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Autore Discussione: Gianni RIOTTA -  (Letto 84807 volte)
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« Risposta #45 inserito:: Agosto 01, 2012, 07:44:32 pm »

1/8/2012

Tutte schiappe alle Olimpiadi dei tweet

GIANNI RIOTTA

Avevamo scritto che quelle di Londra sarebbero state le Olimpiadi delle Donne e dei Social Media ma non avremmo mai immaginato una nuotatrice più veloce degli uomini come la cinese Ye Shiwen, né che Pechino la difendesse dalle accuse di doping online, mobilitando il canale ufficiale dei blog Weibo. E chi poteva pensare ad atleti squalificati per messaggi su Twitter, giornalisti scacciati per un tweet ostile al gigante tv americano Nbc, e poi frettolosamente reintegrati, tifosi arrestati per critiche via web a un campione?

Andy Miah, docente di New Media all’Università del West Scotland, parla già di «Ingenuità: gli atleti non sono preparati ad usare Facebook e Twitter non più tra amici, ma davanti al mondo intero». La Papachristou, triplista greca cacciata dal Villaggio Olimpico per un tweet razzista a luglio, usava i new media da pochi giorni, ignara della differenza tra casa propria, Internet, il mondo. Stessa sorte al giocatore del Palermo Morganella, nazionale svizzero, squalificato per razzismo online contro i coreani. Per due nuotatori australiani, D’Arcy e Monk, una foto su Facebook in posa con pistole autentiche come i gangster è bastata a far scattare la squalifica della Federazione: finite le gare a casa, e per due mesi nessun accesso online.

E’ la condanna più dura per i ragazzi del Villaggio, la censura di Internet, spento il computer, bloccato Facebook, niente smartphone. Scambiano il web per una festicciola tra amici, e si perdono in diretta globale. I new media sono esplosi, nella società e nello sport, nei quattro anni dai Giochi di Pechino a quelli di Londra. Allora i tweet, messaggini di 140 lettere con cui ci si tiene in contatto con amici per i teenager, con i fans per i campioni, furono solo 300.000 al giorno, oggi sono 400 milioni. Twitter aveva 6 milioni di iscritti, oggi ne ha 150 milioni. Facebook nel 2008 era usata da 100 milioni di persone, ora sta per diventare la «nazione» più popolosa al mondo, 900 milioni di cyber-cittadini. Il Consulente del Cio von Hoffman calcola che tra computer e telefoni un miliardo di persone seguiranno i Giochi on line. È stata perfino creata una truffa elettronica ad hoc che distribuisce finti premi per una Lotteria Olimpica.

Le Olimpiadi di Londra si erano aperte al web, nominando perfino – reazione tipica della burocrazia a 5 cerchi - un Direttore Social Media, Alex Huot, e stilando - poteva mancare? - un «Codice d’onore» per gli atleti, obbligati a non twittare giudizi sulle gare, gli sponsor (ovvio), gli avversari, nulla di «volgare» o «disonorante». Ma i concetti di estetica, gusto ed onore di un teenager, atleta o tifoso che sia, non coincidono, per esempio, con lo stile del Principe Filippo, ex presidente Federazione Equestre, che in Borsalino di paglia e cravatta regimental a 91 anni ha seguito la nipote Zara medaglia d’argento nell’ippica. Le prime Olimpiadi online attraggono squalifiche, titoli sui giornali e lo studioso William Ward annota sgomento «La regola non scritta “Omertà su quel che succede al Villaggio Olimpico” finisce con le foto su Twitter e Facebook».

Il grande giornalista Gianni Brera favoleggiava degli amori del discobolo Consolini a Londra 1948, o del flirt tra gli sprinter Berruti e Wilma Rudolph a Roma 1960: oggi avremmo le prove online, senza pudore per i poveri innamorati. Le stelle del basket Usa lanciano le foto dei compagni, mezzo addormentati con una coperta e la mascherina sugli occhi, su un altro social media, Instagram. Al Villaggio si entra dopo lunghe perquisizioni ai posti di blocco della Stazione di Stratford, oppure senza controllo alcuno dall’ubiqua Stazione Internet.

La licenza e la libertà globali non tradiscono solo gli sportivi. Un tifoso, depresso perché il tuffatore inglese Daley non ha vinto l’oro, lo insulta su Twitter «Hai deluso tuo padre», ignaro pare che papà Daley è morto per un cancro al cervello un anno fa. Il tuffatore si lagna dell’aggressione informatica, e la polizia, identificato l’utente nascosto dietro la sigla anonima @Rileyy_69, addirittura lo arresta. Zoe Smith, campionessa inglese di sollevamento pesi, finisce vittima dei «trolls», perdigiorno senza nome che si divertono a insultare online a casaccio. Dopo la gara li manda a quel Paese, denunciandoli in diretta tv.

Anche i giornalisti sono travolti nel pugilato senza esclusioni di colpi della Rete. Guy Adams, corrispondente da Los Angeles del quotidiano inglese «The Independent», irritato perché la rete tv Usa Nbc non manda in diretta i Giochi Olimpici, ma in differita, a sera, in cerca di pubblicità, definisce su Twitter il presidente Nbc Olympics Gary Zenkel, «un cretino da licenziare». Zenkel si sarà rivolto ai dirigenti di Twitter che scacciano Adams. Salvo poi davanti alle proteste riammetterlo in tarda serata. Nbc sta bilanciando bene i due media, il nuovo web e la vecchia tv, distribuendo i filmati online a 11,4 milioni di persone, e poi rimandandoli in tv in prima serata. Ascolti ottimi, 36 milioni, più di Atlanta ’96 e Pechino ’06. La differita costa critiche online? Zenkel spera che la lezione inflitta ad Adams moderi gli umori. Perfino il musicista Philip Sheppard, che ha arrangiato la musica degli inni nazionali per le premiazioni nello storico studio Beatles di Abbey Road, s’è visto minacciare di morte su siti, non sempre innocenti, in Colombia: «L’inno colombiano è stato definito il peggiore di tutti!».

La verità è che nessuno al Villaggio Olimpico, sportivi, burocrati, media, tifosi, era pronto al corto ritmo frenetico Internet & Cinque Cerchi. I telecronisti del ciclismo, abituati ad avere in bassa frequenza i risultati parziali delle corse, hanno visto lo spazio occupato dai tweet e chiesto al Cio censura preventiva, negata stavolta. La portiere del calcio Usa Solo rimbecca una telecronista, dubbiosa sulla difesa a stelle e strisce: «Stai zitta, il calcio è cambiato dai tuoi tempi!». La Cina occupa il suo web nazionale, detto Weibo, per difendere la nuotatrice Ye Shiwen dalle accuse di doping, «Usa imperialisti! Noi non insultiamo Phelps!». I troll anonimi, abituati a calunniare senza rischi, meditano per la prima volta sulla chance di finire in cella. Ai Giochi di Rio 2016 saremo tutti abili nell’uso della Rete, come Frangilli nel tiro con l’arco. Per ora, tanti mancano il bersaglio e si infilzano a vicenda. Forse il Comitato Olimpico dovrebbe arricchire l’inutile «Codice d’onore web» con la prima legge del cibernetico Melvin Kranzberg: «La tecnologia non è buona, non è cattiva e non è neppure neutrale». Come una freccia, la tecnologia può infilzare il generoso Robin Hood o il perfido Sceriffo di Nottingham, ma non è mai innocua. Meglio ricordarsene, ai Giochi, in politica, al lavoro, in amore, nella vita.

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« Risposta #46 inserito:: Agosto 12, 2012, 04:21:08 pm »

12/8/2012

Lo specchio del mondo

GIANNI RIOTTA

I missili antiterrorismo sui tetti son rimasti in allerta ma senza sparare, la folla non ha paralizzato i treni della metropolitana Tube.
i soldati son riusciti a sostituire le guardie private rimaste a casa. Spot e sponsor non hanno prevalso sul sudore degli atleti. Londra, con la gotica stazione di St. Pancras, i pub dove si continua a mangiare malissimo, il British Museum svuotato dagli appelli eccessivi del sindaco Johnson «La città sarà invasa!», i negozi di Tottenham e Brixton riverniciati dopo la rivolta dell’agosto 2011, ha fatto da sfondo magnifico, come già nel 1908 e nel 1948.

Le Olimpiadi 2012 finiranno stasera e vedremo se gli organizzatori ci daranno uno show affascinante come al debutto, il 27 luglio, la Elisabetta II Bond Girl e gli «Oscuri mulini satanici» del capitalismo celebrati con il Servizio sanitario nazionale inglese. Tutti noi, chi ammira Usain Bolt e la sua esultanza arrogante da Achille, «Sono leggenda vivente», e chi invece preferisce la modestia del keniano David Rudisha che, senza enfasi come Ettore, segna il tempo record negli 800 metri, abbiamo visto la nostra epoca riflessa nei Giochi di Londra. Atleti cacciati per un tweet di troppo su Internet, atlete ammesse col velo islamico da Paesi debuttanti con la squadra femminile. Le prime medaglie della boxe donne. Un atleta amputato in finale della staffetta 4x400. Dal Sud Africa all’Italia tante squadre multietniche. Un profugo somalo, fuggito alla guerra civile di Mogadiscio, vince l’oro per la Gran Bretagna adottiva. Il nostro confuso, violento, indebitato, tecnologico, globale e ambizioso XXI Secolo protagonista in ogni gara.

Abbiamo visto allo specchio dei Giochi bene e male contemporanei, ogni nazione tessera del caleidoscopio presente. L’Italia ha brillato con le vittorie, dall’arco alla scherma, la solita buona, antica, solida Italia di chi lavora e ha talento. E ha sprecato prestigio col doping di Schwazer, la solita cattiva, antica, deprecabile Italia di chi intriga per mancanza di talento. Gli esperti di sport tireranno i bilanci del campo, flop Pellegrini e nuoto, talk show in piscina, le rapide d’oro di Molmenti che porterà il tricolore d’Italia stanotte allo Stadio Olimpico, l’atletica senza lampi, la boxe tenace del ring sudista di Marcianise. Il nostro medagliere resta nel G 10 dello sport, un po’ come l’economia, 1900 miliardi di debito pubblico, 9000 di ricchezza privata. Siamo poveri e siamo ricchi nei budget come tra i Cinque Cerchi, restiamo in alto, mentre si affermano nuovi Paesi: senza fondi, pratica sportiva nelle scuole, programmi seri, collaborazione pubblico-privati, perderemo rango.

La Gran Bretagna ha vinto, tra gli altri ori che la tengono al terzo posto dietro Usa e Cina potenze globali, il titolo cui teneva moltissimo: l’identità britannica è più precisa nella coscienza del mondo. La Cina è il nuovo impero che conta su un Secolo Asiatico. L’America tiene duro, con il laboratorio spaziale Curiosity lanciato su Marte e con il Dream Team Marziano del basket. Dietro avanzano i nuovi soggetti, l’Egitto sul podio nella scherma come il Venezuela, la Corea del Sud, l’isoletta caraibica di Grenada che, in rapporto vittorie-popolazione, è al primo posto nei Giochi, la Giamaica che celebra mezzo secolo di indipendenza con Bolt&Blake. Le cronache finanziarie si occupano di dollari, euro e yuan?
Bene, la sterlina di Sua Maestà Britannica fa sapere al mondo che le sue glorie non sono finite nel XIX secolo. Una generazione ricordava l’Inghilterra della bombetta, la V e il sigaro di Churchill, il tè alle 5, l’Impero. Un’altra s’è divisa tra Beatles e Rolling Stones, i capelloni, ha applaudito l’economia della Thatcher o il laburismo di Tony Benn. I più giovani hanno suonato i Clash e sognato, o detestato, la nuova sinistra di Blair. I Giochi tatuano la nuova identità inglese nella coscienza del mondo informatico. Il Big Ben risuona, la democrazia di Westminster legifera, la regalità di Buckingham Palace esulta, la New Great Britain, «Team GB» nel gergo dei tifosi, multietnica, elettronica, né americana e neppure europea, non più imperiale ma capace di reclutare atleti ovunque nel mondo, madre della lingua che fa da dialetto comune al Villaggio Olimpico, si presenta al mondo. Siamo antichi, ci siamo aggiornati, ma siamo sempre noi, con più colori, più voci, una storia lunga, dolorosa e magnifica, dicono i padroni di casa.

Tanto rimane da migliorare nelle Olimpiadi. Politici, sponsor, polemisti, fanno ancora troppo chiasso, l’accesso ai biglietti deve essere meno kafkiano, il doping va sconfitto e la pena degli atleti delle dittature, siriani e nord coreani per esempio, speriamo sia meno acuta fra quattro anni. Ma i Giochi restano la grande festa di paese del nostro mondo, la sagra dei nostri pregi e difetti, struscio planetario dove tutti ci incontriamo, tifiamo per la nostra Contrada come nel Palio del Pianeta Terra, invidiamo i successi e la forza degli altri. Tornati a casa impariamo le tecniche che non conoscevamo, e le miglioriamo. Si chiama progresso.

Alla tv tanti bambini hanno visto Bolt fare lo smargiasso, la Idem competere a poco meno di 50 anni, Mitchell degli Stati Uniti finire la sua frazione di staffetta 4x400 con la gamba rotta «Un male cane, ma non potevo tradire i compagni». Si sono ispirati, non a comprare bibite o panini, a competere, allenarsi, faticare, darci dentro, essere leali. Un pugno di loro andrà sui podi del futuro. Tutti gli altri ricorderanno la lezione di Londra nel tran tran in ufficio, al lavoro, la vita normale. Lasciate che cinici e snob ridano di questa tradizione. Per chi ha a cuore il mondo, lo sport, la comunità, i sentimenti semplici, commozione, passione, impegno, fratellanza, agonismo, lealtà, per tutti noi cioè, appuntamento a Rio de Janeiro 2016 (e forza Azzurri!).

Gianni Riotta
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« Risposta #47 inserito:: Agosto 17, 2012, 06:44:35 pm »

17/8/2012

Se la trasparenza diventa oscurità

GIANNI RIOTTA

Wikileaks, una brutta storia che diventa pessima. Julian Assange, fondatore dell’organizzazione devota nelle intenzioni alla massima trasparenza, si rifugia nell’ambasciata di un Paese accusato di reprimere la libertà di stampa, l’Ecuador, pur di scampare alle accuse di stupro che pendono sul suo capo in Svezia. La Gran Bretagna, a pochi giorni dalle Olimpiadi di Londra che hanno ricordato al mondo le virtù dell’antica democrazia di Westminster, minaccia di violare l’immunità diplomatica della sede di Quito e catturare Assange, attirandosi accuse di «imperialismo» in America Latina. Brutta storia che diventerà peggiore: partita sotto le bandiere della informazione libera e per tutti, finita tra avvocati astuti, feluche interessate, canali tv pagati da oligarchi.

Assange, per non farsi processare a Stoccolma in un processo per stupro, insiste sul «caso politico» contro di lui, teme l’estradizione prima in Svezia e poi negli Stati Uniti, stavolta per il caso Wikileaks, i documenti riservati diffusi dalla sua organizzazione. Con il genio di public relations che lo anima, fonde la battaglia di un tempo con il processo per violenza sessuale, il caso di Stoccolma e quello di Washington e si nasconde nell’ambasciata dell’Ecuador. All’obiezione, perché mai non accetti il giudizio sulle accuse che gli vengono mosse per stupro, separando poi il caso sui dossier rivelati, ribatte «è persecuzione globale». A fargli incontrare l’aiuto dell’Ecuador è un’intervista al presidente Rafael Correa, sulla rubrica che Assange tiene su «Russia Today», canale tv finanziato dal governo russo di Putin, non esattamente paladino della libertà di stampa. Ma Assange si ritiene «la libertà di stampa», emancipato dalle responsabilità che affibbia ad altri. Dopo un negoziato privo di quella trasparenza che Wikileaks rivendicava, s’è nascosto in una stanza dell’ambasciata dell’Ecuador, dove, secondo sua mamma Christine «soffre di raffreddore e mancanza di sole, al punto che un amico gli ha regalato una lampada abbronzante».

Pur di non andare alla sbarra a Stoccolma, Assange sceglie Correa, accusato nel rapporto 2012 di Freedom House di «reprimere la stampa nel suo Paese». Chi non è d’accordo con Correa non parla, radio o tv che sia. Ultima stazione radio chiusa Radio Net, il 6 giugno nella città di Ambadio, la quinta emittente censurata dal regime in due settimane. Le critiche al governo fanno scattare la chiusura della tv Morona Santiago, di una radio a Sucumbios, di un canale tv e radio della provincia amazzonica di Napo. La repressione è così diffusa che la Commissione diritti umani e la Commissione per la libertà di stampa dell’Organizzazione stati americani condannano l’Ecuador: per rappresaglia Correa impone ai ministri di non concedere più interviste a media indipendenti. Che Julian Assange, che tanti in rete continuano a ritenere Robin Hood che ruba notizie ai ricchi per darle ai poveri, abbia amici del genere suscita l’amarezza del ministro svedese Carl Bildt, da sempre impegnato sui diritti: in un tweet Bildt lamenta la furbizia con cui i militanti di Wikileaks mescolano il caso dei dossier diffusi a quello delle accuse di stupro. Sotto l’egida di Correa e con il plauso di Putin e del Venezuela di Chavez.

Londra insiste di essere «obbligata a estradare Assange per il trattato diplomatico» che la lega alla Svezia e che l’estradizione negli Usa per Wikileaks nulla ha a che fare col processo per stupro. Ma minacciare l’invasione della sede diplomatica è gaffe grottesca per il governo conservatore di Cameron. Ammesso che fosse una buona idea, e non lo era, il raid non andava allora annunciato: fare i bulli flettendo i muscoli, pur avendo ragione, non è mai serio. Tanto più che la legge britannica permette a Downing Street di arrestare Assange, non appena lascerà la «stanza senza sole, il materassino ad aria e i pasti dai ristoranti vicini» nell’ambasciata ecuadoregna. Replicare all’astuzia di Assange protetto dai nuovi amici repressori della libertà di stampa, col tono sanguigno da John Bull al pub dopo una birra di troppo, fa riciclare alla stampa di regime in vari Paesi latino americani slogan frusti sul «colonialismo britannico», tra Bolivar e Guevara.

Raffreddato o no che sia, Assange manipola di nuovo la situazione a suo vantaggio. La vicenda nata evocando libertà di stampa, giornalismo responsabile, trasparenza del web, democrazia digitale, scade a pochade di teatro e show business di Internet, mentre Wikileaks perde adepti informatici, delusi dalla performance egocentrica dell’ex leader. Che poi nessuno, sui giornali o sui siti, citi mai, o si appassioni ai diritti delle vittime che accusano Julian Assange di violenza carnale, testimonia quanto l’appello all’assoluta trasparenza possa capovolgersi nell’assoluta oscurità, sua nemesi. Rovesciamento ideale tra Utopie del Bene e Pratiche del Male che dal XX secolo sembra contagiare il XXI.

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« Risposta #48 inserito:: Settembre 02, 2012, 11:16:24 am »

1/9/2012

Il lembo del mantello

In uno degli ultimi colloqui, il cardinale raccontava di frequentare Internet “Qui ritrovo anche i grandi del passato: è un mezzo per trovare la Parola”

GIANNI RIOTTA

Davanti al cardinal Martini anche il più scettico dei laici riceveva l’impatto del carisma, la figura, alta, snella, ieratica, gli occhi severi, le mani strette nella concentrazione: perfino quando la malattia le serrò in spasmo, restarono bellissime.

Non c’era in Martini vezzo populista, si presentava come Principe della Chiesa, successore di Sant’Ambrogio e San Carlo, ma la regalità sacra non allontanava l’interlocutore, gli imponeva di guardare in alto. Non richiedeva attenzione per vanità, pur giustificata da fama, sapere, successo anche oltre la Chiesa cattolica. C’era severità, il rigore delle giornate di studio, protratte fino alla stagione passata in Terra Santa dopo gli anni a Milano, al ritiro nella casa di riposo a Gallarate, con la malattia a minare la salute, non la volontà di proseguire il dialogo con i fedeli attraverso il Corriere della Sera. La severità cresceva davanti al rango di chi aveva davanti, non faceva sconti al potere, quando un libro di Papa Ratzinger non gli sembrò di standard teologici adeguati lo disse. Con gli umili, i bambini, si ammorbidiva, ma a tutti Martini segnalava con la postura morale e fisica, la strada da percorrere verso quella che riteneva «la salvezza».

Nella vulgata dei media il biblista Martini era «progressista», da opporre al «conservatore» Giovanni Paolo II, al «politico» cardinal Ruini, all’«ex progressista della rivista Communio» Ratzinger. Non credo che mai nessuno abbia osato di persona proporre a Martini queste caricature, di cui era, dolorosamente, cosciente pur ignorandole, come ignorava il ronzio pettegolo dei salotti meneghini, che lo riduceva a «teologo» incurante dei doveri «pastorali».

I suoi doveri culminarono invece il 31 luglio 1991, 500 anni dopo la nascita di Sant’Ignazio da Loyola, fondatore dei Gesuiti cui Martini apparteneva dal 1952, nella Lettera pastorale «Il lembo del Mantello» che divenne, con la Cattedra dei non credenti per il dialogo tra uomini di fede e no, simbolo degli anni del cardinale nella metropoli lombarda, 1979-2002: «Fa’, o Signore,/ che le antenne e i campanili/ sappiano dialogare tra loro./ Aiuta la tua Chiesa/ a essere il popolo del dialogo,/ capace di dire e di praticare/ la comunicazione al suo interno e con tutti./ Fa’ che sappiamo educarci ed educare/ a un uso libero e liberante/ dei media, per riconoscere e valorizzare/ profeticamente in essi il lembo del mantello/ del Figlio tuo, fatto uomo per noi….».

Lo infastidiva l’etichetta di «progressista», si esaltava nell’esegesi della Bibbia, fu il solo studioso cattolico a lavorare al New Greek Testament, altro che «progresso». Ne «Il lembo del Mantello» Martini ricorda che «notizia» non è merce, è comunità, deve renderci fratelli, non nemici. Proponendo il dialogo «ai campanili e alle antenne» il cardinale non uguaglia Chiesa e media. Chiede ai media di non disprezzare la persona umana, non renderla «merce». Di dare fiducia, non seminare cinismo, ascoltare le ragioni degli altri. Per la Chiesa cattolica il paradigma di Martini è più formidabile: non rinchiudersi in un rancoroso «no» al mondo moderno, neppure accettarlo per paura si allontani o blandirlo, barattando col potere «spazi propri». Era persuaso che la verità del Campanile, la Bibbia, fosse più profonda di quella dell’Antenna. Ma con forza ricordava a chi lavora per il Campanile: la vostra Verità è sacra, ma voi siete fallibili come i dirimpettai dell’Antenna. Il Campanile non garantisce salvezza, l’Antenna non garantisce modernità.

Ho avvicinato il cardinal Martini nel 1993, dopo le bombe a Milano, per la trasmissione «Milano,Italia». In diretta tv, sulle parole del cardinale si impone lo sguardo, chiaro, senza soggezione e narcisismo. Non offriva conforto sentimentale, chiedeva impegno, consapevolezza. Nel 2010, la Diocesi mi chiese ancora di incontrare Martini per ragionare di Internet e social media. Martini viveva in un ex seminario dei Gesuiti frequentato da ragazzo: ora, ridotte le vocazioni e aumentati i sacerdoti anziani, è casa di riposo.

La nostra conversazione tv fu l’ultima che Martini registrò: «Su Internet incontro i grandi del passato e i dimenticati». Per Martini le ore del mattino erano le più dure, prima che i farmaci sciogliessero le membra contratte dal Parkinson. Quando il cardinale apparve, appena più curvo, la luce cobalto degli occhi era indomita, come il messaggio: che su Internet ci sia tutto deve incoraggiarci e non scoraggiarci, impegnandoci a separare vero da falso. Usare il web, mi disse, è come entrare «…in una biblioteca grande, dove ci vuole un criterio di scelta. Non posso andare in biblioteca e prendere i libri così a caso. Devo sapere cosa voglio, qual è la via che debbo seguire, quali sono le persone che posso ascoltare…». Gli chiesi se anche Google faccia ora parte de «Il Lembo del mantello» e rispose «Sì, certamente, perché il progetto di Dio è un progetto comunicativo, cioè ampliare la comunione tra gli uomini, e anche il progetto eterno di Dio sarà una grande comunione di tutti con tutti, quindi certamente questi media s’inseriscono in questo progetto». Dell’enciclopedia online Wikipedia parlò con tenerezza: «Io uso spesso Wikipedia perché mi aggiorno cercando di usare il computer, per cui vedo piuttosto il lato positivo. Si capisce che si può usare male di questo fatto e quindi creare una democrazia che non sia uguaglianza di tutti ma sia attitudine negativa verso alcuni; però gli usi sbagliati, sempre possibili, non tolgono importanza agli usi buoni». E all’ansia della morte del libro replicò di non far confusione tra mezzo e contenuto, i supporti mutano, le Verità no: «Sono preoccupato per le derive culturali, perché il libro rimane fondamentale, molto prezioso, quindi bisogna prenderlo in mano. Non sono tanto preoccupato per il fatto che la Parola (con la maiuscola) passi anche attraverso i vari media. Quindi, come dice Platone, la parola è soprattutto parlata, è detta, ma questo non toglie che i libri abbiano grande valore».

Poi si alzò per ritirarsi e mentre lo ringraziavo concluse «Speriamo di rivederci». Poi si congedò dalla troupe. Non fece segni palesi di benedizione, ma la sua grazia riempì la stanza e noi.

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« Risposta #49 inserito:: Settembre 09, 2012, 10:18:14 am »

7/9/2012

Bill Clinton e il discorso perfetto

GIANNI RIOTTA

Ieri notte alla Convenzione democratica di Charlotte era in programma il discorso del presidente Barack Obama, puntato sul lavoro e ceto medio. Ma se la rivista Forbes annota «Un discorso che sarà riletto per generazioni» non intende elogiare in anticipo Obama. L’entusiasmo del periodico liberista va al presidente Bill Clinton, che ha parlato mercoledì. Repubblicani e democratici, analisti e militanti, giornalisti e studiosi sono concordi, è stato un «perfect speech», il discorso perfetto.

E in un paese alla vigilia di elezioni come l’Italia, tanti avranno interesse a studiare, dissezionare, capire come Clinton abbia unito il partito, emozionato gli elettori e attaccato gli avversari, senza petulanza, odio, polemica.

Il «discorso perfetto» nasce dal carisma naturale di Clinton, la semplicità da ragazzo del Sud, con la voce roca, i capelli imbiancati, il sorriso sempre malizioso. «The natural», politico naturale, lo chiamavano ai tempi della Casa Bianca, 1993-2000, ma il talento è solo parte del successo di Clinton alla Convenzione.

Il commentatore della rete tv conservatrice Fox, Brit Hume, ammette «Se fossi colpevole di qualche guaio vorrei Clinton come avvocato…» e il manager repubblicano Castellanos esagera «Non c’era bisogno neppure che Obama parlasse stanotte. Clinton ha vinto le elezioni per lui». A Clinton è riuscita a perfezione la magia di Ronald Reagan, parlare in ogni tinello agli americani, sedersi con loro sul divano di casa, farli sentire a proprio agio, come se il Presidente fosse il vicino con cui parlare del semiasse dell’auto malandato, le tasse, il mutuo. Quel che a Barack Obama non riuscirà mai, non per i suoi difetti, ma per i suoi pregi, cultura, freddezza, gusto per le analisi cerebrali, imbattibile in una discussione tra studiosi, goffo al bar.

Alla Convenzione repubblicana del 1992, quando la destra radicale cominciò la marcia di conquista del partito contro i moderati alla Bush padre, Ronald Reagan ammonì «Appellatevi sempre a quanto c’è di buono negli americani, non a quel che c’è di negativo». Reagan coccolava la retorica di destra, dall’aborto ai tagli sulla spesa pubblica, senza che il partito si allontanasse dal centro. Il «discorso perfetto» di Clinton - e qui vorrei che ascoltassero i leader italiani, soprattutto i giovani, conservatori, centristi o progressisti che siano - elogia a sorpresa gli avversari del passato, Eisenhower, Reagan, Bush padre e perfino il detestatissimo dalla base democratica George W. Bush. Dice «io non ho mai imparato a odiarli, come la destra repubblicana odia oggi il Presidente». Non è signorile gesto di eleganza, è tocco da politico fine. Dice a chiunque voti per i repubblicani, va bene, non sei un gangster guerrafondaio che ruba ai poveri, sei americano come noi, lavoreremo insieme, ma ora, fidati, meglio rieleggere Obama, per secchione e primo della classe che sia, anziché azzardare con Romney, ostaggio dei radicali come Ryan, pronti a tagliare le medicine ai bambini poveri. Quando tocca alla propaganda, nessuno commuove come Clinton, non ha fatto vedere grafici con deficit e tagli alla sanità, ha solo evocato piccini malati, come in un romanzo dell’Ottocento di Dickens.

Da anni Obama auspica una politica americana che non si divida nello scontro di tribù ostili, ma dopo quattro anni di sua amministrazione l’America è più divisa che mai. Clinton, contro cui la destra scatenò un safari feroce, prima con l’indagine kafkiana del Whitewater, poi con la battaglia sullo scandalo Lewinsky, unifica l’audience senza rancore. Gode del consenso del 69% degli americani, repubblicani nostalgici inclusi come tanti democratici adoravano Reagan.

Il «discorso perfetto» di Clinton riconosce le difficoltà di Obama, ma ricorda come i guai economici della crisi lo precedessero e come Bush abbia dilatato il debito pubblico. Secondo l’analista John Baldoni, Clinton fa il miracolo parlando agli elettori non come «massa», come «individui», «persone». Con il ritmo di espressioni gergali, «heck… now… lemme tell you…», da predicatore battista sul pulpito o da blues di Ray Charles in concerto, Clinton concede ironia, sensualità, fede al discorso, riscalda l’atmosfera che Clint Eastwood aveva invece raffreddato parlando alla sedia vuota della Convenzione repubblicana.

Come Reagan, Clinton sa che il cuore dell’America può in certe stagioni finire ostaggio della paranoia, cosi ammoniva lo studioso Hofstadter, ma per natura resta conciliante, collaborativo, pragmatico. Clinton nega che progetto, leadership e slogan repubblicani siano migliori di quelli di Obama, pur con le sue lentezze e snobismi e si appella al buonsenso.

Sarebbe davvero importante che i leader italiani ne analizzassero tono, tecnica, sentimenti e profonda conoscenza politica dei fatti. A una condizione però, cruciale. Perché un discorso risulti «perfetto» a chi lo ascolta, occorre che l’oratore creda davvero, non solo per tv o internet, a quel che dice. I valori dell’America media, la famiglia, la compassione, l’innovazione e la solidarietà sono la vita di Clinton, da figlio di un’infermiera ragazza madre, a Presidente. La capacità di ascoltare le ragioni degli avversari, provando a confutarle, persuaso dei propri argomenti e valori, senza odio, petulanza, rancore, ostilità, broncio, sussiego e presunzione.

Imparare a scrivere un «discorso perfetto» è alla fine solo una tecnica, basta montare e smontare lo «speech» di William Jefferson Clinton, detto Bill, a Charlotte. Condividerne davvero la filosofia politica democratica è difficile, occorre una vita intera. Chi ci riuscirà in Italia? E in America basterà ad Obama l’assist «perfetto» di Clinton? Risposte a novembre e in primavera.

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« Risposta #50 inserito:: Settembre 12, 2012, 03:50:15 pm »

12/9/2012 - DOPO L'11 SETTEMBRE

Addio Al Qaeda la nuova paura è la grande crisi

GIANNI RIOTTA

Ieri, undicesimo anniversario dell’attacco del terrorismo fondamentalista contro gli Stati Uniti, il «New York Times» non aveva titoli in prima pagina sul massacro al World Trade Center e al Pentagono. Non è dimenticanza o indifferenza. La vita nelle famiglie e la storia nel Paese vanno avanti, fra la lentezza delle singole giornate e la velocità tumultuosa dei lustri.

Oggi la vita degli americani, la storia della loro nazione e la campagna elettorale che porterà fra 60 giorni alla Casa Bianca il democratico Barack Obama o il repubblicano Mitt Romney, non sono ipnotizzate da al Qaeda, network del terrore dall’Asia, all’Africa, all’Europa. Incute più paura una diversa ricorrenza di settembre, il 15, che quest’anno cade per la quarta volta: è la data del fallimento per la storica finanziaria Lehman Brothers, da molti considerato giorno d’inizio della più grande crisi economica mondiale dopo il crollo di Borsa 1929.

Il terrorismo non è finito, gli americani lo sanno. Al Qaeda torna a radicarsi in Iraq grazie al ritiro degli americani, attende il «tutti a casa» 2014 per tornare nelle vallate dell’Afghanistan, traffica con i servizi segreti dell’Isi in Pakistan, dove il suo fondatore Osama bin Laden veniva protetto ed è stato giustiziato. Colpita nella gerarchia e nella rete invisibile di cellule clandestine, al Qaeda è sulla difensiva in Somalia, attaccata da occidentali e africani, ma si infiltra fra i pirati all’imbocco dell’Oceano Indiano e i Tuareg a Timbuctù occupata. Lo studioso Graham Allison ammonisce sul mercato di materiale nucleare che Qaeda batte, preoccupato che un attacco con radiazioni di una «bomba sporca» stravolga la nostra democrazia.

Ma Homo Sapiens ha un genoma straordinario e remoto, che gli indica sempre il pericolo più prossimo come più reale e lo persuade, nel bene o nel male, a lasciare attendere il diavolo del futuro fin quando si presenterà. In America, Europa e Italia, l’ansia da 11 settembre 2001 è meno acuta di quella da 15 settembre 2008. Debito, disoccupazione, prezzo delle case, risparmi, sanità, pensioni a rischio, contrazione del tempo libero e del benessere, animano i nostri incubi, più della caverna con il mitra Kalashnikov dei terroristi salafiti.

Raghuram Rajan, professore dell’università di Chicago e ora consigliere economico principale del governo indiano, in un colloquio sull’ultimo numero della rivista Arcvision, spiega perché non si placa lo stress da crisi: abbiamo compreso, infine, che non viviamo quella che negli anni del boom i giornali chiamavano «congiuntura», ciclo effimero di recessione. E’ piuttosto un «new normal», una nuova realtà, i sussidi su cui contavamo per tenere su aziende e agricolture improduttive, la burocrazia che si poteva sempre dilatare per assumere raccomandati poco qualificati, la spesa pubblica che nutriva città e regioni, la svalutazione che piazzava i nostri elettrodomestici all’estero e le dogane che imponevano in Italia prodotti scadenti ma di monopolio, sono finiti, per sempre.

Auto, servizi, cure mediche, scuola, assicurazioni e pensioni, beni di lusso e confezioni del supermercato, ogni momento del nostro lavoro, dall’arte, alla scienza, al cibo, vivrà di regole e standard mondiali. O siamo capaci di dargli la stessa qualità top che il mercato richiede, e di produrlo nei tempi e ai prezzi che il mondo pagherà, o semplicemente quel bene non sarà più prodotto in Italia (o Francia, India, Messico) e i lavoratori che se ne occupavano resteranno a mani vuote.

Dieci anni fa spesso mi chiedevano: «Ci sarà un nuovo 11 settembre?». Certo che ci sarà, rispondevo, combattiamo la Prima Guerra Globale e sarà lunga, tormentata, incerta. Le stragi di Madrid e Londra, i massacri dimenticati di Baghdad e Kabul, confermano. Oggi mi chiedono invece «Quando finirà la crisi?». Cosa vuol dire «Fine della crisi»? rispondo. Che tutto torna come prima, americani a spendere e spandere su carte di credito personali e bilancio federale di Washington, europei con lunghe vacanze, vecchi prodotti, baby pensioni, scarsa competitività e produttività, cinesi con salari minimi e niente democrazia, indiani con laboratori informatici brillanti e campagne medievali? No, non torneremo più a quell’epoca.

La crisi finirà. Gli americani hanno stoppato l’emorragia del 15 settembre 2008 - «pensai a un certo punto, mio Dio, la nostra economia è finita» ricorda l’allora Segretario al Tesoro Paulson -, e se dopo le elezioni avranno il buon senso in Congresso di trovare un accordo su debito, tasse, fisco e bilancio, non perderanno neppure la tripla A, garanzia finanziaria. Gli europei hanno evitato finora la rottura dell’euro, domenica al Forum Ambrosetti di Cernobbio, con il presidente Napolitano e il premier Monti, si riconosceva che appena un anno fa tantissimi davano per certo che la nostra valuta sarebbe andata a picco, e che sarebbero tornate dracma, peseta e lira.

Se l’11 settembre 2001, mentre il World Trade Center si inceneriva, avessimo visto il mondo di oggi avremmo detto certo «Magari!», davanti alle minacce presenti di guerra e attentati. E se il 15 settembre 2008 ci avessero fatto intravedere la - pur precaria - scena attuale avremmo sospirato «Magari!», alla fine Lehman è rimasta una sola, il meltdown, la crisi delle banche, non c’è stata. Siamo feriti, fragili, anemici, ma vivi.

La Prima Guerra Globale durerà ancora a lungo e verranno giorni difficili in cui ci sorprenderemo di esserci dimenticati così presto dell’11 settembre e delle sue vittime. La Nuova Normalità durerà ancora più a lungo, nelle case, al lavoro, in politica. Rimettere in fretta la nostra economia al passo col mondo reale ci permetterà di evitare che il «New Normal» sia troppo amaro. E magari al prossimo 15 settembre faremo qualche calcolo del dare e dell’avere meno negativo. Ma nessuno ci farà sconti, solo il lavoro è valuta pregiata.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10517
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« Risposta #51 inserito:: Settembre 23, 2012, 04:56:32 pm »

23/9/2012 - LA SFIDA OBAMA-ROMNEY

Big Data, caccia al cuore dell'America

GIANNI RIOTTA

Il mondo è ancora incerto sulla corsa 2012 alla Casa Bianca - prevarrà Barack Obama o Mitt Romney? - ma il vero vincitore c’è già, si chiama Big Data. Venga eletto infatti il presidente democratico, o si affermi lo sfidante repubblicano, il successo sarà legato alla nuova tecnica di analisi e ricerca di umori ed opinioni degli elettori, che i tecnici chiamano in gergo Big Data. Big Data vi permette di identificare gli incerti, di sapere chi e perché va a votare per un certo candidato, su che tema i pensionati afro-americani dissentono da Obama e perché invece i veterani della Marina ispanici concordano con una certa proposta di Romney. Se la televisione, con i suoi dibattiti e gli spot, fa conoscere i politici all’opinione pubblica, se i giornali stimolano il dibattito anche online con i loro commenti, è solo Big Data a consegnare ai partiti l’anima del paese a meno di 50 giorni dal voto, con il candore di una confessione.

Big Data è l’analisi della conversazione sociale che si tiene ad ogni momento nella nostra era, davanti a un sito web, con l’apertura di una pagina Facebook, mandando una mail a un’amica, registrando il proprio parere su Twitter, seguendo certe notizie su Google News. Ognuno di noi passa al cellulare o al computer una parte della vita, di lavoro e personale, online e l’enorme massa di testi, immagini, dichiarazioni, pollici versi su Facebook e click su Google monta la fotografia istantanea del nostro mondo, in diretta, senza segreti. Il candidato che prima, e meglio, leggerà il cuore d’America nel gigantesco mazzo di tarocchi che si chiama internet, arriverà alla Casa Bianca.

La campagna elettorale 2012 non si corre neppure negli Stati già schierati, Obama vincerà a New York e in California, Romney in Texas. Ma anche nella decina di Stati incerti, Florida, Ohio, Colorado, Wisconsin, North Carolina, la battaglia non è globale. «Se vinciamo nella contea di Palm Spring, vinciamo la Florida e se vinciamo la Florida vinciamo la Casa Bianca» è il mantra che Obama ripete al capo del suo pacchetto di mischia, Jim Messina ed è davvero così, meno di un milione di elettori decidono. In grandi sotterranei ventilati e con computer capaci di operazioni considerate «artificial intelligence» entrano allora in campo i tecnici di Big Data, a Chicago col quartier generale, a Denver, a Miami. Se un elettore compra armi, versa fondi ai repubblicani e segue siti antiabortisti, la campagna di Obama non investe su di lui un click. Ma se dalla sua pagina Facebook, dalle mail che apre tra quelle ricevute dalla Casa Bianca, tra le pagine che segue su Google appare invece che, pur conservatore, è preoccupato dai tagli alla spesa pubblica che Romney e il suo vice Ryan possono promuovere, ecco allora che riceverà messaggi diretti a lui: per rassicurarlo che, con Obama, pensione, mutua e scuola non sono a rischio.

I due partiti conoscono nome, cognome, mail, gusti e indirizzo mail e di casa di ciascun incerto, uno per uno. Big Data è la fine della democrazia di massa, della comunicazione di massa, e, quando applicato non alla politica ma al marketing, del consumo di massa. Big Data è la fine della società che eleggeva presidenti come Roosevelt o Nixon, un messaggio per tutti, diffuso dai mass media. Big Data è la comunicazione «personal» in una società dove contano gli individui, ciascuno diverso dagli altri, Libertà, Fraternità, Diversità. Big Data sa quel che tantissimi leader e analisti stentano a capire in Italia, che ci sono elettori «di destra» su tasse e bilancio e «di sinistra» su matrimoni e adozioni gay, che ci sono elettrici «progressiste» sulla spesa da aumentare nella scuola, ma «conservatrici» sulla spesa da aumentare nella difesa. «L’uomo a una dimensione» deprecato dal filosofo Herbert Marcuse non esiste più, ciascuno di noi ha molte dimensioni e Big Data tutte le coglie e ripropone ai candidati. Qualcuno teme, sbagliando, il Grande Fratello, come se Big Data fosse il dittatore onnipresente dello scrittore Orwell. Non è così, Big Data non spia, raccoglie informazioni che ciascun elettore ha già, spontaneamente, messo in rete, senza forzare. Abbiamo reso pubblica la nostra privacy e la politica lo sa.

Che democrazia sarà quella di Big Data? Un mondo in cui il vicepresidente Biden si dice favorevole, da cattolico, alle nozze gay, per due settimane gli uomini di Jim Messina studiano le reazioni degli elettori su Big Data e infine Obama si dichiara a favore. Rispetto ai sondaggi tradizionali e ai focus group, Big Data ha spontaneità, freschezza, non è test da campione sociologico, è la nostra vita in diretta.

Oggi sappiamo che tra chi ha il telefono tradizionale a casa (anziani, residenti in zone rurali) Obama e Romney sono pressoché alla pari, ma tra chi usa solo il cellulare (giovani, precari, minoranze urbane) il presidente è in vantaggio. Durante i dibattiti tra i candidati, i due staff saranno impegnati sugli algoritmi, i filtri del web, giusti per comprendere come sta reagendo l’America, rimodellando il messaggio non sui vecchi «blocchi sociali» ma su una caleidoscopio di singoli uomini e donne. La democrazia del XXI secolo si chiamerà Big Data (in Italia un laboratorio d’avanguardia è già al lavoro all’Imt di Lucca): e chi dei leader italiani in corsa nel 2013 prima lo capirà, più lontano andrà. Perché se chi vince Palm Spring vince la Casa Bianca, chi vince Big Data vince tutte le elezioni.

Twitter @riotta
 
da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10556
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« Risposta #52 inserito:: Settembre 30, 2012, 02:08:59 am »

Editoriali

28/09/2012

Una risposta per l’Italia sotto esame

Gianni Riotta

Per comprendere le parole pronunciate ieri a New York dal premier Mario Monti al Council on Foreign Relations - «Un proseguimento della premiership? Se ci dovessero essere circostanze speciali, che io mi auguro non ci siano, e mi verrà chiesto, prenderò la proposta in considerazione… ma non prevedo che una seconda occasione sarà necessaria» (così la traduzione dall’inglese dell’Ansa) - occorre ricordare in che sede si trovava il presidente del Consiglio, a chi parlava e quale codici e linguaggi sono in uso nelle antiche stanze della Pratt House. Il Council, considerato il più influente think tank, istituto di ricerca, sulla politica estera, è stato fondato nel 1921, dopo che il presidente Wilson aveva chiesto a 150 esperti di aiutarlo nel primo dopoguerra. Da allora il Cfr ha mediato tra Casa Bianca e mondo nei momenti cruciali, con il celebre articolo firmato «Mister X» da George Kennan, che sulla rivista del Council, «Foreign Affairs», disegnò per mezzo secolo la politica di «contenere» l’Urss, con i discorsi dati nella palazzina della 58th strada da Clinton e Bush, con i seminari offerti al presidente Eisenhower di cui si diceva «quel che sa di economia l’ha imparato al Council». 

Tra quelle biblioteche in ciliegio ci si è divisi su Vietnam e Iraq, si è preparata l’apertura alla Cina di Kissinger e Nixon, si discutono le strategie del XXI secolo. 

Forse, per capire che significa parlare al Council, vale anche un piccolo aneddoto personale di qualche tempo fa, quando un leader italiano incontrò i soci per un meeting riservato. I giornalisti vennero allontanati e quando mi videro al mio posto, i collaboratori dell’oratore, con garbo mi chiesero di seguirli. Risposi, con un filo di imbarazzo: «Mi spiace, sono membro del Council, posso restare, ma sono tenuto ad osservare la regola dell’off the record», delle riunioni aperte si può parlare, delle riservate no, senza confondere cronache e seminari. Lo staff restò diffidente, ma così funziona il Council.

Parlando ai top businessmen, finanzieri, avvocati, intellettuali e diplomatici d’America, Mario Monti non ha usato, né poteva, il garbo prudente che deve invocare ad ogni istante della sua avventura politica, circondato da una coalizione che più si avvicinano le elezioni più si fa ombrosa, da siti pettegoli, cronache interessate, analisi «politiche» dove il vero e l’evidente vengono scartati come foglie marce, sfornando «retroscena» senza autorevolezza e credibilità.

E’ successo qualcosa di insolito nell’Italia esausta da vent’anni di corto circuito politica-informazione, dove, solo Paese occidentale, le dichiarazioni vengono sempre strappate in un nugolo di telecamere e spintoni, ritriturate in virgolettati che poco hanno a che fare con l’originale, per poi esser smentite dall’interessato «frainteso». Davanti ai soci del Council on Foreign Relations, Monti ha detto la verità: se fosse necessario, e lui non crede adesso che lo sia, sarebbe disponibile a una nuova stagione di riforme condivise a Palazzo Chigi, non però candidandosi, visto che è già senatore e sarebbe buffo stare in una lista.

Chi ascoltava Monti a New York non voleva sapere se «la foto di Vasto» prevarrà su «ABC», se il «Grande Centro» apre a Renzi o Bersani, se Berlusconi si presenta con la Lega o no, se Grillo litiga con Favia o con Pizzarotti. Erano in platea rappresentanti di fondi che investono miliardi di dollari, devono sapere se fidarsi o no dell’Italia dove quei soldi significherebbero lavoro per operai e giovani che non ce l’hanno o rischiano di perderlo. L’America ha esaminato Monti per capire che fine farà l’Italia. Il test al premier - poteva passarlo con A o non passarlo con F, i buoni e cattivi voti Usa - promuoveva o bocciava insieme a lui tutti noi. Al rito del caffè (di solito imbevibile) il commento poteva essere generico «Mister Monti è un gentleman ma troppo caos in Italia, investiamo altrove». Monti ha rassicurato invece che il Paese ce la farà, che ritiene i «tecnici» non indispensabili, che la politica può essere sana, ma che se ci fosse bisogno, per scongiurare l’instabilità, lui c’è.

Niente di più, niente di meno. La gazzarra che s’è aperta, Viva e Abbasso senza costrutto, conferma l’ansia di troppi in Parlamento. Quale governo avremo nell’aprile del 2013 lo decideranno i cittadini alle urne, liberamente, siamo un Paese democratico (magari speriamo in una legge elettorale non orrenda). Monti non si ricandida da sé, non per astuzia appresa a Roma, il presidente ha dimostrato già davanti all’onnipotente Bill Gates ai tempi dell’antitrust d’Europa di non essere ingenuo. Sa che il valore del suo lavoro è nella cultura del rigore, in riforme non imposte dall’alto, ma condivise da una maggioranza di italiani, soprattutto da quelli in sofferenza nella crisi. L’ha detto, prima che al Council, al Forum Ambrosetti di Cernobbio: risanare l’economia dimenticando i cittadini, come in un laboratorio per esperimenti, scatena solo reazioni populiste.

Non cercate dunque «retroscena» e «interpretazioni autentiche» nei commenti al discorso di Mario Monti al Council on Foreign Relations. Per quel che ho sentito nelle prime reazioni, gli americani lo hanno preso «at face value», in contanti, niente alchimie. E a chiunque sarà il successore di Monti a Palazzo Chigi, se non ci sarà alla fine Monti II, possiamo dare il suggerimento di parlare al mondo sempre così, «at face value», diretti, e l’augurio di essere ascoltato con il rispetto offerto ieri a «Mr. Monti».

Twitter @riotta 

da - http://lastampa.it/2012/09/28/cultura/opinioni/editoriali/una-risposta-per-l-italia-sotto-esame-GHumpMQRMsZV6E4VFvYMmL/index.html
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« Risposta #53 inserito:: Ottobre 02, 2012, 11:28:41 am »

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02/10/2012 - personaggio

Hobsbawm, secolo breve vita lunga

Gianni Riotta

Marxista fino all’ultimo, militante del Partito comunista inglese anche dopo le dimissioni di massa degli altri intellettuali per protesta contro le invasioni sovietiche a Budapest 1956 e Praga 1968, anti-israeliano radicale e persuaso che «l’Impero Americano» fosse più nefasto dell’«Impero Britannico», lo storico inglese Eric Hobsbawm, scomparso ieri a 95 anni, avrebbe potuto essere una delle tante figure di scontenti della sinistra internazionale. 

 

Invece era ospite nei talk-show tv d’America ed Europa, i suoi libri best seller popolari nelle classifiche e studiati anche a Cambridge, dove Hobsbawm era stato studente modello ma non aveva potuto insegnare, «surgelato dalla caccia alle streghe anticomunista soft d’Inghilterra», ricordava. Aveva passato la vita alla Birkbeck University of London, maestro di tre generazioni. I saggi sulle «Rivoluzioni borghesi 1789-1849» (Il Saggiatore), la trilogia «I ribelli», «I banditi», «I rivoluzionari» (Einaudi), un crescendo dialettico di «coscienza» marxista nella rivolta, sono apprezzati dall’accademia e divorati dai lettori, perché Hobsbawm analizza con anglosassone chiarezza e conclude con nettezza politica. 

 

I volumi «Il secolo breve» e «Anni interessanti, autobiografia di uno storico» (Rizzoli) fanno di Hobsbawm una celebrità: per lui il Novecento è «breve», rinchiuso tra il 1914 che accende la I Guerra mondiale e il 1989, con il crollo del Muro di Berlino e la fine del comunismo. La fortuna dello slogan accompagna la notorietà dello storico, che appare in pubblico come nonno dolce e saggio, pronto a coccolare i nuovi movimenti di Occupy Wall Street e a vedere, finalmente, nella crisi finanziaria del 2008 l’agonia del capitalismo che, da Karl Marx in poi, la sinistra comunista attende invano.

 

Dei riformisti, dei socialisti, dei comunisti «occidentali» Hobsbawm non ha stima. Può incontrarli a un premio o a un convegno, ma il radicale laburista Tony Benn è per lui un nemico, e i socialisti alla Blair, i democratici alla Clinton, perfino la Terza Via tentata dalla sinistra italiana al tempo del primo Ulivo sono detestati come «Thatcher in pantaloni».

 

Nato ad Alessandria d’Egitto da genitori ebrei, cresciuto in Germania mentre Hitler prende il potere, orfano e riparato in Inghilterra da uno zio, Hobsbawm porta nella concezione politica e storica le cicatrici del tempo di ferro che ha vissuto. Per Israele ha parole aspre: «Non ho obblighi emotivi per un piccolo Stato-nazione militarista, culturalmente deludente, politicamente aggressivo che mi chiede solo solidarietà razziale». C’è in questo paragrafo tutto Hobsbawm, scrittura efficace e militante, oblò ideologico fisso.

 

Storici conservatori e progressisti, Niall Ferguson e Francis Wheen, lo accusano di non avere analizzato i crimini politici di Stalin, e di non avere abbandonato il Pc neppure dopo il Rapporto Kruschev al XX Congresso del Pcus. Nella prosa brillantissima di Hobsbawm le invasioni di Ungheria e Cecoslovacchia diventano dettagli minori, il patto Ribbentropp-Molotov tra Hitler e Stalin è ridotto a «episodio temporaneo del 1939-1941». Da queste critiche lo storico, che doveva il cognome a un errore anagrafico, si difendeva con ambigua eleganza e a chi gli chiedeva perché non avesse lasciato il partito dopo le denunce sui gulag replicava sorridendo: «I partiti comunisti non sono per romantici. Sono per il lavoro e l’organizzazione… Il segreto del partito leninista non è sognare la resistenza sulle barricate e nemmeno la teoria marxista. Si può condensare… nella “disciplina di partito”. Il fascino del partito è agire quando nessuno altro lo fa…».

 

Non è una novità, già Brecht elogiava «i cento occhi del Partito», Robert Jordan l’eroe del romanzo «Per chi suona la campana» di Hemingway si sente spesso rimproverare dai comunisti come «romantico» e la stessa accusa farà il professore comunista Corradi al giovane liberal Johnny in apertura de «Il partigiano Johnny» di Fenoglio.

 

Antifascista per generazione, Hobsbawm può essere «romantico» nell’amore per il jazz, cui dedica «La storia sociale del jazz», nei capelli lunghi, nel fascino da scrittore: ma la reticenza sullo stalinismo pesa anche sulle sue pagine più seducenti. Il nazismo, la Depressione del 1929, la miseria del Terzo mondo, giustificano per lui gli orrori di Mosca. Ristretto in questa camicia di forza ideologica, Hobsbawm può dunque vedere nel Novecento solo «il secolo breve» della guerra civile Capitalismo-Comunismo, senza riconoscerne la profondità infinita, da millennio, primo secolo nella storia in cui l’umanità abbandona il lavoro nei campi, le donne si liberano dalle case, le colonie dagli imperi, l’informazione è universale, dai mass ai personal media, la genetica del Dna dischiude il futuro della specie. C’è nel diario dal gulag della scrittrice russa Evgenia Ginzburg (Dalai) il racconto di una notte in cella, con una compagna comunista italiana, deportata senza più nome, che urla ma nessuno la ascolta, nessuno capisce la lingua in cui lamenta, come milioni di comunisti arrestati, la fede tradita nel partito e nell’Urss. Eric Hobsbawm avrebbe avuto pietà umana di lei, ma, da storico, nessun problema morale, o «romantico», a inquadrare quella donna, quel dolore, quelle grida in italiano senza ascolto nelle ferree necessità della Storia.

da - http://lastampa.it/2012/10/02/cultura/opinioni/editoriali/hobsbawm-secolo-breve-vita-lunga-oEVanke31muahjtz116TEL/index.html
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« Risposta #54 inserito:: Ottobre 04, 2012, 03:46:23 pm »

Editoriali

04/10/2012

L’Italia 2.0 deve investire sul suo futuro

Gianni Riotta


L’Italia 2.0 s’è desta. Oltre la metà dei cittadini usa e frequenta il web, i giovani vivono online giorno e notte. La migrazione dei cittadini – chi vive nelle metropoli accede a Internet più di chi risiede in zone rurali - non lascia il deserto nei media tradizionali. 

 

Malgrado i lamenti da bar sulla noia tv, il 99% degli italiani, tutti cioè, guardano la televisione, mentre tantissimi, 83,9%, ascoltano la radio. La tv addirittura guadagna audience, lo 0,9%, nel 2011. Per i giornali la strategia è nitida, dalla carta al web. Il pubblico ha desiderio di informazione, notizie, approfondimenti, commenti, ma gli under 25 preferiscono seguire gli eventi sul web. Lì vanno cercati come individui, lettori e consumatori da testate e pubblicitari.

 

I dati di una nuova ricerca del Censis timbrano il passaporto digitale del nostro Paese confortando chi ha scommesso sul lavoro digitale. Non esiste un «popolo del web» alternativo a un popolo di «giornali e tv», è l’Italia intera, anziani e ragazzi, occupati e no, ceto medio e lavoratori, destra e sinistra, laici e cattolici, che siede al computer o, sempre più spesso, segue i link via smartphone. La percentuale maggiore del 62,1% di italiani online è giovane, benestante, residente al Nord e nelle città. Ma la «cittadinanza digitale», dieci anni fa appena del 27,8% meno di un italiano su tre, cresce in ogni gruppo sociale e geografico. Presto l’Italia online coinciderà con l’Italia tv: 100%. Il «popolo del web» siamo noi.

 

Buone notizie dunque, ma perché l’Italia arrivi ai livelli di integrazione digitale totale – come Hong Kong, Singapore, Corea del Sud - rimangono vari passi da compiere. Il digital divide, la mancanza di accesso alla rete o un cattivo accesso per carenza di banda, è male tecnico, economico e sociale. Ma se le aziende, Confindustria, la scuola, i laboratori di ricerca, le start up, il sindacato vogliono davvero «fare squadra» sul web per il lavoro e lo sviluppo economico, occorre impegnarsi sulla «qualità dell’accesso». Non solo migliorando il wi-fi, permettendo collegamenti gratuiti e «sociali» in aree ampie del territorio, ma razionalizzando domanda e offerta: insegnando, per esempio, agli studenti come si studia online; a chi lavora come usare la rete da università aperta per l’aggiornamento; a chi lancia innovazione e start up come trovare «mentor», partner maturi e mercati, a prima vista, irraggiungibili.

 

Che nessuno degli italiani, per sesso, età, residenza o ceto voglia più restar fuori dal web è positivo: ma l’Agenda Digitale che il premier Monti, con i ministri Passera e Profumo intendono lanciare è il solo network sostenibile dell’innovazione. Le grandi società di comunicazione e informatica, storiche e nuove, Telecom, Wind, Fastweb, 3, Vodafone, i grandi marchi della generazione computer, Microsoft, Apple, Google, Amazon, Facebook, devono riconoscere nell’Italia 2.0 non solo clienti per i loro prodotti, com’è naturale, ma occasione di crescita comune. Il capitale umano e civile che il web fa lievitare è ricchezza parallela per le aziende e le comunità.

 

Lungi dal cannibalizzarsi a vicenda infatti, gli old e i new media coesistono. Tv, giornali, libri si integrano a web, siti, blogs, radio e tv online, Youtube, Twitter. A questo «crocevia mediatico» l’informazione di qualità può ritrovare pubblico e mercato pubblicitario, in un «business model» sostenibile fino al 2020. I dati Censis confermano le ricerche internazionali Pew e lo slogan di Hal Varian, il capo economista di Google: il futuro dei giornali è «Innovare, Innovare, Innovare». 

 

Ogni innovazione ha però una zona d’ombra. Il Censis segnala nella corsa al digitale italiano la possibilità che i cittadini frequentino solo siti, blog, giornali che offrono punti di vista a loro graditi. Pericolo noto, già i motori di ricerca ci indirizzano a contenuti omogenei ai nostri gusti e opinioni, grazie ad algoritmi, filtri di analisi che ci ripropongono i consumi, o le letture, già fatte. Esiste il pericolo del «solipsismo della rete»? Sì, ma senza esagerare: già nell’Ottocento i cittadini si informavano con le testate politicamente affini, e nel Novecento gli studi di Lazarsfeld hanno dimostrato come, pur da informazioni conformiste, i lettori sappiano trarre spunti critici. A Mosca, ai tempi dell’Urss, si «interpretava» la Pravda in cerca di notizie vere. 

 

Non dobbiamo mai attribuire al web le nostre colpe: la polarizzazione politica, in Europa e in America, precede, non segue Internet. In meno di tre anni la rivista The Atlantic s’è chiesta se il web ci renda «stupidi», «ignoranti», «solitari». Ora, riprendendo un commento del Wall Street Journal e ricerche della Columbia e Pittsburgh University, The Atlantic si interroga perfino se il web ci renda «maleducati, aggressivi e volgari». Fatica inutile, non rompete lo specchio se non vi piace il volto che vedete riflesso. Il Censis conferma: il web siamo noi. Internet non è macchina del Bene, né fucina del Male, è l’immagine reale del nostro tempo. Che l’Italia ci sia, tra opportunità e rischi, è indispensabile.

 

Twitter @riotta 

da - http://lastampa.it/2012/10/04/cultura/opinioni/editoriali/l-italia-deve-investire-sul-suo-futuro-vK8VUavRL3zDgqMDeJHkBP/index.html
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« Risposta #55 inserito:: Ottobre 09, 2012, 11:15:09 am »

Editoriali

08/10/2012

Voti e petrolio, la scommessa del Venezuela

Gianni Riotta

Le elezioni presidenziali di ieri in Venezuela non sono l’ennesimo derby latino-americano tra un candidato di sinistra terzo-mondista, paladino dell’economia centralizzata, e un candidato liberista che punta invece su libero mercato e sviluppo. La sfida tra il caudillo Hugo Chavez, reduce da 14 anni di malgoverno a Caracas e il quarantenne Henrique Capriles è qualcosa di più e più radicale. E’ il referendum tra un regime autoritario e populista, che fa dei giacimenti di petrolio leva di corruzione in Venezuela e nel mondo, e il ritorno alla normalità democratica, una crescita sul modello brasiliano del presidente Lula, dove anche le classi povere possano beneficiare del boom energetico.

 

Chavez ha, come sempre, negato par condicio televisiva al rivale, controllando l’informazione, mentre le sue milizie armate intimidivano l’opposizione, ricorrendo perfino a trucchi meschini, come sbarrare il consolato di Miami per evitare che i 20.000 venezuelani là residenti potessero votare. Ma questa volta la macchina di mazzette, raccomandazioni e paura ha funzionato peggio che in passato. A sorpresa Capriles, giovane, dinamico, ha parlato con successo nei comizi in città, quartieri e villaggi rurali, la base di Chavez, ha usato i new media (con un milione e mezzo di followers su twitter) e i vecchi volantini, per diffondere un messaggio di pacificazione.

 

Senza replicare a provocazioni e insulti «chavisti», Capriles ha colto la diffusa voglia di «normalità», chiudere con la retorica violenta del regime, anti americana, roboante, minacciosa, e usare la ricchezza del petrolio a vantaggio dei cittadini.

 

I sondaggi sono divisi, chi dà avanti il 58enne Chavez, a lungo malato di cancro, chi il dinamico Capriles, con il 15% di indecisi e l’ombra dei brogli sui 17 milioni di elettori (dovrebbero votare all’80%). Una vittoria dell’opposizione non eliminerebbe subito la tensione. La costituzione «chavista» assegna 90 giorni di «transizione» tra risultati del voto e nuovo governo: Hugo Chavez ha annunciato che le milizie, squadre armate e pagate dal regime, «vigileranno». Molti di loro perderebbero lavoro e privilegi con la fine del «chavismo» e meditano colpi di mano. Con una popolazione di 29 milioni di cittadini, circolano in Venezuela 17 milioni di armi da fuoco illegali. E la paura ha radici profonde, nel 2004 tantissimi venezuelani firmarono una petizione contro Chavez, i loro nomi vennero pubblicizzati e gli impiegati statali furono licenziati per rappresaglia. Fra loro nessuno dice ora in ufficio di votare Capriles, tutti mentono davanti a spie e caporioni. 

 

Chavez ha impoverito il Paese, che ha riserve naturali straordinarie, saccheggiando il settore energetico. Da anni le compagnie controllate dallo stato non innovano, cacciano manager e tecnici competenti sostituendoli con funzionari raccomandati dalla gerarchia. Negli stabilimenti manutenzione e controlli scadono pericolosamente, è di pochi giorni fa un ultimo incendio alla gigantesca Petròleos de Venezuela, che s’è tentato invano di controllare per mancanza di mezzi funzionanti. La compagnia, che potrebbe dominare il mercato portando il Venezuela sul podio dei Paesi esportatori, è lottizzata fra sostenitori, amici e parenti del clan Chavez, umiliata a macchina da soldi per corruzione e camarille. Da sola Petròleos de Venezuela ha versato ai «chavisti» in dieci anni 50 miliardi di euro, destinati a «programmi sociali», progetti inutili, come le «cattedrali nel deserto» italiane degli Anni Cinquanta, spesa pubblica che non crea sviluppo e occupazione. Se però Chavez decide che il pilota di Formula 1 Maldonado – che nelle prove disputate fin qui non sembra un nuovo Schumacher - deve gareggiare con sponsor Petròleos, ecco che il Venezuela non è più «povero» e trova i fondi necessari. Inutile dirlo, Maldonado è considerato vicino alla figlia del presidente.

 

In questo clima asfittico, nessuno prevedeva che Henrique Capriles potesse costringere Chavez a una «vera» elezione. I suoi sostenitori hanno parlato ai sostenitori del regime, i più poveri, i più indottrinati e indifferenti, fin nelle sperdute campagne, perché la delusione pesa e l’esempio del Brasile fa sognare. A ogni ritorsione s’è risposto con fantasia, mobilitazione. Bloccati dalla chiusura del consolato di Miami gli elettori in Florida non si sono persi d’animo, hanno noleggiato auto, bus, affollato gli aerei e sono andati a votare alla più vicina sede diplomatica aperta, New Orleans.

 

Ex sindaco ed ex governatore, Capriles propone con modestia «Soluzioni concrete ai problemi concreti»: nel Venezuela di oggi, e con il petrolio nel motore, potrebbe essere la ricetta perché ai Paesi del turbo-sviluppo Bric, Brasile, Russia, India e Cina si aggiunga ora, finalmente, anche una V. E la lenta ripresa del dopo crisi 2008 trovi a Caracas un alleato, dopo anni di sabotaggio chavista.

 

Twitter @riotta 

 da - http://lastampa.it/2012/10/08/cultura/opinioni/editoriali/voti-e-petrolio-la-scommessa-del-venezue-uZlGkPHR387K7yTwXaebYO/pagina.html
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« Risposta #56 inserito:: Ottobre 19, 2012, 05:34:36 pm »

Editoriali
18/10/2012

Vince la politica

Gianni Riotta

Come era sbagliato concludere che Obama fosse ormai battuto nella corsa per la Casa Bianca dopo il dibattito fallito a Denver, sarebbe ora precoce ritenere che abbia già vinto solo grazie al più vivace dibattito contro lo sfidante repubblicano Romney a New York. 

 

La campagna elettorale è sempre stata, e resta, aperta e i dibattiti non ne alterano le dinamiche profonde: il candidato democratico Obama in testa negli stati indecisi, soprattutto lo strategico Ohio, il rivale ex governatore del Massachusetts ad inseguire da vicino, per esempio in Pennsylvania. 

 

Un’elezione presidenziale americana, maratona che dura anni, costa oltre due miliardi di dollari (1,6 miliardi di euro), coinvolge milioni di persone, non si decide in un solo faccia a faccia. Crederlo è vezzo dei media, ma a studiare le prime analisi dei Big Data, la galassia di reazioni degli elettori raccolte da social network e blog sul web, la realtà è diversa. Il presidente Obama non è il candidato invincibile idealizzato dalla propaganda. Ha perduto in modo umiliante le elezioni parlamentari di Midterm 2010, con il Paese scontento per la crisi economica e una controversa riforma sanitaria. E, al contrario di Bill Clinton sconfitto dai radicali di Newt Gingrich nel 1994, non ha poi confortato i moderati, blindando la rielezione.

 

Con la disoccupazione all’8% un Presidente non torna alla Casa Bianca. Se Obama è ancora in corsa può esser grato a tre diversi fattori: 1) Il carisma personale e la tenacia gli hanno permesso martedì notte di rialzare la testa davanti alla base democratica; 2) La naturale riluttanza degli elettori a bocciare un Presidente al secondo mandato, solo Carter e G.H.W. Bush son caduti nel dopoguerra e Bush padre ce l’avrebbe forse fatta senza il 19% del candidato indipendente Perot; 3) La manovra economica dei 40 miliardi di dollari del banchiere centrale Bernanke, «soldi gettati dall’elicottero contro la crisi» dicono gli economisti: magari non funziona benissimo ma dà la sensazione che Washington aiuterà le industrie più con Obama che con un’amministrazione repubblicana.

 

Mitt Romney ha goduto nel primo dibattito dello scarto tra propaganda e realtà nocivo al Presidente. E’ un goffo Mormone, candidato della destra Tea Party, pronto a schiavizzare il 47% dei cittadini o il businessman la cui gestione del fondo Bain è stata definita dall’idolo democratico Bill Clinton «stellare», centrista che per vincere alle primarie ha sposato i luoghi comuni conservatori e che ora fa marcia indietro, su aborto, donne, pressione fiscale? Nel primo il dibattito Romney «centrista» ha smentito le caricature finendo in vantaggio. Martedì, la nuova immagine è stata ridefinita dalle dure critiche di Obama che lo ha rimesso sulla difensiva, sull’emigrazione con gli ispanici, su contraccezione, mutua, quote rosa con le donne e il ceto medio.

 

La democrazia americana esce rinvigorita dai dibattiti. Gli elettori avranno a novembre scelte chiare, due uomini diversi per personalità - era evidente, e salutare in un confronto politico, l’avversione fisica di Obama e Romney quando si avvicinavano l’un all’altro - per filosofia politica, ricetta economica, convinzioni profonde. Solo la politica estera li unisce, malgrado le chiacchiere Romney non romperà con la Cina e l’asse sul Pacifico non muterà, vedrete al dibattito finale. E’ vero, i troppi soldi che i fondi Pac investono nella campagna, dopo la recente sentenza della Corte Suprema, inquinano parte del gioco, ma alla fine ogni cittadino potrà scegliere a ragion veduta. Speriamo possa essere così, presto, anche da noi, dibattiti, primarie, trasparenza (magari con meno sprechi).

 

Riletti i dati, Obama e Romney restano dov’erano, in lieve vantaggio il Presidente, con la chance di vincere in volata il repubblicano. E’ il referendum per gli americani a farsi più nitido. Con Obama lo status quo, tanto danaro della Federal Reserve, la speranza che l’anemica ripresina finalmente smuova gli Usa dalla crisi 2008. Con Romney il salto in un’economia «Più mercato, meno stato», ma «soft» senza eccessi, con i vantaggi dell’innovazione contrapposti agli svantaggi della fine di ogni stimolo «keynesiano». Nessuno ripeta il cliché «Inutile votare tanto non cambia nulla». Come nelle elezioni tedesche e italiane del 2013 i risultati, stavolta, contano moltissimo. 

 

L’83% degli americani ha seguito il dibattito in tv, «old media» sempre vivo, il 4% solo online, ma un americano su 5 ha commentato sui social network, Facebook, Twitter, i blog mentre guardava il duello in tv. Tra gli elettori sotto i 39 anni, uno su tre ha usato il tandem tv-web, tribuna politica in diretta globale. Analizzando i Big Data, gli staff di Obama e Romney conoscono ormai nome, cognome, gusti, opinioni, letture, consumi degli elettori incerti e li raggiungono con messaggi ad hoc, costruiti per loro. Attenzione però: se gli incerti hanno l’impressione di essere «target», bersaglio di messaggi politici confezionati su misura individuale, si ribellano e reagiscono fino a cambiare idea. Nell’era della democrazia digitale la politica legge il destino elettorale nel palmo della mano dei cittadini, via Big Data, ma se eccede in invadenza la mano si fa pugno.

 

Infine una parola sulla moderatrice, Candy Crowley, giornalista che non scambia l’informazione per lotta libera nel fango, senza vezzi da pin up, capace di mettere in riga sui fatti Obama e Romney, da Bengasi a donne e lavoro. Non contano le «gaffes» dei candidati, conta che abbia fatto parlare di politica davanti a milioni di americani, che ora decideranno in libertà. Un rito che qualche snob disprezza come «Ideologia» ma il cui vero nome è «Democrazia».

 

Twitter @riotta 

da - http://lastampa.it/2012/10/18/cultura/opinioni/editoriali/vince-la-politica-RC3fHrk0hZz7hbWXaxr5RK/pagina.html
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« Risposta #57 inserito:: Ottobre 24, 2012, 03:56:48 pm »

Editoriali
24/10/2012 - il dibattito obama-romney


L’economia cancella il mondo


Gianni Riotta

È assai probabile che - a meno di catastrofi - la corsa alla Casa Bianca 2012 tra i democratici guidati da un ridimensionato presidente Barack Obama e i repubblicani del redivivo Mitt Romney sia ormai decisa. Dopo mesi di spot tv, polemiche sui blog e twitter, mega dibattiti tv, gli elettori sanno in cuor loro chi votare il primo martedì di novembre. Gli indecisi, non più legione, difficilmente seguiranno un solo candidato. Il risultato potrebbe essere uno storico fotofinish. I sondaggi raccolti ieri, confermano il pareggio, 47 a 47%, con l’eccezione di Gallup che dà a Romney un vantaggio congruo, 6%. Obama sembra tenere l’esile +4% in Ohio che potrebbe ridargli la vittoria. 

 

Il faccia a faccia tv di lunedì notte ha solo confermato impressioni e previsioni sulle amministrazioni Obama II o Romney I. L’errore del Presidente, forse mal consigliato da uno staff troppo militante, è stato caricaturare, a suon di spot che alla fine costeranno un miliardo di dollari (780 milioni di euro), Romney come un miliardario che licenzia e esporta capitali. 

 

Nei dibattiti Romney è apparso invece quel che è, l’ex governatore repubblicano del progressista Stato del Massachusetts, centrista riluttante in un Grand Old Party, repubblicano ostaggio della destra Tea Party, e il pubblico ha reagito con simpatia, anche chi non lo voterà. I democratici, bruciata parte del tesoro elettorale, hanno dovuto ricominciare da zero puntando infine su tasse e lavoro. 

 

Non è stata la performance di Romney a capovolgere l’ottimismo eccessivo dei media liberal: è stata la realtà, dura maestra in America. Se Romney non è in testa in modo netto, malgrado la disoccupazione ancora troppo alta, ceto medio e piccole imprese in sofferenza, ripresa anemica e impopolare riforma sanitaria Obamacare, è perché non ha saputo fugare la paura sociale contro gli interessi economici vicini ai repubblicani. Tanti elettori si chiedono: se mi trovassi nelle condizioni degli operai dell’auto a Detroit, sull’orlo del fallimento, chi mi darà una mano, Obama o Romney? Tante donne si interrogano sui sussidi alla scuola, l’aborto, perfino la piccola tv pubblica Pbs a rischio chiusura. I veterani di guerra pensano a sanità e pensioni. Gli studenti ai Community College locali, i soli in cui possano laurearsi con pochi soldi. Simpatizzano magari con il «meno tasse, meno spesa, bilanci in ordine» del sanguigno candidato vicepresidente Paul Ryan, ma temono che quella filosofia li danneggi. Infatti, scelto come uomo del futuro, Ryan è rimasto in naftalina per l’intera campagna: farà guadagnare voti nel futuro, rischiava di farli perdere nell’amletico 2012.

 

Così il dibattito che il New York Times ha definito di «politica globale», lunedì, non ha neppure nominato l’India, discusso della crisi dell’euro o evocato l’Europa, ragionato sulla frizione Giappone-Cina, analizzato la nuova Africa, citato lo storico congresso del Partito comunista cinese. I temi del futuro, clima, ambiente, demografie, migrazioni, acqua, cibo, epidemie, metropoli e campagne tutti ignorati. Conta l’economia e l’America, paese globale, sa che la «sua» economia interna dipende dal mondo, commerci e guerra valutaria con la Cina, rischi sul prezzo del greggio in caso di raid contro l’Iran atomico, l’antico «cortile di casa» in America Latina ora diventato partner in affari. Obama e Romney hanno due programmi di politica estera identici perché sono pragmatici, non ideologici, e riflettono nelle proposte gli interessi nazionali Usa nel Pacifico, Medio Oriente, su tariffe ed energia. Poi Obama mette un pizzico di diritti umani, Romney una spruzzata di «America First!» e tutti d’accordo. Se la Casa Bianca andasse all’opposizione niente novità al Dipartimento di Stato.

 

Ieri l’agenzia Nuova Cina ha finto di protestare per i toni anti Pechino del dibattito, ma con diplomazia astuta ha riconosciuto l’ampia retromarcia di Romney che - dopo troppi attacchi alla valutazione della moneta cinese - ha incensato il contributo cinese a stabilità, pace e sviluppo, con un’enfasi che avrà irritato i Tea Party.

Hollande, Merkel, Cameron, il premier Monti rifletteranno sul silenzio completo a proposito di Unione Europea, non un richiamo agli alleati, non un cenno alla nostra crisi o a soluzioni unitarie per Iran, Medio Oriente, gap finanziario. Certo, meglio delle primarie, quando «europeo» era un insulto, ma c’è a Washington un’aria di scarsa rilevanza dell’Ue, vuoi per interlocutori di limitato carisma internazionale da van Rompuy a Lady Ashton, vuoi perché i guai di Grecia e Spagna ci stanno troppo alienando dal mondo. Chiunque giuri in Campidoglio a Washington, nel gennaio 2013, Bruxelles dovrà recuperare in fretta prestigio e peso.

Il resto sono aneddoti minori, la felice battuta di Obama sulla difesa che ha meno navi che nel 1917, ma anche meno cavalli e baionette, l’intelligente finta «a sinistra» di Romney, minimizzando la morte di Osama bin Laden, «non possiamo mica ucciderli tutti». Contano molto in tv e sui giornali, moltissimo nell’officina di idee del web, nulla sul voto. L’America sembra fortunata in questo 2012, con due candidati seri, perbene, di carattere, ottimisti. Rappresentano entrambi, da moderati, le filosofie politiche centrali degli Usa oggi: un cauto riformismo economico, con il sostegno dello Stato ai poveri ed enfasi sui diritti sociali in Obama; un cauto liberismo antitasse ed enfasi su diritti individuali ed aziende in Romney. Entrambi però sono circondati da zelanti ideologi, ultraprogressisti o veteroconservatori, che rendono ostici al Congresso i compromessi legislativi, isolando impotente la Casa Bianca.

 

Barack Obama e Mitt Romney, con il tono civile della campagna, hanno se non sradicato almeno scoraggiato la rancorosa «guerra culturale» che squassa da 20 anni il paese. E’ un bene, e sarebbe un gran bene, se dopo il 6 novembre i loro partiti ne seguissero l’esempio, firmando un compromesso fiscale, un piano di rientro dal debito, ormai urgentissimo per l’ultima superpotenza e non bloccando alla Corte Suprema i candidati indipendenti. Bene altrettanto grande sarebbe se, dopo aver seguito la prova della democrazia americana i leader, vecchi e nuovi, d’Italia condividessero l’urgenza di toni sobri, faccia a faccia razionali in tv, interessi nazionali condivisi senza imbarazzi. E’ il solo vaccino contro i bacilli populisti e la grande maggioranza dei cittadini, al netto degli inguaribili facinorosi, in America e da noi, lo sa.

Twitter @riotta 

da - http://www.lastampa.it/2012/10/24/cultura/opinioni/editoriali/l-economia-cancella-il-mondo-fwFzrp0Kih7shHlLZy83eM/pagina.html
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« Risposta #58 inserito:: Ottobre 27, 2012, 05:29:36 pm »

Editoriali
27/10/2012

I miraggi e gli alibi sono svaniti

Gianni Riotta

Un’intera generazione di italiani, nata dopo il 1975, avrà per la prima volta alle elezioni politiche di primavera una scheda priva di referendum pro o contro Silvio Berlusconi. La condanna a quattro anni di reclusione, ridotti a uno per indulto con cinque di interdizione dai pubblici uffici, comminata ieri nel processo per frode fiscale, segue di poche ore la rinuncia dell’ex premier a ricandidarsi a Palazzo Chigi e chiude, per sempre, una stagione della Repubblica lunga 18 anni. Così giudica l’opinione pubblica mondiale, aprendo con la notizia i siti web internazionali, dal Financial Times, a Le Monde, al New York Times, e affollando di dirette radio e tv, da Bbc a Cnn. 

 

Accade nella storia che l’avventura di un leader arrivi al finale di partita, in un esito che, ai contemporanei appare repentino ma nel futuro trova logica ineluttabile.

 

Dall’autunno del 1993 quando raccoglie il progetto del professor Giuliano Urbani fondando Forza Italia, Berlusconi s’è battuto in cinque elezioni politiche, vincitore tre volte, due superato da Romano Prodi. Grazie alle divisioni degli avversari, grazie a un intuito forte per il senso comune e anche - ma non solo - grazie alle tv, Berlusconi ha creato una forza politica capace di intercettare a lungo gli umori del Paese. E’ stata infine la crisi economica a piegarlo nell’autunno del 2011, mandando al governo i tecnici di Mario Monti.

 

Non sono stati scandali, processi, campagne e denunce, la sterminata biblioteca di tomi critici, i cortei, è stata la paura del crack incombente sulla finanza pubblica, le banche e aziende, le famiglie, i lavoratori, a condannare Berlusconi. La sfiducia dei partner europei, in primo luogo la Cancelliera tedesca Angela Merkel, accende il semaforo rosso contro «Silvio». A lungo, i più sfrenati consiglieri del fondatore di Mediaset hanno azzittito i moderati, aizzandolo a ignorare l’ira crescente dell’Unione Europea e irridere il dialogo con l’opposizione. Errori di arroganza, mancanza di cultura politica moderna, ormai irrimediabili e da alcuni ripetuti come un’ossessione. Il «mondo» andava ascoltato, interrogato, condiviso non disprezzato.

 

Di tutto ciò Berlusconi, a malincuore, ha preso atto e la scelta di non ricandidarsi e indire primarie nel centrodestra lo conferma. A partire dall’importante voto in Sicilia, che testerà per la prima volta le 5 Stelle di Beppe Grillo, alla corsa Bersani-Renzi nel Pd, alla ricostruzione del centro tra Casini, Fini e nuove forze, interne ed esterne al gabinetto Monti, una terza stagione della Repubblica si va delineando, impossibile tornare indietro.

 

Le cronache politiche, da qua a primavera, registreranno infiniti ghirigori tattici di chi, per salvare un’oncia di potere, cincischierà sul recente passato. Potete ignorarli o seguirli con curiosità, non muteranno però la fase appena conclusa. Giornali, tv e web severi di ieri, l’attesa del processo sul caso Ruby, testimoniano che nessun Paese ormai decide di sé isolato in un acquario, la Cina pesa tra Obama e Romney, la crisi dell’euro ha pesato sulla volata Hollande-Sarkozy, il giudizio internazionale condizionerà anche il prossimo governo italiano, sia Monti II, centrosinistra, centrodestra o qualunque altra formula oggi inedita.

 

Davanti a questa realtà chiunque aspiri alla guida del Paese, la sinistra favorita nei sondaggi, la destra che si accinge per la prima volta alle primarie, il centro in cerca d’autore e anche Grillo cui la denuncia più non basterà, deve chiudere a sua volta con l’era Berlusconi. Illudersi di fare campagna elettorale, vincere e governare continuando a battersi in nome di, o contro, un Berlusconi la cui armatura, come quella del Sire Kagemusha del film giapponese, è ormai vuota, vuol dire imbrogliare se stessi e gli italiani. Silvio Berlusconi ha gravi responsabilità politiche e personali, la più importante non avere riformato Paese e mercato come promesso, in tempi in cui sarebbe stato meno doloroso. Scaricargli però addosso tutte le lentezze, ipocrisie, opportunismi, l’anchilosi sociale ed economica di una nazione che non cresce da anni è ok per la propaganda, non nella realtà. La crisi economica non passerà in primavera, è, come dicono i migliori economisti da Rogoff a Rajan, «nuova normalità», dove anche gli italiani dovranno riapprendere a lavorare, studiare, consumare, esportare, competere, investire con più saggezza e visione che nell’ultima parte del XX secolo.

 

Ai sostenitori Berlusconi ha dato il miraggio, ai nemici l’alibi, che il passaggio faticoso al mondo globale potesse venire eluso in Italia, ogni giorno, per vent’anni. Adesso, dopo la condanna per frode fiscale e la reazione internazionale, il campo è sgombro, Berlusconi si affida ai libri di storia, che lo giudicheranno con serenità. L’armatura non gli serve più, lustrarla ancora o ancora scalciarla, è inutile. Le riforme che ci attendono sono chiare, il leader eletto dovrà costruire loro intorno consenso, senza traumi sociali, forzature dall’alto, con vero ottimismo. Alibi e miraggi sono, infine, svaniti e non poteva che essere così.

Twitter @riotta 

da - http://www.lastampa.it/2012/10/27/cultura/opinioni/editoriali/i-miraggi-e-gli-alibi-sono-svaniti-Cmtcbzlr3NcyXgjDkzIm2J/pagina.html
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« Risposta #59 inserito:: Ottobre 28, 2012, 10:39:26 am »

Politica

28/10/2012 - REPORTAGE

Il Cavaliere fa il Grillo nella Villa a sei stelle

L’ex premier Silvio Berlusconi con un appunto in mano si lancia nell’attacco della magistratura e dello spettro di quella che ieri ha chiamato «una repubblica giudiziaria»
 
Antitedesco, forse antieuropeo: con queste armi adesso tenta di rimontare

Gianni Riotta

Lesmo

L’ex presidente del Consiglio Silvio Berlusconi apre la campagna elettorale 2013 confermando di non voler ricandidarsi primo ministro, annunciando primarie nel Pdl – «aperte a tutti tranne che a me» -, attaccando fisco «poliziesco», magistratura «di sinistra». 

E pur attento a non nominare il suo successore, Mario Monti avverte che «il governo dei tecnici porta a recessione», perché vassallo «della Germania egemone di Angela Merkel»: d’ora in avanti – conclude - il voto del centro destra non sarà più scontato. 

A Villa Gernetto, sede dell’Università liberale dove Berlusconi s’è riservato un appartamento al piano nobile disegnato dall’architetto Simone Cantoni nel 1815, i giornalisti affluiscono da un cancello alto sulla valle del Lambro, 35 ettari di bosco, giardino all’italiana, prati, con la foschia che occulta i bassorilievi funerari di Antonio Canova e le statue del Fabris. Vetturette da golf trasportano i notabili per i viali, l’ex ministro Gelmini chiede passaggio a un cronista. Dal cancello centrale, mostrando la carta d’identità, passano invece, con l’abito della domenica, elettori, militanti, famigli. Occupano le file della sala stampa, broccati in rosso e giallo, una riproduzione della Scuola di Atene di Raffaello, si alzano quando il loro leader entra in aula, applaudono ritmici e danno alla conferenza stampa un tono deferente che sul web irrita, «i giornalisti applaudono?».

In prima fila il portavoce Paolo Bonaiuti apre e chiude le mani dettando a Berlusconi i tempi del discorso, accanto a lui sorridente Francesca Pascale, giovane consigliera Pdl a Napoli, poi l’ex ministro Romani in pullover, Daniela Santanchè, Vittoria Brambilla, più indietro Tiziana Maiolo. L’avvocato Ghedini siede in disparte, sotto le telecamere, con un foglio di appunti vergato a mano la cui prima riga recita «1) Corte Costituzionale…», le critiche alla sentenza di condanna a Berlusconi per frode fiscale.

La sala ricolma di sostenitori, l’immenso parco umido e silenzioso, danno all’intervento di Berlusconi malinconia, i giornalisti restano ai margini, quelli che lo detestano, quelli che simpatizzano o lavorano nel suo impero, i semplici cronisti stanchi di guerra. A twitter che lo prende in giro con l’hashtag, il tormentone, #ancoratu, Berlusconi non dà soddisfazione. E’ furente, sfoga frustrazione cocente. Ai siti web che, con eccessiva fretta annunciavano il “ritorno in campo”, infligge delusione: non si ricandida, elezioni primarie per il centro destra, niente «marcia indietro».

Nel silenzio rotto solo da un cellulare che ronza nel microfono, il fondatore di Forza Italia elenca a lungo i suoi “successi”, poi attacca la Germania di Angela Merkel. Per vendicarsi «con il passivo presidente francese Sarkozy» dei «veti» posti dall’Italia alle «politiche economiche restrittive», Merkel ha ordinato «alle banche tedesche di vendere titoli italiani», portando così alla crisi economica e al «governo dei tecnici». Sono i toni del populismo europeo, in Grecia e Spagna usati da sinistra e destra radicale, non dai conservatori di Samaras o dai popolari di Rajoy. Berlusconi, compagno di strada dei Popolari a Bruxelles, non intende invece più regalare ad altri, a Grillo per primo, l’antipatia per la pressione fiscale di Monti, i tagli alla spesa, il rigore di Merkel: annuncia no all’Imu, meno tasse, per proteggere i bilanci basterà ridurre «gli sprechi».

Con il «governo dei tecnici» Berlusconi è aspro, lo votiamo, scandisce mentre i suoi notabili annuiscono con entusiasmo proporzionale alla posizione nel Pdl, poco Bonaiuti, tantissimo la Santanché, solo per evitare la reazione dei mercati, ma lo «peseremo» d’ora in avanti con attenzione. Berlusconi ripete «governo dei tecnici», non nomina Monti, «avverte» senza strappi con il premier. Chiama Casini e Montezemolo tra i moderati di centro, ma addossa a «Casini, Fini e Follini» i fallimenti passati. Fisco, Equitalia e Guardia di Finanza, abbinati alla «magistratura di sinistra» e al Quirinale, il cui inquilino «negli operosi week end» boccia le leggi di riforma della destra, saranno i nemici in tv, «Torno a parlare, chiedo di essere invitato».

Davanti a sondaggi che danno a Grillo le percentuali del Pdl, 17%, con gli elettori siciliani incerti tra Musumeci a centro destra, Crocetta a centro sinistra e Grillo, Berlusconi ricorda che se si tratta di alzare i toni contro tasse, Europa, rigore, tecnici, bilanci, lui non resterà indietro. I dirigenti Pdl che non vogliono rompere con Monti, dal segretario Alfano che dovrebbe spuntarla alle primarie, all’ex ministro Frattini, gli uomini di Beppe Pisanu, faticheranno su questo spartito. Nessuno di loro è a villa Gernetto, come nessuno degli ex An, da La Russa a Gasparri, siede nelle poltroncine rosse da cinema di una volta. Alla fine i notabili presenti lo stringono affettuosi, l’ex premier ringrazia per «l’inaspettata presenza».

Occupando la fascia populista, Berlusconi affronta corpo a corpo Beppe Grillo e lascia il centro e la sinistra davanti a una prateria di consensi e a un dilemma, affollarsi contro riforme, rigore e sviluppo o proporre agli elettori responsabilità? Quanto a Monti, Berlusconi non l’ha investito in prima persona, vuol mantenere almeno un buon livello diplomatico. Tocca adesso al presidente del Consiglio decidere se navigare sotto costa o chiamare la maggioranza a una verifica, senza farsi logorare. Vedremo. Ieri a Villa Gernetto era autunno, ma il conto alla rovescia verso primavera correva rapido tra gli alberi scuri.

twitter @riotta 

da - http://lastampa.it/2012/10/28/italia/politica/il-cavaliere-fa-il-grillo-nella-villa-a-sei-stelle-AnqHDPvpIB51kn4uXGt5HK/pagina.html
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