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Autore Discussione: Politica e amministrazione in Campania ai tempi del Pd. (Sinistra democratica)  (Letto 3606 volte)
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« inserito:: Ottobre 15, 2007, 10:03:48 am »

Politica e amministrazione in Campania ai tempi del Pd.

Ovvero come annichilire la partecipazione 14 ottobre 2007

Sono democratico perciò decido io

di Arturo Scotto*


Il generale De Gaulle affermava : “è la mia opinione perciò la condivido”, nella nebbia politica che avvolge la strutturazione del PD, non sappiamo se il generale possa avere un suo spazio nel Pantheon, in quanto alle opinioni nel PD preferiscono le decisioni, e chissenefrega delle idee altrui. Potrebbe essere stato un meccanismo simile ad aver spinto il capo area dell’assessore De Luca, Italo Abate, ad aver firmato e spedito, su lettera intestata, “l’invito” alla partecipazione di un’iniziativa sul PD con l’assessore De Luca e il governatore Bassolino. Prima di passare al merito della questione permettetemi alcune osservazioni di principio.  La politica italiana versa in una  crisi acuta e la Campania ci auguriamo sia solo un epifenomeno e non un evidenza strutturale di questa.

Auguriamo agli ex compagni e agli amici che si accingono a questa avventura la miglior sorte, ma non possiamo sottacere di sottolineare alcuni aspetti  quanto meno critici, sia da un punto teorico del progetto sia da un piano di conseguenze pratiche di questo. L’aspetto che più preoccupa è la concezione proprietaria della democrazia che si riflette in conseguenze che sanno più di vetusto centralismo democratico che di democrazia al centro dell’azione politica. La partecipazione ha bisogno di slanci coraggiosi e altruistici: è come il coraggio di Don Abbondio, chi non ce l’ha non se lo può dare. Ora obbligare come ha fatto Italo Abate, ufficialmente invitando e  di fatto imponendo, la partecipazione arreca un danno enorme alla democrazia intesa come processo e come fine. L’aspetto deteriore della faccenda porta a riflettere sul rapporto tra politica, o meglio mala politica, e amministrazione della cosa pubblica. La concezione della democrazia che pare abbiano dalle parti del PD sa di delega a responsabilità limitata: si chiama la gente a votare per qualcuno, si passa all’incasso e nel mentre si ripone la voglia di partecipare in stand by.

Dove sta in tutto questo la creazione di consenso attraverso il formarsi e il divenire delle opinioni che si fanno coscienza civica? Ai poster, che campeggiano minacciosi declamando: sono democratico, perciò decido io, è già stata affidata la sentenza. In un meccanismo simile, la partecipazione viene fatta fermare ai blocchi di partenza e poi a correre la gara politica saranno i soliti noti. Specie quando possono contare su zelanti capi area che si preoccupano di questo tipo di partecipazione. La notizia che il consulente dell’assessore De Luca sia stato sospeso non ci allieta completamente e anzi ci spinge ad affondare il ragionamento per scrutare i confini e i limiti dei rapporti tra politica e amministrazione, specie in Campania. Questo paese e questa regione hanno bisogno di un’amministrazione efficiente e veloce, adeguata alla velocità dei cambiamenti.

Ciò non si ottiene con la fedeltà al capo, ma au contraire, disponendo di tecnici che si mettano al servizio di un’idea di società che solo la politica può istruire, ma si dispongano a realizzarla attraverso le competenze di cui sono capaci e non con la fidelizzazione a questa o a quella consorteria. La crisi della politica si affronta mettendo in pratica moralità ed etica di cui si va predicando. La conseguenza immediata di ciò dovrebbe essere la autonomia dei due campi, pur nella compartecipazione al ben-essere della società. La Francia, che pur va mettendo in discussione il suo modello, ha nell’ENA una straordinaria riserva di persone improntate alla competenza, e dall’amministrazione si passa alla politica, semmai, non come avviene spesso da noi, con la politica che introduce elementi devianti nell’amministrazione senza rinforzarne la capacità di funzionamento. Partecipazione democratica e funzionamento della democrazia devono andare di pari passo in una regione che vogliamo finalmente emancipata dalle brutture in cui è caduta.

Sul primo versante credo che la costruzione del consenso debba passare attraverso forme di discussione che portino alla formazione di idee, non di legami alle persone, strutturazione di un discorso pubblico ampio e maturo che divenga società civica  e civile. Il modello di partecipazione a cui mi richiamo è la democrazia deliberativa, dal basso, che è certamente più impegnativa ma anche più feconda e necessaria per smantellare i blocchi di questo paese. Non si può, neanche qui, obbligare la gente a pensare, discutere e deliberare, ma certamente il riscontro che se ne avrebbe in tal caso sarebbe lo sviluppo delle coscienze e del senso di appartenenza ad una comunità. Questo tipo di partecipazione non è rimborsabile, a differenza della nota spesa con cui si costruisce quell’altra forma di partecipazione, ma la gratificazione e il ritorno che se ne hanno porta dritti al cuore dello stare insieme. Sul secondo versante credo che sia necessario e non più rinviabile porre in essere una riforma dell’amministrazione pubblica che liberi competenze ed energie di cui la politica poi deve indirizzarne il corso. Anche qui, meglio la felicità delle idee che la fedeltà ai posti o alle persone.

Continuo ad augurare buona fortuna agli alleati del PD e spero possano evitare in futuro questo tipo di storture, ma l’idea che abbiamo noi di partecipazione e democrazia è altra: discussione che non teme di esser messa essa stessa in discussione. Le idee genuine non hanno bisogno di permessi né di rimborsi spese.

da sinistra-democratica.it
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Utente non iscritto
« Risposta #1 inserito:: Ottobre 15, 2007, 10:17:02 am »

POLITICA

La nuova formazione nasce all'insegna di una netta cesura

Ma tanti frammenti di tradizione vivono in chi ieri ha votato

Dc e Pci, così muoiono le due chiese nel Pd non c'è posto per le reliquie

I capi comunisti amavano il latino. Il primo poster del Pd usava "party"per festa e partito

Il cappotto rovesciato di De Gasperi in Usa e Amendola che elogia lo studio "a tavolino"

di FILIPPO CECCARELLI


I comizi di Di Vittorio, i sandali di La Pira, il Quaderno dell'attivista, il manuale Cencelli, i silenzi di Longo, le sfumature lessicali di Moro, il centralismo democratico, i caminetti dei capi corrente, l'energia di Enrico Mattei, l'umorismo di Giancarlo Pajetta, le sigarette russe dal lungo bocchino, le sciarpette bianche al collo di Scalfaro, il fico che si arrampicava nel cortile di piazza del Gesù, il posto di guardia della Vigilanza alle Botteghe Oscure, i pallori di Dossetti, i rossori di Berlinguer...

Ma c'è traccia, di tutto questo, nel Partito democratico? Ecco: boh. Forse bisogna davvero raspare sotto la patina delle litanie, delle frasi fatte, delle citazioni ad effetto, dei video di circostanza; forse bisogna farsi coraggio e scoperchiare i sepolcri del cosiddetto Pantheon per trovare qualche vestigia o i rimasugli delle due chiese secolari che oggi si sono fuse in questa specie di partito un po' leaderistico, un po' oligarchico, ma nato anche sotto la spinta di una autentica partecipazione.

Così viene da chiedersi se gli elettori si sono recati ai seggi condizionati dal ricordo di un mondo, anzi di due mondi che non ci sono più. Don Camillo e Peppone, il cappotto rovesciato di De Gasperi in Usa e l'elogio dello studio "a tavolino" di Amendola, le mani tra i capelli di Zaccagnini e il saggio di Ingrao su Charlie Chaplin, il festival dell'Unità e l'archivio di Andreotti, la dignità di Scelba con l'ambasciatrice Usa e quella pagata a caro prezzo da Terracini nei confronti dell'Urss, il cadavere di Guido Rossa e il perdono dei Bachelet. Cose dell'altro secolo...

Perché già era difficile, dopo la crisi del partito di massa, all'indomani del tracollo della Prima Repubblica, riconoscere qualche residuo segno di vitalità nell'esperienza post-comunista e tardo-popolare o democristiana che sia. Ma l'impressione è che in questa domenica sta per essere abolito anche il compito minimo che quelle due culture politiche si erano assegnate: perpetuare simboli, nomi, tradizioni, memoria, immagini.

Qualche mese fa sui muri di Roma sono comparsi dei manifesti del Pd che mostravano un invitante bicchiere con liquido arancione e una fetta di limone ornamentale. Era il classico cocktail e la scritta reclamizzava: "Democratic party". I dirigenti comunisti, da Togliatti a Natta passando per Bufalini, amavano il latino; mentre ai capi tribù democristiani, dai veneti ai siciliani, capitava spesso e volentieri di parlare in dialetto. Ma di quel poster non colpiva solo l'intonazione orgogliosamente pubblicitaria o il ricorso all'inglese, che del resto si ripete nel modo in cui taluni nei media chiamano gli aderenti al nascente partito: "democrats". E' che "party", oltre che partito, vuol dire anche festa: e basti questa pretesa festevolezza a dimostrare come si sia rovesciata l'intera concezione della politica. E non si torna più indietro.

Dalle salamelle arrosto al cocktail gelato e virtuale si misura lo scarto tra il consumo gioioso delle tifoserie e l'impegno civico e penitenziale della militanza. Più o meno la stessa vertigine che separa la vecchia sezione dal volatile gazebo, la scuola-quadri dal talk-show o le antiche discussioni su laicità e confessionalismo dalle polemiche suscitate dall'intervento di qualche comico contro il Papa ai margini di un concerto.

C'è un salto culturale nel senso più epocale del termine. E' tutto più veloce, anzi più fast. C'è un baratro a suo modo tecnologico nella caccia al Vip sviluppatasi in modo così pervasivo, con tanto di Alba Parietti e Califano, che perfino Pippo Baudo ha sentito il bisogno di denunciare i "giullari" del Pd.

E si capisce - è umano e in certa misura anche giusto - come i protagonisti si sforzino di collegare fili nella storia, o cerchino di stabilire parentele ed eredità, cercandosele pure all'estero, coltivando a volte una vera e propria retorica dell'incontro fra riformismi all'insegna della indispensabile continuità. Ma anche senza arrivare all'impietosa immagine di Guido Ceronetti - il Pd come "una grande illuminatissima vetrina di moda per esporre due o tre camicette con buchi prese da una discarica e un paio di vecchie pantofole affezionate ai piedi di una pensionata che si circonda di consunto" - ecco, anche senza evocare questa esposizione di vane reliquie il sospetto è che tutto, intorno al nascente Partito democratico, sia troppo e irrimediabilmente mutato. E ancora una volta lo si capisce più dalle forme che dagli enigmatici ed evanescenti contenuti del messaggio "democrat": come se a travolgere e poi a seppellire le culture politiche dell'altro secolo, quelle che resero possibile l'anomalia italiana nell'aggrovigliatissimo contesto geopolitico della guerra fredda, fossero i volti stessi dei leader del Pd, i loro linguaggi, gli stili di vita. Così diversi, questi ultimi, non solo da quelli dei vecchi padri, ma anche dalle abitudini quotidiane dei loro odierni elettori, che però nel frattempo sono divenuti in massima parte contatti televisivi, pubblico non pagante, consumatori di spettacoli politici.

Perché sì, certo, le primarie. Ma "la politica ormai si fa così" diceva l'altro giorno alla presentazione in forma di talk-show della biografia veltroniana Il Piccolo Principe (autori: Marco Damilano, Maria Grazia Gerina e Fabio Martini per la Sperling&Kupfer) Massimo Micucci, uno che è cresciuto alla Fgci romana con Walter, ha lavorato con D'Alema a Palazzo Chigi e ora sta con Velardi a "Reti" e "Running". Ecco, sì: oggi la politica si fa (anche) rifiutando come Veltroni il faccia a faccia con gli altri candidati, ma andando a cena con Afef; o presentandosi, è il caso di Letta, come fan del Milan o giocatore di subbuteo; o smettendo come Rosi Bindi di vestirsi da novizia per indossare completini che la Stampa ha qualificato "look democrats".

Adinolfi si è preso lo sfizio di filmare col telefonino una riunione con Prodi; Gawronsky di presentare una lista tutta di cinesi. Cannoni spara-coriandoli e hostess sui palchi, aliscafi o catamarani ribattezzati "MotoPd", playlist giocherellone e a sorpresa, scioperi della fame, piacioni e lacrime a rotta di collo. Un ex comunista solitamente misurato come Sergio Chiamparino, sindaco di quella Torino che per quasi un secolo si è riconosciuta nella sobrietà operaia, si è augurato che il Partito democratico diventi "sexy".

Sono modalità che possono piacere o non piacere. Forse si adattano ai tempi, o forse esse stesse contribuiscono a costruirne lo spirito. Qualcuno le ritiene indispensabili e qualcun altro ha dei dubbi. Ma di certo non appartengono alla tradizione comunista o democristiana, quali milioni di italiani ancora le ricordano, sia pure a brandelli.

I funerali di Togliatti di Guttuso, la riforma agraria di Segni, l'asilo nido modello di Reggio Emilia, l'orologio donato dal Papa a Gedda dopo il 18 aprile. Senza sentirsene erede, il Partito democratico tributi onore alla Dc e al Pci che non ci sono più. "Onore a quanti in vita/ si ergono a difesa delle Termopili" recitano i versi di una poesia di Kavafis che il politologo Mauro Calise pose per primo a epigrafe della scomparsa dei partiti: "E un onore più grande gli è dovuto/ se prevedono (e molti lo prevedono)/ che spunterà da ultimo un Efialte/ e che i Medi finiranno per passare".

(15 ottobre 2007)

da repubblica.it
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