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Autore Discussione: Gianni RIOTTA -  (Letto 91199 volte)
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« Risposta #30 inserito:: Marzo 16, 2012, 04:48:16 pm »

16/3/2012 - NUOVE TRAME, ANTICHE PAURE

La successione che inquieta la Cina

GIANNI RIOTTA

Una sola volta dal 1949, quando il partito comunista di Mao Ze Dong prese il potere in Cina, i cambi di leadership a Pechino si sono svolti senza trame sanguinose, colpi di Stato tentati e repressi, faide atroci tra fazioni. Nel 2002, durante la grande riforma economica che dal 1981 ha trasformato 630 milioni di cinesi poveri in operai e ceto medio, Jiang Zemin riesce a passare le consegne all’attuale presidente, Hu Jintao. Tutte le altre sfide, con i titani Mao, Zhou en Lai, Lin Biao, Lu Shaoqi, Hua Guofeng, Zhao Ziyang, intenti a manovrare masse sterminate in intrighi rinascimentali, hanno visto il grande paese perdersi in violenze e tensioni.

Che l’anarchia possa ripetersi era lo spettro più temuto da Deng Xiaoping, come testimonia la monumentale biografia che gli ha dedicato Ezra Vogel: lavorava perché la Cina non si disgregasse come l’Urss, o cadesse preda di una tragica versione delle antiche rivolte dei Signori della Guerra, caos assoluto e senza pace che i film del regista Zhang Yimou cercano di esorcizzare. La repressione a piazza Tien An Men e la fine politica di Zhao Ziyang si spiegano anche così. E’ ancora oggi la paura del Partito comunista cinese, e il rinnovo previsto per l’autunno con le dimissioni di Hu e l’insediamento di Xi Jinpin, deve appassionarci, almeno quanto l’elezione alla Casa Bianca: perché può avere conseguenze assai maggiori dello scontro Obama-Romney sulla politica ed economia del nostro mondo.

Per questo la saga di Bo Xilai, l’eccentrico capo del partito a Chongqing, allarma Pechino. La vita di Bo è la vita della Cina comunista. Suo padre Bo Yibo, uno degli «otto immortali della Rivoluzione», finì vittima delle purghe durante la Rivoluzione Culturale, proprio mentre Bo Xilai era attivo in una delle più feroci squadre di Guardie Rosse «Liangdong», Azione Unita sciolta per terrorismo. Padre e figlio si scambiano poi i ruoli, il primo riabilitato, il secondo ai lavori forzati: la moglie di Bo Yibo muore in circostanze misteriose.

Ma quando la Cina di Deng riparte, l’ambizioso Bo Xilai, che perfino in campo di lavoro non ha smesso di studiare l’inglese, sente il profumo del potere. Figlio di un padre della patria, il solo laureato in giornalismo in un partito di tecnocrati, impara a usare la televisione, veste con cravatte da senatore americano, sceglie campagne populiste, con retate anti prostituzione, racket, gioco d’azzardo, corruzione. Sindaco di Dalian, rompe il tabù che impedisce di glorificare i leader in attività, riempiendo la città di foto di Jiang Zemin. Sembra una campagna elettorale, esistono anche nel Pc cinese, verso il Politburo, i toni di Bo rispolverano la Rivoluzione Culturale, non perché ci creda più, ma perché, come Putin a Mosca, sa che nel Partito tanti hanno nostalgia del passato e delle sue mitologie. Rispolvera perfino certe coreografie maoiste, mentre già Internet, nei siti di base, denuncia gli eccessi di suo figlio, Bo Guagua, che ha studiato ad Harvard e Oxford.

Al mondo Bo si affaccia con «la guerra dei reggiseni», che combatte col solito tono arrogante contro il commissario europeo Peter Mandelson, duellando su dazi e produzione industriale, spesso sbattendo la porta e lasciando in finti furori la sala delle trattative. In una tragedia che potrebbe dare sceneggiature a Zhang Yimou, la fine di Bo comincia quando Wang Lijun, il capo della polizia che ha nominato a Chongqing suo partner nelle repressioni, si rifugia a un consolato americano, portando con sé documenti delle malefatte di Bo e dicendo di temere per la sua vita. Wang non riceve asilo politico, ma la carriera di Bo è stroncata.

Il premier uscente Wen Jiabao ha messo in guardia la Cina, e il mondo, contro una transizione violenta a Pechino nel 2012-2013, attaccando direttamente Bo, che sui siti Internet viene paragonato alla vecchia Banda dei Quattro guidata dall’ultima moglie di Mao e processata nel 1981. Bo aveva già i militanti che gli gridavano in pubblico «Ti amiamo Bo», slogan che alla Cina ricorda tempi durissimi.

E’ il dilemma che il partito comunista pone oggi a tutti noi. Le opinioni pubbliche democratiche non possono che sostenere i diritti dei dissidenti come l’artista perseguitato Ai Wei Wei, le ragioni degli operai migranti, la causa paziente del popolo tibetano, l’apertura del Web in Cina. Ma il freddo realismo dell’ex segretario di stato americano Henry Kissinger ci richiama anche al problema della stabilità, perché se la Cina sfuggisse di mano al governo, precipitando in una lotta sorda di Signori della Guerra del XXI secolo, il contraccolpo sugli equilibri diplomatici, politici e economici del pianeta sarà lacerante. Non solo si fermerebbe ogni germoglio di ripresa dopo la grande crisi del 2007, ma si accenderebbero fuochi di guerra alla frontiera nucleare con India e Pakistan, sulle rotte del Pacifico e dell’Oceano Indiano, mandando in fermento l’Asia, dal Vietnam all’Indonesia, e riportando in prima linea l’Australia, il Giappone e Stati Uniti.

La sciarada di Bo Xilai ci richiama alla dura realtà: possiamo seguire con speranza le evoluzioni verso un sistema aperto del più grande Paese al mondo, ma auspicando che la sua sterminata comunità e la sua leadership sappiano sfuggire all’antica dannazione dell’anarchia.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9890
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« Risposta #31 inserito:: Marzo 27, 2012, 07:21:46 pm »

27/3/2012 - CON OBAMA IN COREA

L'agenda global del premier Monti

GIANNI RIOTTA

Nella zona cosiddetta «smilitarizzata», 256 chilometri di lunghezza per 4 di profondità tra le due Coree, una delle frontiere che dal 1953 è in realtà tra le più armate del pianeta, vivono come in un parco naturale specie selvatiche ormai scomparse altrove, fenicotteri, gru rosa, leopardi rarissimi in Asia, orsi. Transito commerciale ed edilizia sono vietati, la foresta e gli animali prosperano tra sensori termici, radar, cellule spia, un mondo ibernato da mezzo secolo. È l’orizzonte che ha guardato, con i potenti binocoli dell’avamposto Ouellette, il più avanzato a Nord di Camp Bonifas, il presidente Barack Obama, nella sua visita in Corea del Sud per il vertice sulla Sicurezza nucleare di Seul, cui partecipa anche il presidente del Consiglio Mario Monti.

È come se due mondi si incontrassero, tra filo spinato, torrette e mitragliatrici. Quello della Guerra Fredda, con la Corea del Nord guidata dall’incerto Jim Jong-un, nipote del fondatore della dinastia comunista Kim Ilsung, che finge di negoziare sul nucleare con l’Occidente chiedendo aiuti alimentari agli Usa, mentre, schermandosi dietro la Cina, progetta di lanciare un missile Unha-3 dalla base di Dongchang-ri nel centenario della nascita di nonno Kim.

E quello dell’opulenta Corea del Sud, passata in solo due generazioni dal feudalesimo affamato della guerra civile a democrazia, stabilità, benessere.

È la Corea del Sud a capeggiare la lista dei «next 11», i prossimi undici Paesi che raggiungeranno Cina, India, Brasile e Russia nella prosperità, secondo l’economista O’Neill di Goldman Sachs: Bangladesh, Egitto, Indonesia, Iran, Messico, Nigeria, Pakistan, Filippine, Turchia, Vietnam.

Il mercato e lo sviluppo non sono molto di moda, dopo la crisi finanziaria del 2007, ma chi alle mode preferisce la dura maestra Realtà non ha che da guardare alle due Coree, una fissa nel Medio Evo nucleare, l’altra protagonista del XXI secolo, per comprendere in che direzione soffi il vento della Storia.

Nelle missioni del presidente Obama e del premier Monti, fra tratti comuni e dossier diversi, questo è il fulcro. Durante la Guerra Fredda i leader cercavano legittimità, trattati e affari, con visite di Stato a Washington e Mosca. Ora è nei Paesi nuovi che si insegue forza diplomatica e qualche buon affare. Monti ha incontrato il premier kazako Karim Masimov (era previsto anche un vertice col presidente Nursultan Nazarbayev): il nostro Paese è, con l’Eni, impegnato nello sviluppo di un gigantesco giacimento offshore a Kashagan, 4500 chilometri quadrati, Nord del Mar Caspio.

Anche Obama, tra il summit con il presidente cinese uscente Hu Jintao sui rischi nucleari in Iran e Corea, pensa alla stabilità e all’economia. Ha proposto al premier turco Recep Tayyip Erdogan di mandare ai ribelli siriani medicine e mezzi di comunicazione elettronica, cercherà di avere dal premier pakistano Yousef Raza Gilani assicurazioni contro il mercato nero di materiale nucleare, spesso rifornito da Islamabad. La sua missione è però agire da statista internazionale in un anno elettorale, mentre i rivali repubblicani Romney e Santorum si impegolano in petulanti comizi di provincia.

Anche Monti, dal summit di Seul ai vertici con Cina e Giappone, ha la sua agenda domestica. Gli arrivano i dispacci con le dichiarazioni su riforma del lavoro e articolo 18, e ha dovuto rigettare la cinica battuta di Giulio Andreotti, «tirare a campare meglio che tirare le cuoia». Le trasferte di Obama e Monti dovrebbero parlare con forza alle opinioni pubbliche dei due Paesi. Ricordare loro di un mondo in cui «globale» e «locale» contribuiscono a indicare, come latitudine e longitudine, gli stessi punti, perché non c’è soluzione «internazionale» che non debba misurarsi poi con i talk show di Washington e Roma, né proposta «domestica» che non sia vagliata sul web nei tinelli di Pechino e Mosca.

Tutti i protagonisti del dibattito sull’articolo 18, spesso condotto al di là dei torti e delle ragioni con un occhio alle prossime elezioni amministrative e politiche, o alle rendite di posizione di imprenditori e sindacati, dovrebbero inserire i giudizi di parte nella cornice planetaria di Seul. Dove la tensione con l’Iran fa lievitare il prezzo del greggio di 20 dollari, un attacco a Teheran fermerebbe la ripresa mondiale, il debito greco può impedire a Obama il ritorno alla Casa Bianca, un fisico nucleare corrotto in Pakistan armare di atomica i terroristi, le tensioni del partito comunista cinese allungare la recessione al 2013. Un solo mondo, una sola economia, tutti insieme sicuri, tutti insieme in pericolo, niente oasi, niente zone franche per animali liberi come nella Dmz tra le due Coree.

Mentre Mario Monti è in Asia, non stiamo decidendo a Roma le regole del mercato del lavoro «italiano», come se potessimo prescindere dai mercati di Wall Street, dal giudizio Bce di Francoforte, dal modo di produzione asiatico e occidentale, dal commercio cinese e indiano, dalla crescita coreana e indonesiana. Ormai le stesse regole valgono per tutti. Magari Monti, guardando alla Seul ricca oggi e così povera solo qualche lustro fa, penserà al nostro Sud, che con le stesse chances potrebbe saltare in una generazione dall’arretratezza all’high tech. Perché non stiamo parlando di «noi», del «nostro» mercato del lavoro. Stiamo decidendo quanto lavoro sarà assegnato all’Italia nel mansionario del mondo globale. Perché siamo sì una Repubblica fondata sul lavoro, ma solo una delle tante repubbliche a contendersi lavoro nel mondo.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9930
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« Risposta #32 inserito:: Marzo 30, 2012, 05:56:30 pm »

30/3/2012 - IL CASO

Spike Lee nella gabbia di Twitter

La Rete e il rischio di giocare sempre al volo

GIANNI RIOTTA

Il regista afro-americano Spike Lee denuncia via Twitter l’indirizzo del presunto killer di un ragazzo nero in Florida, e per qualche ora diventa l’eroe protagonista di una coraggiosa campagna antirazzista. Ma l’indirizzo svelato dall’autore dei film «Malcolm X» e «La 25ª ora» non corrisponde a quello di George Zimmerman, il bianco di 28 anni, accusato di avere ucciso il 26 febbraio a Sanford, Florida, il diciassettenne Trayvon Martin. E’ casa di due pacifici pensionati, Elaine e David McClain, la cui sola colpa è avere un figlio di 41 anni che usa il cognome «Zimmerman», omonimo dello Zimmerman sotto inchiesta, a piede libero, per omicidio: il nome è abbastanza comune negli Usa, Bob Dylan si chiama in realtà Robert Zimmerman.

Il caso di Trayvon Martin spacca l’America, il presidente Obama dice «Se avessi avuto un figlio maschio sarebbe stato come lui». Zimmerman, studente di legge e volontario nelle ronde di quartiere contro i ladri, dice di essersi difeso sparando perché Trayvon l’aveva aggredito indossando un «hoodie», la felpa col cappuccio. L’indumento diventa simbolo di protesta, indossato da deputati, sportivi, studenti.

Nessuno s’è appassionato alla causa come Spike Lee. Su Twitter, un social network che permette di scambiare brevi messaggi con la propria comunità, @spikelee ha preso a insultare i bianchi razzisti, e a rilanciarne i messaggi. Un po’ come nella segreteria telefonica lasciata in onda a Radio Radicale negli Anni 80, è venuto fuori il ritratto di un Paese dove razzismo, violenza e luoghi comuni allignano negli anni di Obama, primo presidente afroamericano.

Ma l’errore grottesco del regista, la leggerezza con cui ha esposto due anziani a possibili proteste e rappresaglie, la fuga dei McClain in un motel per non correre pericoli, «sono cardiopatico, vivo di ansia» confessa alla tv Cnn David McClain - riapre la riflessione: come devono usarsi i social network, Facebook, YouTube, Twitter, Pinterest, nelle proteste politiche e di diritti civili? In un mondo dove il giornalismo professionale, la mediazione politica dei partiti, perfino l’organizzazione fluida dei movimenti con un leader, lascia il campo al «tutto e subito» della comunicazione via web, come tutelare la privacy dei cittadini, evitando che buon senso e raziocinio finiscano preda di populismo e meschine rivalse?

Di tutti i media nuovi Twitter -140 caratteri di messaggio che potete mandare alla vostra comunità, mentreseguiteitweetdiintellettuali, politici, artisti o amici personali - è quello che meglio si presta a campagnediinformazioneomobilitazione. Permette di far pensare, informare, imparare, ma non ha filtri. Nel passato Spike Lee avrebbe chiamato il suo addetto stampa, «Ho un’idea, diffondiamo l’indirizzo di Zimmerman...», o si sarebbe rivolto a un giornalista «Facciamo un’intervista...» e il reporter, se serio, avrebbe telefonato in Florida per verificare.

Nei new media, formidabili, rapidissimi, c o i n v o l ge n t i , ma privi di freno, Spike Lee ha rilanciato le offese dei razzisti per giorni, ha chiesto giustizia per Trayvon, ma alla fine è stato travolto dalla rabbia e, in nome del diritto, ha inflitto una grave ingiustizia a due innocenti. Fa parte della sua personalità, il suo cinema è punteggiato di populismo rauco, quando tifava a New York al Pier 23 per la squadra di calcio del figlio, finiva sempre a insulti all’arbitro, a volte agli stessi bambini se sbagliavano un gol. Stavolta ha combinato un guaio vero, violando perfino le regole di Twitter che proibiscono la diffusione di dati personali, indirizzo incluso, senza autorizzazione degli interessati. S’è scusato, ma non basterà.

Finirà, c’è da scommetterci, con un confronto legale e un risarcimento, palese o sotto banco, siamo in America e un avvocato si nasconde dietro ogni torta di mele. Ma la mancanza grave di Spike Lee deve far meditare: senso comune, responsabilità, equilibrio, contano online come nei vecchi giornali. Equanto più chi informa è importante, noto, influente, tanto più è tenuto a aprire occhi, mentee cuore.

Su Twitter si gioca sempre al volo, sempre. Ci sono falsi profili (Fornero, Napolitano, Celentano), false notizie (morte Castro, Mandela, liberazione Urru), false reazioni. Jack Dorsey, fondatore di Twitter come @jack, scambia un falso Cormac McCarthy per il vero autore di «La strada» o «Non è un paese per vecchi». Come Spike Lee, in altri tempi, Dorsey avrebbe controllato l’identità dell’artista, sulla sua creatura si è sentito spericolato, ha twittato «Do il benvenuto a un maestro della letteratura», senza accorgersi che i tweet del presunto McCarthy «Niente di meglio che svegliarsi all’alba e scrivere grande romanzo americano, con fiume e barche» erano una satira. Disavventure analoghe anche in Italia, dovute a fretta, entusiasmo, ingenuità, rabbia.

Il nostro futuro sono i social network, personale, pubblico, politico. Il futuro del giornalismo, ancora più che nei siti internet tradizionali, è nella grande conversazione sociale in corso 24 ore al giorno sul pianeta. Dove ogni storia è storia di tutti, e tutti si sentono cronisti e commentatori. Ma i valori classici, serietà, equilibrio, autorevolezza, equanimità,controllodellefonti,nonmutano, anzi sono ancor più necessari nel mondo nuovo.

Twitter è uno specchio, ci dice solo chi siamo davvero. Seguito da 254.526 persone (alle 20,43 italiane di ieri) @spikelee segue appena due persone, moglie e figlio, oltre alla propria casa di produzione cinematografica. Come dire: io non ascolto nessuno, voi ascoltate me. Un’arroganza che al cinema, old media, può dare anche qualche brillante risultato. Nell’universo new media porta al disastro. Lezione di umiltà, da non dimenticare. Sempre in attesa che il ragazzo Trayvon Martin abbia giustizia, ma nell’auspicio che i new media corroborino la giustizia, non ricorrano alla giustizia sommaria di un linciaggio online.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9941
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« Risposta #33 inserito:: Aprile 15, 2012, 10:49:44 pm »

Cultura

15/04/2012 -

Dimmi che guerra fai e ti dirò chi sei

Dall’antica Roma all’America d’oggi, il nesso indissolubile tra l’arte militare di un popolo e la sua cultura

GIANNI RIOTTA

Nei seminari di storia militare si chiede talvolta agli studenti «Perché Giulio Cesare non perdeva mai le staffe?» e, dopo le risposte timide, la risposta spiazzante è «Perché le staffe doppie da cavallo, come le usiamo oggi, non arrivarono in Europa, dall’Asia via forse la Cina, che nel Medioevo. I romani non le conoscevano».

Il gioco nasconde lezioni di tattica, strategia e cultura, senza staffe la lancia pesante, da cavaliere di Re Artù, non poteva usarsi, solo un giavellotto più leggero. E l’arco riuscivano a tenderlo solo i nomadi delle steppe nati a cavallo, gli altri dovevano reggersi almeno con una mano. Da un minuscolo dettaglio tecnico derivano conseguenze cruciali, ma da noi la storia militare non si studia né si approfondisce. Il pacifismo nobile che la seconda guerra mondiale ha radicato ci fa tralasciare il legame guerra-civiltà. Ogni popolo combatte secondo la sua tradizione, gli Stati Uniti del XXI secolo sono divisi tra la tradizionale «American way of war» dell’ex generale Powell, esercito potente che schiaccia il nemico, e la Rma, Revolution in military affairs, che vuole commandos leggeri e ultratecnologici per colpire, con un network d’attacco come a Kabul 2001, gli avversari.

Non sono due diverse teorie militari, sono due opposte culture di società e democrazia, massa e uniformità, contro singoli e diversità.

Per questo mi auguro che il libro dello storico Gastone Breccia I figli di Marte (Mondadori) venga letto da chi vuol capire perché Roma dominò combattendo il mondo conosciuto fino alla frontiera con la Cina, e da chi aspira a capire perché son pericolosi Afghanistan, Iran e Nord Corea, o perché la Cina vara una flotta d’alto mare. Interpretare Roma senza partire dall’esercito è però impossibile, «alle origini di Roma c’è il seme di Marte». Greci e Tebani avevano inventato la falange, i Romani le danno, secondo lo storico Keegan, «articolazioni». Non più un monolite, ma davanti i velites a scompigliare l’avversario, in mezzo hastati eprincipes a reggere l’urto, pronti, in difficoltà, a ricompattarsi dietro i legionari veterani, triari , che con scudi ed esperienza garantivano le prime due schiere. Ai lati la cavalleria. È la formazione militare che trionfa in Asia, Africa, Inghilterra, ma la si comprende solo esaminando la società romana. Il combattente professionista, la lealtà dei centurioni, il generale ambizioso che studia i nemici, le popolazioni colonizzate che, attraverso le armi, diventano cittadini e accettano la cultura.

Nelle guerre antiche, ricorda Breccia, la battaglia era cozzare di scudi tra falangi e furioso mulinare di spade, il corto gladio a Roma, dopo la nuvola di frecce e giavellotti. Quando la mischia cieca mandava in fuga uno dei due schieramenti, allora si moriva, o restava feriti, in massa. Socrate, alla battaglia di Delio del 424 a.C., si salva nella rotta ateniese perché, anziché gettare le armi e isolarsi, le tiene e scappa con un pugno di compagni: i Beoti si accaniscono contro i singoli.

La forza di Roma militare è la coesione della legione, in pace e in guerra, in vittoria e in sconfitta. Breccia ricostruisce la battaglia antica, le formazioni, il lancio di sassi con le fionde, frecce, aste, la cavalleria leggera e la pesante, «i catafratti» in armatura, e l’epilogo, il cozzare dei due fronti a falange. Quando Roma trionfa, nelle Gallie con Cesare, o è travolta, a Canne da Annibale, la legione resta unita. A Canne i legionari sono accerchiati dalla maestria di Annibale - la studiano ancora all’accademia di West Point - che schiera al centro i deboli mercenari delle Baleari e ai lati i veterani cartaginesi. Così quando il fronte arretra, e da convesso si fa concavo, crea una sacca che la cavalleria punica sigilla a morte. I soldati romani, per evitare l’umiliazione del colpo di grazia, si strozzano ingoiando zolle di terra.

Che cosa spingeva, si chiedono gli studiosi Delbruck e Keegan, i Romani alla guerra ogni primavera? Certo la brama di conquista, la gloria, l’onore, ma soprattutto la cultura. «I Romani - scrive Breccia - furono realmente una razza guerriera non solo per come seppero comportarsi sul campo, ma per il modo di concepire il ruolo e il destino dello Stato e dei singoli cittadini in funzione del successo militare…». A Canne cadono in poche ore, secondo Polibio, 70 mila romani, 50 mila secondo Livio. I cittadini dell’Urbe non arrivavano ancora a 500.000, è come se oggi cadessero in battaglia 9 milioni di italiani. Eppure «… dopo Canne il Senato proibì qualsiasi pubblica manifestazione di dolore, e negò i fondi per riscattare i prigionieri catturati da Annibale». Con analoga ferocia, Stalin considerò nemici i 5 milioni di soldati russi catturati dai nazisti, e li perseguitò una volta tornati a casa. Fuori dallo Stato, nessuna salvezza.

Una teoria unificata della guerra romana mancò fino a Flavio Vegezio Renato e al suo Epitoma rei militaris (tradotto da Rizzoli), fantastica enciclopedia militare di un gentiluomo a noi sconosciuto, ma che forse mai combatté e che fra il 379 e il 395 d.C., dopo la sconfitta di Adrianopoli quando ormai la gloria di Roma declinava, provò, su ordine pare di Teodosio il Grande, a conservare la filosofia dei «figli di Marte». È una lettura meravigliosa, che Breccia coniuga per il nostro tempo. Quando descrive le difficoltà dei Romani, agricoltori, a combattere contro i popoli nomadi (analogamente agli Ateniesi contro i Persiani) il dilemma è nitido: per Roma «vincere» significava occupare il territorio nemico piantando le sacre insegne delle legioni, per i nomadi lo spazio perduto non ha valore e si torna a contestarlo in armi. Guerra è cultura: Hitler non capisce che Churchill non si arrenderà nel maggio 1940 anche se Lord Halifax gli spiega che «così conviene all’Impero»; Johnson non capisce che i vietnamiti non si arrenderanno anche se il segretario McNamara, statistiche alla mano, gli spiega che ad Hanoi «conviene» la pace. Roma non comprende che gli Ebrei si faranno massacrare senza dir sì all’imperatore. La guerra asimmetrica si vince solo pensando, contro i Parti o Osama bin Laden.

Da storico assennato, Breccia non fa la morale alla sete di sangue dei Romani, ricordando le stragi dei nostri tempi «civili». Annota che già Plinio il Vecchio aveva deprecato «l’oltraggio al genere umano» dei massacri di Cesare in Gallia e conclude che, con Costantino, perfino il pacifismo «assoluto» del Vangelo venne arruolato sotto i labari di Roma. Una storia che sembra remota ed è invece da homepage dei siti web.

twitter @riotta

da - http://www3.lastampa.it/cultura/sezioni/articolo/lstp/450174/
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« Risposta #34 inserito:: Aprile 19, 2012, 11:51:32 pm »

19/4/2012 - USA-EUROPA

Così l'America guarda al voto francese

GIANNI RIOTTA

Il giudizio del presidente del Council on Foreign Relations Richard Haas sul candidato presidenziale socialista francese François Hollande, in un’intervista a

Stampa , era di ruvida franchezza. Per Haass, diplomatico che ha disegnato a lungo la politica estera Usa e oggi dirige il forum più antico di relazioni internazionali, se Hollande, favorito contro Sarkozy, arrivasse all’Eliseo le Borse crollerebbero, con fughe di capitali dalla Francia e conseguenze nefaste sul debito europeo.

Altrettanto duro lo sfidante repubblicano del presidente Barack Obama, Mitt Romney, in un’altra intervista a questo giornale: «Non un cent all’Europa!». Quando il Grand Old Party vuole insultare la Casa Bianca democratica, l’accusa di volere «un’America europea», troppa spesa pubblica, debito eccessivo, debolezza militare, scarsa influenza globale.

Fatta la tara sulla retorica elettorale, che aria tira tra i due alleati della Guerra Fredda, Stati Uniti ed Europa nell’anno elettorale di Francia e Usa e alla vigilia del voto tedesco e italiano? Il Carnegie Endowment for Peace vara lunedì un nuovo sito Web di dibattito, preoccupato che sulle rotte del dialogo Atlantico - come ai tempi del Titanic - incrocino iceberg di pregiudizi, ignoranza, interessi meschini. A leggere i «numeri zero» di Carnegie Europe, dall’economia alla difesa i guai non mancheranno.

La prima difficoltà nasce dal giudizio opposto che l’amministrazione Obama trae dall’impasse europea. Il presidente pensa, e lo ha detto anche al premier italiano Mario Monti, che un’Europa troppo a lungo in recessione fermerà la ripresa di Wall Street e i riverberi - pur flebili - su occupazione e mercato delle case. Se la frenata arrivasse dopo l’estate e le Convenzioni dei partiti, quando l’opinione pubblica decide infine per chi votare, Romney avrebbe una chance di vittoria.

Il Dipartimento di Stato della Hillary Clinton, nei colloqui con osservatori internazionali, lascia trapelare quindi cauta simpatia per Hollande, come per i «tecnici» italiani e, domani, l’Spd socialdemocratica tedesca, visto il «rigorismo» della Cancelliera Angela Merkel. Nessuna tenerezza «yankee» per le nostalgie socialiste alla «primo Mitterrand» di un Hollande che teme il crescente consenso dell’ex trotzkista Melenchon, né per l’Spd: Washington non dimentica la foga del Cancelliere Schroeder ai tempi dell’Iraq, né apprezza che abbia fatto il lobbista d’affari con il petro-business del Cremlino.

Per il «voto della Casa Bianca» decisiva è l’economia. Poiché le sinistre hanno un atteggiamento meno «austero», progettano stimoli alla ripresa, infrastrutture, rilancio dei consumi, gli «amerikani» dicono «yes». Il Tarp di Obama, il supporto all’industria automobilistica, gli incentivi alla ripresa che il premio Nobel dell’economia Paul Krugman difende come un leone dalle colonne del New York Times - persuaso che chiudere troppo presto il sostegno a finanza ed aziende per paura di un’inflazione di cui non vede segnali riaprirebbe la crisi - profumano a Washington d’Europa. Il piano fiscale dei repubblicani, su cui Romney ha in realtà non pochi dubbi ma che non denuncia per non mettere a rischio il già incerto consenso della destra populista e di quel che resta del Tea Party, abbassare le tasse e bisturi sulla spesa, ha invece in Bruxelles l’arcinemico: «L’America non sarà europea».

Questa dialettica costringe il presidente Sarkozy al più frenetico dei girotondi politici. Eletto all’Eliseo dicendo di volere una «Francia americana», high tech, mercato del lavoro duttile, start up, meno burocrazia, Sarkozy cambia idea al primo dei tradizionali grandi scioperi di Parigi e rinuncia a modernizzare il paese. Ai blocchi di partenza del 2012 si presenta deciso a usare più il carisma di Angela Merkel che l’algido fascino della moglie Carla Bruni: stavolta vuole una «Francia tedesca». I suoi collaboratori lo aggiornano però sulla riluttanza degli elettori a cambiare modello economico: a destra con la Le Pen e a sinistra con Hollande e Melenchon, adorano lo status quo. Sarkozy cancella l’invito alla Merkel a comizi comuni e - in moto perpetuo - propone alla Bce di Mario Draghi di mutare compiti e filosofia e stimolare la crescita, come - d’intesa con Obama - ha fatto la Federal Reserve di Ben Bernanke.

Gli americani dicono che le campagne elettorali creano «strani compagni di letto» ma, a ben guardare, l’intesa dei democratici e la diffidenza dei repubblicani verso l’Europa datano già dalla guerra in Iraq. Allora i senatori dell’opposizione al presidente Bush, tra cui Obama, la pensavano come l’opinione pubblica europea, dal conservatore Chirac al socialista Schroeder. I repubblicani andarono d’accordo solo con il popolare Aznar in Spagna, il laburista Blair a Londra e il premier Berlusconi da noi, tutti controcorrente rispetto agli umori locali. Il falco columnist Kagan annotava sarcastico «L’Europa? 51˚ Stato democratico».

Haass conclude con saggezza che, vinca Obama o Romney, la politica estera Usa non muterà. L’Europa resterà partner, sia pure meno caloroso di un tempo, Romney sarà rispettoso e cooperativo. A dividere a fondo Europa ed America, sull’Atlantico e nei due continenti, è invece l’eterna campagna dei due veri grandi partiti del nostro tempo «Stato» e «Mercato», nei loro infiniti sottogruppi, fazioni, culture. Il poker elettorale Parigi, Washington, Berlino, Roma cala ora in Francia la prima carta e vedremo, in soli 12 mesi, chi vincerà il piatto più pingue.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10011
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« Risposta #35 inserito:: Maggio 06, 2012, 04:52:38 pm »

News, ttl

05/05/2012 - Il web cambierà la parola?

Ma chi ci salva dal rumore on line

La sfida non è contrastare la rete bensì navigarla con raziocinio: l'e-book non ucciderà Lao Tzu
 
Cultura e informazione non si possono semplicemente trasferire dalla carta al digitale: bisogna inventare un nuovo valore aggiunto

Gianni Riotta

Nel 1962 il quotidiano americano Seattle Times chiese ai lettori che futuro avrebbero avuto i libri nel XXI secolo, cioè ai nostri giorni. Con Kennedy alla Casa Bianca, i Beatles al primo 45 giri «Love me do» e Amintore Fanfani al quarto governo, il nostro presente era futuro remoto e la signora Ross disse «I libri saranno venduti ovunque, anche dal benzinaio» e fece centro. Il signor Clark azzardò «Leggeremo microfilm per mancanza di spazio, guardando i libri su visori speciali in casa, con immagini e suoni: l'economia andrà bene, il lavoro diminuirà e riempiremo il tempo libero con i romanzi in movimento…» più bravo su high tech che finanza. Leroy Soper intravide internet via televisione «Gli studiosi collegheranno le tv e studieranno archivi a Londra e Roma senza muoversi».

Non mancano gli errori blu: «La corsa allo spazio dominerà i libri del XXI secolo», ma a rileggere il Seattle Times, impaginato nel vecchio piombo tipografico, colpisce la fantasia dei lettori 1962. Nessuna acrimonia per la fine della carta, nessuna Apocalisse culturale, grandi attese. Cosa direbbero gli amici di allora guardando un iPad, un e-book, un Kindle, un Nook, un tablet, scaricando il Pdf di una remota biblioteca via Google Books, acquistando un paperback islandese via Amazon? I loro più arditi sogni superati da una magica rivoluzione tecnologica, così radicale da mutare non solo l'industria del sapere, l'editoria, ma anche scuola, società, mass media, scrittura e narrativa. A intuire la svolta fu per primo Italo Calvino, nella conferenza «Cibernetica e fantasmi», pronunciata a Torino nel 1967: le macchine trasmetteranno cultura, sostenne Calvino, e scriveranno romanzi. La letteratura cibernetica sarà «la letteratura» più vera, perché, prodotta da una macchina, renderà finalmente protagonista il lettore non l'autore. In rete oggi, accade proprio questo.

Nella ricerca per due corsi su cultura e politica digitali tenuti quest'anno, uno a Princeton University, l'altro alla Luiss «Guido Carli» di Roma, non ho trovato testo più visionario del Calvino 1967: cui potete abbinare la poesia «Tape Mark» fatta «scrivere» al computer (un bonario «cervello elettronico» per le buste paga della Cassa di Risparmio delle Provincie Lombarde) nel 1962 da Nanni Balestrini. A chi obiettava che i versi del computer non fossero poi un gran che, Balestrini rispose genialmente che non aveva cercato di ottenere con il suo algoritmo (integrale su gammm.org/index.php/2006/09/03/tape-mark-i-algoritmo-nanni-balestrini-1962/) la voce di un poeta umano, ma «la voce della macchina».

La rivoluzione digitale ci deve far riflettere sulla cultura, prima che sulla tecnologia. Siamo invece affascinati dal «retina display, che permetterebbe ai prodotti Apple di offrire la massima perfezione d'immagine percepibile dal nostro occhio (la rivista Wired non è persuasa) e non vediamo che la novità profonda tocca i contenuti, non le tecniche. È come se i contemporanei di Gutenberg avessero passato il tempo ad ammirare il suo torchio a caratteri mobili, invece di capire che solo la traduzione della Bibbia in Volgare apre la modernità. Senza Bibbia in tedesco, francese, inglese, italiano, fermi al latino, niente rivoluzione.

Noi, prima generazione digitale, stentiamo a creare nuovi contenuti e, dai siti dei quotidiani agli e-books, travasiamo testi tradizionali in formato elettronico, restando frustrati se il pubblico anticipa il futuro con la libera fantasia dei lettori Seattle Times 1962. Quando sul social media Pinterest nascono «board», lavagne elettroniche che sono affreschi di memoria e immagini. Quando Twitter, nato per messaggini tra amici, collega i link di qualità giornalistica del pianeta, facendovi seguire in diretta la battaglia di Kabul, tweet dopo tweet. Qualcuno obietta che un libro di carta non ha paragoni. E come dargli torto, se io stesso mi trascino dietro decine di migliaia di copie, rischiando senza donazioni a Caritas, don Mazzi e biblioteche popolari di finire travolto in casa come i fratelli Collyer del romanzo di Doctorow?

Ma quando Iliade ed Odissea non vennero più cantate ma trasmesse con le scritture inventata dapprima a Micene, non pochi si saranno lagnati della perdita di calore ai banchetti. E quando la pergamena contese il campo al papiro - i rotoli del Mar Morto usano entrambi i supporti, dopo una crisi delle esportazioni da Alessandria - la vecchia guardia avrà mugugnato, nell'equivalente a Qumran di un elzeviro di Terza Pagina, «La civiltà è perduta!». Ogni cambio di trasmissione culturale ci priva di qualcosa, le miniature in oro zecchino che gli amanuensi apponevano in cima alla loro pagine bibliche, la tradizione orale dei menestrelli per i cicli medievali, il fogliettone con il romanzo popolare dell'Ottocento. Triste ed inevitabile.
Il web non cancellerà l'informazione seria, gli e-book non oscureranno Lao Tzu, Dante e Shakespeare. Una ricerca Pew Center prova che i lettori su Kindle, Nook e iPad leggono anche molti più libri di carta della media, pewresearch.org/pubs/2236/ebook-reading-print-books-tablets-ereaders . Il mestiere di giornali e case editrici deve però cambiare: dando valore aggiunto di qualità a quotidiani e libri, ci salveremo dal rumore di fondo del web, comunque vada la battaglia tra Amazon, Microsoft, Barnes&Noble, Apple e Stati Uniti sul prezzo degli e-book.

Nella più bella e meno letta delle Lezioni americane, «Molteplicità», Calvino conclude che il romanzo e la conoscenza sono «una rete», anticipando di dieci anni il web. La sfida non è contrastare la rete, ma navigarla con raziocinio. Dite che Wikipedia ha inventato l'autore collettivo? Macché, già Bibbia, Odissea, Mahabharata, fiabe e ciclo di Re Artù avevano un autore collettivo. Il digitale ci riporta alle radici del sapere, non le sradica: Calvino lo capì per primo e a questo Salone sarebbe felice per le sue profezie avverate. Quanto ai predicatori di sventura digitale non ascoltateli troppo: nel 1894 il Times di Londra previde che entro il 1950 la città sarebbe stata sepolta da tre metri di sterco di cavallo. Non calcolava l'auto, perché chi guarda al futuro come un nuovo presente sbaglia. Sempre Occhiolino.

(fonte: Tuttolibri, in edicola sabato 5 maggio)

da - http://www3.lastampa.it/libri/sezioni/news/articolo/lstp/452870/
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« Risposta #36 inserito:: Maggio 08, 2012, 09:34:03 am »

8/5/2012

È il momento dei veri leader

GIANNI RIOTTA

Alzi la mano chi sapeva che sulla bandiera del partito di destra greca Alba Dorata, 7% alle elezioni, c’è una svastica stilizzata, chi immaginava che la sinistra radicale di Syriza avrebbe conquistato 50 seggi ad Atene relegando i socialisti al terzo posto.

O vi sorprende adesso che il neo presidente francese Hollande faccia sapere di avere lavorato da ragazzo, in America, nel covo dell’americanismo bieco, un ristorante McDonald’s?

Tre partiti lacerano Europa e Stati Uniti in questa frenetica stagione elettorale 2012-2013, partita in Spagna, passata da Grecia e Francia, a novembre a Washington e l’anno venturo in Germania e Italia: Rigore, Crescita, Populismo. Il partito di chi pensa che i bilanci in equilibrio risolvano la crisi economica, quello avverso di chi punta sullo sviluppo pur a costo di qualche debito, e il terzo schieramento, indignato, restio alle riforme.

Chiamateli Syriza o Cinque Stelle, Tea Party, Occupy Wall Street, Le Pen o Mélenchon i ribelli hanno paura del futuro e nostalgia di un passato in cui welfare e crescita in Occidente erano garantiti, l’emigrazione controllata. La loro foga irriducibile mette in difficoltà il duopolio «Rigore contro Crescita» nella maratona elettorale. La bocciatura sonora di Sarkozy a Parigi, la difficoltà della cancelliera Merkel nel voto locale in Schleswig-Holstein, la sconfitta del premier conservatore inglese Cameron in 32 elezioni amministrative, l’incapacità del repubblicano Romney a staccare il pur non fortissimo presidente Obama nei sondaggi, allarmano i Rigoristi. Anche i paladini della Crescita e della spesa, dalla sconfitta dei socialisti in Spagna, all'umiliazione greca del Pasók, alla fatica dei democratici per restare alla Casa Bianca, scontentano l’opinione pubblica malmostosa.

Per questo Hollande - che ieri ha parlato per la prima volta al telefono con la Merkel di un incontro sereno da tenere subito dopo il 15 maggio - non nasconde più di avere fatto saltare hamburger sulla piastra in America. Deve rassicurare i mercati e ieri è sembrato riuscirci. Sa che ora gli slogan elettorali sul patto fiscale europeo da ridiscutere, le promesse su assunzioni nella scuola, salari minimi, baby pensioni e pareggio bilancio nel 2017 dopo 40 anni di deficit, non basteranno a governare. Mitterrand fece il socialista idealista per due anni, prima di piegarsi alla realtà. Hollande non avrà due mesi. Già ieri studiosi come Jeffrey Sachs e Dominique Moisi lo chiamavano a un mix raziocinante di Rigore e Crescita, una via che non abbia la tetragona ostinazione della Cdu tedesca, né si illuda di lastricare di spesa pubblica la ripresa (ne scrive bene su Foreign Affairs Raghuram Rajan).

La storia ha messo il turbo. Aziende che non esistevano pochi mesi fa come Instagram valgono sul mercato più del centenario New York Times , un miliardo di dollari contro 970 milioni. La guerra fredda, aperta nel 1946 e finita nel 1989, ci impose lo stesso schema per decenni, Usa contro Urss, democrazia e società aperta contro comunismo centralista. Guerre, scontri di idee e culture, passioni, non mutavano il duello plumbeo. Il nostro tempo ha un passo diverso. Una dozzina di anni fa gli Usa vivevano il boom New Economy, l’Europa sognava il sorpasso dell’euro sul dollaro, Cina e India facevano magliette e giocattoli di plastica. La crisi 2007 porta negli Usa l’angoscia del declino, in Europa l’ansia da default. Oasi invidiate Cina e India, con Russia e Brasile giudicate il futuro, crescita e antiche culture.

Peccato che oggi lo scandalo del populista Bo Xilai e le disavventure dell'avvocato dissidente cieco Chen Guangcheng grippino quello che doveva essere l’efficiente passaggio di poteri dal presidente Hu Jintao al successore Xi Jinping. Solo una volta dalla Rivoluzione di Mao la guardia è cambiata a Pechino senza violenze, appunto con Hu. L’India dei miracoli economici vede la crescita languire al 6%, quota miraggio per noi, ma insufficiente per tirare fuori dalla povertà centinaia di milioni di indiani. Tensioni militari, natalità in eccesso o insufficiente, politiche totalitarie o burocratiche, confermano che «i nuovi paesi» non saranno presto leader del nuovo mondo.

Nulla è dunque come appare. I mercati che avrebbero già dovuto condannare Hollande sono guardinghi. Semaforo verde per un programma che privilegi l’acceleratore della spesa sul freno del rigore? No, e se il neo presidente si illudesse sulla tregua in Borsa sarà, brutalmente, corretto. Gli Usa del declino creano poco lavoro, meno di quanto Obama desideri, ma almeno non si fermano da mesi. L’Europa non decide ancora che strada prendere, i tedeschi non riconoscono il bene fatto dall’euro alla loro formidabile economia, i paesi mediterranei riluttano davanti a riforme, amare ed indispensabili: è sfida finale anche per il governo Monti. Jean-Marc Ayrault, che Hollande vorrebbe primo ministro, ha detto che l’intesa con la Merkel «si farà su un compromesso in cui tutti faranno passi indietro». Cruciale la mediazione del presidente Bce Mario Draghi tra Parigi e Berlino.

Tocca ai leader, a veri leader, ritrovare equilibrio fra Rigore e Sviluppo. Devono però parlare ai cittadini con calore e onestà, ai cuori non agli algoritmi. Nei paesi sviluppati, come in quelli in via di sviluppo, leader illuminati devono guidare le opinioni pubbliche a conti seri e alla New Economy. Prezzo del fallimento è l’ascesa indignata dei populisti alla Grillo o Syriza che, davanti alla realtà, svaporerà presto lasciando nuovo disincanto. Più aspro sarà sradicare gli estremismi alla Alba Dorata in Grecia a alla Orban in Ungheria, una volta che rimetteranno le radici velenose dell’odio. Perché le riforme servono all’economia, ma anche alla democrazia.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10075
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« Risposta #37 inserito:: Maggio 11, 2012, 12:31:46 pm »

11/5/2012

Obama e i gay, idealismo e calcolo politico

GIANNI RIOTTA

Il sì ai matrimoni omosessuali è il primo atto storico di Barack Obama. In piena campagna elettorale per la Casa Bianca 2012, schiera il Partito democratico in quello che è oggi, con l’aborto, il più urticante scisma culturale tra progressisti e conservatori, 50% a favore, 48% contro. Il Presidente ha detto: «È per me importante affermare che le coppie omosessuali debbano potersi anche sposare», subito schermando la sua decisione dietro Marines gay al fronte; funzionari del suo staff «monogami e fedeli, con bambini» clandestini perché non eterosessuali; le figlie Malia e Sasha con compagne di scuola figlie di gay.

Obama ha cambiato parere da quando, in campagna per il Senato 2004, disse: «Per la mia fede religiosa credo che il matrimonio sia sacramento che lega un uomo a una donna». Nel saggio «L’audacia della speranza», 2006, farà un passo in avanti, nel suo stile cerebrale: «Non è impossibile che la mia scelta di non voler sostenere i matrimoni gay sia fuori rotta». Infine il sì netto.

Ci sono nella svolta di Obama una dose di idealismo e una di calcolo politico, come sempre per ogni presidente in carica. Nella corsa che lo opporrà al repubblicano Mitt Romney a novembre, Obama ha un deficit grave, aver fatto poco per il sogno di un’America più saggia e giusta. L’economia, con la peggiore crisi dal 1929, gli ha impedito le riforme, perfino la sanitaria è a rischio davanti alla Corte Suprema. Il mondo arabo ha gestito da sé le sue rivoluzioni, la pace in Medio Oriente non è più vicina che sotto G.W. Bush, in Iraq e Afghanistan si gestiscono ritirate strategiche e, come diceva Churchill, le ritirate non vincono la guerra.

Il sofferto consenso ai matrimoni gay sventola per la base liberal, i giovani che l’hanno sostenuto con passione, la bandiera dei diritti. Al tempo stesso però Obama delega ai singoli Stati di votare, o no, una legge sui matrimoni non etero. Nella storia americana il dilemma se un diritto debba essere affermato da Washington, a livello federale, o dagli Stati, è drammatico. La guerra civile 1861-1865, che ha fatto più morti di tutti gli altri conflitti Usa, s’è accesa proprio per lo scontro fra Stati sulla schiavitù: Lincoln era disposto a lasciarla in vigore nei vecchi Stati del Sud, ma la polemica sulla sorte degli schiavi fuggiti al Nord, e l’introduzione dell’odioso sistema nei nuovi Stati dell’Unione, risultarono impossibili da mediare. Solo a metà guerra, con il Proclama di Emancipazione, Lincoln fa del tema diritto civile universale.

Il calcolo politico di Obama è dunque sottile e non privo di rischi. Sa che i militanti democratici si galvanizzeranno, la comunità gay è ricca dei suoi più generosi finanziatori. Radicalizzando il voto, caricatura i repubblicani da parrucconi estremisti, capaci nelle primarie dell’Indiana di bocciare l’esperto senatore Lugar per eleggere il conservatore Mourdock, legato ai populisti Tea Party. Obama sa però anche che gli elettori afro e latinoamericani, suoi sostenitori di prima linea, sono spesso ostili alle nozze gay, anatema per cattolici ed evangelici nelle comunità rurali. Gli esperti di «metadata», che analizzano le conversazioni sui social network, Facebook, Google, twitter, siti e microblog, confermano al Presidente che il voto 2012 si decide sull’economia (ieri dati così così su import/export e occupazione). Quindi meglio «parlare alla Storia» su un tema non cruciale per la Casa Bianca. Il vicepresidente Biden, cattolico, s’è detto favorevole alle nozze gay pochi giorni fa, gli analisti di «metadata» hanno setacciato le reazioni Web e, forte del loro scudo digitale, Obama è sceso in campo.

Se ora Romney, pressato dai conservatori, lancerà un emendamento costituzionale contro le coppie gay, la campagna devierà dai temi della crisi e del lavoro: sollievo per Obama. Un referendum in tal senso è passato martedì in North Carolina ed altri simili sono in vigore in 30 Stati. Una mezza dozzina di Stati, fra cui New York, permettono nozze gay, altri voteranno il referendum a novembre.

Ad Obama la critica ultras del New York Times , che ogni domenica pubblica la popolare rubrica di cronaca mondana dei matrimoni gay bene di Manhattan: il foglio progressista lo pungola per non avere proclamato come «diritto universale» il matrimonio tra coniugi dello stesso sesso, sotto l’egida del 14˚ emendamento alla Costituzione «uguale protezione dei cittadini». A suo tempo l’emendamento fu impugnato quando nel Sud bianchi e afroamericani non potevano sposarsi. Obama, politico fine, non lo usa per non esacerbare il clima.

Questo è il quadro politico e a novembre vedremo se Obama ha ben interpretato l’umore americano dai «metadata» Web. Resta però nei libri di storia che, nel maggio 2012, un Presidente degli Stati Uniti d’America ha proclamato il diritto alle nozze tra cittadini omosessuali. Per molti americani è vittoria politica, per tantissimi altri fine di un personale tormento, una privata ingiustizia. Cultura, fedi religiose, politica, economia, scuola, famiglia, Welfare, le forze armate, l’intera società americana muoverà adesso sulla strada aperta da Obama. Comunque la si pensi in Europa, com’è affascinante il carisma di una Repubblica che, da due secoli e mezzo, insegue, tra cadute e conquiste, l’uguaglianza e la felicità dei diritti universali, davanti a Dio e alla legge.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10087
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« Risposta #38 inserito:: Maggio 29, 2012, 11:04:15 am »

28/5/2012

Una strada per evitare la tragedia

GIANNI RIOTTA

Il diplomatico veterano Brian Urquhart, a lungo sottosegretario alle Nazioni Unite, ripeteva che troppo spesso l’opinione pubblica guarda alla politica internazionale cercando «Una Buona soluzione da opporre alla Cattiva. Purtroppo sul campo i diplomatici lavorano tra una Cattiva soluzione e una Pessima, cercando di scampare alla Tragica».

La saggezza amara di Urquhart è d’attualità in Siria, davanti alla strage di bambini a Hula, nei pressi di Homs. Il piano di pace rabberciato dall’ex segretario generale Onu Kofi Annan, se mai ha avuto qualche credibilità, è in pezzi. Le speranze che il regime alawita di Bashar al Assad non bari nel negoziato si sono confermate per quel che sempre sono state, ingenuità o maliziose furbizie. I ribelli non riescono a rasserenare i settori della popolazione siriana a loro ostili, compresi i cristiani. Il mondo sta a guardare i filmati rudimentali che la rete diffonde, il papà con il figlio inerte in braccio, violenza contro l’innocenza.

Le agenzie registrano dichiarazioni dei potenti, a Washington, Londra e Parigi, roboanti e senza effetto. Jihad Makdissi, un portavoce del regime di Damasco, getta la responsabilità sull’opposizione, per confondere, come facevano gli sgherri di Milosevic ai tempi dei bombardamenti di Sarajevo.

L’impotenza domina. Il Cremlino del neo, ed eterno, presidente Putin blocca con abilità ogni tentativo di pacificazione, pur di non perdere un fedele cliente russo nel Mediterraneo, una base per la flotta e i servizi segreti in Medio Oriente, un ricco mercato di armi. I morti bambini svelano lo scarso peso strategico dell’onnipotente web, quando sferragliano i carri armati.

Tocca quindi al presidente Barack Obama, come ai suoi predecessori, Bush padre nella prima Guerra nel Golfo e Clinton nella Guerra nei Balcani, provare a costruire una coalizione e una soluzione: sapendo che si tratta di scegliere la Cattiva sulla Pessima, mentre la Tragica incombe. Obama è in aspra campagna presidenziale, i sondaggi lo danno poco avanti Mitt Romney, con troppi indecisi, e già il rivale repubblicano lo incalza, accusandolo di inerzia. Fosse alla Casa Bianca, Romney avrebbe il duro teorema di Urquhart sul tavolo, dall’opposizione può far chiasso.

Obama gioca allora la carta Yemen, dove il presidente Ali Abdullah Saleh ha accettato di passare la mano al vicepresidente Abdu Rabbu Masour Hadi, dopo mesi di violente repressioni. Malgrado Hadi abbia affrontato un primo turno elettorale, l’opposizione sa che infine passerà la mano. Si punta quindi a riprodurre in Siria questo processo, con l’addio di Assad, una parte del regime che rimane in sella a garantire la popolazione ostile ai ribelli, partecipi del passaggio graduale di poteri. Strada ardua. Obama ne ha parlato all’enigmatico alter ego di Putin, Medvedev, che non s’è detto contrario - secondo fonti della Casa Bianca -, ma potrebbe trattarsi dell’ennesimo prender tempo del Cremlino a favore di Assad.

L’Onu ha sbagliato a atteggiarsi a super partes tra dittatura e ribelli, la Lega Araba conferma la storica ambiguità, in Siria il Tragico prende il sopravvento sul Cattivo. Kofi Annan, non brillante segretario generale Onu dai controversi business, ha permesso ad Assad di ostinarsi nella trattativa, chiazzata da aggressioni e stragi. I caduti di Hula sono 90, i bambini 32, la guerra semina 10.000 morti. Ora si temono rappresaglie dei ribelli sunniti sui vicini villaggi alawiti, nella faida ancestrale che li oppone. Il governo Assad nega le colpe dell’esercito, malgrado le munizioni e le schegge di artiglieria ritrovate sul campo lo inchiodino: le atrocità peggiori vengono delegate, per confondere gli osservatori internazionali, ai miliziani shabiha, truppe irregolari e feroci.

Annan torna oggi a Damasco, ma i leader dell’opposizione sono ormai disperati sul suo «piano». Da Parigi il ministro degli Esteri socialista, Laurent Fabius, alza il tono, la Francia sembra decisa a dar man forte a Obama in giorni difficili. Lo stop alla guerra civile nell’ex Jugoslavia, che aveva diviso l’impotente Unione Europea, diede al giovane presidente Clinton occasione di rinnovare l’egemonia americana, con un intervento cui infine presero parte gli europei, con un ruolo strategico per l’Italia. Barack Obama è allo stesso, difficile, passo. Sarebbe nobile che i repubblicani si ricordassero che, nelle emergenze della Guerra Fredda, la politica estera era «National interest», interesse comune della nazione. Nell’epoca del web populista, di Occupy Wall Street, Tea Party e talk show arrabbiati in tv, non c’è da sperare in questi sentimenti da statisti austeri, come Harriman o Acheson.

L’Europa di Merkel, Cameron e Hollande - ipnotizzata dalla crisi euro - potrebbe tornare partner forte di una Washington che il Pacifico distrae da Atlantico e Mediterraneo. Il governo di Mario Monti, che al G8 ha condotto con autorevolezza la discussione sull’economia, può mediare con altrettanta sagacia. Le chiacchiere stanno a zero quando i bambini muoiono. Dibattiti sul declino americano, egemonia cinese, Brics e piani di pace strampalati, vanno bene per tesi di laurea o litigi su twitter, ma non fermano il sangue. La Storia assegna a Barack Obama, oggi, il compito di scongiurare la Tragedia, fugare la soluzione Pessima e dare ai siriani una soluzione «Cattiva» che non sia solo una maschera come il piano Onu. Gli elettori americani lo giudicheranno anche su questo, con equanimità. Bruxelles e Roma conteranno, se agiscono con lungimiranza. Nei Balcani l’operazione è riuscita, chiamatela ora «Soluzione Yemen», o se preferite «Yemenskii Variant» come fanno i russi al Cremlino. Basta che Assad, figlio dell’uomo che sterminò 40.000 siriani a Hama, lasci Damasco, che l’antico popolo di Siria si avvii verso una pacifica transizione, imponendo anche ai ribelli di non indulgere in faide contro i loro avversari. Un’esile, cattiva, strada ma l’alternativa è cambiare canale, rassegnati, quando al telegiornale appariranno i filmati web con i bambini fatti a pezzi dalle bombe alawite.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10155
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« Risposta #39 inserito:: Giugno 04, 2012, 09:37:53 am »

3/6/2012

Il realismo di un verdetto dignitoso

GIANNI RIOTTA

Quando si tratta di diritti umani e democrazia noi occidentali abbiamo due bilance, una pesa America ed Europa, l’altra il resto del mondo.

Che Italia e Germania abbiano conosciuto la dittatura, gli Stati Uniti ordito il golpe in Cile, la Francia sia passata dalla vergogna di Petain e la Gran Bretagna dal golpe in Iran 1953 e dalla follia di Suez 1956 - solo per citare qualche desolante esempio - viene giustificato come frutto da dimenticare delle asperità della storia. Ci nascondiamo dietro la filosofia di Hegel, «ciò che è razionale è reale, ciò che è reale è razionale».

Ma la razionalità di Hegel si ferma ai confini del nostro mondo, e giudichiamo gli altri dall’alto in basso, incapaci di vedere la realtà. La primavera araba del 2011 è stata prima celebrata senza riflessione, poi condannata come showdown islamista.

I maestri del realismo a ogni costo, dopo non avere mai pronunciato una parola di condanna per i regimi arabi, si sono sorpresi- possibile? - che dalle confuse giornate di rivolta non uscisse una compassata democrazia elvetica, un forbito dialogo, «After you Sir...», da Hyde Park Corner a Londra.

La condanna all’ergastolo comminata ieri dal tribunale egiziano all’ex presidente Hosni Mubarak, che per tre decenni ha oppresso il suo Paese ricevendo miliardi di dollari in cambio della repressione dei Fratelli Musulmani e una linea cosiddetta «filo-occidentale», è ricevuta con lo stesso sussiego. In fondo il Paese è ancora retto dai militari, in fondo i giudici sono gli stessi del vecchio regime, in fondo i Fratelli Musulmani sono fondamentalisti... In fondo...
In fondo, purtroppo, la storia non fa salti, mai, riguardate il Manuale di scuola se lo avete ancora in casa. In piazza, al Cairo, c’è chi lamenta che per la morte di 848 dimostranti e il ferimento di molte migliaia nei 18 giorni di rivolta, Mubarak meritasse la pena di morte e i suoi figli, Gamal e Alaa, non certo l’assoluzione. Comprensibile in chi ancora piange fratelli e compagni di lotta e per anni ha conosciuto carcere e torture, meno in noi europei e americani «razionali».

Il giudice Ahmed Refaat s’è trovato di fronte al paradosso di ogni processo per i diritti umani dopo la caduta di un regime, dal processo di Norimberga del 1945 ai gerarchi nazisti, al giudizio contro l’ex leader serbo Milosevic all’Aia nel 2002: che tante azioni violente sottoposte a inchiesta fossero però «legali» sotto le leggi precedenti. La giurisprudenza di Norimberga e la Corte penale internazionale dell’Aia sono giusto frutto di un’evoluzione del diritto e dell’opinione pubblica, persuasi che certi reati contro l’umanità siano sempre punibili, pur se commessi sotto il codice locale.

Refaat ha agito con prudenza, condannando Mubarak e il suo ex ministro dell’Interno Habib el-Adli, «per non avere protetto il popolo egiziano» dalle violenze della polizia e degli sgherri. Sapeva che la corruzione, e perfino l’istigazione alla violenza, erano «lecite» sotto il regime, e allora s’è appellato a un cavillo, dividendo il Paese e le organizzazioni dei diritti umani, lo apprezza Amnesty International, lo critica Human Rights Watch.

Gli italiani giustiziarono sommariamente Mussolini. I criminali nazisti furono giudicati da magistrati Alleati. Saddam Hussein impiccato da un boia maldestro, Gheddafi finito all’imbocco di una fogna, entrambi immortalati per sempre su YouTube. Con tutte le sue contraddizioni, con tutte le faticose traversate che la democrazia deve ancora percorrere nel mondo arabo, l’ergastolo comminato a Mubarak - che adesso potrà appellarsi - appare esito più dignitoso. La primavera araba non è un miracolo perfetto del bene, ma la fine dei decrepiti regimi resta un bene e un miracolo. Si può pretendere di fermare il mondo quando contraddice i nostri interessi nelle note a piè di pagina di un saggio di Realpolitik ma nella realtà è ingenuo e pericoloso. Perché Hegel aveva ragione, «ciò che è reale è razionale», ma ovunque, anche in un tribunale del Cairo, circondato da Fratelli Musulmani, dissidenti democratici e nostalgici clienti di Mubarak

Twitter@riotta

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« Risposta #40 inserito:: Giugno 18, 2012, 05:02:57 pm »

18/6/2012

Una crisi da trattare con umiltà

GIANNI RIOTTA

La crisi economica condiziona le nostre vite, senza confini. Il match di ieri in Grecia, che è andato a vantaggio dei conservatori di Nuova democrazia di Samaras con la sconfitta della sinistra Syriza del vulcanico ex comunista Tsipras, è stato atteso con ansia ad Atene come alla Casa Bianca, Cremlino, Pechino. La crisi ci ha reso cittadini di una sola megalopoli, Terra. Forse giusto la Seconda guerra mondiale ha avuto un tale impatto e, come per la guerra che inizia in Germania e Inghilterra nel 1939, in Italia e Grecia nel ‘40, per Russia e America nel ‘41 ma in Cina e Giappone già nel 1931, anche la crisi non ha data condivisa d’inizio. Parte dallo scoppio della bolla immobiliare in America, metà 2006, o nel 2007 con la crisi di liquidità delle banche? O il giorno nero è la bancarotta Lehman Brothers 2008? O la scoperta dei falsi in bilancio greci coperti anche da speculatori tedeschi? Ho posto la domanda su twitter @riotta c’è chi anticipa alla bolla web, chi alle liberalizzazioni del presidente Clinton.

Né c’è consenso sui «colpevoli», chi accusa Wall Street rapace, chi gli Stati che impediscono libertà ai mercati, chi le oligarchie corrotte.

Chi gli elettori greci, spagnoli, italiani indifferenti al debito e golosi di pensioni. Ci manca la comune sceneggiatura del film «La Grande Crisi», ci sono eroi e cattivi, o è uno spaghetti western come «Django», l’ultima pellicola di Quentin Tarantino, solo cattivi? È facile, in attesa del voto greco e alla vigilia delle elezioni Usa 2012 e Germania-Italia 2013, deprecare l’attendismo di Merkel, la condotta gregaria degli altri leader europei, gli algidi calcoli di Obama, il nazionalismo di Putin, la burocrazia cinese, lo scialo dei socialisti del Pasok, gli slogan di Tsipras «Oggi comincia una nuova era!». Ma immaginatevi al loro posto, decisi a far «la cosa giusta» contro la crisi. Riunite i consiglieri, convocate i migliori cervelli economici, studiate Wolf, Naim, Krugman e Emmott: e poi cosa decidete?

Sentirete solo opinioni colte, tagliare spesa e liquidità rischia di farci riprecipitare in recessione come F.D. Roosevelt quando, scampato il 1929, chiude troppo presto i rubinetti di Washington e deve attendere la guerra perché l’America ritorni a crescere. Oppure vi suggeriranno di tagliare spese, tasse e regole sul mercato: è la scommessa del repubblicano Romney contro Obama, meno Welfare e conferma delle agevolazioni fiscali di G.W. Bush. Hollande aggiorna la socialdemocrazia, nuovi posti di lavoro pubblici. Attenti, ribattono l’economista Rajan e il demografo Goldstone, non ci sono più abbastanza lavoratori per reggere pensionati e Welfare. In America, ogni giorno, vanno in pensione 40.000 figli del baby boom 1946-1964 e, con i populisti all’attacco, Tea Party, Le Pen, Alba Dorata non sarà certo l’emigrazione a sostenere la previdenza. Anche a sinistra Beppe Grillo fiuta l’aria con sagacia e si oppone alla cittadinanza per gli stranieri.

E allora? Sul Journal of Economic Literature Andrew Lo, studioso del Mit, online http://bit.ly/ IZc6NQ   raccoglie tutte le ipotesi, i saggi, i libri, le teorie finora elaborate sulla crisi, calcola torti e ragioni cercando vie d’uscita al labirinto in cui ci dibattiamo. Non ne trova: perfino la Commissione d’inchiesta americana bipartisan, Financial Crisis Inquiry Commission, con poteri giudiziari, 18 mesi di studio, 700 esperti, 19 giorni di dibattito pubblico, si divide davanti al Rapporto finale e i dieci commissari partoriscono tre, opposte, conclusioni. Il professor Lo cita la mancanza di trasparenza che induce la crisi, le ingenuità e avidità che travolgono grandi della finanza e piccoli risparmiatori, si chiede perché Europa continentale, Asia e America Latina, siano rimaste subalterne almodello, dominante, dell’«anglosfera » a cui, pur deprecandolo, finiscono per dare ascolto in Borsa. Perché, se la crisi era «prevedibilissima»come insiste Nouriel Roubini, nessuno l’ha anticipata? Lo speculatore Paulson scommette contro la bolla immobiliare Usa 2007 e intasca $ 4 miliardi (€3,1 miliardi): ma perché lui solo, pur disponendo delle stesse informazioni di tutti noi? Nel saggio «The big short» Michael Lewis (l’analista che ha ispirato il film «Moneyball») calcola che solo una ventina di operatori abbiano agito come Paulson, gli altri hanno seguito, conformisti, il mercato: perché?

Applicate il rasoio del professor Lo al referendumEuro- Dracma in Grecia, con elettori confusi dal bisogno, dagli slogan, dal risentimento: i conservatori di Nuova Democrazia hanno scommesso che il sì all’euro non farà scoppiare tensioni sociali nel paese impoverito e che l’economia ripartirà infine; la sinistra del vulcanico Tsipras ha giocato sul no alla Merkel e il ritorno alla spesa, persuasa che alla Grecia non servano riforme e basti la - pur indispensabile - lotta alla corruzione.

Chi ha ragione? Esperti e politici sono confusi dall’opacità della crisi, né più né meno di tutti noi ed è quindi comprensibile la divisione in Grecia. Gli strumenti teorici del Novecento, lord Keynes o Hayek, non misura più la globalità, il mercato elettronico non dà requie, ubiquo, insonne. I nuovi media e le Borse trattano e mischiano 24 ore al giorno idee e cifre, umori politici e di investitori, in quello che nel Medio Evo si chiamava «palaver», frenetica lingua franca universale che spaventa, illude, amareggia e nella cui sintassi verità e menzognasi confondono.

Ci vorrebbe dunque, rara merce, una dose robusta di umiltà. Troppi studiosi scadono invece in toni da propaganda, che il Web rilancia e radicalizza, ma purtroppo «La propaganda comincia dove finisce il dialogo» come ammoniva il saggio Ennio Flaiano. Troppi politici, terrorizzati dal caos, si irrigidiscono, accusano gli «Altri», i Paesi indebitati per la Merkel, l’Europa per Obama, la Merkel per Hollande, l’Ue o gli armatori per i greci. Gli elettori, in Europa e in America, dimenticano l’entusiasmo con cui hanno approvato politiche di spesa, tasse basse o evasione fiscale, privilegi, modello economico e sociale non più sostenibile. Gli imprenditori soffrono di amnesia sulle passate stagioni di poca innovazione e mercati protetti, i sindacati sulle tutele a occupati e pensionati a scapito di giovani, donne e disoccupati.

Nella Babele delle teorie, con la polemica a mascherare la carenza di analisi raziocinanti, la corruzione diventa così il Grande Alibi, unita da noi alla polemica, sacrosanta, sui «Costi della politica». Innovare, riformare, puntare su spesa e Welfare, mercato e competizione, senza rigidità, varare riforme di struttura, tutto cede all’urlio anti-corruzione. Purtroppo, se con la bacchetta di Harry Potter azzerassimo all’istante corruzione e costi della politica i guai della crisi, globale, europea e italiana, ci resterebbero addosso, intatti.

Lotta quindi alla corruzione e bisturi sì sulla spesa politica. Ma la classe dirigente italiana e gli elettori, in vista delle elezioni 2013 che si annunciano storiche ancor più delle greche di ieri, riflettano: voteremo accontentandoci dell’acre soddisfazione di «Mandar tutti a casa!», o ragioneremo sull’intrattabile crisi del XXI secolo, cercando insieme, ciascuno con le proprie idee, di impedire che la nostra casa comune, la Repubblica, crolli impoverita, ridotta, allora sì davvero, a terra di conquista per corrotti, populisti e populisti corrotti?

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« Risposta #41 inserito:: Giugno 25, 2012, 10:23:12 am »

25/6/2012

La rivincita dei Pigs

GIANNI RIOTTA

Nella crisi economica che tutti ci affligge dal 2007 le sigle si sprecano. Brics, che suona come mattoni in inglese, indica i Paesi che crescono, i nuovi ricchi, Brasile, Russia, India, Cina. Next 11, indica quelli che li inseguono, dalla Corea ai Paesi africani.

Efsf una delle tante diavolerie escogitate, con mediocri risultati finora, per salvare l’euro. La peggiore delle sigle, la più sleale e negativa, resta però Pigs, che indica i Paesi del debito nell’Europa meridionale, Portogallo, Italia (solo per un breve periodo sostituita dall’Irlanda), Grecia e Spagna, ma che di nuovo, nell’inglese dialetto di Wall Street, della City e della finanza tutta, significa Porci. A indicare disprezzo non per un modello economico, un bilancio in rosso, una classe dirigente insufficiente: no, Pigs condanna un popolo intero.

Adesso però nel calcio alle semifinali dell’Europeo, che è il campionato più competitivo del pianeta football, sono arrivate subito due Pigs, il Portogallo e la Spagna: la Grecia ha messo paura alla Germania, ha sognato per 5 minuti che le semifinali fossero tutte del debito, da una parte la penisola iberica, dall’altra i due vecchi Paesi del mondo classico, l’Italia di Roma e la Grecia di Atene. A mettersi in mezzo la Germania, che piazzandosi di traverso ha voluto ribadire che tocca a lei, ex regina del marco, la chiave di volta contro il debito. Esultando in tribuna di ritorno dal quadrangolare di Roma con Monti, Rajoy e Hollande la signora Merkel, in una giacchetta verde antipatia come i titoli dei giornali populisti alla «Bild», ha segnalato al mondo che Berlino si opporrà anche nel calcio alle cicale. Dimentica del verso di Garcia Lorca, «cigarra dichosa tu…», cicala beata te…

Toccava ieri all’Italia e all’Inghilterra concludere la metafora economica di un Europeo che ne offre una ad ogni match. Chi avrebbe affrontato l’arcigna Germania, dentro e fuori campo? L’Inghilterra della City, guidata dal raffinato coach Roy Hodgson che sembra più a suo agio con bombetta e «Financial Times» sotto braccio che in panchina? O l’Italia di campioni vecchi e incerottati, di ragazzi un po’ bislacchi, Buffon e Pirlo, Cassano e Balotelli? Il calcio non vuole rinunciare alle sue metafore, in piena crisi.

E per tutti i 120 minuti di partita, la classica Italia-Inghilterra, due modelli di gioco e di cultura hanno duellato. Ma a difendersi con un catenaccio affannoso, qualcosa che avrebbe reso fiero il Padova di Rocco e fatto sognare il cronista veterano Gianni Brera, erano gli inglesi, palla lunga e 9 uomini in area. Formiche. L’Italia attaccava con fantasia e forza, creava occasioni su occasioni, coglieva due pali, strameritava il credito, ma non lo trovava, come una Pmi, una Piccola e media impresa del football cui la Banca della Fortuna nega un finanziamento pur meritato.

Si andava così ai calci di rigore, i catenacciari della City contro gli attaccanti di un Paese con Pil e debito a inseguirsi. Da settimane i titolisti giocano su rigore del campo e rigore in economia, ma ogni loro metafora è finita sui piedi di Diamanti, giocatore senza la fama di Rooney o di Buffon, una qualche aura da playboy e sprecone, una carriera quasi buttata al vento, insomma una cicala tra le cicale. Dagli spalti i tifosi inglesi cantavano «God save the Queen», ma Diamanti deve essersi ricordato di essere ormai un cittadino del Paese governato dal rigore del professor Monti e ha segnato. Siamo noi, la I dei Pigs la terza semifinalista e tocca a noi contrastare l’onnipotente Valchiria del campo, dello spread, dell’export, dei no ripetuti a ogni summit.

Lo spread ci condanna anche all’Europeo, i tedeschi sono pronti a imporre la bilancia di pagamento dei loro gol, il credito di esportazione delle loro azioni, la perfezione della loro tecnologia umana. Ma ieri sera il calcio, metafora sempre perfetta della vita nella sua imprevedibilità, ci ha fatto vedere di cosa sono capaci gli italiani, un italiano «medio» come Diamanti, quando hanno le spalle al muro. Forza Azzurri: e ricordatevi che, fuor di metafora, e guardando ai numeri così cari ai tedeschi, la Germania non ha mai battuto l’Italia in una partita con dei punti in palio. Teniamo dalla nostra parte quello spread magico e poi riprendiamoci la Coppa che ci manca dal 1968.

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« Risposta #42 inserito:: Giugno 29, 2012, 11:36:22 pm »

29/6/2012

Così i giudici riscoprono lo spirito Usa

GIANNI RIOTTA

Era così assodato che la Corte Suprema americana avrebbe bocciato, in tutto o in parte, l’Affordable Care Act, riforma sanitaria inseguita da decenni e arrivata infine grazie alla sola scelta temeraria del presidente Obama, che la Cnn, mitica rete tv, e Fox sentito che i giudici s’erano divisi 5 a 4 s’è precipitata su twitter: «No alla riforma». In automatico partivano le dichiarazioni, felici i repubblicani, corrucciati i democratici.

Subito twitter correggeva Cnn: 5 a 4 sì, ma in favore della riforma di Obama. Ai quattro giudici liberal della Corte, Breyer, Sotomayor, Ginsburg, Kagan s’è unito – a sorpresa - il capo della Corte, John Roberts, nominato dal presidente George W. Bush, di solito solidale con i magistrati conservatori, Thomas, Scalia, Alito e il centrista Kennedy. La riforma, che la Corte ha limato solo su un punto minore, diventa così campo di battaglia per le elezioni di novembre, il candidato repubblicano Romney ha già scandito “La bocceranno gli elettori” e in pochi minuti gli oppositori hanno raccolto mezzo milione di dollari online.

La mobilitazione repubblicana, rilevante, non cancellerà la vittoria di Obama, che cocciutamente ha voluto la riforma. Crede a un’America in cui tutti siano protetti dall’assicurazione medica e, malgrado sappia che nei sondaggi la maggioranza dei cittadini resta contraria (individualisti gli americani preferiscono “scommettere” da soli su mutua o salute), per una volta rinuncia alla cerebrale prudenza e si impone al riluttante Congresso. Alla Corte i legali della Casa Bianca invocano la libertà di commercio, la multa da pagare per chi non si assicura è normale sanzione amministrativa. Il Chief Justice Roberts non avrebbe votato la riforma su questa base, fedele alla sua filosofia di limitare l’azione dello stato federale in economia. Ha invece, con una sentenza che farà discutere per anni nelle Law Schools, scritto che l’obbligo di mutua sanitaria è una tassa, sì, ma che il Congresso ha pieno diritto costituzionale di imporre tasse e sanzioni ulteriori per chi non le paga.

Fuori dall’austero edificio dove siedono, a vita, i 9 giudici della Corte Suprema, i militanti democratici hanno festeggiato, i rivali repubblicani giurato vendetta. Per la destra, dai Tea Party ai circoli intellettuali, è bruciante sconfitta. Da anni contano sulla Corte Suprema, a maggioranza conservatrice, per rintuzzare le leggi dei liberal. Il giudice Thomas, il polemico Scalia impongono una lettura “letterale” della Costituzione che osteggia l’introduzione di nuovi diritti nella società civile Usa. Vedere ora il giudice Roberts, con il centrista Kennedy schierato a destra, dar ragione a Obama, li infuria: sul profilo Wikipedia, l’enciclopedia web, Roberts viene da ieri definito “Codardo”.

Obama vince e quando nei dibattiti Romney gli rimprovererà di non avere fatto granché in 4 anni citerà l’esecuzione di Osama e la riforma, con l’imprimatur della Corte. Certo, il presidente ha sempre negato che la riforma sia una tassa occulta e Roberts invece così l’ha definita: poco importa, vincere “fuori casa” in una Corte dove dominano i conservatori gli concede prestigio e autorevolezza. E le azioni dell’industria sanitaria ieri sono salite a Wall Street, non scese.

La storica sentenza di ieri avrà due altre conseguenze. Dopo anni di polarizzazione destra-sinistra, con sentenze sempre più militanti, i giudici hanno agito secondo lo spirito antico della Costituzione, che li vuole super partes, dimentichi della nomina presidenziale e pronti a dire sì o no secondo legge. Proprio nell’ultima sentenza prima del via libera alla riforma sanitaria, il giudice Scalia – uno dei cervelli più acuti della Corte - aveva irritato intervenendo sulla legge contro l’emigrazione dell’Arizona con toni da talk show, non da Supreme Court. Gli Stati Uniti hanno urgenza di ritrovare il dialogo perduto nel populismo estremista, da Tea Party a Occupy Wall Street. Il Congresso deve liberarsi dalla paranoia di considerare ogni intesa e compromesso un “tradimento”. Era l’intenzione di Obama “togliamoci i colori di guerra dal volto – diceva -, non siamo gladiatori nell’arena”, ma non è riuscito, l’opinione pubblica è più iraconda e divisa. La Corte Suprema, nobile idea dei Padri Fondatori per equilibrare i poteri di Casa Bianca, Congresso e magistratura, ha agito ieri secondo lo spirito americano di pragmatismo, buon senso, diritto.

In Europa, proprio nelle ore in cui si discute a Bruxelles il futuro dell’euro, l’eco del 5 a 4 incoraggerà chi difende welfare e stato sociale nei giorni difficilissimi di crisi economica: se anche a Washington tessono la rete di protezione, perché disfarla da noi? Il giudice tradizionalista Roberts è da oggi amico tra i nemici, nemico tra gli amici.

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« Risposta #43 inserito:: Luglio 14, 2012, 03:56:02 pm »

14/7/2012

Alle sartine cinesi il primo oro olimpico

GIANNI RIOTTA

Quale momento più patriottico di un atleta che vince per il proprio Paese la medaglia d’oro ai Giochi Olimpici, la bandiera alta sul pennone, lacrime sul podio, le note solenni dell’inno nazionale. E negli Stati Uniti, che si accingono a Londra a contestare alla Cina il primato di ori perduto a Pechino nel 2008 51 a 36, telecamere in primo piano, audience rapita e un contratto di pubblicità per le scatole di cereali da breakfast.

L’idillio sembra però spezzarsi in una querelle estiva che, dalle Olimpiadi, rischia di contagiare la campagna elettorale tra il presidente Obama e lo sfidante repubblicano Romney. Un servizio della rete televisiva Abc rivela che le uniformi della poderosa squadra americana, disegnate dallo stilista Ralph Lauren, sono Made in China, 100%.

Apriti cielo della retorica: fosse evento olimpico la propaganda populista, da ieri a Washington ogni record sarebbe spezzato. Il leader democratico del Senato Harry Reid dichiara «Dovrebbero bruciare quelle uniformi in una pira. Meglio andare in giro con un solo disegno addosso, ma che dica almeno Made in Usa». Lo Speaker della Camera, il repubblicano Boenher, ringhia: «Al Comitato olimpico Usa non capiscono niente». La sua rivale democratica, signora Pelosi, raddoppia: «I nostri atleti faticano tanto, sono così belli, dovrebbero solo vestire Made in America!». Il festival delle panzane arruola Bernie Sanders, l’unico senatore socialista americano, per cui la scelta delle uniformi mette a rischio milioni di posti di lavoro, mentre il senatore Sherrod Brown accusa la Cina di trucchi commerciali e presenta una legge perché nel 2014 gli sportivi vestano Made in Usa.

Le povere uniformi di Ralph Lauren, pantaloni bianchi larghi alla Grande Gatsby per gli uomini, gonna a pieghe immacolata da tennista Wimbledon inizio secolo per le donne, per tutti blazer blu da Commodoro e un buffo basco alla francese, erano già state distrutte dalle recensioni di moda. «Sono doganieri o atleti?» ironizza l’esperto Robert Verdi. Severo il blog Fashionista: «La moda snellisce le donne un po’ pesanti, le uniformi trasformano atlete in formissima in pesanti matrone». E i dispettosi francesi della tv France 24 twitter @france24 stuzzicano: l’America indossa il basco caro a noi parigini. Non mancano infine i veterani di Milltown, località del New Jersey, offesi perché la bandiera a stelle e strisce sulle giacche blu è più piccina del logo Ralph Lauren: «I nostri giureranno con la mano sul cuore per una ditta che produce in Cina, non sulla bandiera Old Glory».

Ci sarebbe da ridere, come ai tempi della guerra in Iraq quando sul menù del ristorante del Congresso le patatine fritte, «french fries», vennero ribattezzate «liberty fries». Ma la pagliacciata nasconde un malessere profondo tra Usa e Cina, legato alle difficoltà economiche di Washington dopo la crisi e alla frenata nella crescita, ora a 7,6, di Pechino. Gli Usa devono creare lavoro (Obama rischia su questo la rielezione), la Cina deve correre per eliminare la povertà rurale (è il nodo del congresso del Partito comunista in autunno).

Mitt Romney giura che, se eletto, dichiarerà la Cina «manipolatrice di valuta», obbligandola ad apprezzare lo yuan, cosa che Pechino ha già fatto. Lo diceva anche Obama da candidato, come G. W. Bush e Clinton, salvo non fare nulla dalla Casa Bianca contro un Paese che vende sì agli americani merci per un surplus di $ 273 miliardi l’anno (€ 225 miliardi) ma resta partner essenziale e detiene la più pingue fetta di debito Usa nel mondo. Le uniformi del Team Usa sono prodotte in Cina perché, se realizzate in America, non costerebbero i 1500 dollari del prezzo di etichetta (€ 1240) ma molto di più, e il Comitato olimpico campa di sponsor privati. Se non vi piacciono i pantaloni a sbuffo, le gonne a pieghe e il blazer doppio petto, fate il calcolo sull’iPad. Prodotto dell’intelligenza di Silicon Valley, realizzato in Cina da operai che guadagnano meno di 30 euro al giorno ($ 36), un iPad 3 costa 299 dollari, un iPad 4 $ 499. La rivista Atlantic ha studiato quanto costerebbero gli iPad se prodotti interamente negli Usa, da operai che guadagnano $ 35 l’ora (ci vogliono circa 9 ore per completare un iPad), e aggiungendo i costi del lavoro, delle assicurazioni e dell’indotto, per esempio l’estrazione dei minerali in uno Stato Usa, l’elegante tablet Made in Usa costerebbe tre volte il suo prezzo Made in China. Il tessile ha diversi parametri, ma anche i discussi abiti del Team Usa si pagherebbero circa il doppio.

Politica e sport, si sa, non si dovrebbero mai mischiare e sempre si mischiano. Per i Giochi Olimpici di Londra 2012 la querelle Ralph Lauren è solo un inizio, ma finirà in nulla, dopo la Cerimonia di chiusura e la notte elettorale di novembre. Cina e Usa restano partner, nel bene e nel male, il giorno dello show down, che ci sarà, non è vicino. La morale nascosta della favola, di cui i deputati Usa dovrebbero essere fieri, è che Ralph Lauren, lo stilista che ha fatto di tutti gli americani raffinati Wasp, bianchi protestanti anglosassoni vestiti come studenti privilegiati delle nobili università Ivy League, è nato nel Bronx povero, da una famiglia ebrea, si chiamava Ralph Lipschitz, e s’è reinventato da solo in maestro di stile aristocratico. E’ questa la forza segreta di Team Usa, intrecciare culture lontane. Se la canzone simbolo del Natale, White Christmas, è stata scritta dal musicista ebreo Izrail’ Moiseevic Bejlin, più noto col nome d’arte di Irving Berlin, perché mai non si potrà ascoltare l’inno Star spangled banner dopo un oro olimpico con l’abito cucito da una brava sarta cinese? Che c’è mai di più «americano»? Ma non sperate di spiegarlo a un demagogo in pieno doping da campagna elettorale.

Twitter @riotta

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« Risposta #44 inserito:: Luglio 20, 2012, 10:22:44 am »

20/7/2012

Siria, Obama non interverrà

GIANNI RIOTTA

La grande fabbrica di eufemismi che si chiama Nazioni Unite si ostina a chiamare la guerra civile in Siria «conflitto armato non internazionale» quando invece perfino la Croce Rossa, da 72 ore, parla senza complimenti di «civil war».

Aben guardare, dentro lo scontro a Damasco le guerre son ben più d’una, ciascuna colma di pericoli, e così intrecciate da rendere la soluzione inevitabile, l’uscita di scena del regime alawita guidato dal capoclan Bashar al-Assad difficile e sanguinosa.

Il primo, e più crudo, conflitto oppone quel che resta del governo di Damasco alle composite forze ribelli della Libera Armata Siriana. Il lettore non consideri, giudicando gli eventi, che la Siria sia in mano a una classica dittatura, il paragone più calzante è quello di un clan mafioso, una famiglia criminale sul modello del Padrino. L’attentato che ha colpito il cuore del sistema, uccidendo il cognato di Assad, Assef Shawkat, il generale sunnita Turkmani, il ministro cristiano Rajha, ferendo il generale e ministro Shaar impressiona per la vicinanza dei gerarchi al potere: Damasco parla di un kamikaze, i ribelli di una bomba detonata a distanza, poco cambia. Come l’attentato degli ufficiali Junker guidati da von Stauffenberg contro Hitler nel 1944, solo grazie ai disertori, in testa il generale Manaf Tlass, si poteva arrivare nelle stanze segrete.

Al regime - calcola il Council on Foreign Relations - restano due divisioni in ordine di combattimento, un’aviazione ancora capace di rendere un eventuale raid della Nato a rischio, un arsenale di armi chimiche in grado di duplicare la strage dei curdi, 5000 morti e 10.000 intossicati dai gas di Saddam ad Halabja, Iraq, 1988. Per questo il veto, che la storia deprecherà, imposto al Consiglio di Sicurezza Onu da Russia e Cina alla richiesta inglese di sanzioni contro la Siria è ipocrita. Il ministro russo Lavrov lascia capire che Mosca e Pechino temano un intervento Nato, o occidentale, come in Afghanistan e Libia. Ma Putin e Hu Jintao sanno benissimo che né il presidente Obama, né gli europei studiano un attacco. Nei sondaggi e nell’esame dei «metadata», la pubblica conversazione sui social media, la maggioranza di europei e americani resta ostile a un raid umanitario. Obama ha solo un esile vantaggio sullo sfidante repubblicano Mitt Romney, è appeso agli umori di una mezza dozzina di Stati incerti, e si gioca tutto sull’economia, migliore di quella europea ma comunque anemica. Non è aria di diversioni belliche internazionali, né micro come Reagan a Grenada 1983, né macro come G. W. Bush a Baghdad 2003, entrambi anni di vigilia elettorale. Tanto più che ieri il petrolio greggio Brent è salito di $2,14 a $107 al barile, record da 7 settimane, per le violenze in Siria e gli scontri verbali tra Teheran e Washington, brutta notizia nella crisi. Teheran parla di bloccare lo Stretto di Hormuz con i suoi motoscafi veloci, la Marina Usa si dice tranquilla di difendere la cruciale via d’acqua, il mercato imbizzarrisce.

Questo è il secondo conflitto, geopolitico, parte di una complessa partita che americani, russi e cinesi giocano dalla frontiera con l’India, alla Birmania, all’Oceano Indiano (dove i cinesi vogliono varare una flotta d’alto mare), all’Iran. Putin ha in Siria l’ultimo avamposto nel Mediterraneo e non vuol perderlo.

La Nato non interviene perché i ribelli non rappresentano un fronte nazionale unito, aperto a tutti i siriani non alawiti (alawita è la minoranza che regge il governo e nella roccaforte alawita di Latakia potrebbe fuggire Assad, mentre la moglie Asma riparerebbe a Mosca). Molti cristiani, come in Iraq sotto Saddam Hussein, temono l’insorgenza fondamentalista islamica e preferiscono il fragile compromesso imposto da Assad padre. Le armi affluiscono da Golfo e Turchia col contagocce perché si teme che poi servano ai ribelli, caduto Assad, per una pulizia etnica atroce. Così arsenali diffusi restano gli Ied, bombe fatte in casa (la formula micidiale si trova sul web), realizzate con fertilizzanti e prodotti chimici dell’industria, innescati da telecomandi, telefonini e perfino sospensioni di automobili.

Il terzo conflitto oppone l’Arabia Saudita e i suoi vassalli all’Iran sciita, temuto non solo per l’aggressivo programma nucleare ma per i secoli di «eresia» che Teheran rappresenta agli occhi dei salafiti e dei sunniti, musulmani tradizionalisti. Le difficoltà di Hamas a Gaza e di Hezbollah in Libano sono legate a questa dimensione dello scontro, e anche su questa occidentali, russi e cinesi intervengono dall’ombra. La strage di turisti israeliani in Bulgaria, che il governo di Gerusalemme ha subito messo in conto all’Iran, è un tentativo di allargare il fronte e prendere tempo, coinvolgendo in blitz e raid Israele.

Il piano in 6 punti dell’inane ex segretario Onu Kofi Annan non ha mai avuto una seria chance di successo, le sanzioni vengono bocciate dal veto russo-cinese e la parola, brutale, resta alle armi. Human Rights Watch e le altre organizzazioni internazionali ripetono che la popolazione civile, dai sobborghi di Damasco alla frontiera, paga il prezzo dell’impasse, ma ormai la guerra civile, «conflitto armato non internazionale» nel galateo Onu, è la protagonista e finirà solo con vinti e vincitori sul campo. Scade oggi il mandato ai 300 osservatori Onu che, a parte rischiare nobilmente la vita, poco hanno da fare e il generale casco blu norvegese Mood ammette: «Non c’è pace in Siria».

Guardate dunque a Damasco, ai sobborghi di Qaboun, Tadamon, Yarmouk, Mezze, Kafr Sousseh, imparate a memoria questi nomi perché là, non al Palazzo di Vetro Onu di New York, alla Casa Bianca o al Cremlino, si gioca il destino della Siria. I bloggers che sfuggono alla censura parlano sul web di cecchini, rastrellamenti casa per casa, bombardamenti dell’artiglieria. Interi quartieri alawiti si sono blindati, c’è chi sogna un’assurda ultima resistenza nella roccaforte di Latakia, una secessione magari. Usa ed Europa, placcati da russi e cinesi, possono isolare ancora Assad bloccando viaggi e comunicazioni, e preparare una lista di criminali di guerra - si calcolano in oltre 15.000 le vittime della repressione per forzare altre diserzioni.

Quando la battaglia per Damasco finirà e Assad cadrà, in esilio o giustiziato come Gheddafi, comincerà un lavoro diplomatico e di aiuti economici complesso, per evitare, o ridurre al minimo, rivalse e vendette etniche e settarie. Persa la mano Putin tratterà. Ma prima deve finire la guerra: e nel frattempo ogni conclusione è precoce, guardate che fine hanno fatto le previsioni rosee sulla Primavera araba e le cupe geremiadi di inevitabile trionfo islamico. Senza inferni e paradisi annunciati, la Storia si fa strada in Libia, Egitto e Tunisia e altrettanto accadrà in Siria, quando - speriamo al più presto - le armi taceranno. Fino ad allora conta solo quella che lo scrittore Vasilij Grossman chiamava «la dura verità della guerra».

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10351
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