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Autore Discussione: Gianni RIOTTA -  (Letto 84356 volte)
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« Risposta #15 inserito:: Dicembre 08, 2011, 05:20:36 pm »

8/12/2011

Il duello per l'egemonia del futuro

GIANNI RIOTTA

Un anno fa il saggista americano Robert Kaplan pubblicò un affascinante volume, «Monsoon», storia dell’Oceano Indiano da sempre mare di pace e commerci, come di guerra e battaglie. La Cina e la sua ambizione di varare una flotta d’alto mare, sono al centro di «Monsoon» e qualcuno storse il naso, ripensando ai falchi «neoconservatori» di George W. Bush. Ieri però, il presidente cinese Hu Jintao, giunto quasi alla fine del suo mandato, ammonisce la Marina cinese di «prepararsi alla guerra», o a «combattimenti militari», o «lotta militare», secondo altre traduzioni. E di nuovo gli analisti si interrogano: la rivalità Pechino-Washington resterà geopolitica ed economica, il debito americano, la produzione cinese, le rotte dei commerci, la supremazia Usa nell’innovazione tecnologica e lo sforzo immane dei cinesi di primeggiare ora anche nell’high tech? O precipiterà nello scontro militare?

Il lettore non pensi a manovre da generale Stranamore, lo stato maggiore del Pentagono avvilito per i tagli che la crisi economica impone al budget bellico (da solo più ricco di tutti gli altri insieme), i generali dell’Armata del Popolo decisi a riportare il prestigio di Pechino dall’industria e le banche alle armi. Il documento strategico nucleare del presidente Premio Nobel per la pace, Barack Obama, la «Nuclear Posture Review 2010», sancisce che «gli Stati del Pacifico, vicini di Usa e Cina, sono preoccupati dall’attuale modernizzazione militare cinese, incluso il riarmo, in quantità e qualità, dell’arsenale nucleare».

Per ora il ring immenso del Pacifico separa i due rivali, e le rispettive, sterminate, masse continentali rendono l’idea di un conflitto tradizionale poco probabile. La capacità nucleare cinese è stimata ancora tra un decimo e un centesimo di quella americana, arduo un match alla pari. Portaerei e bombardieri nucleari strategici mancano ai successori di Hu Jintao per immaginare una campagna adeguata: ma certo al presidente cinese non sarà sfuggito che le sue parole sono risuonate giusto nel giorno del settantesimo anniversario di Pearl Harbor, «il giorno che vivrà nell’infamia», come il presidente Roosevelt definì l’attacco del Giappone alla base militare Usa nelle Hawaii che trascinò, a malincuore, l’America nella Seconda guerra mondiale.

I siti di destra americani possono suonare qualche tono militaresco, quelli di sinistra unire alla denuncia degli abusi cinesi contro i diritti civili la minaccia della flotta. La realtà resta più minacciosa e complessa. Ogni rotta degli oceani Indiano e Pacifico, da Taiwan che per tutta la Guerra fredda ha opposto Cina e Stati Uniti, alle Filippine, a Myanmar (Birmania), all’Indonesia, al Giappone, all’Australia, al Corno d’Africa e Golfo Persico, è uno slalom per l’egemonia tra le potenze del XXI secolo. I 2500 marines che Obama ha comandato in Australia non sono solo astuta mossa da «duro» nella campagna presidenziale 2012, sono un primo avanzare le bandierine nello scacchiere. Così come la visita della segretario di Stato Clinton alla Nobel dissidente birmana Aung San Suu Kyi è certo buona notizia per la causa dei diritti umani, ma al tempo stesso alza il prezzo della giunta militare nell’asta tra Pechino e Washington. L’Indonesia, Sri Lanka, il Vietnam giocano ruoli nuovi. Davanti alle frequenti manovre militari tra Vietnam ed esercito americano, un vecchio generale di Hanoi ha mormorato: «Di che cosa vi meravigliate? Dell’America siamo stati nemici per 50 anni. Della Cina siamo nemici da 2000».

Le regole del passato non funzionano più, economia e attrito bellico coesisteranno.
L’Australia commercia con la Cina, eppure ne teme l’influenza. La Cina detesta la presenza militare americana in Giappone, eppure è lieta che sia il budget di Washington a impedire il riarmo dell’antico nemico perché, storicamente, diffida della bandiera con il Sol Levante più che della Old Glory a stelle e strisce. E se capricciosi monsoni di pace e guerra, commerci e duelli navali tra vietnamiti e cinesi, soffiano sull’oceano, anche lungo la remota Via della Seta, il confronto militare Usa-Cina evoca fantasmi millenari. La strategia di Obama e della Clinton sogna Afghanistan, Pakistan, Iran e Iraq pacificati e dediti a traffici legali. Thomas Nides, del Council on Foreign Relations, calcola in 900 miliardi di euro le sole risorse minerarie dell’Afghanistan, se la guerra civile cessasse e cominciasse un’era di pace. E la Cina, da sempre alleata silenziosa del Pakistan, deve decidere ora se avviare una relazione di sviluppo pacifico, o puntare su un vicino con la bomba atomica, ma povero. Al centro il dilemma persiano dell’Iran, con la corsa al nucleare di guerra. Duemila anni fa, osserva lo studioso Walter Scheidel dell’università di Stanford, «metà del genere umano viveva sotto l’impero di Roma o sotto l’impero cinese degli Han». Eppure, a differenza di quanto immagina «The Lost Legion», un recente film di Hollywood, romani e cinesi girarono sempre alla larga, prosperando lontani per secoli. L’era globale non concede tanto spazio e Washington e Pechino devono convivere tra corsa economica e militare. L’America ha dalla sua innovazione tecnologica e crescita demografica, nel 2050 sarà più giovane della Cina. La Cina ha dalla sua una massa di popolazione unita nella crescita, un sistema politico centralizzato ma contro il declino demografico, deve arricchirsi prima di invecchiare. E’ la sfida del nostro tempo e quella del tempo dei nostri figli.

E l’Europa? In ottobre l’istituto Carnegie Europe mi ha chiesto quale sarà il problema europeo del futuro: la mancanza di un esercito comune, come sognato da Winston Churchill, ho scritto http://carnegieeurope.eu/publications/?fa=45766  E mentre Cina e Stati Uniti corrono alle armi, magari sperando ancora di non usarle, è facile capire perché.

riotta.g@gmail.com
twitter@riotta 

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9529
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« Risposta #16 inserito:: Dicembre 17, 2011, 11:30:55 am »

17/12/2011

Hitchens, vita contro di un uomo libero

GIANNI RIOTTA

Essere d’accordo con Christopher Hitchens era bellissimo, vi sentivate illuminati dalla forza della sua passione. Essere in disaccordo con «Hitch» era, al contrario, una pessima sensazione, perché finivate abrasi dalla sua polemica, carta vetrata sulla coscienza. In mezzo non si riusciva a stare con lo scrittore, giornalista, attivista inglese naturalizzato americano, scomparso ieri a 62 anni per un cancro all’esofago. Il dibattito, spinto all’estremo, era la sua vita, dopo gli esordi «british», figlio di un ufficiale della Marina inglese che la mamma Yvonne Jean mantiene alle università di Cambridge e Oxford con tanti sacrifici: «In questo Paese comandano gli aristocratici, Christopher deve diventarlo».

Al college Hitchens conosce un giovane borsista americano, Bill Clinton, è presente la sera in cui girano gli spinelli e Clinton, come dichiarerà nella campagna per la Casa Bianca 1992, «fuma marijuana ma senza aspirare»: «Preferiva abboffarsi di biscotti al cacao» ricordava maligno Hitchens. Che denuncia poi un collaboratore di Clinton, Sidney Blumenthal, come fonte della campagna di calunnie contro la stagista Monica Lewinsky, amante del Presidente, rompendo i ranghi democratici e beccandosi il soprannome di «Hitch the Snitch», Hitch lo spione. Non se ne vergogna e titola la sua autobiografia «Hitch 22», strizzando l’occhio al romanzo dell’assurdo di Heller «Comma 22».

L’ex compagno di università diventato Presidente non è il solo obiettivo di Hitchens, che in una carriera cominciata nella sinistra trozkista, investe l’ex segretario di Stato Kissinger, «criminale di guerra», Madre Teresa di Calcutta, «fanatica amica del dittatore di Haiti Duvalier», Lady Diana, «fighetta», Ronald Reagan, «banalotto», la religione islamica e infine Dio stesso, nel pamphlet «Dio non è grande» che lo porta a scontrarsi nei talk show di mezzo mondo, perfino con suo fratello Peter. Quando si ammala di cancro, parecchi cattolici gli scrivono «pregheremo per te, ateo». Li ringrazia, ma senza commuoversi «Se mi converto sul letto di morte sarà un rottame spaventato a farlo. Io resto un Protestante-Ateo».

Nato a sinistra, Hitchens condivide con il suo idolo George Orwell l’idea che uno scrittore deve seguire la verità anche rompendo il luogo comune dei progressisti. Scrive bene della premier conservatrice inglese Lady Thatcher, definendola «sexy», poi la critica per la sua posizione sullo Zimbabwe, in Africa, e ne viene sculacciato in pubblico, «Sì, la Thatcher mi disse piegati, più in basso ancora, intimò e poi mi diede un gran colpo sul sedere con un fascicolo arrotolato».

Dal debutto con i giornali socialisti inglesi alla The New Statesman, fino alla collaborazione in America con il progressista The Nation, «Hitch» resta bastian contrario. Quando George W. Bush decide di invadere l’Iraq, Hitchens che da tempo denunciava il fondamentalismo islamico come «islamofascismo» appoggia l’operazione, disprezza il nichilismo dei leader europei alla Chirac e decide perfino, con lo stile un po’ da clown che non gli dispiaceva quando intuiva di avere ecceduto in polemica, di sottoporsi al «waterboarding», la tortura che simula l’annegamento, praticata dalla Cia e difesa dal vicepresidente Usa Cheney. «Fa più paura ma meno male della ceretta inguinale stile bikini cui mi sono sottoposto per un articolo su Vanity Fair» dichiarò sfrontato. Perché, come tutti i grandi giornalisti, sapeva che non esistono temi superficiali, esistono giornalisti superficiali.

Uomo libero, sia nel torto che nella ragione, Hitchens finì odiato dai suoi ex compagni. Alexander Cockburn, vecchia firma della sinistra dura, lo definì «bugiardo, ipocrita, culone, tabagista, ubriacone, opportunista e cinico». E neanche i migliori amici, per esempio lo scrittore Salman Rushdie, che aveva difeso per primo dalla fatwa, la maledizione degli ayatollah iraniani, avrebbero potuto negare almeno due delle accuse del plumbeo Cockburn.

Non ho mai visto Christopher senza sigaretta in bocca, né ho potuto chiacchierare con lui mezzora senza bere un bicchiere di vino o buttare giù un paio di «baby» whisky. In Arabia Saudita 1990, durante la prima guerra del Golfo, mentre provavamo a bordo di un autobus ad avvicinarci al fronte, tirò fuori una fiaschetta di metallo da tasca, come un cow boy dei film, e senza badare alla muttawa, la polizia islamica custode dell’ortodossia analcolica salafita, ne tracannò mezza. Poi la riempì da una bottiglia celata nel borsone portacomputer (scriveva allora ancora a macchina), mi obbligò a berne a mia volta, la colmò e svuotò in un fiato e, di getto scrisse un bellissimo elzeviro: «Alcol e tabacco mi danno lucidità».

Il successo, la popolarità mondiale, gli applausi che ora venivano anche dalla destra ex avversaria non lo cambiarono. L’ultima volta che abbiam parlato, in piena rivolta araba, sorrise «Possiamo vantarci in pochi, non è così?, di avere creduto che anche gli arabi possano vivere in democrazia». Pensava che avere visto l’esecuzione di Saddam avesse ispirato alla lunga i ribelli contro i regimi, malgrado l’astio contro la guerra a Baghdad «ma so che non convincerò al Manifesto la Luciana Castellina».

Nascondeva tra lavoro e party un dolore segreto. Sua mamma s’era suicidata ad Atene dopo una relazione extraconiugale, e l’aveva cercato invano al telefono fino all’ultimo: «Ho sempre pensato che se mi avesse parlato, anche solo avesse riascoltato la mia voce, non si sarebbe tolta vita», si rammaricava. Poco prima del funerale della mamma, apprende che lei era nata ebrea, al contrario del padre cristiano. Non gli aveva mai rivelato il segreto, fino alla fine.
Lo scrittore Christopher Buckley definisce Hitchens «il più grande polemista contemporaneo in lingua inglese». Al contrario dell’ascetico Orwell era un bon vivant, a tavola e nella vita, un anglosassone caldo come un mediterraneo e con un senso unico per la famiglia. Su quel bus nel deserto saudita mi raccontò del padre Eric «Lo chiamavamo "Comandante", era sulla nave da guerra Jamaica, che nel 1943, alla battaglia di Capo Nord, affondò l’incrociatore tedesco Scharnhorst, 38.100 tonnellate di acciaio nazista a picco. In una giornata, amico mio, fece più lavoro di quanto io non sia riuscito a farne in tutta la mia vita da inviato speciale». E si addormentò, poggiando senza pudori la testa bionda sulla mia spalla. Un paio di sedili indietro, due agenti della muttawa lo fissavano sospettosi.

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« Risposta #17 inserito:: Dicembre 28, 2011, 10:46:14 pm »

27/12/2011

Cambiano le frontiere del benessere

GIANNI RIOTTA

Il primo a segnalarlo, di buon mattino a Santo Stefano, è un tweet, messaggino online dell’economista venezuelano Moises Naim @moisesnaim: «Nel 2011 l’economia del Brasile ha superato quella inglese e il tasso di omicidi in Colombia è sceso del 26%». Solo in apparenza una bizzarria, perché l’ex ministro di Caracas segnala non solo il boom ormai impetuoso di Rio de Janeiro, +7% l’anno, ma un nuovo possibile partner nel club del benessere, la Colombia che sembrava ostaggio del narcotraffico e cresce invece del 4%.

Il 2011 manda sui libri di storia - che si occuperanno di realtà, e non dei miraggi che incantano noi contemporanei - con il sorpasso Brasile-Regno Unito anche quello della Cina sul Giappone, staffetta asiatica incredibile solo qualche stagione fa. Noi italiani restiamo, ma attenti ormai le classifiche economiche cambiano più in fretta di quelle del football, all’ottavo posto. Abbiamo dietro la Russia (nona) e l’India (decima) e il Centre for Economics and Business Research, che ha annunciato ieri Rio avanti Londra, prevede abbiano già messo la freccia per superarci.

A Capodanno 2020 la Cina sarà seconda dietro gli Stati Uniti, la Russia quarta (finalmente democratica sperano i tanti ragazzi in piazza a Mosca in queste ore), l’India sarà quinta e il Brasile sesto. Il vecchio mondo del XX secolo sarà rappresentato solo dagli Stati Uniti, almeno così auspica il presidente Obama, primi intorno alla fragile bandiera del dollaro e all’innovazione delle tecnologie, e dal Giappone, terzo.

Negli Anni 60 il Nordeste del Brasile era considerata «una zona esplosiva» dallo studioso De Castro, il regista Glauber Rocha rappresentava nei suoi tragici film la povertà del «sertao» , nel film «Il Dio nero e il diavolo biondo» l’eroe mitico Antonio das Mortes guardava impotente i contadini consumati dalla siccità. Contemporaneamente l’Inghilterra dei Beatles lanciava cinque dischi ai primi cinque posti delle classifiche. Due culture, due economie, due mondi.

E certo il Portogallo coloniale, che ha dato la propria lingua al Brasile, non avrebbe mai immaginato nei sogni dell’esploratore Cabral e di Re Giovanni III che nel 2011 l’emigrazione sarebbe andata da Est a Ovest nell’Atlantico. Mentre il Brasile prepara le infrastrutture per il campionato del mondo di calcio 2014 e per le Olimpiadi 2016, tecnici, laureati, operai portoghesi arrivano dal proprio Paese in crisi cercando il benessere perduto. I permessi di lavoro timbrati sui passaporti di Lisbona in Brasile sono triplicati quest’anno, e altri cittadini europei cercano di sfuggire alla crisi nel boom carioca: 51.000 nuovi emigrati, +33%. Lavorano nell’industria, nei progetti pubblici, nei laboratori tecnologici dove ancora il Brasile ha un gap di manodopera specializzata. Sono la nuova emigrazione colta, e, osserva Paulo Sérgio de Almeida del ministero del Lavoro «sono motore del nostro boom». E anche dall’onnipotente Germania si bussa in Brasile, le richieste di lavoro sono aumentate da Berlino dell’86% per i permessi trimestrali e del 31% per i permanenti, concessi raramente e preludio di un’emigrazione con tanto di famiglia al seguito al sole di Rio. Arrivano avvocati, calcola il Financial Times, e docenti universitari, attratti dagli alti stipendi e dall’energia di un Paese che cresce, non declina. Più di tutti arrivano statunitensi e cinesi ma ancora mancano ingegneri e impiegati di banca, elettricisti, donne delle pulizie. I campi petroliferi, oggi meglio sfruttati grazie alle tecnologie, sono a corto di tecnici specializzati.

Quando guarda a questi dati, e alle malinconiche cronache economiche europee del 2011, il premio Nobel indiano Amartya Sen trae una doppia morale, preoccupato per l’eccesso di rigore senza misure sulla crescita nell’Unione Europea e per i possibili stop alla rincorsa, oggi senza freni, dei Paesi emergenti che Jim O’Neill di Goldman Sachs mai avrebbe immaginato, coniando nel 2011 la sigla Bric (Brasile, Russia, India, Cina) per i nuovi Paesi ricchi. Ora O’Neill punta l’attenzione ai «mercati in crescita», quelli che producono almeno l’1% del prodotto interno lordo del Pianeta Terra. Là arriva la ricchezza del 2012, là presto, come oggi in Brasile, si metteranno in coda cercando uno stipendio, orgogliosi americani, europei e cinesi. Parliamo di Indonesia (un quinto del bilancio investito in scuola e ricerca), Sud Corea, Turchia e il Messico di cui ci occupiamo solo per le stragi del narcotraffico.

Forza lavoro specializzata e capitali di investimento sono già con le antenne tese verso le nuove frontiere del benessere, come identificate dagli economisti Robert Barro, Roopa Purushothaman e Dominic Wilson, dove non solo il Pil cresce, ma la democrazia si radica, la giustizia funziona in modo decente, la corruzione non dilaga, le famiglie sono coese, la tecnologia, Internet e telefonia mobile si diffondono. La realtà ha superato l’ottimismo, O’Neill ha sì previsto il boom dei Bric ma sottovalutandolo di ben tre quarti. Malgrado le preoccupazioni presenti, il Brasile non dovrebbe ripetere nel 2012 il boom 2011, raffreddino certi facili entusiasmi, non solo noi italiani e gli inglesi retrocederemo, presto il sorpasso toccherà a Francia e Germania.

Dal boom brasiliano si possono trarre due opposte morali. Una, superficiale che mastica amaro sul «Declino dell’Occidente» già pronosticato dal filosofo Spengler. L’altra, più ambiziosa, sulle opportunità che il mondo nuovo apre a chi sappia faticare e sacrificarsi, vedi il Paese del Nordeste poverissimo oggi gigante economico. Se il «sertao» miserabile dei capolavori di Rocha attrae emigranti da Lisbona, Washington, Pechino e Bonn, perché dare per perdute Spagna, Portogallo, Grecia e Italia?

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« Risposta #18 inserito:: Gennaio 16, 2012, 11:41:45 am »

16/1/2012

Addio a Lally Kamenetzki simbolo discreto della New York italiana

GIANNI RIOTTA

Nella comunità degli italiani a New York era un volto noto, «la sorella di Ugo Stille», somigliante come una gemella al fratello, storico corrispondente e poi direttore del «Corriere della Sera»: Lally Kamenetzki è scomparsa ora a 90 anni, e con lei svanisce un mondo di affetti, storie, ricordi. Da Mosca la famiglia Kamenetzki emigra a Riga, dove nasce la piccola Myra, subito soprannominata Lally.

Le vicende politiche russe portano a una nuova emigrazione, a Roma, dove il fratello Misha si incontra con i giovani poi protagonisti dell’antifascismo, Giaime Pintor e Lucio Lombardo Radice, coniando con Pintor lo pseudonimo che diventerà sua firma, Ugo Stille, oggi ereditata dal figlio Alexander, docente alla Columbia University.

E proprio i nipoti Stille, Alexander e la sorella Lucy, agente letterario, hanno ricordato sul «New York Times» di ieri la zia Lally, mai sposata e legatissima ai figli del fratello. Lally Kamenetzki, dopo i travagli dell’arrivo a New York l’imbarco periglioso su una delle ultime navi a lasciare l’Europa - comincia una nuova vita, senza nostalgia ma senza cancellare il passato. Lavora all’ufficio americano della casa farmaceutica Carlo Erba, poi insegna italiano nelle scuole e all’Hunter College, storica università pubblica dove generazioni di studenti con pochi soldi e molto cervello si preparano alla vita. Docenti seri e senza fisime, laureandi spesso già al lavoro e senza illusioni, in cattedra scrittori come Nathan Englander, Colum McCann ed Eva Hoffmann, artisti come Motherwell, politici come Donna Shalala, il giornalista Jim Aronson, tra i banchi i futuri Nobel per la Medicina Yalow e Elion, la leader femminista Bella Abzug, gli scrittori Evan Hunter e Grace Paley, i chitarristi della rock band Strokes, Fraiture e Valensi.

A centinaia di loro, compreso il nipote Alexander, Lally Kamenetzki offre i rudimenti della nostra lingua, continuando da insegnante privata dopo la pensione e ogni avvenimento culturale legato all’Italia la vede in prima fila. La studiosa Jenny McPhee ricorda nel suo blog http://jennymcphee.com la notte in cui proiettarono alla Casa Italiana della Columbia University, bizzarro edificio in stile rinascimentale alle porte di Harlem, «Riso amaro», il celebre film con Silvana Mangano. Colpita dal nome di un’attrice americana nei titoli di coda, Doris Dowling, McPhee chiede a Lally, che le è seduta vicina, chi fosse. Lally Kamenetzki, con pazienza, le racconta la storia dell’arrivo della Dowling a Cinecittà nel dopoguerra, ma soprattutto della sorella, Constance Dowling, di cui si innamora perdutamente Cesare Pavese, dedicandole le ultime poesie di «Verrà la morte e avrà i tuoi occhi», fino al suicidio disperato. «Quella sera - scrive McPhee - decisi di cominciare a lavorare al mio romanzo “A Man of No Moon”, protagonista uno scrittore italiano nel dopoguerra, conteso tra due sorelle.

La scintilla discreta, in questa come in tante altre avventure di Manhattan, venne da Lally Kamenetzki, che però non chiese mai nulla per sé, restando nell’ombra e dedicando il tempo libero dal lavoro al bridge e al Festival di poesia italiana che, senza stancarsi, tenne in vita a lungo. Approfittava di ogni occasione per parlare nella lingua della sua infanzia e quando vide in casa di un amico una copia del Giornalino di Gianburrasca di Vamba, si commosse: «Lo leggevamo così tanto, che emozione, Giannino Stoppani!». Ricevuto in regalo il volume, lo conservò felice come reliquia del mondo sospeso tra Roma e New York che, con tanta fatica, aveva popolato di nuovi cittadini.

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« Risposta #19 inserito:: Gennaio 19, 2012, 04:49:32 pm »

19/1/2012

Limiti al web il vicolo cieco della politica

GIANNI RIOTTA

La giornata di ieri, 18 gennaio, passerà alla cronaca come il Giorno in cui i New Media hanno vinto il derby contro gli Old Media, il digitale ha superato nel torneo la vecchia pellicola, i blog redatti in garage azzittito le rockstar, i filmati traballanti di registi adolescenti sulla rete Youtube oscurato i kolossal alla Ben Hur. Era infatti la giornata di protesta contro due proposte di legge americane dal nome bizzarro, una alla Camera, detta Sopa Stop Online Piracy Act, l’altra al Senato, detta Pipa, Protect Intellectual Property Act, ma con lo stesso obiettivo: difendere il diritto di autore delle grandi compagnie che producono spettacolo, informazione, musica, film, dalla distribuzione gratuita su internet.

Prima di venire alle opposte ragioni dello scontro, vediamone l’esito. Il web ha stravinto costringendo importanti politici, come il senatore della Florida Marco Rubio, cocco dei conservatori e in odore di Casa Bianca, a ritirare il sostegno dato alla legge anti pirateria. Il «no» a nuovi controlli sul copyright online schiera subito il presidente Obama, stavolta d’accordo con quello che dovrebbe essere a novembre il suo rivale repubblicano, l’ex governatore Mitt Romney. Chiunque vinca le elezioni d’autunno, considererà la lobby economica del web, il motore di ricerca Google, il social network Facebook, l’enciclopedia libera Wikipedia, il canale di video Youtube, più importante di classici giganti come le Camere di Commercio Usa, la Riia, associazione delle case discografiche Bmg, Emi, Sony, Universal, Warner, che concede i dischi d’oro dai Beatles a Beyonce, le case cinematografiche. O perfino di News Corporation, del magnate Rupert Murdoch, attivo su twitter @rupertmurdoch.

Per fare passare, o bocciare, una legge di difesa del diritto d’autore le lobby rivali hanno investito decine di milioni di dollari, con il parlamentare Issa a guidare i contrari e il texano Smith i pro. A favore del web senza filtri contro la pirateria ha giocato l’efficace mobilitazione della rete. Wikipedia, l’enciclopedia scritta dal basso che ha oscurato ormai la Britannica e serve ai compiti a casa dei ragazzi in tutto il mondo, ha dipinto di nero la propria homepage, la prima pagina. Google ha listato a lutto il logo. La rivista Wired s’è presentata online con i testi spruzzati di nero, come nelle antiche lettere dei detenuti sottoposti a censura. A New York, dove si sta creando un polo tecnologico che vuole rivaleggiare come idee e produzione con Silicon Valley, i 20.000 tecnici del NY Tech Meetup hanno organizzato picchetti davanti agli uffici dei senatori Schumer e Gillibrand, persuasi che i limiti al web inducano disoccupazione. Reddit, Bing, Internet archives, tutte le piazze informatiche si sono riempite di proteste.

In poche ore il futuro di Sopa e Pipa s’è offuscato. La tattica di comunicazione della lobby new media, «No alla pirateria!», «Internet senza censure», ha facilmente umiliato la tattica di comunicazione della lobby old media, «Difesa del diritto d’autore», «Non si tratta di libertà, ma di furto e contraffazione di idee e spettacolo». Difficile mobilitare chi va al cinema, compra gli ultimi cd o paga ancora le rate dell’Enciclopedia rilegata in 18 volumi, mentre listare a lutto l’homepage attiva una valanga di telefonate ai politici incerti. E il leader repubblicano Boehner riconosce: «Non c’è maggioranza parlamentare per la legge Sopa».

Dietro gli slogan e le lobby, patinate o cyber che siano, qual è la sostanza della questione? I giganti della musica, dello spettacolo e dell’informazione chiedono protezione contro i siti che, specie dall’estero, sifonano i loro contenuti e li ridistribuiscono, in tutto o in parte, gratis. Rozzamente, volevano oscurare questi siti, trascurando però il pericolo di rappresaglia internazionale: se approvata, la legge filtro poteva, per esempio, bloccare il sito russo Kontakte, un supermaket dello spettacolo gratis, ma non impedire al Cremlino di censurare a sua volta Google o Amazon.

I cinesi sono stati lesti a accusare Washington di censura, dopo anni in cui gli Stati Uniti hanno chiesto libertà sul web a Pechino. Propaganda, certo, ma la studiosa Rebecca MacKinnon osserva che il libero mercato delle idee e della comunicazione, se controllato per legge, potrebbe trasformarsi in una grottesca copia di Weibo, l’occhiuto sistema informatico cinese, che scruta o prova a scrutare - ogni post, messaggio, testo, video che i cittadini caricano su internet.

La lobby dei media tradizionali ha perduto la partita del 18 gennaio perché ha combattuto una guerra già perduta, quando i giornali hanno diffuso gratis i propri testi a metà degli Anni Novanta, quando - prima degli iTunes e Jobs - la musica e i film si sono scaricati senza problemi, con siti come Rojadirecta che permettono di vedere tutte le partite di calcio senza pagare. Non è con una museruola goffa che il problema si affronta. Ma un problema esiste: il lavoro intellettuale, di un cronista, una rockstar, un regista, un attore, come si tutela? La quantità gratis può uccidere la qualità pay, tema che già nelle news è rovente. Google, eBay, Amazon, Facebook sono state perfette nell’ammantarsi di libertà ieri, ma sono aziende con bilanci e profitti. Assurdo imporre loro di controllare ogni riga, ogni immagine, ogni link dei milioni che ogni giorno il web genera. Impossibile pensare però che possano per sempre essere considerate non profit alla Wikipedia. E farà discutere, ancora ieri, una sentenza della Corte Suprema che riconosce il diritto d’autore, anche per temi musicali, libri o video che pure siano considerati «di pubblico dominio», una scelta, in un certo senso contraddittoria rispetto alla disfatta Sopa. Del resto lo studioso Shirky, guru del «web libero» twitta ieri «sarà ancora una lunga battaglia».

La soluzione, molto probabilmente, non sta oggi nella lenta politica, ma ancora nella veloce tecnologia e rapida cultura. Tablet, iPad, Kindle, smartphones offrono nuove piattaforme di consumo e crescita per aziende, artisti e giornalisti che vivono di contenuti. E’ curioso, e in un certo senso confortante, che il primo autore a vendere solo online oltre un milione di e-book, i libri elettronici, senza casa editrice o agente letterario, prezzo fisso 0,99 centesimi di dollaro di cui 0,35 vanno allo scrittore, si chiami John Locke, proprio come il padre dell’illuminismo liberale.

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« Risposta #20 inserito:: Gennaio 21, 2012, 10:58:04 pm »

Economia

21/01/2012 - economia-nuovi equilibri

"Ci aspettano anni di bassa crescita Dobbiamo riuscire ad adeguarci"

L’economista indiano Rajan: capitalismo e imprenditoria sono da preservare

Gianni Riotta
Chicago

Alla Booth School of Business, nel freddo di Chicago, il professore Raghuram Rajan, in camicia scozzese, sembra appena un fratello maggiore dei suoi studenti, i laureandi che andranno a breve a fare i manager nel mondo della più grande crisi dopo il 1929. Niente di quello che hanno imparato sui classici, Smith, Keynes, Schumpeter, Taylor, la «scuola austriaca», appare più in grado di rilanciare la crescita e creare quei posti di lavoro che emigrano verso Cina, Brasile, India dove, a Bhopal, Rajan è nato e cresciuto. Davanti al suo ufficio quello del collega italiano Luigi Zingales, che con Rajan ha scritto il saggio «Salvare il capitalismo dai capitalisti» da Einaudi: e lo stesso editore tradurrà, a marzo, «Faultlines», linee di frattura, il lavoro di Rajan che rivoluziona il giudizio sulla crisi.

Consulente del premier indiano Singh, a lungo capo economista del Fondo Monetario, Rajan legge le nostre difficoltà non solo in economia, ma anche nella società e tra le famiglie: «Non bisogna guardare alla crisi partendo solo dagli ultimi anni. Il ceto medio si sta impoverendo. I governi provano a reagire, espandendo il credito - strategia che ha più rapido impatto rispetto a stimolare la crescita nel lungo periodo - e lo fanno proprio per far fronte alle preoccupazioni del ceto medio, ritrovandosi alla fine con la crisi delle banche. L’invecchiamento della popolazione comporta un costo che può essere sostenuto solo dall’incremento dell’efficienza. Questo non significa che possiamo permetterci già di ridurre l’intervento statale. No: la novità radicale cui la crisi ci obbliga è realizzare nuovi tipi di interventi governativi. Dobbiamo preparare studenti e lavoratori al mercato del lavoro futuro, non a quello passato. Al tempo stesso rendere il settore finanziario stabile. Uno sforzo ingente».

Rajan è stato il primo teorico a vedere come l’espansione dello stato sociale dagli anni ‘50 ai ‘70, accompagnata dalla rivoluzione tecnologica e malgrado le riforme di Reagan e Thatcher, non abbia saputo insegnarci a crescere nel mondo globale. Illusi di restare «primi», abbiamo puntato sul debito, pubblico o privato, raccogliendo quelli che l’economista Cowen chiama «i frutti dei rami bassi», la crescita facile. «La crisi è una tragedia per la classe media, colpita sul lavoro e la pensione. Chi entra oggi nel mercato del lavoro sa che la possibilità di avere un futuro comporta la riduzione dei “privilegi” di una volta, soprattutto in paesi europei come Italia o Germania. Ora i governi devono puntare su un’adeguata formazione per le persone e la stabilità del settore finanziario. Il progresso tecnologico rende la formazione acquisita in passato non adeguata a competere sul mercato. Anche il mio lavoro di docente universitario, si deve confrontare con la possibilità che un bravo professore offra gratuitamente su internet le proprie lezioni. Come difendo il mio lavoro? Il valore aggiunto è la creatività, che però non è alla portata di tutti. Però tutti sono chiamati a cambiare per preservare il benessere. Non sarà facile». Oggi, a un convegno della Fondazione Italcementi ne parleranno due donne, Emma Marcegaglia e Susanna Camusso, che guidano rispettivamente l’associazione delle aziende e il più grande sindacato italiano: come creare e difendere l’occupazione? «Negli Stati Uniti l’80% dei posti di lavoro si concentra nei servizi, l'occupazione cala nel manifatturiero. Focalizziamoci sul terziario, professionalità di alto livello e servizi non specializzati. Non possiamo proteggere il mercato del lavoro mantenendolo immobile, il protezionismo si aggira. Ricordiamo i posti di lavoro perduti, ma non sappiamo indicare le professionalità nuove da sviluppare. Sono loro la crescita, là si crea una forza lavoro adeguata, tra sanità e formazione. Ci deve essere dialogo tra Università, imprese e istituzioni locali».

L’opinione pubblica spesso finisce per prendersela con la «globalizzazione». L’astio per il mercato globale unisce destra e sinistra, Tea Party e Occupy Wall Street. «India e Cina sono due enormi paesi, ma spesso nell’occidente industrializzato, li si considera solo una minaccia: “Come possiamo competere con questa massa di lavoratori”? Si dimentica che ogni lavoratore che raggiunge un certo benessere è un consumatore, che aspira ad acquistare i prodotti fabbricati in occidente. Possiamo guadagnare tutti, il mercato si è evoluto. L’Occidente guardava a India e Cina come a un riflesso di sé: ora deve invece produrre tenendo conto del mercato reale dei paesi emergenti, e non di un’immagine falsa. Il mercato reale in Asia e America Latina è un’enorme classe media, che magari guadagna diecimila euro l’anno quando si trova in una condizione di benessere. Cosa produrre per raggiungerla? I prodotti che hanno successo là, non sono gli stessi che funzionano tra noi. Le aziende dei paesi industrializzati devono rinnovarsi per i mercati nuovi, capirne le necessità».

Forse l’esperienza di Rajan, nato in una città indiana sinonimo di sofferenza, Bhopal, e attivo nella frenetica metropoli della Borsa “futures”, Chicago, lo persuade che la crisi non sarà Apocalisse. Abbiamo perso privilegi, ma ne verremo fuori: «Questo è il momento più critico nella storia del capitalismo. Se rivolgiamo lo sguardo al passato, iniziamo a dire “no, questo non funzionerà”, “abbiamo paura degli emergenti”, “addio al futuro”. Se i governi soccombono al populismo, rischiano protezionismo e conflitti. Abbiamo già vissuto questa reazione negli anni Trenta, ma dopo crisi e guerra abbiamo avuto lo stato sociale, possibile perché, dopo le devastazioni, vi era la previsione di lunga crescita. Sperando di non arrivare a nuove guerre, dobbiamo rimodellarci per anni di crescita contenuta. Spero che la fiducia prevarrà, che le riforme saranno accettate senza troppa rabbia contro il sistema. Non perché il sistema funzioni perfettamente, dobbiamo ridefinire l’intervento pubblico, formare la forza lavoro, stabilizzare la finanza. Ma il capitalismo, l’imprenditoria libera, sono da preservare».

da - http://www3.lastampa.it/economia/sezioni/articolo/lstp/439160/
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« Risposta #21 inserito:: Febbraio 07, 2012, 11:19:07 pm »

7/2/2012

La neve, un caso d'autocoscienza nazionale

GIANNI RIOTTA

L’ondata di freddo che ha colpito l’Europa, conferma di variazioni climatiche che andrebbero studiate con serietà, si lascia dietro centinaia di morti. In Ucraina sono oltre 130, per ipotermia o congelamento. In Polonia le vittime sono, mentre scriviamo, 53 e il premier Tusk ha tolto il bando contro l’ammissione degli ubriachi nei dormitori pubblici, dopo che otto vagabondi sono morti in una sola notte.

L’agenzia Reuters calcola in 10.000 i civili intrappolati da un metro di neve in Bosnia, alcuni hanno passato 24 ore all’addiaccio. In Serbia sono 70.000. In Ungheria tre morti per congelamento, sei in Lituania. A Londra, scrive il New York Times, i fiocchi hanno raggiunto solo i 20 centimetri, con 800 voli cancellati all’aeroporto di Heathrow, che tredici mesi fa si paralizzò per una nevicata. La mitica metropolitana di Londra funziona a metà. Molte autostrade e svincoli impraticabili, la Metropolitan Police ha chiesto ai cittadini di restare a casa nel week-end. In Francia 5 morti, tra cui un dodicenne. Secondo l’agenzia Bloomberg, Edf, il maggiore generatore di energia d’Europa, è a rischio per sovraccarico di domanda. Edf smentisce

L’ intero continente condivide le sventure del nostro CentroNord, assiderati, trasporti in tilt, scuole chiuse, strade congestionate, disagi. Solo in Italia, però, la neve diventa autocoscienza nazionale, con l’opinione pubblica a inveire contro «la politica», i leader a litigare fra loro in uno spettacolo che, soprattutto nella capitale Roma, ha punte di petulanza comiche e indecorose, cercando «colpevoli» qui e là. Riletto il bollettino di guerra meteorologico europeo, con l’eccezione di Roma e di parte del Lazio, l’Italia ha sofferto come tutto il continente. Vale dunque la pena capire perché questo sia ormai, dal naufragio della Concordia, al maltempo, alle sconfitte della Nazionale di calcio, Dna nazionale. Gli studiosi del costume italiano potrebbero dire che solo da noi esiste il proverbio «Piove, governo ladro», che gli inglesi sono fieri del loro «stiff upper lip», tenere duro nelle difficoltà, i tedeschi del «Beruf», fare il proprio dovere al lavoro e oltre, i francesi dell’identità comune della «République». Ciascuno di questi luoghi comuni ha verità e falsità, per individuarle basta un libro di storia o una rivista d’attualità, ma se la nostra Repubblica invece si batte il petto, litigando sprofondata nel malumore, le ragioni devono essere più profonde, importanti.

Certo, la storia della nostra politica, recente e no, indebolisce l’«interesse nazionale comune». I treni vanno modernizzati, le autostrade e gli aeroporti portati a livello del XXI secolo e le città dotate di piani antineve razionali? Sì, ma non servono polemiche, meglio visioni «bipartisan», progetti condivisi, collaborazione politica, società civile, imprese. Invece risse. Pensate alla grande occasione Expo 2015, pensate alle possibili Olimpiadi in Italia. Nel 1960 a Roma e nel 2006 a Torino le organizzammo alla grande, ma in spirito unitario: ora invano quello spirito si cerca da Nord a Sud, dall’Expo ai cerchi olimpici.

Vent’anni di crociate pro e contro Berlusconi rendono spinoso ogni ragionamento equilibrato sulle infrastrutture, essere pro o contro il Ponte sullo Stretto, la Tav, il raddoppio di certe autostrade, l’hub a Malpensa o Fiumicino, non è confronto oggettivo di costi e benefici, fattibilità, è ordalia, scontro di fedi, guerra fredda di opinioni malmostose e poco informate. La neve potrebbe essere occasione per calcolare, senza rancori, cosa non ha funzionato, dove si può rimediare, quali snodi aprire nella burocrazia, come rendere Roma meno soggetta alla paralisi (New York muta, con un semplice rostro attaccato al parafango, ogni camion in spazzaneve: idea replicabile?). Invece il sindaco della Capitale pensa al proprio futuro, il governo deve difendere la Protezione civile e quell’organo importante paga il prezzo per anni di spettacolarizzazione e show eccessivi.

Infine, ed è questo il discorso più difficile da fare e ascoltare ma più necessario, nessun piano, nessun sindaco, nessuna Protezione civile, nessun governo o piano delle infrastrutture ci metterà per sempre, e tutti, al sicuro. Non tutte le calamità sono prevedibili, non tutti gli eventi naturali sono, come scrivono i polemisti storpiando il povero García Márquez, «annunciati». Potremo attrezzarci alla grande, e in perfetto spirito unitario, potremo riportare il nostro come si dice con parola frusta - «territorio» all’armonia che sogniamo avesse un tempo e non ha invece mai avuto, pure subiremo la furia della Natura.

I nostri antenati, nel terremoto di Messina o nel Polesine, avevano altro da fare che non litigare. E come loro, anche oggi tanti si sono comportati con stoicismo, e ironia, sotto la neve. A ben guardare, specie sui new media, la nevicata ha imbiancato due Italie. Non «Politica» contro «Società civile», nel duello facilone al crepuscolo della II Repubblica. No, un’Italia viziata dal benessere, poco pronta a farsi carico di un disagio benché minimo, non solo il «ceto politico», ma tutti coloro che si fanno «gli affari propri», detestano le tasse per poi indignarsi se il garage è bloccato dalla neve. Ceto di privilegiati, indispettiti e insofferenti, vicini ai media, ai luoghi del potere, dove subito arrivano le telecamere. Solo ieri la tv è arrivata invece a Campagnano di Roma, dove come a Sutri e in altri centri dell’Alto Lazio, le comunità rurali soffrono bloccate. Là niente isteria: lavoro, contare su se stessi, Italia «d’altri tempi» nel 2012. E così è andata anche, dal Piemonte alla Lombardia, al Nord.

Mentre sull’Europa nevicava, la tempesta del debito non dava requie dalla Grecia sull’orlo del default, a Spagna e Portogallo. Ma vari osservatori internazionali incalliti, cinici, speculatori, non gente che ci voglia bene, cominciano a abbassare la scommessa del rischio sull’Italia: perfino Walter Russell Mead, il più duro degli storici americani, mi dice «E’ incredibile, ce la fate anche stavolta». Spero abbia ragione. Se ce la «faremo» sarà perché le élites del governo di Mario Monti hanno saputo comunicare con l’Italia migliore, borghese e popolare, urbana e rurale, che tiene anche sotto la neve. Sempre, nella nostra storia, quando élites e gente comune lavorano insieme ce la siamo cavati. E se la sfanghiamo col debito, figuriamoci con i fiocchi di neve.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9747
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« Risposta #22 inserito:: Febbraio 19, 2012, 10:33:53 am »

19/2/2012

Le vite degli altri e gli eccessi dei new Google

GIANNI RIOTTA

Il Minatore di Dati non scende sottoterra, scopre le sue pepite d’oro nei motori di ricerca Internet, non ha l’elmetto con la lampadina ma computer e software sofisticati, non rischia di esplodere con il grisou ma su una legge a tutela della privacy online. Il presidente Obama affida le speranze di rielezione al Capo Minatore Dati Democratico Rayid Ghani; Google e Facebook contano di sbancare il mercato con i loro Giacimenti di Dati; aziende, grandi e piccole, vogliono cavarsela nel 2012 di recessione grazie ad abili Minatori di Dati.

Tra i dati scavano intelligence e terroristi, pirati informatici e sociologi, predicatori e commessi viaggiatori del web. Tutti a caccia del prezioso metallo virtuale che sono le nostre professioni, la nostra vita, le foto, gli affetti, i consumi, le mail personali e di lavoro. Chi meglio connetterà via «data mining», lo scavo dei dati, la massa di materiale che ogni giorno immettiamo online diventerà leader politico o monopolista del web. La partita per accedere, controllare, lanciare sul mercato, svendere oppure proteggere e custodire i nostri dati - oggi nei singoli computer, domani nei megadepositi collettivi chiamati «clouds», nuvole - sarà decisiva per definire natura e qualità di mercato, società, democrazie.

Quando vi collegate con il possente motore di ricerca Google è possibile notiate, in basso sul vostro schermo, una riga color grigio perla con tocco di rosso che vi avvisa di «Nuove norme sulla privacy e termini di servizio». Si vede appena, chi di voi ha cliccato sulle burocratiche informazioni che scatteranno dal 1 marzo alzi la mano. Eppure fareste bene a leggere, perché le «nuove norme» specificano che i vostri dati resteranno «per sempre» nel sistema, saranno condivisi da tutti i servizi del motore di ricerca, anche da quelli che mai voi avete usato o magari neppure conoscete, la posta Gmail, i video di YouTube, le mappe di Earth, il nuovissimo sistema operativo Android, Voice, Chrome, Wallet.

Se pensate che la novità e i Minatori di Dati non vi riguardino ascoltate Richard Falkenrath, numero due dell’Antiterrorismo americano dopo l’11 settembre e oggi studioso al Council on Foreign Relations: Falkenrath auspica, negli Usa e in Europa, leggi di difesa della privacy online perché, «pur se renderà meno facile l’antiterrorismo», il «diritto all’oblio» è indispensabile a individui e democrazie contro i dati custoditi e negoziati online per sempre. Falkenrath cita il caso della scuola dei suoi figli dove - come in tante medie e licei Usa - in cambio di email gratuite, e-books e altri sussidi didattici del programma Apps for Education, Google ottiene accesso ai dati degli studenti «in Aeternum», per sempre.

Il guru antiterrorismo Falkenrath scopre, con amarezza, che le tecniche da Minatore di Dati da lui usate inseguendo al Qaeda sono impiegate per analizzare i gusti dei suoi figli e far affluire loro, via computer, le pubblicità più gradite, abbigliamenti, elettronica, sport. La posta Gmail - che ha trasmesso questo articolo a La Stampa - può connettersi con Picasa, software gratuito per le fotografie. Picasa riconosce i volti delle foto che i ragazzi mettono online, risale al luogo e alla data in cui sono state scattate, scheda chi c’era e quando. Strumenti utili alla polizia, ma anche al marketing per seguire i teen ager dalla discoteca, al centro commerciale, allo shopping online, confrontando i loro dati con quelli degli amici.

Google è già andata sotto accusa per avere infranto le - pur esigue - leggi sulla privacy. Due anni fa raccolse dati WiFi senza permesso per il programma Street View, e di recente un ricercatore dell’Università di Stanford ha scoperto che l’azienda permetteva accessi illegali alle agenzie turistiche per spiare i clienti sul browser Apple Safari. Neutralizzati i «cookies» di Safari, semafori d’ingresso informatici, i Minatori di Dati entrano a casa vostra, in segreto.

Ora l’Unione europea vorrebbe leggi più efficaci, ma lo sbarco in Borsa di Facebook che mira a 75 miliardi di euro in valore, il boom di Google, la guerra sotterranea contro Twitter, si basano sull’accessibilità delle Miniere di Dati alle vostre vite, idee, opinioni, gusti e consumi. Se è facile ottenerli, studiarli, venderli e scambiarli, il valore delle aziende sale. Se Congresso Usa e Unione Europea difendono la privacy, scende.

Non pensate solo a blue jeans o alla settimana bianca. Il professor Ghani fa per la campagna di Obama lo stesso lavoro, scava «Metadati» - segnatevi questa parola perché deciderà del vostro futuro - analizza cioè dove sono gli elettori, di che cosa si interessano, frulla le opinioni su aborto, economia, Wall Street, lavoro, conduce mini sondaggi e, se le mail che analizza, le foto che osserva da Facebook, i tweet che raccoglie, lo segnalano, suggerisce al presidente slogan, idee, progetti adatti all’umore americano del giorno.

La battaglia sulla privacy online durerà a lungo, con due bizzarrie. La privacy che, a parole, ci sta a cuore, la «autovioliamo» noi stessi ogni giorno, con il «post» di foto e storie che crediamo «riservate» e che finiscono ai Minatori di Dati, commerciali e politici. E davanti a regole contro l’arbitrio dei Minatori, Google, Facebook, Youtube, Amazon, Twitter, si muteranno in Robin Hood della «libertà sul web», i gonzi abboccheranno, i furbi scaveranno con vanghe informatiche quei Dati preziosissimi che nulla sono se non le nostre vite.

twitter @riotta

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« Risposta #23 inserito:: Febbraio 23, 2012, 11:29:13 am »

23/2/2012

Leader-centauri per governare il mondo globale

GIANNI RIOTTA

La Carnival corporation, nota in Italia per il naufragio Concordia, è celebre invece negli Usa del dibattito fiscale perché, con 11,3 miliardi di dollari in profitti (8,70 miliardi di euro) paga in tasse un'aliquota da sogno per ciascuno di noi, l'1,1%.

E badate, senza nessun sospetto di evasione fiscale, solo usando con abilità il codice fiscale americano gruviera. Mentre Washington impone, per legge, una severa aliquota del 35% alle corporations, spesso più alta di quelle in uso in Europa, in realtà i «loopholes», le scappatoie del sistema permettono, legalmente, alla General Electric di pagare il 14,3%, alla Boeing di cavarsela col 4,5 e a Yahoo di saldare il conto con lo Zio Sam con un virtuale 7%. Delle compagnie di Standard & Poor's 39 pagano meno del 10%, 112 meno del 20%.

C’è chi lavora sulle norme per i profitti ottenuti all'estero, chi sui macchinari acquisiti, i progetti, le ricerche. Le lobbies lavorano ai fianchi il Congresso per ottenere nuovi «loopholes», gli uffici fiscali impiegano legioni di avvocati e commercialisti, il risultato è un mercato distorto, proventi che restano artificialmente lontani dai confini nazionali, aerei comprati non perché servano ma perché innescano riduzioni fiscali, ricerche farmaceutiche che non porteranno mai a un nuovo farmaco, solo a sgravi.

Che il sistema vada riformato lo chiedono da anni politici liberal e conservatori, economisti, le aziende migliori, persuasi che la droga fiscale alteri l'innovazione. Il presidente Obama ha parlato di «sistema peggiore del mondo», invocando novità nel Discorso sullo Stato dell' Unione. E' perciò importante la riforma del codice fiscale per le aziende che l'amministrazione Obama ha presentato ieri, con il ministro Geithner, per ridurre la marziale ed elusa aliquota del 35% a un più ragionevole 28%, eliminando però parecchi - non tutti - «loopholes», e permettendo meno slalom fiscale alle aziende. Da una generazione il sistema fiscale, per i cittadini e le corporations, non conosce seri aggiornamenti ed è dunque importante che la Casa Bianca affronti infine il tema. Non aspettatevi però che, in un anno di elezioni presidenziali, con il ministro Geithner che lascerà l'incarico nel 2012 e in un clima pessimo tra repubblicani e democratici, la riforma vada in porto, almeno nel testo diffuso ieri.

Lo sa il presidente Obama, lo sanno i rivali repubblicani Romney, Santorum, Gingrich e Paul - che si sono affrettati però a promettere i loro totem di riforma fiscale con Romney a parlare di 28% ma per i cittadini -, lo sa il Congresso e lo sanno aziende e lavoratori. L'importanza dell'annuncio di ieri consiste invece nel ridefinire il terreno e i temi su cui si disputerà la grande stagione elettorale 2012-2013, presidenziali Usa e Francia, politiche in Italia e Germania: fisco, imprese, nuovo lavoro, uguaglianza sociale, austerità, sviluppo, tecnologia, rapporti tra i ceti sociali reali del XXI secolo. Non più il «capitalista» con sigaro e cilindro come nelle caricature espressioniste di Grosz contro l'operaio muscoloso che spezza le catene delle vecchie tessere socialiste, con in mezzo il borghese, caro al regista Frank Capra e irriso dalla beat generation. No, le due grandi classi della «società clessidra», con il ceto medio che perde forza al centro e, in alto coloro che possiedono gli «skills», le tecniche del nuovo sapere tecnologico, in basso coloro che non li conoscono ancora, rischiando lavoro, futuro, identità sociale.

I movimenti che hanno polarizzato l'America, più evento mediatico che sommovimento politico, Occupy Wall Street e Tea Party, in apparenza rivali a «sinistra» e «destra», sono in realtà espressione dello stesso scontento contro un'economia che non riesce a dare ai «blue collars», gli operai, come a piccole e medie imprese, le garanzie di sviluppo che il sistema pre-globalizzazione e informatica garantiva. Il codice fiscale di Obama - che auspica anche nuove norme per i cittadini, come già anticipa Romney con il suo 28%, ma sa di non averne ora la forza - è manifesto elettorale, segnale contro le lobbies, ma senza scoraggiare le corporations che, nella globalizzazione, decidono dove fare, e tenere, i profitti. Obama deve dare perfino uno spruzzo di protezionismo, più di propaganda che reale, senza però spaventare i mercati.

Le stesse regole determineranno il duello tra il socialista Hollande e il presidente Sarkozy in Francia. Hollande può oggi parlare di «nuovo negoziato» con l'Europa sullo sviluppo, ma sa bene che non potrà mettere a rischio la credibilità finanziaria di Parigi, già un po' spiumata. Se promette di assumere 60.000 nuovi insegnanti, di rilanciare le 35 ore di lavoro o ritardare i pensionamenti, poco importa: se gli insegnanti non saranno preparati ai nuovi saperi, se i lavoratori non aumenteranno la produttività e il Paese non lavorerà di più e meglio, il suo sogno si infrangerà contro la realtà, come il Mitterrand utopista del primo mandato lasciò presto il posto al Mitterrand pragmatico della maturità. Sarkozy dal podio chiama a un micidiale referendum sulle «regole europee» rischiando un bis del quasi no francese a Maastricht (+1% a favore) e del no alla Costituzione. Scommette per incassare, contro la destra dei Le Pen, un po' di populismo antieuropeo. E' in questo - vedete? - identico al Romney repubblicano che a La Stampa dichiara stentoreo: neanche un centesimo per voi europei!

L’Italia si è affidata ai tecnici di Mario Monti, ma alle urne dovrà trovare radice alla stessa equazione, meno spesa senza tasse folli, austerità e rigore senza perpetuare la recessione, sviluppo senza sussidi ai settori obsoleti dell'economia, lotta ai populismi di destra e sinistra. Nello stesso perimetro e con le stesse regole va al voto federale tedesco la Cancelliera Merkel: difendere le esportazioni e il benessere del suo Paese, senza mandare in bancarotta gli europei debitori e innovando un'economia teutonica blindata sulla carta, ma sui progetti XXI secolo, disegno di software per esempio, meno Valchiria.

E’ stato il filosofo Francis Fukuyama a definire il paradosso del centauro che sarà protagonista della politica di questa generazione: il Populista Tecnocratico. Un leader capace di parlare alle elites di Davos, Bocconi, Harvard, Aspen e Ambrosetti, incoraggiare mercati e ceti produttivi, senza alienarsi però chi si sente tagliato fuori dal mondo globale, dandogli anzi chance vera di maturazione. Clinton e Reagan, Mitterrand e Kohl, avrebbero saputo recitare la parte, un cocktail due terzi Progetto ed Economia e un terzo Slogan e Immagine. Vedremo nella lunga elezione Usa-Ue 2012-2013 chi ci riuscirà. Ma solo in chiave di «Populismo tecnocratico» comprenderete il piano fiscale di Barack Obama che, nella forma odierna, mai entrerà in vigore.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9805
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« Risposta #24 inserito:: Febbraio 26, 2012, 06:18:17 pm »

Economia

26/02/2012 -

L'intervista a Miuccia Prada: "Cerco il bello per essere felice"

L'icona della moda made in Italy: "Sto tornando all’arte, non solo contemporanea. Voglio lavorare sui classici, qualcuno si stupirà"

GIANNI RIOTTA
Milano

La tentazione di mettere a confronto due protagoniste della moda come Elsa Schiapparelli (1890-1873) e Miuccia Prada era forte, ma l’impresa era anche difficile: il Metropolitan Museum di New York ha sfidato se stesso e il risultato è una mostra che resterà aperta dal 10 maggio al 19 agosto prossimi. «E’ un onore», dice Miuccia Prada in un’intervista a La Stampa in edicola (ACQUISTA UNA COPIA QUI).

La regina delle stiliste racconta il processo creativo: «Non penso mai che i nostri vestiti verranno indossati nella realtà, disegnando non penso al corpo fisico. Mi illudo della sua bellezza, dello stile, un po’ come la città ideale, raziocinante, che sognavano nel Rinascimento Brunelleschi e gli altri, ogni edificio parte di un’armonia. Al corpo penso sempre fuori dalla moda, penso al nostro corpo sofferente, martoriato, in pena». Nel lungo colloquio con Gianni Riotta Miuccia Prada, seconda donna più potente del mondo per la rivista Time, tra i venti magnati della moda e tra le 300 persone più ricche al mondo nelle classifiche di Fortune parla di arte, new economy, tecnologia e miti. Infine, una battuta sulla politica e sul governo Monti.

da - http://www3.lastampa.it/economia/sezioni/articolo/lstp/444053/
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« Risposta #25 inserito:: Marzo 01, 2012, 10:56:39 am »

1/3/2012

Giornalisti: le "due campane" non bastano più

GIANNI RIOTTA

«Hai sentito anche l’altra campana? Hai le due versioni?»: il saggio monito che il caporedattore d’un tempo dava al cronista in erba è ancora valido nel giornalismo di web e twitter? Per essere equilibrati bastano i due punti di vista opposti, Tav-No Tav, Berlusconi-antiBerlusconi, Assad-ribelli in Siria o è arcaico esercizio da Ponzio Pilato? Se lo chiede National Public Radio, Npr, autorevole network di 900 radio pubbliche americane lanciate negli Anni 60 dal presidente Johnson, quanto di meglio i media Usa abbiano in anni rauchi di populismo.

Nel suo nuovo manuale http://ethics.npr.org/ Npr spinge i reporter a non accontentarsi più dei «fatti», delle «dichiarazioni», ma a riconoscere che la verità è molto complessa, costituita da voci, versioni e culture opposte, che il «Lui dice...» «Lei ribatte...» non sa illustrare. La svolta di Npr, bastione dell’anglosassone «fairness», equanimità, viene dalla frustrazione per un mondo in cui ormai poco «accade» senza filtri e, soprattutto in politica, ogni «notizia» è curata da «spin doctors», manager dell’immagine che costruiscono realtà posticce a vantaggio dei leader.

Il manuale Npr è accolto con entusiasmo da Jay Rosen, filosofo della New York University e padre del movimento Citizen Journalism, corrente che scommette su Internet per un «giornalismo dei cittadini», più ricco, innervato e vicino alla realtà, grazie a blog e social network, di giornali e tv. Nel suo blog Press Think (sottotitolo alla Marx, Fantasma democratico nella macchina dei media) Rosen elogia Npr, ricordando il caso di un articolo del «New York Times» sul salvataggio di Wall Street dopo la crisi, in cui l’ex presidente della finanziaria Aig, Maurice Greenberg, attaccava la Casa Bianca, «intervento fallito per 170 miliardi di dollari», per essere poi bilanciato da dichiarazioni opposte. Rosen critica la tecnica delle «due campane», perché - a suo avviso - se non si ricordano per intero le responsabilità di Wall Street nella crisi non si può fingere poi che ognuno dica la sua, come a un club. Meglio sbilanciarsi, dare contro Greenberg, prendere parte senza falsi equilibri: è la tecnica in uso su Internet, con i blog a dare la propria versione singola e il lettore a orientarsi come può.

Se la parzialità, rivendicata nei blog come già nella stampa schierata, viene ora adottata anche dai media equanimi, come cambia
l’informazione? Il dibattito di Npr raggiunge il «New York Times» e non senza frizioni.

Il 12 gennaio, Arthur Brisbane, «public editor» vale a dire il giornalista che difende diritti e punti di vista dei lettori anche contro direttore ed editore, pubblica un commento controverso: «Il “N. Y. Times” deve essere il vigilante della verità?» http://publiceditor.blogs.nytimes.com/2012.

I cronisti devono riportare le dichiarazioni di politici, finanzieri, militari obiettivamente, o commentarle già negli articoli, non aspettando gli editoriali? Il Nobel per l’economia Krugman, columnist del giornale, non ha dubbi e il 23 dicembre invita i redattori a ribellarsi contro «la politica della post-verità»
http://www.nytimes.com/2011/12/23/opinion/krugman-the-post-truth-campaign.html?_r=1.

Giusto i temi che «La Stampa» ha affrontato con la filosofa D’Agostini nell’eccellente saggio su «Lady Gaga e Vattimo» http://www3.lastampa.it/cultura/sezioni/articolo/lstp/444035/

Davvero National Public Radio, che forma l’agenda politica di Washington, e il «New York Times», con milioni di lettori online, possono adottare l’unilateralità del blog di un cittadino giornalista nel suo tinello? La discussione aperta da Brisbane preoccupa la direttrice Jill Abramson che scrive direttamente al «public editor», in uno scambio di raro candore: E’ ovvio, sintetizza Abramson, che un cronista debba sempre controllare i «fatti» e le dichiarazioni delle fonti, ma senza relativizzare tutto. In difesa del giornalismo classico Abramson si appassiona: «Naturalmente certi fatti saranno, con legittimità, disputati, e molte affermazioni, soprattutto nell’arena politica, aperte al dibattito. Dobbiamo però essere attenti che anche il controllo dei fatti sia equanime e imparziale, senza scivolare mai nel tendenzioso. Tante voci che strillano chiedendo "Fatti" vogliono in realtà solo ascoltare la propria versione dei fatti».

Chi ha ragione? Il lettore non si aspetti una risposta univoca, e non certo per adesione alla moda del momento! Realtà importanti come citizen journalism e web hanno cambiato per sempre l’informazione. I cronisti verranno sempre più incalzati da versioni e analisi online 24 ore su 24: è un bene per informazione e democrazia. Ma la Abramson ha ragione quando, schiettamente, osserva che spesso sul web la rivendicazione dei «fatti» maschera solo l’opinione di chi scrive. E, come obiettava il vecchio senatore Moynihan, Primo Emendamento alla Costituzione Usa e nostro articolo 21 garantiscono libertà di pensiero, non, purtroppo, di fatti.

Il futuro chiama tutti a maturare. I bloggers non potranno più accontentarsi della propria individuale «verità» e dovranno confrontarsi con chi la pensa diversamente. I giornalisti devono accettare che i vecchi strumenti non bastano più e difendere a testa alta nei new media equanimità, completezza, professione. Perché la questione è ben più antica del duello New Media contro Old Media. Tacito nelle «Storie» (100 dopo Cristo) ammonisce i cronisti contro l’adulazione per il potere, ma anche contro il rancore avverso al potere, più pericoloso del servilismo perché ha - agli occhi del lettore - «falsa sembianza di libertà». E Fred Friendly, padre della tv americana che sfida la caccia alle streghe di McCarthy e finisce nel film «Good night and good luck» interpretato da George Clooney, ammoniva noi studentelli di giornalismo alla Columbia University: «Gentlemen, il nostro lavoro non è convincere la gente a pensarla come noi. Al contrario, è aprire le menti presentando tutti i fatti: così da rendere per la gente la fatica del prendere una decisione tanto intensa che l’unica via di fuga sarà mettersi a pensare».

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9831
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« Risposta #26 inserito:: Marzo 05, 2012, 04:06:35 pm »

5/3/2012

Il conflitto evitabile

Per Pechino e Washington "la guerra è una scelta"

GIANNI RIOTTA

E' scontato che il prossimo conflitto del nostro pianeta veda Stati Uniti e Cina affrontarsi in guerra per l’egemonia? Lo sostengono a Pechino i falchi, persuasi da 3000 anni di timori di accerchiamento del Regno di Mezzo.

Se i marines arrivano in Australia, ci sono manovre militari congiunte tra Vietnam e gli antichi nemici yankee e la US Navy pattuglia l’Oceano Indiano, non si vuole così isolare la Cina? Meglio annunciare un aumento alle spese militari dell’11,2%, per un totale di 85 miliardi di euro (e restano fuori le milizie paramilitari). Altrettanto sostengono i falchi di Washington, per una volta però volando assieme alle colombe: studiosi come Kaplan vedono la guerra avvicinarsi con i monsoni dal Pacifico allo Stretto di Hormuz, a sinistra si crede che l’espansionismo cinese e la mancanza di diritti civili, vedi Tibet, finiranno in un conflitto. Insomma per interessi economici, geopolitica, cultura e valori, è «inevitabile» la guerra Usa-Cina?

Per scongiurare la catastrofe della III guerra mondiale, la prima del XXI secolo, interviene il decano della diplomazia Henry Kissinger, con il saggio «The future of U.S. Chinese relations», che qui anticipiamo dal prossimo numero della rivista Foreign Affairs, e che già sta facendo discutere Casa Bianca e Dipartimento di Stato. Con toni insolitamente appassionati per un cultore della gelida Realpolitik come l’ex segretario di Stato, capace negli Anni 70 di aprire alla Cina, favorire il golpe in Cile, bombardare la Cambogia, chiudere la guerra in Vietnam, scontrarsi con il premier italiano Moro, Kissinger scrive che la guerra può scoppiare, «ma sarà una scelta, non una necessità». Dopo aver criticato gli oltranzisti di Pechino e Washington, Kissinger compie il passo più astuto del buon stratega, cerca di capire quali sono le paure dei contendenti che possano scatenare mosse azzardate. La paura cinese, scrive, è essere accerchiati nei confini nazionali, senza accesso alle vie dei commerci e della comunicazione globale: ogni volta che la fobia scatta, Pechino va in guerra, Corea 1950, India 1962, Urss 1969, Vietnam 1979. La speculare angoscia americana è perdere accesso e influenza sull’Oceano Pacifico, e Kissinger, profugo europeo da bambino, ricorda che solo questo fattore trascina gli Usa in guerra nel 1941.

La preoccupazione di Kissinger è che le due capitali stiano leggendo male le rispettive culture. Se uno studioso come Aaron Friedberg scrive che è indispensabile una «Cina democratica» per restare in pace con gli Stati Uniti e che, di conseguenza, Washington deve sostenere i dissidenti contro il Partito comunista, è possibile che Pechino interpreti la mossa come un’aggressione politica. Reagiscono allora gli strateghi aggressivi alla Long Tao dell’Università Zhejiang, persuaso che la Cina, duellante oggi più debole, non può che colpire per prima, magari in conflitti locali ma che dissuadano l’America dalla guerra globale. E già Long Tao ha invitato Pechino a colpire nel Mar Cinese Meridionale.

Con freddezza che impressiona, Kissinger, l’uomo che col presidente Nixon ha riportato la Cina nel mondo e isolato l’Urss ai tempi della Guerra Fredda, ammonisce i rivali: non fatevi illusioni, lo scontro sarebbe nucleare, feroce e vi indebolirebbe entrambi per sempre. Devastando città ed economia e paralizzando anche, per la prima volta nella storia dell’umanità grazie alla cyber guerra, Internet e le comunicazioni, satelliti tv, Gps inclusi. «Le stesse culture» cinesi ed americane, conclude Kissinger, porterebbero i duellanti a non darsi tregua fino in fondo, lasciandosi alle spalle macerie e vittime.

Né è possibile una strategia di «contenimento» della Cina, come quella che George Kennan disegnò per la Russia, perché l’Urss non costituì mai pericolo economico per gli Usa, solo militare, al contrario della Cina superpotenza industriale e finanziaria. L’alternativa alle armi è l’idea di una «Comunità del Pacifico», con Pechino e Washington a convivere intorno ad organizzazioni tipo Trans-Pacific Partnership, zona di libero scambio economico cui il presidente Obama vuole associare la Cina. Se i due ultimi giganti si legano reciprocamente - sul modello di Usa e Europa - possono risolvere i conflitti negoziando, magari con maratone diplomatiche estenuanti. Washington, Londra, Parigi, Berlino e Roma possono dividersi e riunirsi, ma senza spargere mai sangue.

Presto la dissennata politica cinese di un solo bambino a famiglia vedrà, conclude Kissinger, «quattro nonni competere per l’attenzione di un solo figlio o nipote», la Cina dovrà dividere la ricchezza acquisita su una popolazione tre volte maggiore degli Usa e ormai in media più vecchia. Con l’ascesa al potere di Xi Jinping, nato nel 1953, la Cina, dal vertice ai villaggi, sarà governata da una generazione di leader che non ha conosciuto guerra civile, povertà, violenza: sarà possibile coinvolgerla nella pace, pur di non provocarla a dimostrare di essere patriottica come padri e nonni della Lunga Marcia. È la scommessa più grave del nostro tempo.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9847
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« Risposta #27 inserito:: Marzo 09, 2012, 11:42:42 am »

6/3/2012

Lucio Dalla, la privacy senza maschere

GIANNI RIOTTA

E si farà l’amore, ognuno come gli va...»: il verso della più bella canzone di Lucio Dalla, «L’Anno che verrà», esprime alla perfezione filosofia ed etica dell’artista: liberale, tollerante, discreto. Delle scelte personali, familiari, di preferenza sessuale, Dalla non ha mai voluto parlare in pubblico, neppure quando il clima culturale italiano, ormai assai meno conservatore dei giorni del suo debutto, avrebbe accettato senza problemi una netta dichiarazione di stili di vita.

Pur consapevole dell’affetto del pubblico e della maturazione dell’opinione pubblica, mai Dalla ha deciso di affrontare il tema e solo le persone a lui più vicine, la famiglia, gli amici cari, sanno perché, se per privacy di star abituata da sempre al palcoscenico, pudore di sentimenti da italiano nato il 4 marzo 1943 o discrezione di cattolico ai nostri difficili tempi, tra precetti di fede e tumulto di vita. In uno dei suoi testi vintage, il poco ascoltato retro del 45 giri di Sanremo 1967 «Lucio dove vai?» si chiede «Lucio chi sei tu?

Un vestito diverso non ti cambierà... Lucio chi sei tu? Perché hai coperto col berretto rosso

il grigio che c’è in te? E non sai più perché lo fai. Ridi, ridi. Lucio come stai? Le tue bugie ora le pagherai.

Lucio come stai? Cosa salvi dei momenti colorati che tu chiami vita?...». Un poeta sa dire la verità, anche senza virgolette no?

Chiusa la cerimonia nella cattedrale della sua città, invece, Dalla è stato trascinato in un dibattito postumo sull’outing, la decisione degli omosessuali di vivere a viso aperto la loro vita. C’è chi lo ha criticato per non averlo fatto, chi ha obiettato al doppio standard - tanti davano per inteso che Dalla fosse gay, ma senza dichiararlo -, chi ha accusato i cattolici di ipocrisia per la messa, chi ha preferito prendersela tout court con il nostro Paese, sempre pronto a far finta di nulla e tirare a campare. Coinvolti nella rissa i familiari, ignari e ancora in lutto.

Mi sono chiesto che cosa Dalla avrebbe detto del can can: credo nulla, credo avrebbe, ancora una volta, glissato. Le sue idee di amore, sentimenti, famiglia, erotismo, rapporti stabili o casuali, sensualità, affetti, passioni, flirt, matrimonio, fedeltà, innamoramento, desiderio, le abbiamo chiarissime dalle sue canzoni. Come Lucio la pensasse davvero sulle questioni cruciali di cuore, anima e corpo lo apprendete, amandole, dalle sue parole e note. Il «dibattito» cacofonico e greve, non aggiunge nulla.

Dalla ha fatto una scelta di assoluto riserbo, ma senza nascondersi o mascherarsi, niente false «fidanzate», «girlfriend» o «mogli» per lui come per altri artisti. Ho avuto modo di osservare su Twitter che sarebbe stato opportuno rispettarne il riserbo, non per ipocrisia, tartufesca prudenza o sessuofobia becera. Perché è giusto che ciascuno scelga la propria identità, pubblica, privata, di affetti e valori, e che tutte abbiano pari dignità nella nostra comunità finalmente capace di «fare l’amore ognuno come gli va». Discriminazioni contro qualunque identità sono odiose e vanno contrastate. Ma anche la scelta di tenere per sé e i propri cari l’intimità più importante va tutelata, per le star e per gli sconosciuti. Non è «vergogna» o negazione di sé, è rispetto, vera tolleranza. Nessuno ha il diritto di imporre agli altri un codice, qualunque questo codice sia, e schierare i morti a dispetto della loro volontà da vivi non è anticonformista, è un po’ maramaldo ed è bene che non diventi norma di un Paese civile. Lucio Dalla lo sapeva già, cantando in «Disperato erotico stomp». «Ma l’impresa eccezionale, dammi retta, è essere normale...».

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9848
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« Risposta #28 inserito:: Marzo 10, 2012, 03:49:11 pm »

10/3/2012 - QUI ITALIA

Evitiamo lo scontro tra opposte demagogie

GIANNI RIOTTA

L’arciere Arjuna, eroe del capolavoro epico indiano Mahabharata, non vuole andare in guerra.
Combattente valoroso, sa che uccidere innocenti, anche se nemici quel giorno, ferirà per sempre chi sopravvive. Sul campo di battaglia a Kurukshetra, Arjuna interroga sulla «guerra giusta» il dio Krishna, non vuol spargere sangue fraterno – come sarà invece costretto a fare con il fratello-rivale Karna - e, per la prima volta nella storia dell’etica umana, si tormenta, come poi generazioni di combattenti: che diritto ho di ammazzare? Chiunque cade è mio fratello! Il dio Krishna gli risponde con parole e morale possenti: devi fare il tuo dovere, il destino degli uomini è nelle mie mani, non nelle tue. Quel capolavoro, madre dell’epica nella madre delle lingue, il sanscrito, è patrimonio indiano comune all’umanità: e nel groviglio che sta diventando il caso dei pescatori uccisi e dei militari detenuti non saprei trovare guida migliore.

Il primo errore da evitare è infatti lo scontro «culturale», NOI-LORO. I demagoghi ci provano, nazionalisti che vogliono dimostrare come l’India sia ormai «potenza», sciovinisti che chiedono a Roma di reagire ancora da «potenza». E alle famiglie dei lavoratori morti e dei militari detenuti non basta a consolarsi la saggezza amara di Arjuna. Occorre risolvere la vicenda presto, al netto degli errori commessi da Roma e Nuova Delhi per precipitazione, senza lasciare la regia ai populisti. L’India ha un passato così formidabile, rinverdito dalla saggezza di Gandhi, da non dover «provare» nulla sulla pelle di due soldati che, come Krishna intima ad Arjuna, hanno fatto il loro dovere, spargendo tragicamente, come Arjuna, sangue fraterno, non già di nemici. Né l’Italia deve, per falsa coscienza «post coloniale», abbandonare i suoi graduati.

Due nazioni amiche, due culture antiche, possono agir bene e con reciproca soddisfazione. Chiunque provi a vincere la mano forzando, avrà effimero successo, ma alla lunga pagherà un prezzo feroce. Economico, diplomatico e, varrà pure qualcosa se italiani e indiani tanto siamo fieri del nostro passato, etico. L’Italia ha commesso quello che molti considerano un errore grave, lasciar scendere Latorre e Girone con gli zaini affardellati, dalle sicure acque internazionali e dalla protezione della bandiera tricolore verso l’incertezza del carcere.

L’India, con la maestà di più popolosa democrazia della storia, non deve approfittare del passo falso trattenendo i soldati. Sarebbe errore speculare: perché chiunque abbia consigliato, o peggio ordinato, a Latorre e Girone di sbarcare, l’ha fatto fidandosi di lealtà e amicizia indiana. Dimenticarlo renderà a lungo difficili le relazioni tra i due Paesi.

L’animosità politica, in India e in Italia, impedisce agli uomini saggi di far valere, speriamo solo per ora, il punto cruciale. Il maresciallo Latorre e il sergente Girone non sono turisti fermati per un borseggio. Servivano in quello che è, per l’Europa e per l’India, il dovere vitale di tenere le vie d’acqua dell’Oceano Indiano libere dai pirati. Sono protetti dalla Convenzione di Montego Bay del 1982 e dal diritto internazionale.

Il governo e i giudici indiani prendano atto dello scopo della missione, nel corso della quale, come ogni soldato da Arjuna a noi, si può certo errare: tenere sicuro il mare, non per l’Italia o un armatore, ma per l’interesse internazionale. Ad Hormuz e in Somalia unità americane hanno soccorso navi iraniane contro i pirati, amici per un giorno nella legge universale del mare. Altrimenti al lutto per gli uccisi si unirà l’ingiustizia subita dai nostri soldati. L’India si accorgerebbe presto dell’ingenuità commessa. La guerra alla pirateria passerebbe in mano a contractors privati, che hanno dimostrato in Iraq quanto poco considerino la vita dei civili, i pirati pullulerebbero, con danno per il boom economico indiano. New Delhi scoprirebbe, con sorpresa, come la ferita immeritata inflitta agli italiani allarmerebbe Washington, gelosa di un antico alleato e impegnata nel pattugliare gli oceani. Perfino l’Europa dell’ignava Lady Ashton interverrà infine, ansiosa che altri soldati passino per le forche caudine.

Tantissimi precedenti diplomatici tra Paesi amici indicano la strada maestra della conciliazione, con soddisfazione reciproca. Risarcimento alle famiglie, che senza lenire il dolore indica rispetto e cordoglio solidali. Estradizione per Latorre e Girone e giudizio in Italia, con piena tutela e partecipazione civile per le vittime e il diritto indiano. Il tempo stringe per una soluzione negoziale. Le opposte incertezze e forzature non sono ancora irrimediabili, presto lo saranno. Chiunque provasse a «vincere» perderà: meglio affidarsi alla saggezza immortale di Arjuna e Krishna.

twitter @riotta

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« Risposta #29 inserito:: Marzo 14, 2012, 07:19:24 pm »

14/3/2012

Quel litro di benzina misura il malumore

GIANNI RIOTTA

Oggi la benzina è rincarata. È l’estate del quarantasei. Un litro vale un chilo d’insalata...» canta Paolo Conte nella sua vecchia ballata dedicata alla Topolino amaranto.

E da allora il prezzo della benzina è per gli italiani l’indicatore economico primo. Rozzo, simbolico, casalingo, quel che volete, ma prima che tutti ci avvezzassimo allo spread BundBtp, quando Standard&Poor’s erano meno familiari dei grandi magazzini Standa, ora Billa, e quando nulla sapevamo del trading online, bene, che un litro di super valesse un chilo di insalata, o giù di lì, lo sapevano tutti. Non siamo i soli a ragionare così, per generazioni di americani il biglietto, prima ancora il gettone, della metropolitana di New York doveva avere lo stesso costo della fetta di pizza e il «New York Times» calcolava il costo della vita comparando subway e Napoletana.

Ancora oggi, del resto, il raffinato settimanale d’affari «The Economist» pubblica un indice McDonald’s stimando le metropoli più esose con un borsino che confronta il prezzo locale del Big Mac. Non c’è dunque da stupirsi se, appena lenite le ansie per la crisi europea del debito, dalla Grecia all’Italia, la gente si fissi sulla benzina come totem delle paure. Una scuola di economisti Usa già definisce i nostri giorni «era dell’ansietà» e se uno studio di Banca Intesa-Sanpaolo conferma che la famiglia media italiana spende ormai al mese 470 euro per benzina e carburanti contro 467 euro per il cibo, la realtà è chiara. I consumi alimentari sono tornati al livello del 1980, quando la Nazionale di Enzo Bearzot si apprestava a diventare invincibile e Urss, Dc, Psi e Pci sembravano eterni.

La benzina rincarata frena gli altri consumi, e sul bidone di petrolio greggio Brent la nostra fobia del futuro si appalesa come sul lettino psicoanalitico del dottor Freud. A un seminario di «The Ruling Companies», lunedì, l’amministatore delegato Eni Paolo Scaroni ha calcolato che sui 125 dollari del prezzo del greggio oggi, la paura di una guerra con l’Iran pesa per ben 20 dollari. Se Obama, Israele e gli ayatollah si rappacificassero oggi stesso il greggio scenderebbe di botto a 100 dollari. L’irrazionalità dei mercati globali pesa in casa nostra con la paranoia sul riscaldamento, il pieno per la gita fuori porta, il motorino dei figli: benzina che rincara e noi a scegliere, come Paolo Conte, tra super senza piombo e insalata.

Il presidente americano Barack Obama ha colto questo clima teso, perché nel paese che era abituato a pagare un dollaro per un gallone, quattro litri, di benzina vedere oggi al distributore prezzi «europei» rischia di essere un handicap verso la Casa Bianca. Se Obama lancia un caso internazionale contro la Cina sulle Terre Rare, preziosi minerali indispensabili allo sviluppo, lo fa solo per dire agli operai e al ceto medio furioso per la benzina: vedete? Alzo la voce con Pechino! Tutti noi, quando i numerini girano come un flipper al distributore, dobbiamo ricordarci del mondo che, come nel Quarantasei, ci impone i suoi prezzi. Nella stessa conferenza Scaroni ricordava che, al netto dei profitti Eni e delle imposte, il prezzo del gas e i suoi rincari vengono decisi in poche, e lontane, capitali. Ma il governo dei tecnici di Mario Monti, che ha evitato la crisi peggiore con le scelte d’inverno, non deve sottovalutare il cattivo umore popolare sulla benzina di chi non legge il «Wall Street Journal» e non ha mai aperto Forbes.

Il rigore senza consenso costante può innescare populismo e le scelte migliori possono essere male interpretate da chi deve arrivare a fine mese. Raghuram Rajan, il grande economista, ci indica nel suo saggio appena tradotto da Einaudi come il ceto medio stenti molto dopo la crisi 2008, pressato dalla nuova economia del lavoro sempre precario. Allora occhio alla benzina e occhio alla paura e al malumore che si possono diffondere. Non bacchettiamo mai nessuno, spieghiamo ogni scelta, proviamo a non bloccare neppure i consumi più elementari. Non è solo un gran bene per la nostra economia, è un gran bene per la nostra politica, società e democrazia, oggi come nel Quarantasei.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9881
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