre i titoli del giornale. «Per gli uomini della nostra generazione, storia e biografia personale si intrecciano. Aveva conosciuto i leader del tempo, la sua filosofia era chiara, democrazia, società aperte, sviluppo. Dell’America ammirava energia e innovazione. Dell’Europa storia, arte, radici. Voleva che l’Italia condividesse questi ideali. Poteva vivere ovunque, ma restò a Torino: “Mio nonno - mi diceva - mandava i suoi ingegneri a studiare con Ford in America, poi in dialetto ordinava “Alla fine tornate, intesi?”».

 

L’uomo pubblico è già affidato ai libri di storia: come ricorda l’uomo? «Ci siamo parlati ogni due giorni per vent’anni. Nessuno mi è stato più vicino, sul lavoro o fuori. Quando ero in Europa andavo a salutarlo, lui non passava da New York senza vedermi. Si parla del suo fascino, lo charme: Gianni sembrava parlare solo a te, con calore. Anche la sua noia è leggendaria, ma raramente toccava chi non voleva adularlo, la riservava a eventi pubblici pomposi cui, per ruolo, partecipava. Detestava chiacchierare, ma se reggevate la maratona intellettuale che era discutere con lui, non aveva rivali».

È stato icona dello stile, orologio sul polsino, colletto button-down sbottonato: «Amava essere divertente. Cominciava a parlare di Cina e mercato, mi chiedeva di un nuovo ministro americano, raccontava del calcio e mi portava a vedere la mostra di un artista sperimentale. A San Pietro, a Roma, insistette per mostrarmi il modello originale della basilica cattolica, per indicare dove Michelangelo aveva trasformato in capolavoro il progetto del Bramante. Una volta mi costrinse a fare il bagno in una sorgente di acqua sulfurea, usata dagli imperatori romani: si divertì un mondo, io sinceramente assai meno. Sapendo della mia passione per il calcio, mi portò al vecchio stadio Comunale a vedere un Juve-Napoli con Maradona, 4 a 3 mi pare. Guai a tifare contro i bianconeri, lo sapevano anche gli avventori della trattoria di New York dove seguiva la squadra in tv! Primo uomo del gusto globale, era l’ultimo del Rinascimento».

 

Dieci anni fa disse che Agnelli aveva «leggerezza e profondità insieme»: in che modo? «Una volta ascoltavamo Mozart e gli dissi: “Sei come queste sinfonie, leggere, allegre, piene di vita in apparenza, ma dentro colme di malinconia e di dolore”».

Avete parlato di questa malinconia e del dolore? «Gianni non parlava di sé. La vita lo aveva privilegiato, aveva pudore a dirsi infelice. Quando mia madre fu trovata senza sensi, in casa, mi disse: “Non idealizzarla. Se si riprenderà sarà ancora lei”. Accadde così e gli fui grato del consiglio franco. Quando morì suo figlio Edoardo, toccò a me scrivergli una lunga lettera, sapevo non avrebbe gradito gli parlassi di persona. Un anno dopo, senza accennare neppure alle mie parole, mi fece capire di averle gradite e meditate». 

 

L’Italia fu sorpresa dalle lunghe code di torinesi in coda per l’estremo omaggio. Chi era per gli italiani l’Avvocato? «Sapevano, come tanti di voi, che credeva nell’industria, nel lavoro, la Fiat, Torino. Tutte le chiacchiere su Agnelli re d’Italia, ultimo sabaudo, non ne colgono l’essenza. Capiva che senza grande industria il vostro Paese non avrebbe avuto peso in Europa. Per Torino aveva affetto e ironia: A Palazzo Grassi, mentre un oratore citava “la cultura di Venezia e il potere di Torino”, mi bisbigliò: “Per fortuna non parla della cultura di Torino e del potere di Venezia”, ma era il suo gusto per la battuta. Realizzando la Pinacoteca al Lingotto indicò dove voleva restasse la sua eredità. Era già ammalato, ma in sedia a rotelle, perfettamente vestito, ricevette il Presidente Ciampi. Ero il solo amico, quella volta, tra i familiari. Al centenario della Fiat, dopo la parata delle autorità, ascoltò con orgoglio il discorso del capo dei sindacati sul ruolo della Fiat nell’occupazione in Italia. Era stato, come me, militare, e aveva mantenuto un’aria da ufficiale di cavalleria. Gli chiesi come mai non avesse ceduto la Fiat, quando sarebbe stato un affare: “È un esercito nazionale, non posso trasformarla in legione straniera”, rispose severo».

 

Sono passati dieci anni, dottor Kissinger. Come è cambiato il ricordo del suo amico? «Penso spesso a Gianni. Sono felice di averlo incontrato. Dietro il formidabile ruolo pubblico di leader, si nascondeva l’anima di un uomo solo, che accettava la solitudine della dinastia, del comando. Spero di averlo fatto sentire qualche volta meno solo. Capisco ora perché corteggiasse così il pericolo, in guerra, in mare, sugli sci. Volare con lui - lei ricorderà, perché qualche volta è stato con noi e io l’avvisavo: “Mangi prima, ché sugli aeroplani di Agnelli non si serve cibo!” - era mozzafiato, faceva atterrare il pilota anche nelle peggiori condizioni. Mi disse: “Da ragazzo rischiavo la vita per gioco, e ce l’avevo tutta davanti. Adesso la assaporo ogni giorno”. Con la sua famiglia Gianni è stato leale, con gli amici che aveva scelto magnifico, riservato, senza effusioni. Quando faceva chemioterapia a New York, andavo a trovarlo ogni giorno. Era preoccupato per la crisi dell’Iraq, la polemica Usa-Europa, lui atlantista storico».

 

Nell’ultima telefonata prima di morire mi disse: America e Europa vivono il momento peggiore tra loro dal ’45, intervisti Kissinger, chiami a nome mio. «Classico Gianni! Non si lagnava del suo male. La moglie Marella, quando aveva quasi perduto la vista, mi telefonò: “Gianni sta meglio, guarda pure la partita”. Ascoltava l’audio, fingendo per rassicurarla. Chiesi allora a uno dei medici: Mister Agnelli soffre? “I dolori di questo male sono atroci, doctor Kissinger”, rispose». 

Come lo ricorderà la Storia? «Leader attento alle relazioni internazionali e al lavoro nel suo Paese. Equilibrato in un tempo di nazioni e fazioni. Patriota italiano, grande europeo, amico dell’America. Per qualcuno sono contraddizioni, per me definiscono il mio amico Gianni. I miss him, mi manca».

Twitter @riotta 

da - http://www.lastampa.it/2013/01/20/societa/kissinger-fu-il-primo-uomo-globale-l-ultimo-del-rinascimento-zx7DjrAzf1U7dNnbPCQJeI/pagina.html
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