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« Risposta #30 inserito:: Aprile 28, 2009, 05:53:29 pm » |
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Paura nelle scuole e negli ospedali.
Bandite carni Usa in Russia e Cina
La psicosi della pandemia fa volare a Wall Street le azioni di Big Pharma
New York ora teme l'isolamento e un mal di testa scatena la psicosi
di VITTORIO ZUCCONI
WASHINGTON - Vi scrivo dalla terra degli untori, da quell'America che dopo avere diffuso, il "virus finanziario" come disse il presidente del consiglio italiano, oggi è guardata come l'incubatrice del "virus del maiale". Sugli Stati Uniti il resto del mondo ha issato la "bandiera gialla" di una semi quarantena globale. Non venite qui tra noi infetti, non mangiate i nostri maiali, sorvegliate i turisti che arrivano a voi da qui. L'influenza suina è divenuta il "virus nordamericano", nonostante il presidente Obama si affanni a dire che "non ci sono veri motivi di allarme" e il numero dei casi, fra accertati e probabili, sia per ora meno di 50, su una popolazione di 310 milioni.
L'influenza mutante ha qualcosa di mostruosamente inquietante, nonostante la "solita" influenza stagionale uccida 36 mila americani ogni anno, secondo le cifre ufficiali del Centro per il Controllo delle Malattie, nella generale indifferenza. Ma la pandemia del panico, cominciata nel Messico, ha infettato tutta l'America del Nord, quando il ministro per la Sicurezza Nazionale, Janet Napolitano, ha proclamato lo stato d'emergenza per mettere in moto le procedure di controllo e liberare i fondi governativi destinati alla risposta nazionale contro minacce biologiche naturali o terroristiche. E gli Stati Uniti sono divenuti il centro dell'ansia e dell'attenzione.
I casi accertati del morbo che i liceali dell'Istituto San Francesco di Queens hanno contratto in Messico e dal quale sono guariti in pochi giorni, aumenteranno, perché i 350 laboratori federali ora li cercano dietro ogni febbre e tosse. E dunque li trovano. Sono sotto il microscopio le scuole, soprattutto i licei di frontiera col Messico, in Texas, dove tre nuovi casi sono stati segnalati a San Antonio, perché questa infezione sembra colpire non i soliti "vecchi, bambini e malati", ma i giovani, come fece, 90 anni or sono, la madre orribile di tutte le pandemie influenza, la Spagnola.
Starnutisce Wall Street, che aveva appena cominciato la convalescenza dalla terribile influenza finanziaria dell'estate scorsa, e barcolla tra la voglia di accasciarsi e la ricerca di quei titoli di farmaceutiche e industrie della sanità privata che rastrelleranno profitti dai milioni - già 40 milioni di flaconi messi in commercio dalle scorte strategiche nazionali - di confezioni di medicinali antivirali e di antibiotici per trattare le complicanze batteriche, perché non c'è dramma dal quale non si possa guadagnare qualche dollaro (la paura di una pandemia fa decollare le azioni di Big Pharma). S'indignano le voci pubbliche, scoprendo che la Unione Europea invita a non volare negli Usa, come se questo fosse divenuto il lebbrosario del mondo. Gli allevatori di maiali del Kansas e dell'Iowa scoprono che i loro porcelli sono stati messi al bando dal governo cinese, da quello russo, da Abu Dhabi e da Dubai, nonostante non esista alcun pericolo nel consumi di carni di suini cotte o insaccate.
Il segretario di Stato Clinton ci ammonisce a non fare viaggi oltre frontiera, proprio mentre altre nazioni ammoniscono i loro cittadini a non venire in America, ma nei principali aeroporti internazionali sono stati installati sensori a infrarossi per provare a distanza la temperature dei passeggeri. E a tutti i viaggiatori in ingresso saranno distribuite schede, gialle naturalmente, con numeri di telefono ai quali rivolgersi in caso di sospetta infezione. "Quello che abbiamo fatto finora - diceva ieri mattina Obama che ora deve affrontare anche l'aggressione del maiale infettivo per la scadenza dei suoi 100 giorni - è creare le condizioni per rispondere a ogni emergenza". "La buona notizia è che finora non ci sono altri focolai di infezioni a New York oltre quelli del Liceo San Francesco - annuncia in diretta tv il sindaco Bloomberg - 45 giorni dopo l'identificazione dei primi casi. La cattiva notizia è che non sappiamo se ne troveremo altri".
La bandiera gialla sventola sulla Statua della Libertà. Tra la sempre presente psicosi dell'attacco bioterroristico e la preoccupazione politica di farsi trovare impreparati come Bush a New Orleans, le autorità americane inconsapevolmente alimentano il panico mentre cercano di controllarlo. Il direttore del Cdc di Atlanta ha cercato di invertire gli ingranaggi della psicosi. Ha spiegato che la trasmissione dei casi è ancora minima, che non ci sono segnali di accelerazione dell'epidemia e che tutti i pazienti accertati sono colpiti da forme benigne. Ma le contee, le città dalle quali in America dipendono le scuole, cominciano a chiudere edifici, ad annullare funzioni pubbliche, perché la minaccia di future querele e di colossali cause per danni, sempre presenti negli Stati Uniti, ispira l'eccesso di cautela.
Ci saranno altri casi, qui nel nostro lazzaretto nordamericano, perché l'indagine ora scoverà il virus. L'aumento produrrà le inevitabili mascherine chirurgiche bianche o blu, anche se al Centro per il Controllo delle Malattie spiegano che la loro efficacia preventiva è dubbia, e le precauzioni migliori restano l'acqua e il sapone ed evitare "il bacetto di saluto". In qualche zone di confine come la California le mascherine sono già comparse e la sindrome dell'untore si allarga. C'è qualcosa di irresistibilmente terrorizzante in questa influenza venuta dai porcili, quasi la vendetta sempre attesa degli animali contro chi li alleva per macellarli. In fondo, segretamente, ideologicamente, non dispiace al resto del mondo l'idea che proprio l'America che per otto anni ha preteso di esportare la democrazia, ora sia accusata di poter esportare l'influenza del maiale. E il liberatore sia divenuto l'untore.
(28 aprile 2009) da repubblica.it
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« Risposta #31 inserito:: Maggio 01, 2009, 12:59:53 pm » |
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ECONOMIA IL RACCONTO
Cinquecento, il "topolino rampante" che salverà il gigante americano
Le Fiat da oggetti di culto ad auto decisive per la svolta Usa
di VITTORIO ZUCCONI
FIGLIA di un dio povero e frugale, che mai avrebbe sognato di convertire le divinità dei motori nel loro santuario, la nostra bambina di latta arriva nella terra dei ciclopi d'acciaio per cercare di salvarli dalla loro cecità. Un'eresia, un'impossibilità, una rivoluzione culturale. Immaginare un'"America in 500" oggi sembra ancora assurdo, un ossimoro, come ieri sarebbero stati impensabili un presidente americano nero, un miliardario russo o un banchiere cinese che salva Wall Street. Dunque può accadere.
Se il signor Walter Percy Chrysler, che dalle officine di riparazione dei treni in Texas divenne il creatore della terza casa automobilistica americana negli anni '20, potesse oggi vedere il "topolino rampante", come già l'hanno ribattezzata, la 500, sulle strade americane, penserebbe a uno sketch televisivo, a un giocattolo per bambini viziato.
Forse a un cartone animato come quell'eccitabile "Luigi", appunto disegnato in forma di Cinquecento, amabilmente preso in giro nel film disneyano "Cars". L'automobilina che cercherà di rotolare sulle "superhighway" a otto corsie della California, di duellare con i mostruosi tir "18 ruote" è il polo opposto di tutto ciò che siamo abituati a considerare americano, dove il "bigger is better", il più grande è migliore, domina l'identità nazionale. E tutto ciò che è italiano racconta alla cultura popolare di cose belle, eleganti, raffinate, colte, magari delinquenziali, ma parla raramente di eccellenza industriale o ingegneristica.
Se il nome della Cinquecento era sopravvissuto nel subconscio anche al disastro commerciale della Fiat negli anni '70, quando migliaia di acquirenti americani furono abbandonati al loro rugginoso destino a bordo delle "128" e "124 cabrio" senza assistenza, è stato grazie a collezionisti un po' annoiati, consumisti snob, gli stessi che hanno recuperato il culto della Vespa dimenticato dai tempi di "Vacanze Romane" e Audrey Hepburn. Piaceva ai "car fanatics", alle stelle di Hollywood, ai miliardari viziati come Ralph Lauren della Polo o Jay Leno, il signore dei talk show serali, che le compravano per sazietà delle "solite" Ferrari, Rolls Royce, Porsche o BMW. Si diceva che anche Ayn Rand, l'immigrata russa che divenne la sacerdotessa del liberismo, ne possedesse una, ma in realtà la Rand disse soltanto che ne avrebbe voluta una, come esempio di come l'industria libera sappia rispondere al mercato.
Alla delusione per il tradimento della Fiat negli anni '70 e alla collera per l'abbandono del marchio che aveva sfidato i difetti di qualità per affermarsi nei desideri come l'Alfa Romeo, erano sopravvissute rare "Cinquecento" importate direttamente dall'Europa, perché qui mai furono vendute ufficialmente, e scambiate sul mercato delle aste di auto classiche, per 15 mila dollari se ben restaurate. "Topolini rampanti" guidati per fare esibizionismo, come la decapottabile rossa del 1957 che il comico più amato d'America, Jerry Seinfeld, porta in giro per le vie di Manhattan, affrontando le mostruose pozzanghere e i patetici freni a tamburo che a volte lo tradiscono, come accadde in un incidente dello scorso anno, concluso da un testacoda. Ammesso che nella 500 si riesca a distinguere la testa dalla coda.
Ma alla rinata bambina di lamiera che qui sarà saggiamente venduta senza il "badge" Fiat, soltanto come Cinquecento, come fece la BMW lasciando la Mini Morris al proprio nome, spetta la fatica missionaria di continuare la conversione degli americani al "più piccolo è meglio", che da anni i giapponesi, poi i coreani, poi gli europei con la Mini e la Smart dal modestissimo successo di nicchia, hanno cominciato. Con la benzina arrivata lo scorso anno alla cifra di 70 centesimi al litro, mostruosa per chi ancora si crede una nazione autosufficiente e si illude di avere ancora gigantesche riserve sotto i piedi, la speranza di Marchionne, di chi guiderà il guscio della Chrysler, dei creditori, dei sindacati spremuti e di Barack Obama è che il richiamo del portafoglio si sposi alla seduzione del glamour italiano in quella "city car", una sorta di Prada su gomma. E aiuti gli automobilisti, soprattutto le mamme SUV che circondano le creaturine con corazzate da guerra in Iraq vincere il terrore di sfidare a duello, come nel bel film di Spielberg, i mostri del trasporto commerciale.
L'America andrà in 500, anche dopo le lodi concesse dai critici del New York Times e di Popular Mechanics, soltanto se scatterà il passaparola, se la bambina di lamierina diventerà un oggetto insieme di uso e di culto, purché a prezzi concorrenziali con le efficienti scatolette coreane.
Forse non si tornerà più al rispetto che Henry Ford manifestava per la Alfa Romeo, quando invitava a "togliersi il cappello" davanti alle automobili di Arese e la 500 resterà un oggetto di divertimento, un monile da esibire, una "calamita per il sesso", secondo la brutale formula del comico Sasha Cohen in Borat, per rimorchiare signore incuriosite nei parcheggi degli shopping center. Oggetti di sorriso, ma non piu di ridicolo come anche i Simpsons la presero in giro in un episodio.
Per adottare la nostra bambina, mentre altri sperabilmente apprezzeranno le sue sorelle maggiori con il marchio ancora amatissimo del biscione, l'America dovrà innamorarsi di lei e perdonarle qualche rumorino e cigolio, saltabeccando su pozzanghere ancora patriotticamente americane, dunque ancora enormi, nelle quali la ridotta lunghezza della 500 non darà quella sensazione di materasso di piuma che gli inguidabili macchinoni americani concedono.
Dovrà sgomitare fra le altre tascabili che da tempo sono emigrate negli Stati Uniti, accettando la sfida di un mercato spietato al punto di avere costretto i tirannosauri di Detroit e chiedere aiuto ai velociraptor di Torino. Molto è cambiato dai tempi del marchio Fiat letto come "Fix it again Tony", riparamela ancora Tonino e la bambina, un successo l'ha già ottenuto. Quello di farci ascoltare - sbalorditi - il successore di un presidente chiamato Nixon che esclamò "io me ne strafotto dell'Italia e della lira", ringraziare la Fiat, lodarne il managament e la tecnologia. Trent'anni dopo Tonino, il meccanico dalle unghie nere e dalla tuta ha l'occasione per la sia vendetta. Deve tornare ancora, ma questa volta per riparare l'industria americana.
(1 maggio 2009) da repubblica.it
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« Risposta #32 inserito:: Luglio 10, 2009, 06:36:07 pm » |
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IL COMMENTO
L'esempio di Barack
di VITTORIO ZUCCONI
In questo che sarà se non l'ultimo, certamente uno degli ultimi, G8, strumento ormai "non idoneo" come ha detto il presidente di turno Berlusconi che ormai non aveva più niente da chiedergli, mentre incassava quella giornata di sole della quale l'Italia, e lui specialmente, avevano tanto bisogno, Barack Obama affrontava invece uno dei primi rovesci internazionali della sua presidenza: il nyet delle nuove potenze nascenti alla sua campagna contro il riscaldamento della Terra.
Alla preoccupazione di immagine che aveva animato il nostro presidente del Consiglio italiano, aveva fatto da contrappunto la battaglia di sostanza che l'americano si era proposto di condurre e che la fuga del presidente cinese Hu Jintao, tanto tempestiva da apparire persino sospetta, aveva svuotato prima ancora che cominciasse. Era evidente che raggiungere accordi parziali sul clima fra nazioni occidentali che comunque erano già d'accordo sarebbe stato facile e il difficile sarebbe venuto nel convincere colossi umani, finanziari, politici e industriali come Cina, Brasile e India, da sole oltre un terzo della popolazione planetaria, a non fare quello che per secoli noi abbiamo fatto, secondo la sindrome del villeggiante al mare che vorrebbe bloccare ogni nuova costruzione dopo essersi comperato la casa.
Questo dell'Aquila, nel secondo giorno in cui proprio Obama ha preso la presidenza del futuro Gruppo, formato non dai soli Otto, ma da quattordici nazioni, era il primo incontro pratico, su terreni concreti, fra il nuovo presidente americano e quella Cina che lui, pur nell'attivismo politico dimostrato nei sei mesi alla Casa Bianca, aveva sempre aggirato ed evitato con cura. A differenza del predecessore Bush che era salito al potere nel gennaio del 2001 annunciando la dottrina contraddittoria dei "concorrenti e partner", un bluff che i Cinesi avevano subito visto costringendo un aereo spia americano ad atterrare e Washington a chiedere scusa, Obama non aveva mai articolato una propria ben definita strategia cinese. E ora si capisce il perché.
Perché la Cina, non ancora un co-eguale negli affari del mondo per la propria natura politica, è già capace di essere il punto di riferimento e di coagulo di coloro che non cercano pacche sulle spalle da Washington e non vogliono accettare a scatola chiusa le scelte fatte dalle nazioni occidentali e dagli Stati Uniti che le guidano.
La risposta di Obama è stata quella di "aprire la scatola", di non imporre a questo gruppo di nazioni che vogliono contare di più, il "chi non è con me è contro di me" caro al manicheismo di Bush, ma di provare a dimostrare che, finalmente, l'America intende praticare quello che predica, in materia di democrazia, di stato di diritto e di difesa della Terra, per "non chiedere ad altri quello che noi non siamo disposti a fare". "I giorni dello spreco sono finiti anche per noi" ha detto nella dichiarazione finale, per togliere quella antica sensazione che i ricchi siano sempre bravissimi a predicare quello che essi non vogliono praticare, magari accusando dall'alto, come il lupo, l'agnello di sporcare l'acqua. O che, come fu in uno dei primi e più infelici atti di Bush stracciando la modesta intesa di Kyoto, neghino addirittura l'esistenza del problema per non doverlo affrontare.
La sfida di Obama al mondo che anela a quei modelli di sviluppo che le nazioni più mature cominciano a riconoscere come insostenibile, è di "lead by example", come disse più volte in campagna elettorale, di "guidare con l'esempio" e di essere il migliore, non il più prepotente. Anche Silvio Berlusconi, che sembra avere già interamente dimenticato gli anni della presidenza Bush con l'entusiasmo del convertito per l'"obamismo", si è prontamente adeguato, e anche questa conversione al neo-ecologismo era parte del prezzo pagato, insieme con i 500 militari in più in Afghanistan e i tre prigionieri di Guantanamo accettati in Italia, per proteggere la propria posizione internazionale e quella dell'Italia.
Se il G8, come istituzione, è ormai in agonia e altri gruppi più rappresentativi del mondo lo sostituiranno, non sarà il caso di piangerlo.
Anche questo, come tutti gli organismi e le organizzazioni ha svolto la propria funzione e ormai palesemente era un sopravvissuto alla propria ragione d'essere. Ma nel Gruppo che lo sostituirà, e del quale fortunatamente l'Italia farà ancora parte in attesa di una rappresentanza collettiva dell'Europa, la lezione di questo ultimo valzer all'Aquila sarà importante, non per massaggiare la vanità dei singoli, ma per avere detto che il tempo del direttori e dei diktat dell'Occidente a "chi ci sta" e peggio per gli altri, sta tramontando. Se l'America, con l'Europa, intende ancora guidare, dovrà farlo convincendo gli altri di meritarlo con l'esempio della propria capacità di governare la propria gente e il proprio spicchio di mondo meglio con più coscienza e integrità di quanto sappiano fare Cina o India o Brasile, se ci riescono, e non per autoinvestituira. Come ha cominciato a fare, o a tentare di fare, Barack Obama riconoscendo che dall'America degli sprechi deve partire la nuova economia dello sviluppo intelligente.
(10 luglio 2009) da repubblica.it
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« Risposta #33 inserito:: Luglio 11, 2009, 09:16:24 am » |
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IL COMMENTO
I contrasti dietro i sorrisi
di VITTORIO ZUCCONI
È stato l'incontro fra due viaggiatori venuti dagli estremi opposti della storia umana, il Papa bianco di una Chiesa che non può mai cambiare e il papa laico di un'America che non può fare a meno di cambiare. Dopo tanta sceneggiatura all'Aquila, il loro è stato il solo, autentico "vertice" di questi tre giorni di G8. Perché vedere quei due uomini così diversi fra loro - e basterebbero i nomi a segnalarlo, Barack Hussein e Joseph Aloisius - stringersi le mani calorosamente a nome di grandi comunità di cittadini o di credenti, era la fotografia di che cosa sia divenuto il mondo e di che cosa sia destinato a divenire.
Non esistono due figure che possano reclamare una riconoscibilità globale più immediata ed eloquente di Barack Hussein Obama e di Joseph Aloisius Ratzinger e forse per questo sembravano conoscersi da sempre. È stato probabilmente uno shock, per chi non è abituato vederlo in azione, osservare come addirittura fra i due fosse l'estraneo, Obama, ad apparire più a proprio agio del padrone di casa, che pure in quelle stanze, prima da influentissimo cardinale e ora da Capo della Chiesa, vive da decenni. Semmai il più preoccupato di fare un gesto sbagliato, di mostrarsi un ospite non abbastanza premuroso o troppo premuroso, era papa Benedetto, che posava per i fotografi con la dolorosa timidezza della sua personalità, dardeggiando gli occhi per chiedersi quando farla finita coi flash. Mentre lo straniero, unico volto nero nella folla di pallidi camerlenghi, nobiluomini, prelati, diplomatici, guardie alpine, sorrideva con la collaudata spontaneità di chi lì fosse nato.
La naturalezza del presidente americano, un "natural born leader", un uomo che sembra nato ovunque si trovi e che riempie di sé ogni spazio in cui entri, si tratti di un campetto da basket in una high school dello Iowa o di un'apoteosi di marmi barocchi e di porpore in Vaticano, rendeva spontaneo e facile un incontro che invece era pieno di sottintesi e di difficoltà.
I rapporti fra il Vaticano e gli Stati Uniti d'America non sono una storia facile. Da appena 24 anni, dal 1985 quando era papa Giovanni Paolo e presidente Ronald Reagan, i due stati si riconoscono ufficialmente. Anche oltre la formalità delle relazioni, la sostanza ha conosciuto alte e basse maree violente.
Il gelo del rapporto fra Wojtyla e Clinton, uomo dai costumi privati abominevoli per la Chiesa e dichiaratamente pro aborto, fu visibilissimo nelle visite del Papa negli Usa. A St. Louis nel Missouri e poi a Newark, nel New Jersey, quando il Pontefice e il Presidente passarono l'uno accanto all'altro come due navi che si incrociano nella notte, educatamente tenendo la distanza, senza davvero fermarsi.
L'entusiasmo per la ostentata cristianità di George Bush, che aveva fatto sperare la Santa Sede in una presidenza militante contro aborto e ricerche sulle staminali embrionali, si dissolse nella netta opposizione del Vaticano all'invasione dell'Iraq. Un'opposizione che non si tradusse affatto nell'appoggio ai candidati opposti, come John Kerry, attaccato dall'episcopato americano come "abortista" o a Barack Obama che ricevette la condanna di 73 vescovi, un terzo della Conferenza Episcopale americana, quando fu invitato il mese scorso a parlare nella principale università cattolica della nazione, "Notre Dame" dell'Indiana.
Di questa storia irrisolta, non c'era traccia visibile, nel "vertice" di ieri nei Palazzi Apostolici. Se la First Lady, Michelle, imprigionata come una statua nell'abito nero d'ordinanza sotto un velo che i capelli a crocchia alti sul capo facevano somigliare a una "mantilla", appariva un po' rigida, il marito riusciva a salutare Benedetto XVI come se avesse ritrovato il consigliere spirituale della propria giovinezza, un "brother" più anziano e caro. Lui che fu allevato dal padre e dal patrigno, musulmani, nella lettura del Corano in Indonesia, che abbracciò, tiepidamente il cristianesimo protestante dei Battisti, obbligatorio per un politico americano di colore, ha offerto al Papa la stola del primo santo americano come la cara reliquia di una religione mai professata.
Persino i Kennedy, forse perché cattolici, e Jacqueline, erano apparsi intimiditi da quelle stanze e da quell'atmosfera, quando furono ricevuti nel 1963 da Paolo VI. George Bush, con la sua libraia Laura al fianco, era visibilmente scosso dall'incontro con la schiacciante figura morale di Giovanni Paolo II. Neppure JFK, che conosceva l'arte della spontaneità a comando, aveva mostrato la capacità quasi disumana di Obama di passare dal sorriso più rilassato, in quel mondo a lui completamente estraneo, alla pensosità più riflessiva, di fronte a questo Papa con il quale, in futuro, non potranno mancare i contrasti.
Specialmente quando il nodo delle sentenze e delle leggi sull'aborto tornerà molto presto davanti al Parlamento e alle Corti americane. E Obama non potrà cavarsela con un sorriso e un discorso, come, con la sottigliezza del vecchio sacerdote che non perde occasione di tentare la salvezza della pecorella smarrita, gli ha ricordato Ratzinger regalandogli anche una copia della sua enciclica "Dignitatis personae", summa della sua dottrina anti-abortista.
Uscendo, nel trascinare i piedi per non investire la antica processione del seguito papalino, Obama si è fermato a osservare un Caravaggio, una delle tante tele casualmente appese in quelle stanze, forse pensando alle orrende croste con i ritratti dei suoi predecessori che lo attendono alle pareti della Casa Bianca. Se abbia provato un brivido di invidia e di timidezza almeno in questo confronto, non ha dato a vedere.
(11 luglio 2009) da repubblica.it
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« Risposta #34 inserito:: Luglio 12, 2009, 04:39:58 pm » |
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L'ANALISI
Barack è il messaggio
di VITTORIO ZUCCONI
SOLTANTO un uomo con la sua storia e il suo volto sarebbe potuto saltare dal Vaticano al cuore più nero della turpitudine coloniale bianca e dire all'Africa quello che ieri Obama ha detto in Ghana: "Yes, you can".
Sì, voi potete farcela. "Voi", con il nostro aiuto, non "noi", europei, americani, o asiatici. Non c'è molto che il mondo esterno, i club degli Otto, o Quattordici, o Venti, o quanti decideranno di essere i ricchi del mondo, possa fare per le nazioni africane, se non saranno le nazioni africane a scuotersi e a seguire l'esempio della terra detta del "Re Guerriero", appunto del Ghana.
Il ritorno al paese del figlio che ce l'ha fatta, anche se non fu la terra degli Ashanti, il Ghana, a dare origine alla famiglia paterna di Obama, ma il Kenya evitato per il caos sanguinoso interno, ha molto più di un facile valore simbolico e della carica umana di una folla in estasi. Altri leader politici hanno stanziato aiuti generosamente, come fecero Clinton e Bush, hanno espresso lo stesso concetto della "self reliance", del contare su se stessi, magari dimenticando che si domanda all'Africa di scavalcare montagne che i predicatori ancora innalzano, dalla Cina agli Stati Uniti, per succhiare le risorse del continente.
Ma per la prima volta da quando l'uomo bianco mise piede su questa costa, la persona è il messaggio. La testimonianza ha un volto reale - e intenzioni personalmente sincere - che può rompere il comprensibile scetticismo dei popoli africani verso quei distratti benefattori che si dimenticano di staccare gli assegni. Magari adducendo il pretesto che tanto, in quelle nazioni corrotte, i soldi dei poveri europei finiscono nei conti in Svizzera dei ricchi africani. Come se soltanto i ras tribali del Sub Sahara avessero conti numerati e società matrioska in Svizzera o in Lussemburgo.
Obama è una "piccola Africa" lui stesso, un uomo nato nelle condizioni più sfavorevoli che l'America del Nord potesse offrire, chiuso nel ghetto della propria pelle. Mezzosangue; figlio di una madre poco più che "sedotta e abbandonata"; sballottato attraverso le Praterie, il Pacifico, l'Indonesia, le Hawaii; portatore di un nome che sarebbe divenuto, dopo l'11 settembre, tossico, come Hussein. Sempre esposto alle tentazioni della strada e ai richiami di una comunità di colore che ancora diffida e disconosce il nero che vuole "comportarsi da bianco". E alla fine sarebbe diventato "il Re Guerriero", il Presidente della più potente tribù della Terra. Dunque può dire a chiunque, sia esso un Ghanese o un orfano della South Side di Chicago: "yes, you can". Se io ho potuto, così puoi tu.
E' lo stesso tasto sul quale, accolto con freddezza iniziale, battè nel suo discorso elettorale alla Naacp, la lobby dell'America di colore, quando disse che il tempo delle lamentazioni, del vittimismo, dei rancori era finito e ai giovani "black" americani erano aperte occasioni di successo, di studio, di promozione sociale, che i loro genitori non avrebbero neppure potuto sognare. E che spettava alle famiglie, soprattutto ai padri, assumersi la responsabilità di strappare i figli ai "videogame" e inchiodarli al quaderno dei compiti.
Come il club dei ricchi che si credono "grandi" non possono cercare alibi alla loro indifferenza davanti alla catastrofe di quella parte di umanità che essi continuano a dissanguare, così il triste club dei poveri deve trovare in sé la forza per sfruttare al meglio le proprie risorse umane e materiali, dice all'Africa il figlio tornato per un giorno alla casa del padre. Il Ghana era stato ribattezzato dai predoni di Sua Maestà britannica "la tomba dell'uomo bianco" per la strage, fatta da zanzare e malattie tropicali ignote, dei pallidi mercanti di Londra. Obama offre ai propri fratelli di essere, se lo vorranno, lo strumento per la resurrezione dell'uomo nero.
(12 luglio 2009) da repubblica.it
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« Risposta #35 inserito:: Ottobre 10, 2009, 04:55:28 pm » |
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IL COMMENTO
Un premio al futuro
di VITTORIO ZUCCONI
WASHINGTON - Voto di incoraggiamento più che voto di profitto il Nobel per la Pace a Obama che ha mandato fuori dai gangheri coloro che non hanno mai digerito la vittoria di quest'uomo troppo diverso, ha un merito e un difetto evidenti.
Ha il merito di premiare le buone intenzioni e il difetto di ignorare l'assenza di risultati concreti ottenuti nei pochi mesi - dieci - di presidenza. Di essere, in una parola sola, una scommessa.
Non è la prima volta, e neppure l'occasione più controversa, nella quale questo Nobel, assegnato da un circolo di giudici norvegesi diversi dall'Accademia svedese, che il riconoscimento per la pace viene conferito a lavori in corso o per successi discutibili. Quando lo vinse Lech Walesa, che ieri è stato ingenerosamente tra i critici di Obama, era l'anno 1983 e la battaglia di Solidarnosc contro il regime polacco era ancora molto lontana dal successo pacifico, mentre infuriavano le voci di un'invasione sovietica. E il primo presidente americano che lo ricevette, Theodore Roosevelt nel 1906, era reduce da una guerra coloniale per strappare Cuba alla Spagna, dove aveva condotto bande di volontari, cowboy e irregolari all'assalto delle colline nemiche.
La novità soprendente di questa edizione 2009 non è il suo essere controversa, perché da Arafat a Le Duc Tho, da Kissinger a Mohamed el Baradei, direttore dell'Agenzia atomica internazionale, molti insigniti hanno lasciato più dubbi che entusiasmi. È l'essere stata dedicata alle intenzioni, prima che alle azioni, e l'aver premiato per la prima volta un capo di Stato all'inizio della propria difficilissima avventura. Un azzardo, una puntata a partita appena iniziata.
Il merito di Barack Obama, quello che ha creato l'unanimità di giudizio fra i giudici, è stato di essersi visto ancora come il non-Bush, la non-Coca Cola, secondo lo slogan celebre di una bibita che voleva fare concorrenza alla marca più famosa; come colui che vede, e fa, la guerra come ultima possibilità e non come scelta ideologica a priori. Almeno agli occhi dell'Europa - un po' meno dell'America, dove l'infatuazione elettorale, come sempre accade, si è inevitabilmente raffreddata - Obama incassa ancora i grassi dividendi (oggi divenuti il milione di euro del Nobel) della plebiscitaria impopolarità di Bush nel mondo.
È sembrato un paradosso anche il fatto che sia stato scelto come simbolo di pace proprio nei giorni in cui potrebbe decidere, con molta riluttanza, di inviare altri 40mila soldati in Afghanistan in missione di guerra come gli domandano i generali. Ma il Nobel non ha mai premiato i pacifisti, come a volte si equivoca, piuttosto coloro che alla pace arrivano anche preparando la guerra, secondo il motto latino, o vincendola. Cordell Hull, il segretario di Stato americano insignito nel 1945, era l'autorevole rappresentante di una nazione che aveva appena sganciato due bombe atomiche sul Giappone e condotto una guerra senza quartiere. Ma aveva aiutato a combattere e a vincere un conflitto che appariva indubitabilmente giusto.
Non tutti, vuole dire questo Nobel ancora più controverso, soggettivo e addirittura screditato - per chi non ne condivide le scelte - di quello per la Letteratura, possono essere apostoli e martiri della non violenza come Martin Luther King, madre Teresa di Calcutta, Albert Schweitzer e Aung Sang Suu Ky. In Obama si è voluta riconoscere la volontà di ammettere, politicamente, gli errori ideologici dei predecessori infilati nel vicolo cieco dei cambi di regime a piacere, anche se l'eredità di quegli errori continua a trascinare il nuovo presidente nel pantano dove si è trovato al suo insediamento.
Anche la reazione della Casa Bianca alla notizia, che Obama ha raccontato di avere saputo dalla figlia che lo ha svegliato annunciandogli di essere stato premiato (graziosa bugia per il pubblico, perché era già stato preavvertito dall'addetto stampa Gibbs alle 6 del mattino) porta quel segno di novità, di aria fresca nel palazzo del massimo potere, che il cupo regno di Bush e del suoi ringhioso vice Cheney avevano reso soffocante. "Wow!" è stata la prima esclamazione, da teenager sopreso da un grosso regalo inatteso. E poi barbecue serale, con bistecche e salsicce e hamburger, come un picnic in famiglia con amici.
Un'assenza di retorica, di vanagloria, di rivincita contro il branco di chi abbaia contro di lui, che conforta ancora più delle sue parole di risposta ufficiali, dove ha ammesso che non sono stati i suoi "accomplishment", i risultati, a meritargli il premio, ma "il riconoscimento del ruolo di leadership dell'America". Possibilmente un'America che somigli più al discorso del Cairo pronunciato da Obama che ai proclami deliranti di "nuovi secoli americani" scritti dai neotrotskisti - poi detti neocon - convertiti alla crociata permanente. Questo premio è semplicemente una "chiamata ad agire". Nel gergo sportivo, Obama ha fatto il gol e ora deve meritarselo.
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« Risposta #36 inserito:: Novembre 16, 2009, 10:51:17 pm » |
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L'ANALISI
Dalle promesse alla realtà
di VITTORIO ZUCCONI
"Avrebbe potuto prendere il toro dell'inquinamento globale per le corna a Copenaghen e invece lo ha scansato" fremono contro Obama gli ambientalisti del Wwf, aggiunti da ieri alla sempre più lunga lista internazionale dei delusi dal carismatico "profeta del cambiamento" che in 10 mesi di presidenza sembra avere cambiato poco.
La sua rinuncia a fare del vertice Onu in Danimarca sull'ambiente, in dicembre, la affermazione definitiva del nuovo corso americano sul clima, e la notizia che il presidente oggi occupato a parlare di vile moneta e di mercati con i cinesi, neppure si scomoderà a parteciparvi visto che nessun trattato concreto ne uscirà oltre i soliti "impegni politici" sta seminando lo sconforto tra coloro che avevano visto in lui l'attore di quella svolta ambientalista che George Bush aveva scaricato. Se non è proprio lo sprezzante rifiuto del primo accordo di Kyoto che George "W" aveva pronunciato morto nel 2001 per rassicurare subito i poteri economici e industriali americani che lo avevano appoggiato, l'ammissione che anche questo nuovo tentativo di affrontare appunto "per le corna" il toro del degrado ambientale planetario è stato accantonato, sembra la "piccola Kyoto" di Barack Hussein Obama.
Ma una differenza fondamentale, anche se ancora non tradotta in azione politica e diplomatica internazionale, fra la ritirata di Kyoto ordinata da Bush e il "time out" di Copenhagen voluto da Obama esiste e può consolare i delusi del Wwf e gli ambientalisti che si attendevano dalla Danimarca molto più di un "accordo politico vincolante" come lo ha chiamato il premier danese Rasmussen, dove il sostantivo, "politico", svuota l'aggettivo "vincolante". Il Bush dei primi quattro anni era ideologicamente scettico, se non proprio indifferente, all'ambientalismo, alla globalizzazione della risposta, alla cultura dell'"effetto serra" e del surriscaldamento della Terra provocato dall'attività umana che lui, e i suoi suggeritori politici, consideravano, appunto, come un'ideologia, non a caso incarnata dal rivale che aveva (forse) sconfitto alle elezioni del 2000, Al Gore.
Il problema, e l'atteggiamento di Obama, è tutt'altro. Ha la stessa radice di tutte le "delusioni" che la sua politica su Guantanamo, le guerre in Iraq e in Afghanistan, la sfida del terrorismo transnazionale, la riforma della sanità, le grandi questioni etiche e pratiche come l'aborto, le unioni fra persone dello stesso sesso, i "gay" nelle forze armate, stanno sollevando nel "movimento" che lo proiettò alla Casa Bianca. Obama vorrebbe, ma non riesce. Bush non voleva e riuscì a non fare, che è sempre cosa assai più facile.
Il presidente in carica sta, giorno dopo giorno, scoprendo, o ammettendo dopo la scintillante retorica della sua campagna elettorale, quello che tutti i suoi predecessori avevano scoperto, che cioè tra il promettere e il mantenere esiste, anche per la persona che si definisce come "la più potente" del mondo, un abisso. E che questo abisso pratico appare tanto più largo e profondo quanto più grandi erano le speranze suscitate e le promesse fatte. Si può essere, come non abbiamo ragione di dubitare che lui sia, convinti ambientalisti, ma questa convinzione non si traduce necessariamente in un trattato che imponga - come Copenhagen, molto più del vago accordo di Kyoto avrebbero fatto - alle nazioni sviluppate, alle nuove potenze emergenti come India, Cina o Brasile, all'Africa che insegue arrancando, alla parte dell'Asia ancora arretrata, di rispettare meccanismi severi e minuziosi di comportamento.
Si può, e sicuramente lui lo vorrebbe, cercare di ripulire le stalle di Guantanamo, di chiudere l'insensatezza irakena, di trovare la chiave del rompicapo afghano, di dare una copertura sanitaria agli esclusi per censo o per cattiva salute. Ma il "toro" delle opposizioni, degli interessi contrari, degli opportunismi politici, diciamo pure della realtà, non si lascia infilzare facilmente.
Dalla radicalità delle parole alla vischiosità delle cose sta il passaggio che Obama non riesce ancora a compiere, non essendo comunque lui mai stato quel rivoluzionario che soltanto la propaganda avversaria, e le farneticazione tele e radiofoniche di chi lo detesta anche per il colore della pelle senza naturalmente mai ammetterlo, dipingevano. Per questo, come nel caso della "rivoluzione ambientale" interrotta con la rinuncia, per ora, al trattato di Copenhagen che non sarà abbandonato ma ripreso e spinto da lui, Obama tergiversa, negozia, media, attende, scansa il toro, nella speranza di fiaccarlo. Purtroppo per lui, il tempo passa, le amarezze aumentano, nuove elezioni incombono e il torero rischia di restare solo nell'arena delle delusioni.
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« Risposta #37 inserito:: Dicembre 11, 2009, 04:33:46 pm » |
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IL COMMENTO
Il soldato riluttante
di VITTORIO ZUCCONI
Sta nell'equivoco insidioso tra "pacifico" e "pacifista" la chiave per capire le perplessità e i sarcasmi che hanno accompagnato, in America come nel resto del mondo, la consegna del Nobel per la pace a Barack Obama.
Se il Presidente americano sembra avere tradito le speranze che lui stesso aveva suscitato e avere accettato un riconoscimento che stride con la escalation della guerra in Afghanistan, è perché si vuole ignorare la differenza fondamentale che esiste fra coloro che combattono guerre "per scelta" e coloro che le combattono "per necessità".
È la abissale distanza morale che separa le guerre di Roosevelt in Europa e nel Pacifico, dalle guerre di Johnson e Nixon in Asia, le divisioni di Wilson sacrificate sul fronte francese dalla aggressione nipponica a Pearl Harbor, e che Obama ha riassunto, nell'accettare il premio con modestia ai limiti dell'imbarazzo, in un altro aggettivo chiave: "giusta". Per la nobile sensibilità del pacifista, quella fra "giusta" e "ingiusta" è una distinzione senza una differenza, essendo ogni guerra per definizione il Male assoluto da respingere. Per la responsabilità dell'uomo pacifico e del guerriero riluttante, le armi sono invece l'ultimo ricorso, quando ogni altro tentativo, se fatto seriamente e non soltanto per predisporsi un alibi propagandistico, è fallito.
Nel confondere Obama con Bush, nel mescolare la tragica ideologia della "democrazia da esportare" laddove aggradi al più forte con la amarissima, sofferta scelta di insistere nell'operazione afghana, troppi osservatori dimenticano, forse in malafede, che l'invasione, l'occupazione e le operazioni di controguerriglia in Afghanistan ebbero, e ancora hanno, la piena e formale sanzione dell'Onu, che riconobbe nel regime Talebano e nella metastasi terroristica da esso ospitata, una minaccia per l'umanità, manifestata nell'ignominia delle Due Torri. Fu invece soltanto a cose fatte e decise, dopo la stravagante e inedita formula della "coalizione di chi era disposto a starci", costruita su un cumulo di false prove e di dottrine tagliate su misura, che l'Onu diede a malincuore una copertura agli Stati Uniti, quando invasero e occuparono una nazione governata da un regime abominevole, ma estraneo alle trame del fondamentalismo globale.
Qui si spalanca l'equivoco fra "pacifista" e "pacifico". Se la ideologia del pacifismo fosse accettabile, sarebbe Neville Chamberlain, il premier britannico che non osò fermare Hitler per non spezzare la pace formale in Europa, a meritare il Nobel, e sarebbe invece Winston Churchill, colui che utilizzando ogni arma in proprio possesso, rispose ferocemente all'aggressione tedesca, garantendo così due generazioni di pace e di libertà all'Europa occidentale. Il pacifismo, ben oltre il valore sempre assai discutibile di un premio come questo Nobel che ha coronato discutibili campioni della mitezza come Kissinger, il nordvietnamita Le Duc-Tho o Yasser Arafat, è un lusso che il primo responsabile di una nazione come gli Stati Uniti non si può concedere. Non quando dal sistema di sicurezza collettiva instaurato dopo il 1945, non per volontà americana ma per il risucchio del suicidio europeo, dipende, ieri nella Guerra Fredda, oggi nella guerra subdola e asimmetrica contro il fanatismo armato, la sopravvivenza di chi agli Usa si è affidato. Scoprendosi, come disse un incontestabile leader della sinistra mondiale, Enrico Berlinguer, "più sicuri" da questa parte.
La scelta di accrescere, e non di smobilitare, l'occupazione dell'Afghanistan, lo scontro contro i neo-Taleban risorti grazie al fallimento della strategia adottata da Bush che aveva sprecato consenso e uomini per abbattere Saddam mentre si ricostituiva al Qaeda, l'estensione delle missioni in territorio pakistano - come Obama aveva sempre annunciato di voler fare - potrà rivelarsi catastrofica o vincente, un nuovo Vietnam o almeno una Corea stabilizzata nella sua suddivisione. Ma Obama è sicuramente dentro la storia e la tradizione e la cultura americana, anche se i sondaggi per il momento lo castigano, nell'accettare la tragica necessità della guerra e nello sfuggire, come fecero Wilson, come Roosevelt, come Truman, alla tentazione dell'isolazionismo e dell'autoesclusione da un mondo che non è più separato da comodi oceani.
Obama è l'uomo tranquillo che non vorrebbe battersi, ma non può accettare la violenza, il sopruso e la minaccia alla nazione che gli si è affidata. È il leggendario "Sergente York" interpretato nel 1941 da Gary Cooper, strenuo obbiettore di coscienza e pacifista che, costretto in trincea, impara a uccidere e a sconfiggere il nemico. E sa che la strada per ogni pace, pur effimera, è sempre, nel calvario della storia umana, lastricata dalla guerra. Se quello sarà il risultato, questo Nobel sarà stato ben meritato.
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« Risposta #38 inserito:: Gennaio 25, 2010, 10:01:39 am » |
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IL PERSONAGGIO
Serpico, il poliziotto eroe ora vive in una capanna
Denunciò la corruzione dei colleghi. La sua storia diventò un film.
Quarant'anni dopo fa l'eremita e scrive un libro di memorie.
Nel cranio porta i frammenti dei proiettili che gli furono esplosi in faccia nel 1971
di VITTORIO ZUCCONI
Nell'alta valle del fiume Hudson, dove l'acqua del fiume che bagnerà poi Manhattan è ancora limpida, vive da eremita il vecchio che fece crollare il "Blue Wall", il muro blu dell'omertà e della corruzione poliziesca a New York: Serpico. Nel cranio porta ancora i frammenti dei proiettili che gli furono esplosi in faccia. Nel cuore l'amarezza per essere stato dimenticato ed espulso dai "fratelli" in uniforme come un rifiuto tossico. Nel nome riassume la vergogna e lo scandalo che cambiò la polizia in blu e che fece di lui un libro venduto a tre milioni di copie, un'inchiesta ufficiale devastante e un film leggendario.
Lo ha scovato, nella capanna di tronchi da pioniere che egli stesso si è costruito e dove vive con la sua "ragazza" come chiama la signora di cinquant'anni che gli fa compagnia, il New York Times, mezzo secolo dopo quel 1959 nel quale Frank Serpico divenne patrolman, piedipiatti, poliziotto di quartiere a Brooklyn. Frank, che da vecchio somiglia sempre più, nella barba un po' irsuta, nel volto stazzonato da 73 anni di vita dura, nella bandana che gli avvolge la testa ancora trafitta dal dolore dei frammenti di piombo, al personaggio che Al Pacino portò sullo schermo, non è, neppure nella quiete profonda dei boschi, un uomo in pace. Serpico è ancora in guerra col mondo, come era in guerra con i gangster, i pusher, i magnaccia, i mafiosi di Brooklyn, ma soprattutto con i suoi colleghi del "Nypd", il Dipartimento di Polizia, che di quei delinquenti erano al soldo. "Ho ancora incubi - racconta - ogni volta che schiudo una porta, vedo la canna della pistola che mi sparò in faccia".
Vede, soprattutto, quello che accadde dopo, mentre lui cadeva sul pianerottolo della casa di Brooklyn dove era entrato per fermare lo scambio di 10 chili di eroina, con il volto coperto di sangue. Ricorda i colleghi in blu e in borghese, quelli come lui, i detective under cover che assistono alla sua probabile agonia senza invocare nei walkie-talkie e nelle autoradio il "Codice 10-13", "agente a terra colpito" che avrebbe richiamato le ambulanze. Rivede il vecchio immigrato clandestino, un messicano, che da un appartamento vicino chiamò i soccorsi, prima che un'autopattuglia finalmente lo buttasse sul sedile posteriore, portandolo a un ospedale. Frank Serpico, il "napoletano", il figlio di un italiano arrivato da Marigliano, oggi uno dei borghi satellite più inquinati di Napoli, doveva morire, perché tutti sapevano che aveva deciso di scuotere l'albero della cuccagna, i soldi che la polizia incassava dalla malavita.
"Non so che cosa sia cambiato, forse qualcosa, forse niente", dice oggi, da lontano, nella solitudine della sua log cabin, della capanna di tronchi, "Paco", come lo avevano soprannominato, dove sta scrivendo le memoria "prima che sia troppo tardi". Allora, molto sembrò cambiare, e quella schioppettata in faccia che lui si prese entrando nel nido degli spacciatori nell'indifferenza soddisfatta dei colleghi, fece finalmente tremare il "Muro Blu". Fu insediata una commissione d'inchiesta guidata dal giudice Knapp che scoperchiò, per la prima volta, il pentolone. Dozzine di agenti, di detective, di ispettori, di dirigenti, furono arrestati o radiati, permettendo ad altri di dimettersi in silenzio, per salvare quello che restava della "faccia".
La Commissione Knapp cercò di distinguere fra la grande corruzione e quella spicciola, quotidiana. Disegnò due categorie di poliziotti "on the take", come si dice nel gergo, pagati dai criminali. I Vegetariani, i "grass eaters", quelli che si accontentavano di brucare le banconote infilate nella stretta di mano, di fare la spesa e di cenare gratis nei negozi e nei ristoranti per non vedere quello che accadeva nei retrobottega. E i Carnivori, i "meat eaters", i complici ingordi delle grandi organizzazioni, dei gangster, delle "famigghie", delle quali erano la protezione e la copertura. Si parlò di "centinaia di milioni di dollari" ruminati o divorati ogni anno da vegetariani come da carnivori.
Il figlio dell'immigrato napoletano che "non ci stava" fu celebrato fuori, ed esecrato dentro: "avevo spezzato l'omertà". Venne promosso a detective, decorato con una medaglia che oggi tiene buttata in un cassetto, salutato davanti alle telecamere dai tromboni del potere come un eroe. E poi, appena cinque anni dopo la grande "pokazuka", la sceneggiata del risanamento, allontanato. Scomparve. Emigrò in Europa, in Svizzera, quanto di più lontano dalla sua New York si potesse trovare, vivendo con la quota di diritti d'autore sul libro che Peter Mass aveva scritto su di lui e con lui, e sul film girato da Sidney Lumet con un sensazionale Al Pacino.
Ma neppure la Svizzera fece di lui un mite borghese integrato. Quando si rassegnò a tornare in patria, tornò a New York, sì, ma nello Stato, nel nord selvatico. Riprese i panni dello hippie che usava da investigatore e l'irrequietezza del ribelle che era sempre stato, anche con il "badge", con il distintivo della polizia, e la sua famosa Browing 9mm, sotto gli stracci da vagabondo. E anche dalla solitudine silvana, non avrebbe mai smesso di dar fastidio. Oggi nel suo blog ringhioso, ieri con lettere ai giorni, avrebbe continuato a irritare quella polizia dove, da bambino italiano aveva sognato di entrare. "Forse sono meno corrotti, ma sono ancora più brutali e quindi ancora più fuori dalla legge che dovrebbero far rispettare", dice e ricorda Amadou Diallo, il ghaniano di 23 anni disarmato che quattro poliziotti del Bronx abbatterono nel 1999 sparandogli 41 colpi di pistola in corpo per "malinteso", uscendo tutti assolti.
Non c'è pace per lui, neppure fra i larici e gli abeti del Nord, dove la compagna lo sorprende a seguire tracce di sangue nella neve, per raggiungere animali, cervi, orsi, procioni, martore e scoprire perché abbiano sanguinato. Un matto, un maniaco, come tutti coloro che si ostinano a credere alla giustizia.
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« Risposta #39 inserito:: Marzo 23, 2010, 10:33:03 am » |
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Lui guadagnerà meno, lei potrà finalmente curarsi.
Confusione e paura dell'ignoto
La "rivoluzione" di Obama spaventa i medici, costretti ad applicare tariffe calmierate
L'ira di Jerry, la gioia di Giorgina il doppio volto della riforma
di VITTORIO ZUCCONI
NEW YORK -"Ho 41 anni, una moglie che non può lavorare con 3 figli piccoli, opero e visito 14 ore al giorno. La riforma della sanità mi condanna".
Il dottore che fa nascere i bambini nell'immenso ospedale del New Jersey dedicato a San Barnaba si toglie la bustina azzurra da sala chirurgica e guarda il secchio di orrido caffè ospedaliero ormai freddo sulla formica rosa della mensa: "Ogni anno pago cifre astronomiche per l'assicurazione, ancora non ho finito di saldare il debito per la laurea e la specializzazione, e Obama mi ha rovinato perché lui deve passare alla storia". Ha appena finito tre cesarei, un isterectomia, un intervento esplorativo, due parti naturali al St. Barnabas di Livingston, un sobborgo a mezz'ora da New York, nella prima mattina della nuova era della "Obamacare", della sanità per tutti, e l'uomo che dà la vita si sente derubato della propria. "Questa riforma che tanto piace ai liberal, ai progressisti, lascerà ancora più donne senza assistenza, perché costringerà gli specialisti come me, gli ostetrici, i cardiologi, gli oncologi, gli ortopedici a lavorare per tariffe fissate dal governo, o a lasciare la professione. Un mio collega radiologo sta già studiando per prendere la licenza da agente immobiliare".
Il dottor Jerry, che è il suo nome vero e che ho visto lavorare da vicino sulle vite della mia famiglia, è l'altra faccia di questa rivoluzione che la legge approvata dalla Camera per tre minuscoli voti di maggioranza su 435 deputati inaugura. In realtà nessuno, il mattino dopo la rivoluzione, di fronte alle 209 pagine che contiene, sa ancora bene dove porterà un'America che mai, nella propria storia, aveva visto niente di simile. Le storie umane degli uomini e delle donne risucchiati da un evento che la nazione aveva atteso per 100 anni, dalla iniziativa di Teddy Roosevelt nel 1912, ma che ora non sa come affrontare, si intercettano e si scontrano come particelle di carica opposta in una molecola. Agitate dalla più elementare e sicura delle verità politiche e sociali: tutti diciamo di essere favorevoli al "cambiamento", il change evocato da Obama, ma quando il cambiamento arriva, scatena la paura dell'ignoto.
Per un dottor Jerry, affranto dalla fatica della sala operatoria e dal terrore di vedersi azzoppato proprio negli anni in cui dovrebbe cominciare a incassare i benefici della professione cominciata di fatto a 32 anni, dopo studi, apprendistati, vita da schiavo in camice bianco negli ospedali, ci sono le Giorgine, la signora del Salvador che ha strappato dopo 12 anni l'agognata cittadinanza americana, ma che lavora in casa mia in nero - come tutte le Giorgine del Salvador e i Lazaro del Nicaragua - e prega tutte le Madonne, le Macumbe, le Santerie, i Serpenti Piumati della propria terra affinché la proteggano dalla malattia. Non ha mai visto un dottor Jerry in vita sua. Non sa che cosa siano mammografie, tac, ecografie, non parliamo di risonanze magnetiche sparate a duemila dollari al colpo per ammortizzare in fretta il costo della macchina, oggi oltre il milione di dollari. La sua polizza è la medaglietta al collo e lo sticker sul paraurti della Toyota sdrucita, "Jesus saves", Gesù ti salva, perché se non ci pensa Lui, nessun altro la salverà.
Non ha capito quasi niente, come non hanno capito niente neppure i 219 deputati che hanno votato sì, o i 216 che hanno detto no, di questo trattato sull'assicurazione obbligatoria e quasi universale. Ieri mattina è andata dove vanno le Giorgine e le Dolores e i Jesus (nel senso degli uomini) in queste occasioni, in chiesa, a sentire dal pastore che cosa cambierà per lei. E ha gli occhi lucidi, forse soltanto stanchi. "Pare che molto presto, entro sei mesi, potrò avere una polizza anch'io, per 300 dollari al mese e senza limite di durata. Se non ce la faccio, "lo Estado" (fa un po' casino fra stati e governo federale) mi darà la differenza fra quanto posso pagare e quei 300 dollari". Ma c'è un limite di reddito, la avverto. "Sì, 88 mila dollari all'anno per un famiglia di quattro, e quando mai ci arrivo". Ride, perché la sua povertà è diventata una forza. "E sa una cosa?" No, me la dica. "Con quei 300 dollari al mese potrò coprire anche mio marito, che è disoccupato, e i miei due figli, fino a 26 anni. I niños saranno coperti, capisce?". Ah, i niños. Non più serpenti piumati e santos.
Appena avrà la polizza, correrà in ospedale per una mammografia, quella che le signore per la quali lavora a ore si fanno religiosamente ogni anno. Sua madre morì alla sua età, 43 anni, di tumore alla mammella. La speranza di sopravvivere, per Giorgina, è un radiologo che non si butti sull'immobiliare.
Nel pronto soccorso del Morristown Memorial Hospital, un altro dei mega ospedali che gravitano attorno a Manhattan e sono regolarmente assaliti perché meno cari, si affolla la solita umanità dei disperati senza copertura, che trascinano bambini con il moccio fino al mento e robusti, tossicolosi giovanotti dall'aria clandestina che il poliziotto finge di non vedere e che gli ospedali sono obbligati a visitare e curare una volta, in emergenza, e poi buona notte e buona fortuna. Ci incontro Greg, il signore di mezza età che finge di fare il concierge nel mio condominio, sempre elegante nella livrea nera passata dalla ditta con le chiavette all'occhiello. Ha il cuore ballerino. Una lunga serie di mance ci ha reso amici. "Qui c'è un medico che mi passa i betabloccanti per regolare il battito, gli ho fatto molti favori in passato, un angelo, tanto qui ne hanno a casse".
Credevo avesse l'assicurazione, come dipendente di una legittima società che amministra condomini. "Ce l'avevo fino a tre anni or sono, poi la società è fallita e la nuova non mi ha potuto assicurare per via del cuore, troppo rischioso". Tra le pagine della legge c'è anche scritto che questo non potrà più accadere. Le assicurazioni saranno obbligate a coprire, inaudito, non soltanto i sani, ma anche i malati, orrore. Greg, che si sente ora come il cliente di uno spacciatore che gli passa sottobanco i betabloccanti per il cuore, potrà andare in farmacia e dire le parole magiche: "Paga l'assicurazione".
"Ma i medici non saranno obbligati a visitarli e curarli", risponde subito l'uomo che fa nascere i futuri americani. "Già oggi i poveri avevano l'assistenza chiamata Medicaid, pagata dagli stati, e i vecchi la Medicare nazionale, ma gli ospedali non sono obbligati a ricoverarli, per i pochi dollari di rimborso pubblico che ricevono e che pure hanno mandato in bancarotta stati come la California. Quello del dottore in Cadillac con la villa a Martha's Vineyard è un mito, forse era vero 30 anni or sono".
Un medico generico, un medico di famiglia, negli Stati Uniti comincia a lavorare, gratis per la pratica in ospedale, ad almeno 30 anni, dopo i 4 anni di università, i 4 successivi di Medicina, la "residenza" ospedaliera. E poi le varie specializzazioni, ormai indispensabili. I medici di prima linea sono sempre più immigrati, laureati in Vietnam, o Messico, o Kenya, o Thailandia o a Grenada, che superano gli esami di accreditatamento in America e poi vanno al fronte dei pronto soccorso. Il costo di una laurea in medicina è raddoppiato dal 2000 a oggi, e il debito medio di un neo dottore, contratto per pagarsi le rette e la vita, è di 154 mila dollari. La loro vita professionale è una corsa che comincia con l'handicap. La accettano perché la promessa, il patto, è che dopo il salasso finanziario e la fatica di studiare per almeno dieci anni, la schiavizzazione e le astronomiche cifre di assicurazione contro le querele per errori medici, "malpractice", che possono demolirli a 40 anni, e che vedono un ostetrico responsabile per eventuali danni al neonato fino ai 16 anni di età, si apre la prateria dei guadagni. O, come scuote la testa il dottor Jerry, adesso si chiude. "C'erano altri modi per allargare la copertura alle donne che non possono permettersi una mammografia, per gli uomini che non possono controllarsi la prostata, ma questo di Obama è il peggiore, perché punisce noi medici, come fossimo noi i responsabili dei 2 mila e cinquecento miliardi che costa la sanità in America o dei 900 miliardi che le assicurazioni sparecchiano".
Parlare con lui, e con altri medici, è, in questo primo giorno di una nuova era, invertire il rapporto fra paziente e dottore: dovrei essere io a consolarlo, a dargli una ricetta contro la depressione. Non tutti, non ufficialmente, sono così pessimisti. La loro Associazione Nazionale si era espressa cautamente a favore, e così l'Associazione degli infermieri, ma in comune hanno la sensazione che il gioco sia cambiato, che il patto implicito stipulato quando si iscrissero alle Medical School sia stato tradito. Fine del mondo in corsia.
Ma non è vero, e tutti lo sanno bene, senza confessarlo. Sanno che l'America non finirà soltanto perché Giorgina potrà andare dal ginecologo con l'aiuto dello "estado" e Greg il concierge non dovrà più ricorrere alla complicità di un medico per le sue pillole, mentre gli uomini e le donne con le bustine azzurre che fanno un po' Armata Rossa, resteranno il signor dottore, anche coi debiti, il mutuo e l'assicurazione legale. La vertigine dell'ignoto, di un Nuovo Mondo nel nuovo mondo, sarà assorbita e il sistema tornerà in equilibro, fra l'uomo che fa nascere i bambini e la donna che vorrebbe averne, ma non può pagare i 25 mila dollari per un parto normale o i 50 mila per un cesareo con quattro giorni di degenza che oggi sono la moneta corrente. Quando Obama e la sua riforma saranno divenuti parte della storia antica, le donne continueranno a fare bambini e i medici ad aiutarli a nascere. E magari, nel frattempo, anche il caffè dell'ospedale dell'apostolo Barnaba farà meno schifo.
© Riproduzione riservata (23 marzo 2010) da repubblica.it
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« Risposta #40 inserito:: Agosto 16, 2010, 04:52:04 pm » |
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L'ANALISI Una impopolare scelta di civiltà di VITTORIO ZUCCONI CI VOLEVANO fegato, enorme coraggio civile e un pizzico di vocazione al suicidio elettorale per fare quello che il Presidente Obama ha fatto venerdì sera. Una impopolare scelta di civiltà. Il coraggio di schierarsi decisamente, secondo la civiltà e la storia americane a favore della futura moschea a due isolati dagli spettri delle Torri Gemelle, perché gli Stati Uniti d'America sono costruiti sulla libertà di praticare "qualsiasi fede religiosa, da parte di qualsiasi cittadino, in qualsiasi luogo". In un momento orribile per la sua popolarità che comincia ad avvicinare gli abissi della "zona Bush" e dunque per le fortune del Partito Democratico avviato a una mazzata elettorale storica in novembre, prudenza, opportunismo e astuzia gli avrebbero dovuto consigliare silenzio, su una vicenda che non riguarda direttamente la Casa Bianca e dalla quale lui non ha nulla da guadagnare e dunque tutto da perdere. Preso tra una destra biliosamente demagogica e una sinistra sussiegosamente impermalosita, impaniato in un'economia che non riprende e lo trascina in basso, Obama avrebbe potuto ricorrere al collaudato trucco politichese della "triangolazione" inventato da Bill Clinton: dire una cosa e fare l'opposto. Clinton avrebbe tuonato contro il fanatismo islamico e sotto traccia avrebbe incoraggiato la comunità musulmana a costruire il proprio centro magari due isolati più lontano, o avrebbe invocato la libertà religiosa, lavorando poi in silenzio per impedire quello che molti newyorkesi considerano un oltraggio alla memoria delle vittime del terrorismo islamista. Ma Obama non è Clinton. La sua storia personale, la sua natura, la sua aspirazione a essere un leader etico e non soltanto un amministratore, gli ha impedito di guardare dall'altra parte come i suoi stessi consigliori gli raccomandavano. La sua è esclusivamente una religione civile, una fede nell'America della storia e della Costituzione come soltanto i cittadini di prima generazione, quale lui è, e di minoranza etnica che hanno conosciuto il sapore amaro della marginalizzazione, coltivano. Quando l'occasione per un discorso alto, nobile, laico, come sempre magnificamente pronunciato, si presenta, non sa resistere. Fatta la scelta di parlare, non aveva scelta. Non poteva dire altro che "come cittadino e come Presidente - si noti la precedenza data alla parola cittadino - credo che i Mussulmani abbiano lo stesso diritto di praticare la propria religione di chiunque altro, in questa nazione". Quando ciò che dovrebbe essere sacrosantamente ovvio diventa elettoralmente rischioso, il segno dei tempi non è buono. Invano il suo addetto stampa Robert Gibbs, ormai avviato al licenziamento, gli aveva raccomandato di tenersi fuori da "una questione strettamente locale" come questa moschea di 13 piani da erigere due isolati a nord dal cratere dell'11/9, che a ormai quasi dieci anni di distanza dal massacro resta un grande vuoto nel cuore di Downtown Manhattan. Il sindaco della città, Bloomberg, si era già detto pienamente a favore della richiesta, nonostante l'opposizione della comunità ebraica. Il potentissimo comitato di zona aveva respinto all'unanimità - evento miracoloso nella città più litigiosa del mondo - una mozione per bloccare il "Centro Cordoba", come i promotori hanno chiamato il progetto, ricordando la grande e squisita città multietnica andalusa governata dagli Arabi fino al XIII secolo. Obama non avrebbe quindi il potere né per bloccare, né per imporre la costruzione. Se ha sentito il bisogno di intervenire davanti a leader mussulmani e chierici invitati alla Casa Bianca per l'"iftar", il pasto serale che interrompe il digiuno quotidiano durante il Ramadan, è perché Obama si sente l'erede e il custode di una storia che comincia con Thomas Jefferson duecentoventi anni or sono, quando il padre della democrazia americana e della separazione fra Stato e Chiesa s'intratteneva con religiosi mussulmani, perché nella sua vita è stato esposto a culture, esperienze, fedi, etnie diverse che gli rendono incomprensibili l'intolleranza e l'odio che quel cratere nel centro di Manhattan rappresentano. "Capisco le emozioni che questo problema suscita, ma questa è l'America e il principio secondo il quale popoli di ogni fede sono benvenuti, e non saranno trattati in maniere diverse dal loro governo, è parte essenziale di ciò che siamo". Meravigliosi principi che hanno fatto, più che cannoni e certamente più del dollaro, la grandezza di questa "città sulla collina" che gli Usa sono, ma che politicamente dimenticano una terribile verità: che esiste un'America pre 11 settembre 2001 e un'America post 11 settembre. Una moschea con grattacielo di 13 piani a cento metri da una tomba a cielo aperto scavata da chi uccise credendo di compiere una missione divina appartiene al "dopo". Non ci sono conciliazioni razionali fra coloro che a New York, e nelle schiere dei seguaci di abili manipolatori della politica come Sarah Palin ("una provocazione" ha chiamato quel centro islamico), domandano "perché una moschea proprio lì" e coloro che, come Obama, chiedono: "Perché non lì?" visto che decine di mussulmani morirono quel giorni accanto a cristiani, ebrei, atei. Infatti, Obama è riuscito a irritare tutti e a non accontentare nessuno, come accade a chi dice la cosa giusta, a parte il promotore del progetto, il costruttore Sharif al-Gamal, entusiasta. Dal mondo arabo e mussulmano arriva l'accusa di fare molto "simbolismo", come fu il celebre discorso all'Islam pronunciato al Cairo, e poca sostanza, mentre il campo di Guantanamo resta aperto e le vittime "collaterali", cioè innocenti, in Afghanistan e in Pakistan sotto i bombardamenti, si accumulano. La principale organizzazione ebraica degli Usa, la Anti Defamation Ligue, lo critica e si oppone ferocemente alla moschea, tra le grida e gli strepiti dei repubblicani che accusano il Presidente di "sacrilegio". E l'economia, che è il solo altare ai cui piedi alla fine ogni tabernacolo, ogni Libro, ogni paramento, ogni fede in America s'inchinano, resta una dea immusonita e incollerita che chiederà il sacrificio civile di un presidente, di Obama, che troppo ancora crede alla civiltà della politica e allo spirito dell'America, anche, e soprattutto, quando brutalmente ferita e offesa dai barbari. (15 agosto 2010) © Riproduzione riservata http://www.repubblica.it/esteri/2010/08/15/news/zucconi_obama-6296328/?ref=HREC1-8
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« Risposta #41 inserito:: Novembre 29, 2010, 11:52:42 am » |
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L'ANALISI L'arma letale di VITTORIO ZUCCONI WASHINGTON - Non è uno "scoop" e neppure un altro scandalo, quello che ha investito ieri sera l'universo dei rapporti internazionali, è il "ciclone wiki" che cambierà il mondo politico che abbiamo ereditato sollevando il sudario sopra segreti finora gelosamente custoditi. Ora sappiamo cose che non avremmo mai dovuto sapere, su dittatori, regimi, governi amici, intenzioni, operazioni di spionaggio contro l'Onu, capi di governo e di stato come Sarkozy e Berlusconi. Note sferzanti che non si sarebbero mai dovute rivelare, giudizi riservati a pochi consumatori dentro i palazzi del potere. Sappiamo che cosa pensano davvero degli altri, del governo italiano, e nulla sarà più come prima nelle cancellerie. Non lo sarà neppure agli occhi del pubblico, che ricorderà, per averlo visto finalmente bianco su nero, che cosa ci sia davvero, quali giudizi reali corrano nel profondo dei governi anche amici dietro i sorrisi e i comunicati finali per il consumo delle telecamere. La storia della diplomazia, che è la forma nobile e pacifica anche se molto spesso bugiarda delle relazioni fra Paesi e governi da secoli prima che degeneri in guerre, deve ricominciare su basi nuove, sapendo che ci può sempre essere un paio d'occhi elettronici che guardano chi scrive, sopra le sue spalle. Al centro del vortice sta naturalmente l'America i cui rappresentanti nelle capitali del mondo, a Roma come a Berlino, hanno visto i propri giudizi e le proprie valutazioni riservate, perciò spesso taglienti e sferzanti come devono essere, esposte in pubblico. Questa di Washington è una capitale nel panico, in crisi di nervi ancora più di Roma, dove l'umiliazione dovrebbe essere profonda e si tenta di spiegare l'umiliazione con teoremi di oscuri complotti. Lo shock letale di questa bufera sta nel fatto che si veda crudamente, su una scala globale che mai era stata raggiunta prima, la verità dietro i panni curiali e gli abiti da sera, spogliata da ogni formula di convenienza e di ogni ipocrisia. Era già accaduto altre volte, a pezzi e bocconi, dai documenti interni del Pentagono sul Vietnam nel 1971 ai rapporti sui finanziamenti della Cia a partiti e organizzazione italiani e sulle bustarelle della Lockheed a ministri e generali, che "Segreti di Stato" americani diventassero pubblici e scuotessero alle fondamenta governi alleati e amici. Dagli anni del Watergate fino alla strategia della presidenza Obama in Pakistan, giornalisti e autori come Bob Woodward hanno costruito successi e reputazioni mondiali usando rapporti e analisi pensati per restare segreti. Ma il salto di quantità generato dal nuovo strumento di diffusione totale, la Rete, è diventato naturalmente "salto di qualità". Una tempesta occasionale è divenuta un ciclone planetario, senza confini come è senza confini l'ombra della diplomazia Usa. Tutti i governi sanno perfettamente che i giudizi pubblici, i comunicati finali, le "photo opportunity" con sorriso per le telecamere, nascondono valutazioni spesso molto diverse da quelle fornite per il consumo pubblico. A quei successi e amicizie "personali" vantate per vanagloria o per interesse, crede chi ci vuole credere e non saranno neppure centomila o un milione di comunicazioni riservate ad aprire gli occhi di chi non vuole vedere. Si dirà che sono soltanto giudizi, cose sentite dire, valutazione sommarie e personali di questo o quel funzionario. Ma una verità è certa: questo è quanto si dicevano fra di loro, nel confessionale della diplomazia, gli americani. Come hanno detto le telefonate della disperazione che il segretario di Stato Clinton ha dovuto fare alle capitali amiche o ha scritto con tono inutilmente minaccioso il massimo consulente legale, Harold Koh, non è il giudizio su Putin, Karzai, il Pakistan, l'Arabia Saudita o Silvio Berlusconi, giudizi che tutti conoscevamo senza averne la prova, quello che getta nell'imbarazzo gli Stati Uniti, è il fatto che sia stato reso pubblico. L'imbarazzo , anzi, la vergogna dovrebbero colpire chi si vede valutato e descritto per ciò che realmente si pensa e si sa di lui, su documenti scritti per cercare di dire la verità. I diplomatici mentono in pubblico per professione, ma sanno di dovere dire, almeno nelle democrazia, la verità ai propri superiori nei rapporti riservati. Neppure i giganteschi casi di spionaggio militare emersi negli anni della Guerra Fredda o i progetti segretissime per aerei e armi nuove che finivano sui tavoli del Cremlino prima ancora di essere fabbricati, hanno mai raggiunto la gravità e l'umiliazione di questa tempesta di informazioni che hanno fatto parlare addirittura di "infoterrorismo" e sollevato paragoni con l'attacco dell'11 settembre. Nel grande gioco dello spionaggio, e nel precario equilibrio della reciproca distruzione nucleare, le potenze avversarie sapevano, e accettavano, che gli "altri" conoscessero, le intenzioni, come ulteriore garanzia contro colpi di testa. Questo, invece, è un mondo nuovo nel quale ci siamo avventurati grazie ai computer che tutto ricordano, nulla dimenticano, ma tutto possono anche essere indotti a rigurgitare, con la chiave giusta d'accesso. Il "total recall", la memoria assoluta della Rete è la base per la "rivelazione totale". Un'arma letale non creata ma sfruttata da Assange e dal suo sito collettore di "raw material", di ogni materiale informativo grezzo, che potrebbe avere affetti paradossale, spiegano i diplomatici di carriera, e generare non più verità, ma la paranoia, e dunque ancora più bugie anche in segreto. La vulnerabilità delle comunicazioni diplomatiche provocheranno inchieste. Il ciclone genererà altre tempeste surrogate. Deputati e senatori hanno già chiesto l'incriminazione di Assange e del suo WikiLeaks, commissioni, udienze teletrasmesse, soprattutto nella Camera a maggioranza anti-Obamiana che si riunirà dal prossimi gennaio. Anche questa vicenda andrà nel calderone delle accuse al Presidente. Washington offrirà uno di quei grandi spettacoli di autoflagellazione e di reciproche accuse che dopo questi eventi inesorabilmente si scatenano. L'America, ma soprattuto i suoi finti amici pubblici disprezzati o derisi in privato sono, da oggi, un "re nudo". (29 novembre 2010) © Riproduzione riservata http://www.repubblica.it/esteri/2010/11/29/news/zucconi_wiki-9628966/?ref=HREA-1
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« Risposta #42 inserito:: Dicembre 03, 2010, 11:21:27 pm » |
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WIKILEAKS Quel finto applauso chiesto a Bush di VITTORIO ZUCCONI Il teatrino dei pupi andò in scena a Washington nell'inverno del 2006, vigilia ansiosa delle elezioni politiche in Italia. Un Berlusconi tormentato dai sondaggi aveva bussato alla porta di Washington e di Bush per avere un salvagente. Gli fu concesso il discorso davanti al Congresso, al Parlamento a Camere riunite, come Washington regala ai clienti che vuole puntellare. Lo show gli fu benignamente concesso, ma, avvertirono ambasciatori e funzionari, "con molta prudenza", perché di lui, "formidabile gaffeur", "pistolero della politica" e vacillante alleato sui fronti russi e iraniani, la capitale che gli concesse il teatro aveva già cominciato a diffidare dietro i proclami di amicizia e di stima. "Cautela" e "impegni chiari da lui" chiese nel suo rapporto confidenziale l'ambasciatore americano a Roma, il repubblicano Ronald Spogli, e "cerchiamo di non contrariare Prodi". Berlusconi ebbe il suo monologo, scrosciarono gli applausi prescritti dall'aula imbottita di "stagisti", assistenti, segretarie e portaborse del Congresso comandati all'ultimo momento per riempire i troppi posti vuoti e due mesi più tardi perse le elezioni contro Prodi. È un altro di quei retroscena, di quelle verità, che le pacche sulle spalle e le pezze disperatamente cucite ora dall'Amministrazione americana e da Hillary Clinton per coprirle, non riescono più a nascondere e che i rapporti riservati della rete diplomatica americana diffusi attraverso WikiLeaks hanno per sempre strappato. Lo scambio di cablogrammi e di informative fra via Veneto, dove sta la legazione Usa, e Foggy Bottom, dove sorge il massiccio del Dipartimento di Stato, oggi dimostrano una verità che attraversa le tendenze politiche e il colore delle presidenze americane in questa decade: dal 2001, quando tra Bush e Berlusconi parve formarsi una sintonia politica e umana infrangibile, al 2010, quando la Clinton, sotto la nuova presidenza Obama, cominciò a sentire odore di bruciato e di soldi privati nella ostentata amicizia con Putin, il giudizio di Washington verso Berlusconi è andato inesorabilmente deteriorando. "Il grande comunicatore schierato fortemente dalla parte dei nostri interessi" delle prime valutazioni entusiastiche si degrada fino all'uomo "inattendibile", il "gunslinger", il pistolero "in cattiva salute per effetto dei suoi stravizi", "intollerante di ogni dissenso", lentamente ma progressivamente tradito anche dalla propria corte che si prepara ad abbandonare la nave e sussurra addirittura indiscrezioni sanitarie sul capo. Fino a rivelare alla diplomazia di un Paese straniero l'esito preoccupante degli esami clinici. Informazioni che non sono "gossip" o "pettegolezzi" da salotto romano, ma informazioni essenziali per altre nazioni che devono conoscere il profilo psicologico e le condizioni dei loro interlocutori. Gli enormi, e a volte grotteschi sforzi per scoprire come stesse davvero di salute Breznev negli Anni 80, con tentativi di sifonare anche il suo bagno privato per esaminarne le urine, sono noti. Ma le comunicazioni interne del governo di Washington confermano quello che era facile sospettare e vedere. Berlusconi era un "utile alleato", il leader di una nazione dove, ricorda l'ambasciatore Spogli, "vivono 32mila americani fra militari e le loro famiglie". E il presidente del Consiglio di una nazione che aveva prontamente inviato nostri uomini sui fronti dell'Iraq e dell'Afghanistan. Per questo, Bush concesse a Berlusconi due segni della sua benevolenza. Invitò il Cavaliere nel rifugio presidenziale di Camp David, dove Berlusconi fece sfoggio di un memorabile inglese divenuto un video cult in Rete, offrendo all'americano "le salutazioni del Presidente della mia Repubblica" e poi imbarcandosi in uno sgangherato elogio della bandiera a stelle e strisce che meritò alla fine i sarcastici complimenti di un incredulo Bush: "Ma lei parla proprio un ottimo inglese". E poi una capatina nel ranch del Texas, per il barbecue presidenziale. Dietro il sipario, invece, le perplessità dell'America crescevano. "Il governo è alle prese con risse interne alla propria maggioranza" (erano i giorni delle liti fra l'Udc di Casini, la Lega di Bossi, Tremonti, fino all'uscita dal governo) e con una "stagnante situazione economica", notano i report diplomatici. I contatti dell'ambasciata a Roma segnalano la montante agitazione del presidente del Consiglio che, visti i sondaggi negativi per lui nel 2006, implora Washington e domanda un colpo di teatro. "Dobbiamo domandargli in cambio chiarezza di comportamenti verso la Russia di Putin e l'Iran", avverte l'ambasciatore scrivendo al vice presidente Dick Cheney, essere "molto prudenti" con Berlusconi, che è "imprevedibile" e capace di "grandi gaffe pubbliche per seguire la sua strategia comunicativa", e il monologo gli viene concesso. Leggerà un discorso alle Camere in italiano, senza simultanea, con versione inglese data ai 200 fra senatori e deputati presenti in aula, sui 535 totali, e le parti da applaudire già segnate in precedenza. Concederà l'aneddoto, ma questo in inglese con la pronuncia figurata nel suo testo, della visita di un bambino nel cimitero militare di Anzio e Nettuno, con il padre, per rendere omaggio al sacrificio dei soldati americani, rivelando, senza sorpresa per nessuno, e con l'applauso anche dell'allora senatrice Clinton, che quel bambino era lui. Nel pubblico, fra funzionari e portaborse parlamentari frettolosamente convitati, comparivano cuochi e ristoratori italiani di Chicago invitati per fare da platea osannante. Ma Washington sapeva, e cominciava a sospettare, che cosa ci fosse dietro la maschera, l'inglese maccheronico, la vitalità giovanilista. Un uomo, un leader, che pochi mesi dopo il teatro a Washington, nel dicembre del 2006, dovette ricoverarsi per due settimane nella clinica di Cleveland specializzata in cardio chirurgia. Per un "check up", disse la corte del presidente del Consiglio, o per l'inserimento di un pace maker destinato a regolare le aritmie e le fibrillazioni ventricolari, le più pericolose del cuore, come scrissero giornali meglio informati, creando da allora la necessità per l'ambasciata di sapere di più sulle sue condizioni. Un uomo politicamente in via di logoramento fisico e politico, "con quel suo stile da pistolero" scriveva Spogli da Roma a Cheney, costretto dalle difficoltà interne a "puntare tutto sugli apparenti successi e sul prestigio internazionale". Bush fece il possibile, per dare una mano al pistolero italiano e ne ricevette in cambio la definizione di "miglior presidente americano della storia", dopo che gli applausi sintetici avevano finito di echeggiare sotto le volte del discorso misericordiosamente concesso e raccontato in Italia come un trionfo. Ma ora sappiamo che cosa davvero pensassero coloro che lo applaudivano. Uno dei senatori presenti in aula, Jim McDermott, democratico di Washington, lasciò lo spettacolo dopo il primo applauso. Nella capitale dell'impero, allora come oggi, lo show piaceva sempre meno. Ora lo sappiamo anche noi. (03 dicembre 2010) © Riproduzione riservata http://www.repubblica.it/esteri/2010/12/03/news/berlusconi_congresso-9786213/?ref=HREA-1
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« Risposta #43 inserito:: Dicembre 05, 2010, 11:37:37 am » |
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IL PERSONAGGIO L'ultima partita di Hillary costretta a scusarsi con il mondo La Clinton volto della crisi: "Salvo il Paese poi mi ritiro" di VITTORIO ZUCCONI La faccia di quest'America che ha perduto la faccia è la sua, ed è un viso stanco. È toccato ancora una volta a lei, a Hillary Rodham in Clinton, spendersi in prima persona a 63 anni per salvare la propria nazione dall'imbarazzo internazionale. Prima come moglie umiliata ma leale al fianco del marito farfallone negli anni '90, ora come capo di una diplomazia denudata in pubblico e chiama al "damage control", a limitare i danni inflitti ai regimi e ai governi più fragili, come quello di Silvio Berlusconi. E ha detto basta. Questa è stata l'ultima umiliazione: "Tornerò a fare l'avvocato per i diritti delle donne e dei bambini". La formidabile signora che aveva sognato di essere la grande tessitrice della pace internazionale e si scopre rammendatrice di calzini bucati forse ne ha avuto abbastanza. Passi salvare il marito dalle proprie trasgressione, ma salvare anche Berlusconi è stata la goccia proverbiale. "Credo che questo sarà il mio ultimo incarico di governo" ha risposto ieri a uno studente nel Bahrain. Per aggiungere però subito un avverbio classicamente clintoniano: "Probabilmente". Bisogna avere conosciuto e seguito un poco la vita di questa figlia di un piccolo imprenditore tessile dell'Illinois, un destino di familiarità per leggere la rabbiosa stanchezza disgustata dietro quel sorriso troppo forzato accanto a Berlusconi in Kazakhstan, nel tributargli una medaglia di serietà e di credibilità alle quali, come rivelano le sue corrispondenze diplomatiche riservate, non crede. Hillary non è, e non è mai stata, un personaggio simpatico, una "piaciona" da comizio o da show televisivo. Il pubblico americano aveva imparato a conoscerla da una risposta brusca, stizzita, offerta nel 1992, durante la prima campagna elettorale di Bill, a chi le aveva chiesto se la fama di grande sottaniere del marito, la preoccupasse. "Non sono una di quelle donnette che si consumano a proteggere il loro uomo", aveva sibilato con lo sguardo in fiamme. Per lei, laureata in giurisprudenza in quella stessa Yale dove conobbe il suo futuro marito e croce, William Clinton, il passaggio dalla vocazione di protettrice dei deboli a quello di badante dei forti, è stato attutito soltanto dal fuoco di un'ambizione bruciante, per la quale aveva sacrificato anche il proprio spirito indipendente. Era cresciuta nel culto, e nella ideologia convinta, dell'autonomia femminile, dell'auto-realizzazione senza dipendere dal patronato o dai favori dei "maschi alfa" e ogni volta che pensa di esserci finalmente riuscita, di non essere più "la moglie", viene risucchiata indietro. "Non sarò la First Lady che servirà tè e pasticcini alla Casa Bianca", aveva detto asciutta alla vigilia dell'elezione del marito. Dallo scorso week end, quando sulla sua scrivania all'ultimo piano del dipartimento di Stato sono cominciate ad arrivare le segnalazioni di WikiLeaks, Hillary ha dovuto sfoderare teiere e pasticcini virtuali per rabbonire ospiti irritati e svergognati. Ha chiamato per scusarsi il presidente pachistano Zardari, la presidente argentina Kirchner, la presidente liberiana Sirleaf, il ministro degli Esteri canadese Cannon, il ministro degli Esteri tedesco Westerwelle, il ministro degli Esteri francese Alliot-Marie, quello inglese Hague, l'afgano Karzai, il saudita Al-Faisal e ben due "pezzi da 90" cinesi, il consigliere di Stato Bingguo e il ministro Jechi. E' stata una via crucis di scuse e di "Kiss and Make-up", bacino e facciamo la pace, per lei così orgogliosa, così forte, un calvario di rassicurazioni, di giuramenti d'amore culminato con i salamelecchi di circostanza a quell'uomo che deve averle ricordato molto da vicino le ore indimenticabili del proprio matrimonio amaro e infedele, Silvio Berlusconi. Un'esperienza che la avrà fatto toccare con mano la cinica verità della diplomazia formulata dagli Inglese nell'800 e poi ripresa da Henry Kissinger, secondo la quale "un diplomatico è una persona pagata per mentire a nome del suo Paese". Da qui, il conato di nausea espresso a quello studente. Basta. Era circolata molto, nel mese di novembre a Washington dopo la bastonatura elettorale dei democratici, la voce di una sua possibile candidatura alla vice presidenza accanto a Obama, e al posto dell'inesistente Joe Biden, per la corsa elettorale del 2012. Sarebbe stato un premio di consolazione, per questa donna che era arrivata a poche migliaia di voti dalla conquista della nomination democratica al posto di Obama e da una probabilissima vittoria contro l'impresentabile duo repubblicano di McCain e della Palin, dopo due turni come senatrice dello Stato di New York. Ma la sua risposta nel Bahrain tradisce tutta la stanchezza di chi ha dovuto digerire già troppi rospi, per avere ancora appetito per altri. Bastava osservarla, mentre recitava l'atto d'amore e di contrizione a uso dei telegiornali per quel Berlusconi del quale, come ora sappiamo dai rapporti riservati, lei da tempo non si fida e della cui vita vera sa tutto. Bastava guardare quel sorriso tirato che le vedemmo sfoderare in tutti i momenti di crisi, con la piccola eccezione delle lacrime versate dopo una delle sconfitte contro Obama in Iowa, mentre ravviava le penne del pavone italiano arruffate dalla verità imbarazzante, per sentire la rabbia, la stanchezza di una donna ancora volta costretta al classico sacrificio di tutte le donne infelici, zitte e buone "per il bene dei bambini". "La sola differenza fra un uomo e una donna in politica - disse durante la propria sfortunata corsa alla Casa Bianca - è che una donna impiega molto più tempo per rifarsi la faccia prima di uscire". Ma a volte neppure il make up più sapiente riesce a nascondere le rughe della verità. (05 dicembre 2010) © Riproduzione riservata http://www.repubblica.it/esteri/2010/12/05/news/la_via_crucis_di_hillary-9850602/?ref=HREC1-1
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« Risposta #44 inserito:: Dicembre 27, 2010, 12:43:53 pm » |
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LA STORIA "La festa è finita anche qui" San Francisco diventa egoista Una delibera del consiglio comunale abbatte il mito della comunità più di sinistra degli Stati Uniti: per combattere la disoccupazione, il 50 per cento dei posti di lavoro pubblici sarà riservato ai residenti di VITTORIO ZUCCONI "If you go to San Francisco", se vai a San Francisco, metti un fiore tra i capelli, cantavano i Mamas and Papas nel 1967, ma se ci vai adesso portati da mangiare e non ti illudere di trovare un lavoro. La città dei fiori e degli hippy, dell'amore universale e dei poeti maledetti, delle cucine e dei supermercati per distribuire il cibo gratis, non ha più un dollaro da regalare e alza il ponte levatoio del lavoro contro i non residenti. Il sindaco non vi vuole. Dal giorno della vigilia di Natale, quando il democraticissimo sindaco Gary Newsom ha rifiutato di porre il veto a una delibera restrittiva del consiglio comunale della città geograficamente e politicamente più a sinistra degli Stati Uniti, per chi non è residente trovare un impiego è diventato durissimo: il 50% di tutti gli appalti pubblici, di tutti i posti di lavoro legati direttamente o indirettamente alla borsa del Comune, dovranno d'ora in poi essere riservati ai residenti che pagano le tasse locali, sia le addizionali sul reddito, sia l'Ici, l'imposta immobiliare qui specialmente salata. Fino all'antivigilia di Natale la quota era soltanto il 20%. San Francisco, il "villaggio medioevale che biancheggia nell'alba contro l'oceano" che incantava John Steinbeck, ha alzato il ponte levatoio. San Francisco non è la prima città americana ad arrendersi alla spietata legge di un'economia che sta drenando le risorse degli Stati, delle contee - le nostre province - e delle città, nelle quali i contribuenti esigono che sempre maggiori fette della fiscalità tornino a loro. Dalla capitale Washington, dove il personale della polizia metropolitana e degli uffici pubblici ha l'obbligo di residenza nella città o nei suoi sobborghi satellite, a Denver, nel Colorado, dove è in vigore la "Dura", come si chiama per caso la dura norma sulla ricostruzione urbana riservata agli abitanti e ai residenti legali, sistemi di quote e preferenze localistiche stanno diffondendosi in una nazione che si vanta di non discriminare fra razze, generi, religioni, status legale o preferenze sessuali (come precisa l'ancora apertissima New York). Ma che al momento di distribuire le sempre più magre risorse pubbliche deve tornare a chiedere i documenti. Per lo spirito della California, la sua storia, la sua stessa composizione demografica di Stato che ha alla guida un austriaco immigrato, Arnold Schwarzenegger, e vede il 43% della popolazione parlare a casa propria una lingua diversa dall'inglese, ogni meccanismo discriminatorio è un altro passo di allontanamento dalla propria natura. Ma San Francisco, da più di un secolo la "costa dei barbari", degli spiriti liberi, dei poeti maledetti, dei figli del mondo e dei fiori, la comunità dove tutto è possibile e tutto è permesso, era vista come l'ultima roccaforte di un'utopia che aveva avuto il suo zenith nell'estate dell'amore 1967 e conosciuto il suo terribile nadir all'inizio degli anni '80, quando l'Aids devasto la comunità gay di Castro. La resa del "Board of Supervisors" - il potentissimo consiglio comunale che funziona anche da corpo legislativo del quale fece parte il celebrato Harvey Milk, il primo politico apertamente gay poi assassinato - alla realtà della finanza, è dunque specialmente dolorosa. Il sindaco Newsom, salito al potere con il 72% dei voti, ha grandi ambizioni politiche, e dopo essere stato già eletto anche vice governatore nel novembre scorso, immagina possibili orizzonti futuri alla guida dello Stato intero. Ma la California, già motore dei successi e della crescita americana soprattutto negli dell'illusoria "new economy" nella valle dei computer e di internet, chiuderà il 2010 con 26 miliardi di dollari di disavanzo pubblico. E la falce degli amministratori pubblici sta calando su scuole, servizi pubblici, assistenza, sanità. La zattera alla quale si aggrappano sindaci, amministratori di contea, assessori sono i fondi per la ricostruzione venuti da Washington, nel "Reconstruction Act" del 2009 con i suoi quasi 800 miliardi, e negli stanziamenti locali quasi sempre a credito, finanziati con obbligazioni che i contribuenti dovranno ripagare. Dunque, chi non risiede e non paga le tasse, non avrà diritto a salire sulla zattera. E per essere residente non si può essere "senza documenti". Sono quindi i clandestini i primi a essere esclusi. "È stato difficile, ma ho dovuto farlo", si è inchinato mestamente il sindaco respingendo le invocazioni di chi gli chiedeva di mettere il veto - in verità pochi perché l'autarchia del lavoro ha avuto l'approvazione di 8 consiglieri su 11 e i supervisors sono oggi espressione dei quartiere della città, non più dei residenti in generale. Il presidente del board è infatti un cinese, Chiu, figlio di immigrati taiwanesi, dunque espressione della etnia più forte, ancora imperniata, ma non più limitata, nella Chinatown. Fino a quando il morso della recessione non si sarà allentato e il mercato immobiliare, motore primo della finanza locale attraverso l'Ici, non ripartirà, i buoni sentimenti, la tradizione, il ricordo di "San Francisco Città Aperta" continueranno ad appassire come i fiori tra i capelli dei vecchi ragazzi del '67. San Francisco è chiusa per restauri e si culla in un'altra illusione, quella del localismo redentore. In altre città ancora più inguaiate, come Cleveland e Cincinnati, le metropoli degli altiforni freddi sui Grandi Laghi, le quote riservate ai residenti esistono da anni. Ma non si trovano mai abbastanza residenti per fare gli spiacevoli e mal pagati lavori che a loro sarebbero riservati. Non basta riservare un posto a tavola, se poi nessuno si presenta. (27 dicembre 2010) © Riproduzione riservata http://www.repubblica.it/esteri/2010/12/27/news/la_festa_finita_anche_qui_san_francisco_diventa_egoista-10607556/?ref=HREC1-7
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