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Autore Discussione: Walter VELTRONI. -  (Letto 37658 volte)
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« Risposta #30 inserito:: Giugno 26, 2016, 11:44:51 am »

Veltroni: "Democrazia in pericolo, sinistra dia subito risposte"
Intervista all'ex segretario del Pd. "Bisogna farsi carico del disagio sociale e riuscire a progettare una società nuova. Dal governo cose importanti, ma a Renzi dico di riflettere sull'Italicum"

Di SEBASTIANO MESSINA
26 giugno 2016

ROMA.  Quando gli chiedo cosa pensi delle tempeste politiche che investono l'Europa, Walter Veltroni mi risponde aprendo un libro che ha sulla scrivania: "Vediamo distintamente come tutte le cose che una volta ci apparivano salde e sacre, si siano messe a vacillare: verità e umanità, ragione e diritto. Vediamo forme di governo che non funzionano più, sistemi di produzione che agonizzano. La rimbombante macchina di questo nostro tempo formidabile sembra in procinto di incepparsi". Poi posa il libro, La crisi delle civiltà. "Johan Huizinga scriveva queste parole nel 1933. Molti pensarono che esagerasse. Ma poi scoppiò la guerra, e lui morì nel 1945, prigioniero dei nazisti".

Lei pensa che il vento di follia che soffia sull'Europa sia lo stesso degli Anni Trenta?
"Ci sono dei momenti della storia in cui, per slittamenti progressivi, improvvisamente diventa plausibile l'implausibile. C'è una parola che non possiamo e non vogliamo pronunciare, ma l'ha pronunciata Papa Francesco quando ha parlato di una Terza Guerra Mondiale. L'Europa è stato il grande antidoto alla guerra: popoli che si erano fatti la guerra scoprivano la bellezza della pace, gli ex nemici si stringevano la mano. Ma oggi, purtroppo, le cose stanno cambiando. E quello che più mi spaventa è la totale assenza di quella che il cardinal Martini chiamava "l'intelligenza complessiva delle cose". È come se ci fossero davanti a noi dieci indizi di un assassinio, e la politica fosse come l'ispettore Clouseau, che non riesce a metterli insieme. La vittoria di Trump alle primarie, il voto austriaco, la Brexit, l'ascesa di Marine Le Pen, i muri che risorgono nell'Est Europa. Che altro deve accadere, perché ci si renda conto che siamo in un tempo della storia nuovo, carico più di pericoli che di possibilità?".

Qual è il principale pericolo che lei vede, leggendo questo quadro di indizi?
"La crisi della democrazia. Perché non è detto che la democrazia, che è necessariamente processualità e delega, in una società così frenetica, presentista ed emotiva sia la forma di governo considerata naturale. Nascerà alla fine un pericoloso desiderio di semplificazione dei processi di decisione".

Cosa si può fare per allontanare questo pericolo?
" Accelerare nella direzione degli Stati Uniti d'Europa. Ma subito, perché i margini di tempo non sono infiniti. Altrimenti un'Europa fredda, lontana e censoria che non accende nessuna speranza verrà sancita, nella sua fine, dal dilagare di questo virus nazionalista e antieuropeo".
Cosa c'è, nel vento di destra che soffia da una parte all'altra del pianeta?
"Oggi il mondo è dominato dalla precarietà e dalla paura. Un mix pericolosissimo. E se la politica non si rende conto che siamo all'alba di un nuovo mondo, continuerà a pensare che si possa essere di sinistra o di destra come lo si era nel Novecento. Oppure, errore ancora più grave, comincerà a pensare che non esistano destra e sinistra. È vero che l'orizzonte socialdemocratico è in crisi, perché è finita la società nella quale erano inscritte le idee del socialismo, del comunismo e della socialdemocrazia, ma non è finita la missione storica della sinistra: quella di essere giustizia sociale, equità, opportunità, diritti".

Ma a volte si ha la sensazione che sia la sinistra, per prima, a non rendersene conto...
"Perché, finite le ideologie, ha smesso di immaginare un mondo diverso. E oggi è schiacciata sul presente, sembra una forza che garantisce la continuazione di una società che ha un livello di ingiustizia, di diseguaglianza, di precarietà, e dunque viene investita dalla protesta della gente. Ma è possibile che la sinistra non abbia l'intelligenza, la modernità, il coraggio di progettare una nuova società?".

Nel giro di cinque giorni abbiamo avuto la vittoria a sorpresa di Grillo nelle città e il voto inglese per l'uscita dall'Europa. Quale di questi due risultati è più allarmante, per un italiano di sinistra?
"Il secondo, senza dubbio. Diciamoci la verità: nel voto ai Cinque Stelle c'è tanto voto di sinistra".

È un voto perduto, per la sinistra?
"No, non lo è. È un voto che racconta di uno smarrimento, di una protesta, di una rabbia. Ma non è perduto. A condizione che la sinistra sappia cambiare".

Lei è stato il primo segretario del Pd, oltre che uno dei suoi fondatori. Il partito oggi è nella tempesta, e c'è chi minaccia di non votare più neanche la fiducia al governo Renzi. È svanito il sogno del Partito democratico?
"Io mi ostino a pensare che quel sogno non sia svanito. Penso che se non ci fosse il Pd il Paese sarebbe esposto a rischi molto maggiori. E allora, non da fondatore ma da italiano dico: non sciupate il Pd. Non dividetelo. Lo dico a tutti, a chi ha le massime responsabilità e a chi si oppone. E aggiungo tre cose. Primo, questo governo deve essere consolidato: se noi oggi avessimo in Italia una crisi di stabilità, le conseguenze sarebbero devastanti. Secondo, bisogna esercitare la funzione di guida del Pd, avendo una maggiore capacità di inclusione. Questo non è un momento in cui basta dire: io ho fatto. Bisogna farsi parte del disagio sociale. Bisogna farsi carico del fatto che c'è un dolore, un malessere, esteso in tutta la popolazione, e assumerlo dentro di sé".

E la terza cosa?
"Il Pd è il Pd. Non deve essere la prosecuzione dei vecchi partiti e delle vecchie correnti. È una cosa nuova, è la sinistra riformista del nuovo millennio".

Eppure perde voti. Perché?
"Per molte ragioni. Oggi perde voti chiunque è identificato col potere. Il governo ha fatto cose importanti, penso innanzitutto alla legge sulle unioni civili. Ma la recessione agisce in profondità. Ed è a quella profondità che la sinistra riformista deve tornare".

Per esempio facendo propria, magari rimodellandola, la proposta grillina del reddito di cittadinanza?
"Tutto quello che dà stabilità, sicurezza e tranquillità alle famiglie italiane in questo momento è da studiare. Il welfare va ripensato. Noi dobbiamo evitare che il cittadino moderno sia lo spettatore rabbioso di qualcosa che sente sempre più lontano".

Cosa dovrebbe fare Renzi per recuperare il consenso degli italiani?
"Per esempio evitare che un referendum sul rafforzamento della democrazia diventi un'elezione politica camuffata. È la prima cosa da fare. Anche perché altrimenti quelli che sono contro il governo finiscono con l’essere, numericamente, più di quelli a favore. Poi, alla luce di quello che sta accadendo, bisogna fare una riflessione sulla legge elettorale".

Lo dicono in molti, ma non tutti chiedono la stessa cosa. Come bisognerebbe cambiarla?
"Bisogna tener conto che oggi il Paese non è più bipolare ma tripolare. Le soluzioni possono essere diverse. Purché non venga meno il punto dal quale si è partiti: dalle elezioni deve uscire un governo, lo devono scegliere i cittadini e deve durare per cinque anni. Lo scettro deve tornare agli elettori, e non alle alchimie dei partiti. E' la democrazia che deve rigenerarsi. Il ricorso alla democrazia diretta come fuga dalla responsabilità della politica è sbagliato. Immagini se Roosevelt avesse promosso un referendum per chiedere se i giovani americani dovevano andare a morire per la libertà dell'Europa...".

© Riproduzione riservata
26 giugno 2016

Da - http://www.repubblica.it/politica/2016/06/26/news/walter_veltroni_bisogna_farsi_carico_d_el_disagio_sociale_e_riuscire_a_progettare_una_societa_nuova_dal_governo_cose_im-142827182/?ref=HREC1-3
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« Risposta #31 inserito:: Luglio 11, 2016, 06:09:05 pm »

Scrivo a voi, dispensatori di odio
Da Veltroni

L’odio è il contrario delle idee. Porta prima a bruciare i libri. Poi a bruciare le persone. Non dimentichiamolo, vi prego, finché siamo in tempo

Ho nelle orecchie la voce di quella ragazza americana che parla con il poliziotto che ha appena sparato al suo ragazzo. Ho negli occhi le immagini di quell’agente di Dallas assassinato alla schiena, nel modo più vigliacco. Leggo della morte, in Italia, di un ragazzo nero ucciso da chi aveva definito sua moglie una scimmia. Siamo appena reduci dagli orrori di Istanbul e di Dacca.

Viviamo, quasi inconsapevoli, in una escalation rapida e infernale della violenza, verbale e fisica. Allora io scrivo a voi, dispensatori di odio. Scrivo a voi che non accettate l’esistenza dell’altro, che negate il diritto di avere una fede, un colore della pelle, un’idea politica, un amore diverso dal vostro.

Scrivo a voi che usate le parole come clave, che insultate chi non la pensa come voi, che vi sentite depositari di un sapere che forse domani diventerà il suo contrario. Scrivo a voi che non sapete la bellezza del dubbio, voi che pensate che la vita sia davvero senza se e senza ma, che rifiutate a priori l’idea che un altro possa mai avere ragione. Scrivo a voi che riempite le 140 parole di un tweet di entusiasmo quando muore qualcuno che non era come voi o che aveva avuto il torto del successo nella vita.

Non vi meravigliate, voi, se poi succede quello che è successo a Fermo, civile cittadina del centro Italia. L’odio è un virus, cambia colore e forma, come una malattia imprevedibile. E presto diventa metastasi e genera spasmi violenti. L’odio nasce dalle parole, la più delicata forma di vita che esista. E le parole, specie i media, devono ponderarle, perché sono pietre. So bene che le merci più vendute, in questa fase di “mercato”, sono proprio l’odio e la paura.

Ma so anche che dentro ogni operatore di quella fragile materia che sono le notizie o ancor di più in chi fa politica dovrebbe albergare un codice etico. Dobbiamo sapere che ora tutto il dolore del mondo entra nelle nostre case, subito, senza mediazioni. Portato da immagini tremolanti di cellulari, da telecamere fisse che vigliano sulla nostra sicurezza, l’orrore compare in tempo reale sui nostri telefoni, sui nostri computer, sui televisori accesi. Abbassare la febbre, fare politica rispettando l’altro, restituire ai media il compito non solo di informare ma di far capire, imporre la fine delle urla e degli insulti come codice comunicativo normale, è davvero così difficile?

Forse si perderà un punto di share o qualche voto ma si aiuterà il mondo a non perdere la testa. Perché il mondo, tutti noi, possiamo davvero, smarrire, giorno dopo giorno, i valori che ci hanno fatto liberi, aperti, inclusivi. Contano, certo, le condizioni materiali della società, la sua insopportabile ingiustizia, la totale assenza di speranza e di una politica alta, coraggiosa e forte, contano quei mutamenti sociali, culturali, antropologici a cui tante volte ho fatto riferimento su queste colonne.

Ma contano anche le nostre parole, la nostra responsabilità. Urlare o ragionare, insultare o rispettare sono scelte che ciascuno di noi deve fare, dentro di sé. Specie chi informa, chi ha responsabilità comunicative o politiche. Il mondo, in altre fasi storiche, è slittato, applaudendo, verso l’odio e l’orrore, ha gioito per la guerra e tollerato o sostenuto le più odiose discriminazioni.

“Un uomo che sia stato nel pericolo quando ne esce dimentica la sua paura, e spesso anche i suoi propositi”, scriveva Tucidide nell’Ifigenia in Tauride. Chi ci ha messo al mondo ha visto con i suoi occhi portare via i padri, le sorelle, i figli da uomini investiti dal loro Führer o dal loro Duce del compito di estirpare la mala pianta della diversità. Nel fumo del gas delle docce di Birkenau sono passati gli ebrei, gli antifascisti, gli omosessuali, gli zingari. Ognuno di loro era diverso dal nazismo o dal fascismo perché aveva una religione o un pensiero proprio, non conforme all’ imposta “normalità”.

Dai gulag staliniani sono passati quelli che disobbedivano al partito e quelli che avevano un altro modo di ragionare. Avevano altre idee. Le idee: alimento rivoluzionario, meraviglioso e permanente stimolo sovversivo. Le idee non vivono in un recinto, hanno bisogno di praterie libere. Le idee, per essere tali, hanno bisogno di essere ascoltate, discusse, forse accettate. Ma in primo luogo hanno bisogno di essere esaminate come diceva Ezra Pound, “ad una ad una”. L’odio è il contrario delle idee. Porta prima a bruciare i libri. Poi a bruciare le persone. Non dimentichiamolo, vi prego, finché siamo in tempo.

Da - http://www.unita.tv/opinioni/scrivo-a-voi-dispensatori-di-odio/
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« Risposta #32 inserito:: Settembre 20, 2016, 12:32:41 pm »

Walter Veltroni   
@veltroniwalter
· 18 settembre 2016

Un uomo della nostra storia
Uomo onesto e competente, innamorato delle istituzioni e della verità, Ciampi è stato davvero un grande italiano

In questo anno sono andati via Umberto Eco, Ettore Scola, Carlo Azeglio Ciampi. Se l’Italia avesse le lacrime avrebbe tutto il diritto di piangere. E il nostro paese ha diritto, guardando il panorama culturale e politico, di sentirsi più povero. Ha perso le parole di queste persone intelligenti. Ha perso il loro stile, la loro eleganza, la moralità di uomini che hanno fatto grande il nostro nome nel mondo. Ha perso, non è cosa da poco, il loro sorriso, il loro senso dell’umorismo, la loro curiosità. Ma erano figli di questo grande paese e, fatemelo dire, solo l’Italia – con la sua storia, il suo talento, il suo dolore – poteva generare persone così.

Sono stati figli di una grandezza culturale e di un Dna nazionale fatto di talento e competenza. Ogni italiano sa quello che Carlo Azeglio Ciampi ha fatto per il paese. Quando, soldato, difendeva la patria mentre i potenti se la davano a gambe. Quando, da Governatore della Banca d’Italia, contribuì a salvare la lira e l’economia italiana. Quando accettò il passaggio a compiti politico istituzionali, da presidente del consiglio nell’Italia terremotata del post Tangentopoli, capace di definire, con la concertazione, una nuova politica dei redditi.

Poi quando fu ministro dell’economia del governo Prodi e protagonista della difficile sterzata della finanza pubblica, operata secondo principi di equità sociale e di sostegno espansivo a ciò che, come la cultura, era segno forte e unico dell’identità italiana. Fino al tempo della sua presidenza della Repubblica, quando fronteggiò con grande saggezza una situazione politica difficile.

Ciampi, con la sua mitezza forte, fece una grande rivoluzione culturale, accompagnò gli italiani nella riscoperta della parola «Patria». La parola che avevano sulle labbra i protagonisti e i martiri della Resistenza, la parola che, per ragioni ideologiche, era sparita dal tempo successivo nel quale, per combattere il nazionalismo, si smise di considerare il valore della nazione e della sua identità. Ciampi era un italiano orgoglioso di esserlo, un maestro di «Italia» per gli italiani e, al tempo stesso, un convinto europeista.

L’Europa vera, quella che era negli auspici del manifesto di Ventotene, quella sognata nel fuoco di una guerra che insanguinava il continente. Ciampi era espressione, a suo modo, di una cultura azionista, purtroppo mai maggioritaria nel nostro Paese. Quella cultura che faceva del rispetto delle regole, dell’etica pubblica, della prevalenza dell’interesse generale su quello di parte il suo fulcro centrale.

Carlo Azeglio Ciampi che, insieme a Prodi, accompagnò il nostro paese all’appuntamento dell’euro che, prima del governo dell’Ulivo, sembrava una chimera o una pia illusione ha dimostrato che si possono avere, nella vita, più identità.

Si può rivendicare, con la stessa forza, di essere figli della storia, dalla cultura e del talento italiano e di appartenere alla civiltà europea, alla cultura della libertà e della democrazia che questo continente, al prezzo del suo sangue, ha affermato come sua forma di convivenza.

Uomo onesto e competente, innamorato delle istituzioni e della verità, Ciampi è stato davvero un grande italiano. Ed era, non per caso, un uomo ricco di curiosità e dolcezza.

Mi parve di capirlo la prima volta che entrai nella sua casa e vidi il rapporto speciale che aveva con Franca, la cui intelligenza e il cui umorismo sono stati cemento per la splendida vita d’amore e di solidarietà che loro due hanno trascorso, sempre insieme. Non abbiamo mai smesso di sentirci e lui, pur con le difficoltà della sua età, non ha mai smesso di esserci.

Ora a me, come a tutti gli italiani, mancherà. Ma possiamo, come figli col padre, essere davvero fieri di lui.

Da - http://www.unita.tv/opinioni/un-uomo-della-nostra-storia/
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« Risposta #33 inserito:: Settembre 29, 2016, 05:15:40 pm »

La mia sinistra? Fantasiosa e senza pregiudizi
Sinistra   
Sono un tipico post-comunista italiano, ex Pci nonché ex troppe altre cose; Non sono renziano ma nutro rispetto per Renzi e la sua volontà di fare

Caro Macaluso, intanto grazie per l’attenzione che hai voluto dedicare alla mia intervista sul Foglio; credevo di avere fatto soprattutto una lunga conversazione sul mio umore e sugli anni che passano, non rendendomi conto che avrebbe assunto una decisa connotazione politica.

Si vede che devo rassegnarmi a un’autorevolezza che a vent’anni, quando entrai a lavorare nella tua (e mia) “Unità”, non avrei sospettato neanche lontanamente. Mi rendo conto che una certa disillusione sul bilancio della mia generazione, unita alla mia intenzione di voto per il Sì, possa qualificami come “renziano”.

Non lo sono e non posso esserlo per ragioni di formazione culturale e politica: sono un tipico post-comunista italiano, ex Pci nonché ex troppe altre cose; Renzi è un cattolico popolare di nuovo conio, con elementi antropologico-culturali a me del tutto alieni. Ma è vero che nutro, per Renzi e il suo tentativo, un certo rispetto, che i dubbi su qualche sua scelta e molti suoi atteggiamenti non bastano a incrinare. Gli riconosco energia, volontà di fare, qualche buona opera (la Cirinnà) e un minimo di autonomia da quell’europeismo gretto e contabile che sta mettendo in ginocchio il Welfare.

Se non basta a definirlo “di sinistra”, basta e avanza a non classificarlo, come fanno con grossolano astio alcuni suoi nemici, “erede di Berlusconi”. Ma Renzi è una contingenza; per certi versi un’emergenza, nonché il frutto del vuoto che lo ha preceduto (un vuoto che ha fruttato, lui sì, vent’anni di Berlusconi). Mi guardo bene dal pensare, come tu scrivi, che «per chi è di sinistra non c’è che Renzi e il suo Pd».

Il problema è che la sinistra, così come la tua generazione e la mia l’hanno conosciuta e frequentata, oggi è un accampamento in disarmo; e non per sua pusillanimità o inettitudine, ma perché la guerra è finita: parlo di quella guerra, quella novecentesca tra borghesia e proletariato, tra capitale e lavoro salariato, quella che aveva nella fabbrica la sua centralità e il suo campo privilegiato, nella lotta sindacale il suo modo di combattere, nell’organizzazione politica e culturale degli operai e dei braccianti il suo daffare, negli «intellettuali organici» molti dei suoi quadri dirigenti. Quel mondo è così profondamente mutato da permetterci di dire che non esiste più.

Tutto è come vaporizzato: il capitale e il lavoro. Il capitale è diventato finanziario, e in Occidente ha abbandonato quasi del tutto il cimento imprenditoriale, quello della produzione. Il lavoro è sbriciolato e disperso, in parte annichilito dalla più grande rivoluzione tecnologica della storia umana, per altri versi dalla delocalizzazione e dal precariato.

A parità di fatturato, il rapporto di occupati tra Silicon Valley e il vecchio capitalismo fordista è uno a cento. Tra i lavoratori bianchi disoccupati o sottoccupati che votano Trump, questa decimazione (al quadrato) non è passata inosservata… Non siamo in un’altra epoca. Siamo in un altro evo. In breve, e per non annoiare te e i lettori: penso, esattamente come quando avevo vent’anni, che sia sempre più vero il celebre assunto di Rosa Luxemburg: «socialismo o barbarie».

O si ritrovano forme di nuova solidarietà, di ripartizione del reddito, di alleanza tra i deboli e gli esclusi, di allargamento delle basi del potere, insomma di democrazia e di uguaglianza, o il futuro sarà sempre più iniquo e – di conseguenza – sempre più doloroso e cruento. In questo senso non solo sono ancora «di sinistra», ma lo sono perfino più radicalmente di come lo ero da ragazzo: per esempio sulle questioni ambientali e agricole, sulla sovranità alimentare dei popoli, sui cambiamenti climatici e sull’impatto delle nostre scelte di consumo e dei nostri stili di vita, penso si giochi moltissimo del futuro del pianeta. Ma di una sinistra che di queste cose si occupi con radicalità e fantasia, libera da pregiudizi, rivoluzionaria nello spirito e ragionevole nella prassi, quasi debba riscrivere daccapo i propri statuti, per ora non vedo tracce sostanziose.

Certo, sarebbe bellissimo che il Pd (anche il Pd) partecipasse a questa gestazione; diventasse un luogo dove la sinistra si crea, e la si crea proprio perché non lo si è più, o non lo si è abbastanza. In questo senso sono convinto che Matteo Renzi dovrebbe lasciare la segreteria del partito a uno o una che ci si dedichi a tempo pienissimo: non si può governare e dirigere un partito al tempo stesso, e credo che lo stesso Renzi se ne sia reso conto, ormai. Bisogna avere fiducia nella discussione: se il contenitore è solido, può reggere anche la discussione più acce sa. Nel frattempo, è bello che l’Unità di Staino si sia data il compito di far discutere attorno a una cosa impalpabile come la sinistra, indispensabile come la sinistra. Un abbraccio fraterno, caro Emanuele, e se permetti anche un poco filiale.

Da - http://www.unita.tv/opinioni/la-mia-sinistra-fantasiosa-e-senza-pregiudizi/
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« Risposta #34 inserito:: Ottobre 21, 2016, 12:56:28 pm »

Il Partito democratico, nove anni dopo
Io ho messo un seme, con milioni di italiani, in quel tempo ormai lontano.
Tocca a voi, oggi, far crescere la pianta. Fatelo insieme, viene meglio

Sono passati nove anni da quel giorno di metà ottobre del 2007 in cui nacque il Pd. Nove anni di esistenza di un partito, per questi tempi paradossali, sono quasi un record. Ormai i partiti sono come i Kleenex, usa e getta. Sono proiezioni di ambizioni personali, sono del tutto privi di radici storiche e culturali, per non parlare dell’esistenza di valori comuni di riferimento. Nascono, in generale, da continue scissioni, fino a quella dell’atomo. Si costituiscono in parlamento gruppi parlamentari dai nomi fantasiosi, riempiti da Fregoli del trasformismo. Si dice che siano quasi trecento i parlamentari che hanno cambiato casacca in questa legislatura.
Un fenomeno di crisi della politica che racconta i prodromi di una crisi istituzionale.

Il Partito democratico nacque invece da ciò che è più difficile nella vita politica, da sempre: una fusione. Si misero insieme culture diverse, si sciolsero due partiti eredi di tradizioni profonde nel novecento. Fu doloroso e meraviglioso, come un parto. Solo per un attimo voglio ricordare il clima, quasi di festa, di quei giorni, quelli successivi al Lingotto. Non dimentichiamo – perché la storia non è un tweet e semplificarne la complessità è un reato culturale grave – che il nuovo partito nacque nel momento forse più difficile della storia recente del centrosinistra italiano. Nasce dopo lo choc delle amministrative del 2007, quando il centrosinistra che governava – in verità con un solo voto di maggioranza al Senato – subì quella che tutti i giornali definirono una “batosta storica”, perdendo decine di amministrazioni.

Giustamente Prodi, commentando quel voto, rivolse l’indice nella direzione corretta, verso i partiti e i ministri della sua coalizione che partecipavano grottescamente a manifestazioni contro il governo del quale facevano parte: «Come si fa a dare un’immagine di buongoverno, quando i ministri e gli alleati della tua maggioranza sono i primi a smontare i provvedimenti che prendi? Ormai il dissenso precede addirittura il provvedimento da cui si dissente. Basta che lo annunci, e c’è subito qualcuno che si ritiene titolato a criticare, per aumentare la visibilità sua e quella del suo partito».

Il Pd nacque, diciamoci la verità, per fronteggiare un’emergenza politica, in un momento di tracollo del consenso attorno ai suoi partiti. E nacque, anche questo va detto, con dieci anni di ritardo. Il Pd doveva essere la prosecuzione dell’Ulivo. Doveva nascere sulla scia della inaspettata e entusiasmante vittoria del 1996. Come Prodi propose, inascoltato ed avversato da molti. Il Pd, lo ha scritto benissimo Ezio Mauro, ha radici solide, che non deve dimenticare.

Quando presentai i lineamenti della mia candidatura a segretario, al Lingotto, cercai di far capire quale miracolo politico dovevamo compiere. Assumere con orgoglio la parte migliore di storie politiche diverse, Moro e Berlinguer, e la meravigliosa vicenda umana di milioni di persone che avevano fondato associazioni di volontariato o cooperative di braccianti, che avevano combattuto ed erano morti insieme per liberare l’Italia dal fascismo, di operai comunisti che avevano migliorato la vita dei loro compagni di lavoro battendosi per i loro diritti, di militanti cattolici che facevano vivere l’idea della pace o della moralità, da La Pira a Don Milani a Tina Anselmi.

Nel nostro cuore, non solo nella nostra mente, queste storie di vita e di sofferenza, di lotte e di valori, dovevano coesistere. Incontrandone altre, culture vitali, la cui dimensione minoritaria ha pesato come un macigno nella storia italiana: l’azionismo, il socialismo riformista, quello che nel ’56 aveva ragione, l’ambientalismo, il femminismo. Come si poteva fare tutto questo? Come si potevano far incontrare culture così diverse e, nella storia conflittuali? Ma il mondo, dopo il 1989, era un mondo nuovo ed era possibile farlo. Era necessario farlo. Diciamoci la verità: singolarmente nessuna di quelle culture, fondate nel novecento europeo, era in grado di affrontare una società in radicale e repentino mutamento di figure sociali, di modi di pensare, di meccanismi di produzione e distribuzione della ricchezza e del lavoro. Un mondo globalizzato, dopo un mondo separato in blocchi. Una rivoluzione. Non poteva farcela nessuna delle culture del novecento europeo.

E, d’altra parte, consentite di dirlo a chi ora continua in altra forma il suo impegno civile e politico, co s’altro deve succedere per farlo capire? Quanti tentativi di tenere in vita forme di sinistra tradizionale, estrema, massimalista, ideologica sono stati realizzati e sono falliti? E quanto è profonda la crisi dei partiti socialisti europei, purtroppo ridimensionati dall’incapacità di trovare risposte al cambiamento in atto? Erano egemoni negli anni novanta ora sono quasi ovunque all’opposizione. E che fine hanno fatto i partiti di ispirazione cattolica? Bisognava, nel far nascere il Pd, essere capaci di saldare il senso di una storia e una cultura politica tutta nuova, tutta nuova. Non la giustapposizione di ciò che preesisteva ma lo sforzo di portare un sistema di valori in un mondo nuovo con una posizione politica e programmatica forte e dei valori riconoscibili.

L’idea che mi muoveva era quella di fondare un partito riformista di massa, un inedito nella storia italiana. Doveva avere una propria cultura autonoma, una struttura di partito aperto, idee coraggiose per coniugare crescita e equità, doveva essere discontinuo per introdurre una nuova etica pubblica. Questo è stato il lavoro intenso di quei mesi: la carta dei valori, la creazione di comitati che in tutta Italia fecero nascere, anche oltre i partiti tradizionali e le loro strutture e dirigenti, la nuova forza che raccoglieva ed esprimeva un entusiasmo che porto ancora negli occhi e nel cuore.

Il movimento di Grillo, in quella prima metà del 2007, prima della nascita del Pd, aveva già mostrato la sua forza, con decine di migliaia di persone che partecipavano alle manifestazioni del cosiddetto vaffa day. Ma, anche qui voglio essere schietto, la nascita del Pd, per la sensazione di novità che trasmetteva, arginò quel fenomeno. Lo vedemmo nelle urne, alle elezioni di Aprile, il cui esito era purtroppo, in termini di governo, scritto nei sondaggi da più di un anno. Il Pd raccolse, alla sua prima uscita, dodici milioni di voti, e raggiunse una percentuale di più del 33 per cento. Un dato storico, finora ma spero per poco tempo ancora, mai più raggiunto in elezioni politiche. E conquistato dopo una campagna elettorale davvero entusiasmante. Quale era, sul piano politico, la novità rappresentata dal Pd? Era la “vocazione maggioritaria”, cioè l’ambizione di dimostrare che, in questo tempo nuovo, alla sinistra riformista non fosse riservata la sola possibilità, per governare, di trovare alleanza funamboliche, come quella da Mastella a Ferrero, che magari potevano affermarsi di un soffio alle elezioni ma poi non riuscivano a governare.

Per il Pd delle origini vincere le elezioni era un mezzo, non un fine. Avevamo verificato, torno alle parole di Prodi, come la eccessiva eterogeneità di una coalizione impedisse l’azione riformista e persino la stabilità necessaria. Bisognava voltare pagina e costruire le condizioni politiche e istituzionali della democrazia dell’alternanza. Quelle politiche prevedevano l’idea di una sinistra riformista a vocazione maggioritaria, innovativa nei programmi e radicale nelle ambizioni di cambiamento sociale. Sinistra, che non è una brutta parola. Sinistra moderna, sinistra del cambiamento possibile. La sinistra conservatrice è un ossimoro. Così come lo è l’idea di un partito democratico che non sia di sinistra. Le elezioni americane ci stanno ricordando il valore di una differenza che bisogna far emergere. Il Pd esiste solo se è a vocazione maggioritaria e la vocazione maggioritaria esiste solo se il Pd è una forza aperta della sinistra riformista moderna. Né un partito di centro modernizzato, né una forza di sinistra tradizionale possono aspirare a nulla di utile in questo paese smarrito.

Ma la nascita del Pd portava con sé anche il completamento di un percorso travagliato di innovazione del sistema politico e istituzionale. Non ho cambiato idea: credo in una democrazia dell’alternanza, in un sistema maggioritario, in un governo autorevole controllato da un parlamento forte, in regolamenti delle assemblee che assicurino diritti alle minoranze. Ma, in una democrazia moderna, devono essere gli elettori a scegliere il governo, il governo deve essere messo in condizioni di attuare pienamente il mandato ricevuto, le opposizioni devono controllare l’azione di governo e prepararsi alle elezioni successive. Davvero vogliamo tornare ai governi fragili, prodotti dalle trattative tra partiti deboli, esposti ai giochi delle imboscate politiche e parlamentari? Non ci rendiamo conto che viviamo un tempo in cui è la stessa idea di democrazia ad essere messa in discussione? E l’idea di tornare al proporzionale, il gioco dell’oca del quale ho già parlato qui, è secondo me foriera di una pericolosa instabilità di governo. Oggi davvero pericolosa per le istituzioni. Una democrazia che non decide, la storia lo dimostra, è destinata ad essere travolta, specie in tempi di crisi, da qualcuno che interpreta il bisogno di decisione privandolo della democrazia. Il Partito Democratico, non smetto di pensarlo, è la principale risorsa di governo europeo e riformista per l’Italia.

Deve essere liberato dai capicorrente e dai capobastone che hanno fatto fuggire tante persone che volevano aiutare. Deve essere aperto e deve rispettare e capire chi è diverso da sé. Deve includere e mettere in movimento. Deve essere orgoglioso delle sue radici e farsi parte del futuro possibile. Deve combattere e non indulgere o inseguire populismi e demagogie. Deve avere valori, morali e politici, che lo facciano sentire dalle persone oneste e dalle persone che soffrono come la loro casa. Buon compleanno a tutti coloro che hanno vissuto questi nove anni, che hanno discusso, che litigano, che hanno passione politica. Io ho messo un seme, con milioni di italiani, in quel tempo ormai lontano. Tocca a voi, oggi, far crescere la pianta. Fatelo insieme, viene meglio

Da - http://www.unita.tv/opinioni/il-partito-democratico-nove-anni-dopo/
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« Risposta #35 inserito:: Novembre 14, 2016, 05:31:48 pm »

Opinioni
Walter Veltroni   @veltroniwalter

· 13 novembre 2016
Sveglia, prima che sia troppo tardi
Insisto da tempo sulla dimensione (per me sconvolgente) della crisi della democrazia in Occidente

Il titolo dell’ultimo editoriale, quello di domenica scorsa, era Il mondo sospeso. Scrivevo, al termine della più brutta campagna elettorale della storia americana, che non mi fidavo dei sondaggi, che l’America non è quella delle aree metropolitane, che il mondo era a un passo dalla svolta che avevamo paventato, su queste colonne, da luglio dell’anno scorso.

Non sono un indovino, non faccio il bastian contrario di giornali, di pagatissimi uomini dei polls, dei bookmakers. No, semplicemente osservo, come la mia posizione di oggi, lontana, per scelta, dalla ruvidità del centro del ciclone, mi consente di fare. E, chi legge queste colonne lo sa, insisto da tempo sulla dimensione, per me sconvolgente, della crisi della democrazia in Occidente. Lo dissi al Lingotto, quando tutto sembrava correre veloce verso il sole. Non sono pessimista, a chi vuole cambiare il mondo non è consentito. Uso la ragione, come mi è stato insegnato tempo fa.

Proviamo a mettere in ordine le cose che sono cambiate, nel breve tempo della storia che abbiamo vissuto. La storia non si calcola a giorni o a mesi, come facciamo con le nostre vite. La storia è fatta di fasi, quelle con cui, chi la guarda all’indietro, ordina e fornisce coerenza alle cose accadute. La giusta datazione dell’inizio del tempo storico che viviamo, di questo grande rivolgimento, è il 1989. Quando cadde, sotto la spinta di un processo di liberazione dato dalla crescita economica, il Muro di Berlino e, con esso, l’equilibrio politico, strategico, militare che aveva retto il mondo per quarant’anni. La storia è finita, la democrazia ha trionfato annunciarono molti analisti. Sembrava che la forza della libertà e l’irrinunciabilità dei diritti individuali e collettivi fossero inarrestabili.

Il mondo, che aveva visto cadere i regimi fascisti del sud dell’Europa e del Sud America, ora registrava l’arrivo di milioni di esseri umani a bordo della nave inaffondabile della democrazia. Ci fu un ciclo di espansione economica e di speranza diffusa di equità sociale che espresse i governi riformisti in Usa, Italia, Francia, Germania, Inghilterra.

La sinistra cresce in tempi di speranza economica e sociale, la destra in quelli di paura diffusa. D’altra parte, non dimentichiamolo mai, una si chiama progressista e l’altra conservatrice. Così è stato, in quel tempo. Poi è arrivato quel giorno di settembre del 2001 e tutto è cambiato. Il più grande attacco straniero sul suolo americano da Pearl Harbor non poteva non mutare i paradigmi di un mondo in cerca di un equilibrio. Siamo precipitati, inseguendo inesistenti “armi di distruzione di massa”, in un conflitto che non ha sconfitto il terrorismo ma ha finito col produrre effetti non calcolati. I muscoli americani hanno prevalso sul cervello americano e quell’area ha cominciato a destabilizzarsi senza che fosse prevista una strategia analoga a quella che orientò il secondo dopoguerra del novecento. Nel 2008 la crisi devastante dell’economia mondiale ha aperto un ciclo recessivo in tutto l’Occidente, un ciclo che, salvo gli Usa, non sembra destinato a finire, dopo quasi dieci anni. Si sono perduti posti di lavoro, patrimoni, certezze. Le saracinesche sono scese come una mannaia su imprese e negozi, per milioni di persone il lavoro è diventato l’incubo di perderlo.

Dieci anni così. Tutto è diventato precario, nella vita delle persone. In primo luogo il rapporto con il lavoro. Il proprio, che si vive come provvisorio e quello dei figli che si vedono destinati ad una retrocessione di ruolo sociale rispetto all’inarrestabile ascensione che ha caratterizzato la vita delle famiglie occidentali dal dopoguerra ad oggi. Nelle frettolose analisi delle elezioni americane è passata solo una parte della verità: la conquista di consenso repubblicano nelle roccaforti operaie squassate da chiusure di aziende prodotte dalla concorrenza internazionale. Tutto vero, come vera è l’immagine di un pensiero democratico lontano da questo dolore sociale. Ma la realtà, come sempre è più complessa. Si guardino le analisi differenziate. Trump ha avuto il massimo del consenso nelle fasce di età dai 45 in su e la Clinton ha invece prevalso tra i più giovani. Ma la candidata democratica ha ottenuto il massimo dei voti nei ceti più poveri della popolazione mentre ha perso brutalmente nelle fasce di reddito medio.

È la grande crisi di quella enorme zona mobile della piramide sociale che determina oggi la fase che viviamo. Il dolore degli ultimi e la paura degli intermedi. È a loro, vittime principali della crisi, che la sinistra moderna dovrebbe guardare. E poi il fattore più sottovalutato: la portata antropologica e sociale della rivoluzione tecnologica. Schematizzo e mi scuso: le tecnologie hanno ridotto il lavoro senza produrre ricchezza redistribuita e hanno alterato, il tempo ci dirà se in bene o in male, tutte le nostre relazioni più importanti, quelle del sapere e del comunicare, quelle dell’amare e del socializzare. L’uomo moderno è solo, sempre di più, ed è immerso in un sistema vorticoso di contatti e di conoscenze che sono frammentate, rapsodiche, voraci, semplificate. Ha completamente modificato il suo rapporto con il tempo e agisce in un universo cognitivo scritto sulle sabbie molli: un delirio di false notizie, di allarmi separati dalla ragione, di costante riduzione della complessità. Sono in crisi tutti gli agenti unificanti, a partire da quelli della comunicazione. Si può dire che sia il tempo in cui è tramontato il concetto del Novecento di opinione pubblica. Ed è venuto il momento di dirsi chiaramente che la cecità politica ha determinato una grave conseguenza: sono spariti o ridimensionati tutti gli agenti unificanti della società: partiti, sindacati. L’idea di coltivare la disintermediazione ha reso la relazione della democrazia un gioco a due tra un vertice lontano e una platea infinita e indistinta che fatica a razionalizzare e può essere preda di ogni pulsione emotiva.

E oggi è la paura il cemento favorito per attivare processi di unificazione elettorale. Paura che si vende facilmente, al mercato della comunicazione esplosa. Paura che porta al paradosso, nel tempo globalizzato, di una società chiusa, di un riflesso identitario come reazione al mistero dell’altro. Da qui si generano le pulsioni protezionistiche ben presenti nei programmi del populismo mondiale. E l’Europa, ferita a morte dalla Brexite dalla sua incapacità di corrispondere ad un bisogno di crescita e equità, rischia di essere la vittima eccellente di questa nuova fase. E così nasce la voglia del vaff, del calcio al tavolino, della rabbia nichilista. Quella che sta attraversando, come un’onda grigia, tutto l’Occidente.

Non ci stancheremo di ripetere che la democrazia è stata, lo ha ricordato recentemente Michele Ainis, una piccola parentesi nella storia della vicenda umana. Il dominio, per secoli, lo hanno avuto varie forme autoritarie. E la storia ci insegna che il bisogno di semplificazione autoritaria nasce proprio dalla combustione di diversi elementi: la recessione e l’iniqua distribuzione della ricchezza, la crisi della capacità di decidere della democrazia, la difficoltà di partiti e soggetti collettivi. Il cittadino restato solo, spaventato dalla paura di precipitare socialmente, diffidente verso gli altri, finisce con l’invocare un uomo forte, che lo liberi dalla paura, dia ascolto e risposta alle sue ansie, metta ordine nel caos. Per farlo sceglie non importa chi. Purché arrivi da un presunto nulla, come un cavaliere ricco e spietato. A lui non si chiederà nessuna delle virtù che si pretendono da un politico: Trump, riporta La Stampa, ha detto: «Potrei andare sulla Fifth Avenue, mettermi a sparare e non perderei un voto».

E ha ragione. Non so quanto durerà, perché la divisione establishment-anti establishment che oggi rende “immune” chi sostiene la seconda causa ha, dentro di sé, il trabocchetto autodistruttivo che trasforma in breve tempo in uomo del potere chi assume il potere in nome del populismo. E, a conferma, il nemico della grande finanza, il candidato che bollava Hillary Clinton come l’espressione delle banche ha annunciato, tra le prime misure, la cancellazione di alcune norme della legge Dodd-Frank voluta da Obama che introduceva limiti alle speculazioni finanziarie. Il mondo sta virando e non sappiamo dove andrà. Il vento è di burrasca. La cosa peggiore è non capire da dove viene. Nell’asilo Mariuccia, che è diventato il discorso pubblico del nostro paese, tutto questo non esiste. Ci si chiede semmai come lucrare a breve qualche voto dalla vittoria di Trump, roba assurda. E, siccome in Italia è sempre l’8 settembre, ora spuntano come funghi i sostenitori della prima ora del nuovo presidente americano.

L’ufficio della Casa Bianca è il più difficile del mondo. Ora lo abita un uomo che non ha alcuna esperienza politica o militare, che ha sinceramente affermato di non conoscere il mondo. Dobbiamo sperare che il suo mandato assomigli al discorso della prima notte piuttosto che a quelli con i quali ha preso i voti. Altrimenti il vento diventerà burrasca. Verrebbe da dire, specie a sinistra, di stare molto attenti. Di fronte a questa fase inedita la sinistra può compiere i suoi due errori tradizionali. Mettersi a rincorrere il populismo o l’antieuropeismo o non capire la necessità di un discorso di redistribuzione che assuma il tema della caduta di ruolo sociale come centrale per la sua azione.

Ma il paradosso contrario sarebbe anche grottesco. Sarebbe ridicolo se la sinistra, in questo mondo sconvolto da un muramento gigantesco che investe tutta la sfera della vita degli umani pensasse, come fa tradizionalmente quando è smarrita dal nuovo, che la soluzione è tornare al Novecento, a quelle ricette, a quelle opzioni. Che il tempo inedito si affronti con lo sguardo al passato. O la si smette di litigare, si torna a cercare di capire la società, di interpretare il dolore e le ansie del popolo, si rafforza il riformismo sociale e la capacità di innovare o tutto finirà male. Davvero male. La sinistra debole e divisa, vecchia o elitaria è un fattore di questa crisi. Fu così, in altri momenti tragici della storia. Sveglia, prima che sia troppo tardi.

Da - http://www.unita.tv/opinioni/prima-che-sia-troppo-tardi/
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« Risposta #36 inserito:: Novembre 28, 2016, 08:37:52 pm »

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Walter Veltroni - @veltroniwalter
· 26 novembre 2016

Il pericolo della post verità
Comunicazione   

Oggi è facile semplificare fino a distorcere. Queste righe solo per richiamare tutti noi alla bellezza dello spirito critico, alla capacità di leggere la realtà nella sua complessità

Ha fatto bene, anzi benissimo, Laura Boldrini a rendere noti, con nomi e cognomi, i messaggi offensivi e sessisti da lei ricevuti nel tempo. Bisogna leggerli, per capire la spirale di orrore nella quale si rischia di precipitare. E l’idea della donna che sopravvive, come una bestia immortale, al modificarsi del tempo. Al trivio reso discorso pubblico si unisce il desiderio del dolore e della morte atroce di chi ha idee diverse dalla propria.

Si insulta, si aggredisce, si minaccia. Tutto impunemente. Le parole diventano violente ed è questa, da sempre, l’anticamera della violenza. Ma tutto il circuito comunicativo oggi è sottoposto a fenomeni morbosi, per usare un’espressione gramsciana. Oggi, ad esempio, si fa strada semplicemente, come fosse ovvia, l’idea che circolino ampiamente, tra l’opinione pubblica, informazioni false, costruite ad arte per interessi di varie natura. Nobilitando quelle che potrebbero essere altrimenti dette delle insulse menzogne, questo dileggio della realtà è stato gentilmente definito la “post verità”.

Se ne parla come fosse una frivola moda del tempo, come il Pokemon Go, che per tre settimane è stato il fesso protagonista della stampa mondiale e ora giace, goffo, nella polverosa soffitta dei ricordi inutili. A me non viene da scherzare o da sottovalutare questo fenomeno nuovo e inquietante. Lo prendo sul serio e mi fa orrore, come il clima infernale che la nuova dimensione del discorso pubblico sta prendendo.

Urla e balle, odio e certezze assolute, ce n’è abbastanza per aspettarsi il peggio. Trovo, in questo, conferma della necessità di monitorare bene le grandi mutazioni che stanno intervenendo nei processi di selezione e diffusione della conoscenza nel mondo nuovo. Quando ci renderemo conto che quella in corso è una rivoluzione tecnologica paragonabile a quella che portò, nella seconda metà dell’ottocento alla nascita della società moderna, delle città, delle classi sociali e di forti idee politiche? Oggi sta succedendo qualcosa di persino più grande, perché più invasivo, anche perché avviene non in una fase espansiva dell’economia.

La immensa e affascinante trasformazione di ogni modalità del vivere sta cambiando tutti i codici, tutte le relazioni tra sé e il tempo, tra sé e gli altri. E, poi, tra sé e il lavoro, precario e incerto, e tra sé e la democrazia. Cose grandi, passaggi di fase storica di cui i singoli frammenti non possono essere capiti senza uno sguardo d’insieme.

La vittoria di Trump non può essere spiegata con analisi ordinarie, come la Brexit, quello che avviene in Turchia, l’affermazione del populismo su scala mondiale… Leggere, in proposito, l’articolo di George Monbiot sul Guardian a proposito delle tredici crisi che l’umanità ha di fronte. Ma soffermiamoci sulla coda della cometa, sulla cosiddetta post verità.

Un sito internazionale ha raccolto, nel 2015, la prova che almeno 76 fotografie, divenute virali in rete, erano false, manipolate. La notte del Bataclan circolò la notizia che, nelle stesse ore, un terribile terremoto aveva provocato migliaia di vittime in Giappone. La campagna sulla Brexit è stata alimentata dalla notizia, inventata, che la Gran Bretagna pagava 350 milioni di sterline a settimana per l’Europa. Dopo gli attentati di Parigi è circolata la foto di uno dei presunti attentatori, solo che era in realtà un pacifico critico di videogiochi impegnato in un selfie nel bagno con un Ipad, prontamente trasformato graficamente in libro del Corano, e a cui era stato, con il Photoshop, aggiunta una cintura esplosiva al fianco.

Circola, in questi giorni, un video che raccoglie dichiarazioni di dirigenti della sinistra contro le proposte di riforma della Costituzione di Berlusconi. E lo si usa per mostrare una palese contraddizione con il sostegno che le stesse persone hanno dichiarato al sì nel referendum del 4 dicembre. Non lo sarebbero state neanche se si fossero riferite a quando, nel 2006, Berlusconi approvò una riforma nella quale il premier aveva il potere di scioglimento delle camere e di nomina e revoca dei ministri, qualcosa evidentemente di molto diverso da ciò di cui discutiamo oggi.

Ma quelle dichiarazioni si riferiscono invece a una manifestazione che il Pd promosse nel 2009 quando Berlusconi dichiarò, da presidente del consiglio, che la Costituzione era filocomunista e che si proponeva interventi sulla carta per limitare l’autonomia dei giudici e per far avanzare il presidenzialismo. Di questo si trattava. Non del superamento del bicameralismo perfetto o dello scioglimento del Cnel. In quella occasione Scalfaro, che parlò per tutti noi, chiarì: «Non abbiamo mai detto che non si può toccare la Costituzione – ha proseguito – vogliamo aggiornarla, ma non si può stravolgerla. Non si possono toccare i valori di fondo, la libertà, la giustizia, i diritti primari delle persone». Affermazione che condivido in toto.

Dunque ciò che è diverso, in quel video, non è l’opinione delle persone ma l’oggetto del loro giudizio. Propaganda per ingannare i cittadini, alimentata da una manipolazione, gravissima, nella quale è caduta onestamente anche una persona dabbene come Maurizio Crozza. Ciascuno di noi dovrebbe cercare di dire la verità, essere sempre attraversato dalla meraviglia del dubbio, e accettare la complessità.

Oggi invece è più facile fermarsi al titolo che entrare nei contenuti. Semplificare fino a distorcere, che volete che sia. Molto sulla rete è così, ma la colpa non è solo della rete, sottratta alla mediazione responsabile del giornalista. Come ha dimostrato Luca Sofri nel suo bel volume Notizie che non lo erano, ormai anche i giornali, per inseguire lo spirito del tempo, costruiscono o ospitano deliberate, non casuali, fandonie.

Queste righe solo per richiamare tutti noi alla bellezza dello spirito critico, alla capacità di leggere la realtà nella sua complessità, al guardarsi dalla emotività che vogliono indurre fabbricanti, consapevoli o no, della post verità. Altrimenti si potrà finire col credere davvero che le camere a gas di Birkenau non siano mai esistite ma che, cito da uno dei testi dei negazionisti, «quei mucchi di cadaveri furono il prodotto di una epidemia di tifo prodotta dai bombardamenti alleati». Il mio amico Shlomo Venezia, uno dei meravigliosi sopravvissuti allo sterminio degli ebrei, mi raccontava sempre che quando tornò da Auschwitz la sua pena maggiore stava nel non essere creduto quando raccontava ciò che aveva vissuto e visto. Degli ebrei, per sostenerne l’eliminazione, era stato detto di tutto, inventato di tutto. Non dimentichiamolo, mai.

Da - http://www.unita.tv/opinioni/il-pericolo-della-post-verita/
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« Risposta #37 inserito:: Dicembre 05, 2016, 04:51:05 pm »

Opinioni
Walter Veltroni   @veltroniwalter

· 4 dicembre 2016

Le riforme necessarie
Questa campagna è stata segnata da distorsioni della realtà che sono il vero obiettivo della cosiddetta “semplificazione”


Io spero che molti cittadini vadano a votare. Da quando sto al mondo sono sempre andato alle urne, non ho mai accettato inviti all’astensione, neanche in occasione del referendum sulle trivelle. Votare è bello. E, in queste settimane, la politica è tornata nelle discussioni delle famiglie, ci si è fermati a riflettere sul proprio paese, sul nostro futuro collettivo. Ma, nonostante questo, è stata la più brutta campagna elettorale che io ricordi. I toni, la violenza delle parole, la rimozione del contenuto oggetto del referendum, tutto ha finito col trasformare questa consultazione in qualcosa di diverso dal suo merito. Si voterà su altro: sul governo, sulla politica europea, sui migranti. Su ogni cosa possibile, meno che sul merito. Ma, al di là di questo, mi ha molto colpito, come ha ben notato Michele Serra, il tono delle parole, il senso di odio e di contrapposizione che trasudava da esse, fino all’accusa preventiva di brogli. «Ciò che oggi provoca angoscia è lo sfarinamento del tessuto del Paese, la fatica di immaginare un futuro e la delegittimazione violenta di chiunque non sia o non la pensi come noi. È tale la canea che le persone più ragionanti, pacate e positive sono ormai tentate di chiudersi nel privato, di non impegnarsi in nulla che sia pubblico e sperare che passi la bufera. È tempo per gladiatori e si fatica ad immaginare schiarite all’orizzonte», così ha giustamente descritto questi mesi il direttore di Repubblica Mario Calabresi. Ho sentito manipolazioni della realtà di ogni specie. E, attenzione, la manipolazione sta diventando un virus terribile e maledetto delle società contemporanee. Trump ha sconfitto la Clinton accusandola di essere l’espressione del potere finanziario. Si guardi il governo che sta componendo: militari e banchieri. Il populismo sembra immune alla verità e tutto ad esso sembra consentito, anche il contraddirsi in modo pacchiano, tradendo tutti gli impegni presi. Questa campagna è stata segnata da distorsioni della realtà che sono il vero obiettivo della cosiddetta “semplificazione”. Tra queste segnalo, ad esempio, il mettere sullo stesso piano la riforma approvata dal centro destra e quella che, per tre volte, il centrosinistra unito ha varato in questa legislatura.

In quella di Berlusconi, solo per fare un esempio, era previsto che il premier potesse sciogliere le camere e nominare e revocare i ministri, prerogative del capo dello stato che restano inviolate dalla legge oggi al giudizio degli italiani. E, l’ho scritto domenica scorsa, per indicare una contraddizione dei sostenitori del sì, si è cercato di far credere che fosse riferito al superamento del bicameralismo un giudizio durissimo che tutti noi demmo invece quando Berlusconi, nel 2009, disse che la Costituzione era filocomunista, si propose di limitare l’autonomia dei giudici, voleva avviare il presidenzialismo, ciò che peraltro ha ribadito di voler fare oggi. La campagna è stata fatta tutta così, allucinante. O, come ha detto giustamente Napolitano, «aberrante». La realtà è che, per me, questa riforma non è né la panacea di tutti i mali, come non Renzi ma qualche pasdaran del sì ha sostenuto, né, certamente, la deriva autoritaria ventilata, in modo poco responsabile, da certi sostenitori del no. L’autoritarismo vero lo vediamo alle porte dell’Europa dove, nel silenzio di tutti, accade che chi si oppone al governo venga sistematicamente sbattuto in galera. Cerco di ragionare, in questo clima da rissa da saloon: il superamento del bicameralismo perfetto, la riduzione del numero dei parlamentari, la certezza dei tempi per l’approvazione delle leggi, la revisione del titolo V sono misure che, seppure in modo non sempre organico, vanno nella direzione che, almeno la sinistra, auspica da tempo e anche per questo io mi auguro vinca il sì. E credo sia la stessa ragione che ha mosso la analoga scelta di Romano Prodi. Vorrei ricordare che le tesi dell’Ulivo del 1996 erano ben più radicali: «Nessun cambiamento della forma di governo può assicurare davvero coerenza ed efficacia all’azione governativa, se non si organizza adeguatamente la struttura stessa del governo, oggi caratterizzata da segmentazione (i vari ministeri come “repubbliche” autonome), e da debolezza della guida centrale. Il nostro programma istituzionale si incentra sul rafforzamento della figura del Primo ministro al quale devono essere riconosciuti espressamente : – il potere di scegliere i ministri e di proporne al Capo dello Stato la revoca in caso di dissenso rispetto all’indirizzo governativo; – il potere di dirigere e coordinare effettivamente la politica generale del governo, essendo pienamente informato dell’attività dei singoli ministri, potendo sospendere i loro atti e devolvere la decisione al consiglio dei ministri; guidando direttamente l’azione delle rappresentanze italiane presso le istituzioni europee; disponendo di un’unica struttura tecnica centrale deputata all’elaborazione di tutti i progetti di legge governativi, degli emendamenti governativi ai progetti di legge in discussione al parlamento, dei regolamenti governativi; – il potere di condizionare l’organizzazione dei lavori delle camere per assicurare la tempestiva discussione delle proposte governative; – il potere di opporre un veto alle iniziative ed agli emendamenti parlamentari tendenti ad accrescere la spesa, sia in sede di discussione delle leggi di bilancio e finanziarie, sia in sede di discussione delle leggi di spesa. Deve essere ridotto il numero dei ministri che partecipano al consiglio dei ministri senza escludere l’introduzione di figure di ministri “juniores” con compiti delimitati, che non partecipano al consiglio. Va abolita la necessità di organizzare le funzioni governative e amministrative centrali attraverso ministeri, rendendo possibile la creazione di strutture di governo flessibili e di strutture amministrative poste sotto la guida di dirigenti professionali scelti dal governo e resi responsabili dell’impiego delle risorse e dei risultati della loro azione.»

E quelle della coalizione dell’Unione nel 2006, che , come ricordiamo, teneva insieme Mastella e Rifondazione: «Oltre al sistema elettorale, per assicurare una connessione tra rappresentanza e governabilità riteniamo indispensabili alcune misure che rafforzino il Parlamento e rendano, al contempo più efficace l’azione di governo: – l’attribuzione al Primo Ministro del potere di proporre al Presidente della Repubblica la nomina e revoca di ministri, viceministri e sottosegretari; – una migliore regolamentazione della questione di fiducia, con la previsione di specifici limiti al suo esercizio; – la possibilità di sfiduciare il Primo Ministro solo attraverso una mozione di sfiducia costruttiva, con l’esplicita indicazione di un candidato successore». In tutti e due i documenti era molto presente l’idea di una democrazia fatta del rafforzamento simmetrico del potere di decisione del governo e di quello di controllo del parlamento. E questa è, per me, la strada maestra. Un parlamento che eserciti in forma severa e cogente la funzione di “cane da guardia” dell’esecutivo e un governo che sia messo in condizione di attuare il programma per il quale è stato scelto dagli elettori. La riforma oggi al giudizio degli elettori fa dei passi in avanti in questa direzione.

La democrazia moderna, per resistere alla tempesta in corso deve, sottolineo deve, scegliere un più potente sistema di check and balance tra governo e controllo, il contrario di quel consociativismo, il cui asse era le debolezza reciproca, che tanto ha pesato nel passato. E deve farlo presto perché la tendenza delle società moderne e delle loro emotive opinioni pubbliche è oggi quella di considerare la democrazia con i suoi due pilastri portanti la processualità delle decisioni e la delega- un fastidioso orpello. Il moderno populismo tende a rimuovere tutte le forme di mediazione organizzata della società per stabilire un rapporto unico, quello tra i consumatori di informazione, spesso alimentata dalle balle della post verità, e un leader solitario e magari non scelto da nessuno. Il leader e un click, in mezzo il nulla. Chi ama la democrazia, e non a parole, sa che oggi bisogna fare un passo in avanti nella sua capacità di decidere e di farlo in modo veloce e trasparente. Chi ama la democrazia sa che il volere del popolo non è un pollice su o giù, come al Colosseo, ma che esso deve esprimersi in una nuova rete di democrazia di comunità che responsabilizzi e coinvolga nella complessità i cittadini. Altro che disintermediazione, qui ci vuole una democrazia dal basso fortissima e diffusa.

Chi ama la democrazia sa che il pluralismo vero e la qualità culturale dell’informazione sono presidi della libertà. Chi ama la democrazia sa che, quale che sia l’esito, bisognerà aggredire la drammatica questione sociale, della quale, sono certo, vedremo il segno nei comportamenti degli elettori. Credo anche che si debba mettere mano alla riforma dell’Italicum, e che si sarebbe dovuto tradurre per tempo in articolato di legge l’accordo maturato nel Pd, e penso che , con la sconfitta del sì, si aprirebbe, con la crisi di uno dei pochi governi a guida progressista rimasti, una prospettiva di instabilità politica che è il contrario di quello che la durezza della situazione sociale del paese richiederebbe. Oggi si vota anche in Austria e non resta che sperare che l’onda nera del populismo di destra non prevalga anche lì compromettendo seriamente la stessa unità europea. Quel populismo che non si vezzeggia, non si rincorre, non si imita, ma si combatte con una battaglia culturale a viso aperto e con una forte capacità di innovazione. Ho visto altri referendum nella mia vita. Scontri duri, che chiama vano in causa cose profonde, come nel caso dell’aborto, del divorzio, dell’ergastolo. Come che sia, da domani il paese scoprirà di essere diviso, quasi a metà. Nessuno, se ha testa sulle spalle, potrà prescindere da questo. Chiunque, se ha a cuore il paese, dovrà lavorare per unire. Non ci dovranno essere né scalpi da esibire né gente da cacciare. È il tempo dell’inclusione, in ogni caso. Oggi si vota, è una buona giornata per la democrazia. Votate e, in ogni caso, fatelo non con il fegato, ma con il cervello e con il cuore.

Da - http://www.unita.tv/opinioni/le-riforme-necessarie-referendum-4-dicembre-veltroni/
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« Risposta #38 inserito:: Dicembre 12, 2016, 03:37:54 pm »

   Opinioni
Walter Veltroni   @veltroniwalter

· 11 dicembre 2016
Riforma e governabilità
Crisi di governo   

Credo sarebbe ragionevole invece immaginare una struttura per collegi, con uno sbarramento significativo e un limitato premio di governabilità per la coalizione vincente

Quando questo giornale sarà nelle mani dei lettori probabilmente la crisi di governo apertasi dopo il referendum avrà avuto una soluzione. La saggezza del presidente della Repubblica Mattarella e il senso di responsabilità delle forze politiche, in primis il Pd, aiuteranno questa prospettiva. Almeno è quanto ci si deve augurare. Io oggi vorrei soffermarmi solo su due punti. È chiaro che questa travagliata legislatura volge al termine anticipato. Non mancheranno tempo e occasioni per una analisi lucida dei processi politici, intrecciati a quelli sociali, che hanno segnato questa fase concitata della vita pubblica italiana.

Oggi mi preme dire due cose: la prima è che il necessario iter di revisione della legge elettorale dovrebbe non attendere la sentenza della Corte ma avviarsi subito, in Parlamento. Il governo dovrebbe limitarsi ad un’azione di impulso ma credo sarebbe ragionevole che, da subito, i presidenti delle commissioni affari costituzionali attivassero un tavolo con tutte le forze parlamentari per trovare un’intesa lungo i principi che la Corte ha già delineato con la sentenza che intervenne sul Porcellum e che immagino ribadirà a gennaio.

La legge elettorale, specie nelle condizioni date, deve essere il prodotto di un ampio consenso e il lavoro per individuarla credo dovrebbe partire immediatamente. Il secondo tema di riflessione riguarda l’assetto di un sistema che rischia di impazzire, contribuendo alla palese e grave crisi della democrazia che sta, solo chi non vuole vedere può negarlo, mostrando limiti evidenti nel governo delle società veloci e complesse di questo inizio di secolo. Cominciare subito il lavoro significa evitare errori di improvvisazione, concessioni alla demagogia o furbizie di ogni risma. Quando ho visto sfilare al Quirinale, per le consultazioni, diciassette sigle diverse ho pensato che quello resterà come uno dei simboli del processo degenerativo delle nostre istituzioni. Davvero, in una democrazia moderna, ci sono venti e più radicate culture politiche, venti autentici riferimenti ideali tali da giustificare una simile frammentazione, ammantata da pompose e fantasiose autodefinizioni?

Non aver posto mano ai regolamenti parlamentari, come proponemmo di fare nel 2008, rende possibile che si costituiscano soggetti che riuniscono uno o due deputati o senatori. Ho letto di partiti che vorrebbero ora un sistema proporzionale con uno sbarramento inesistente, al due per cento. Torneremo ad avere quelle coalizioni elefantiache e contraddittorie pronte a cadere per una bizza o un posto da sottosegretario? Davvero questa è la soluzione agli immensi problemi di governabilità del nostro paese che, anche in questa legislatura, ha sperimentato più governi?

L’Italia può bellamente avviarsi verso il suo passato, quello fatto di frammentazione e instabilità? Se il nostro paese, al culmine della sua crisi democratica, scegliesse un sistema proporzionale puro, magari senza premi di governabilità o sbarramenti significativi, mostrerebbe di essere in balia degli eventi e degli egoismi. Si dice, giustamente, che l’assetto ormai tripolare del paese deve far riconsiderare l’Italicum e uscire da una concezione ideologica del maggioritario. Ma la stessa considerazione vale per la definizione di un sistema proporzionale puro. Cosa verrebbe fuori, con il tripolarismo, dopo le elezioni? Forse una situazione simile a quella delle passate consultazioni. Tre coalizioni di pari dimensione.

E allora? Facciamo due ipotesi. Che il Movimento cinque stelle abbia più voti degli altri ma non la maggioranza per governare. Cosa accadrebbe? Probabilmente gli altri due poli si alleerebbero per dare un governo al paese. Un governo contro, e un governo che escluderebbe chi avrebbe prevalso nel voto popolare. Facciamo un’altra ipotesi: che prevalga la destra o la sinistra ma, sempre, senza avere la maggioranza. L’unica possibilità sarebbe, di nuovo, un governo di larghe intese. Voglio dirlo chiaramente: un proporzionale senza correttivi forti lascia spazio ad una sola soluzione di governo: la colazione Pdl-Pd.

Davvero questa è la soluzione in grado di assicurare stabilità e capacità di affrontare con un segno chiaro la grave crisi sociale del paese? E qualcuno pensa che un governo dei due poli uniti, quelli che si sono naturalmente contrastati in questi anni, sia il modo migliore per curare il “pericolo” Cinque Stelle? Io non credo, pensando che un nuovo riformismo socialmente più radicale sia la giusta strada per la sinistra italiana.

Riassumo: legge proporzionale senza sbarramento, magari con le preferenze – strumento di condizionamento esterno pericolosissimo – , frammentazione consentita in decine di partiti e partitini assurdi, una sola soluzione per la governabilità, la grande coalizione, e magari una scissione del Pd per tornare ad un partito di centro e uno di sinistra. Benvenuti nel passato, benvenuti nel caos.

Credo sarebbe ragionevole invece immaginare una struttura per collegi, con uno sbarramento significativo e un limitato premio di governabilità per la coalizione vincente. Si può lavorare in questo senso a partire dal Mattarellum? Non è mio compito dirlo. Ma so che l’altra soluzione, che appaga gli appetiti di un sistema politico impazzito, porterebbe la democrazia italiana in un vicolo cieco. Si può assicurare governabilità e maggioranze coese anche con il proporzionale, ma senza coalizioni di legislatura e coesione dei governi l’Italia va a sbattere.

Intanto credo che il Pd, se questa è la strada, dovrebbe unirsi, smettendo lo spettacolo di odio e divisione messo in campo prima e dopo il voto, e dovrebbe lavorare ad una coalizione coesa programmaticamente ma forte, a cominciare dalla prospettiva indicata da Giuliano Pisapia. È così difficile, nel nostro paese emotivo, mantenere senso di responsabilità ed equilibrio. Così si rischia di passare dall’impianto maggioritario della fase post referendum Segni al ritorno ai bei tempi del dominio dei partiti, allora almeno pochi e veri, che facevano e disfacevano i governi come fosse cosa loro. Manca un teledrin, una canzone di Cristina d’Avena e poi festeggeremo il capodanno del 1990.

Da - http://www.unita.tv/opinioni/riforma-e-governabilita/
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« Risposta #39 inserito:: Gennaio 02, 2017, 06:21:04 pm »

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Walter Veltroni -  @veltroniwalter

· 31 dicembre 2016   

Solo una sinistra coraggiosa e innovativa può evitare che la società si strappi, che la rabbia sociale diventi miscela per il populismo antidemocratico
Capire il proprio tempo

È stato l’anno dell’odio, uno dei più brutti, sporchi e cattivi che ci sia capitato di vivere. Un anno bastardo anche perché ci ha portato via molto del meglio che avevamo incontrato: Umberto Eco, Ettore Scola, Dario Fo, Vittorio Sermonti, Claudio Pavone, Ermanno Rea, Umberto Veronesi, Paolo Poli, Gianmaria Testa, Giorgio Albertazzi, Alberto Statera un italiano straordinario come Carlo Azeglio Ciampi e poi Tina Anselmi, Marco Pannella.

E, nel mondo, voglio citare solo due diversi uomini della pace e dei diritti: Muhammad Alì e il mio amico Shimon Peres. Il 2016 è stato l’anno degli attentati terroristici più feroci: da Nizza a Berlino, da Dacca a Orlando, da Bruxelles a Istanbul. Centinaia di morti, una scia infinita di sangue. E Aleppo, la guerra nel silenzio del mondo. E i corpi degli immigrati in mare.

Proviamo a guardare, per un momento, le grandi tendenze, quelle che fanno la storia, emerse in questo anno di fuoco. La prima è la crisi delle democrazie occidentali. Per me è la tendenza più grave, quella foriera di possibili conseguenze drammatiche. La democrazia, come l’abbiamo conosciuta nel novecento, sembra incapace di fronteggiare una società frammentata e interconnessa, solo apparentemente una contraddizione in termini.

Il tessuto produttivo e sociale è sconvolto dal coesistere di due novità epocali: la lunghezza della recessione mondiale e gli effetti di una rivoluzione tecnologica che sembra fondata sulla riduzione del lavoro. Si ha un bel dire delle meraviglie di Amazon. Ma quando nelle città avranno chiuso la gran parte delle attività commerciali, sostituite dal braccio del robot che seleziona il prodotto da vendere negli scaffali di immensi magazzini, il paesaggio sociale e umano si renderà più difficile.

Mi hanno raccontato che in qualche giornale americano gli articoli vengono già scritti da computer ai quali si forniscono gli elementi essenziali e si richiede un certo tono della prosa. Isaac Asimov pensava, nella sua visione di futuro, che le tecnologie avrebbero sostituito il lavoro manuale, liberando l’uomo dalla schiavitù di attività senza partecipazione intellettuale. Non credo che oggi confermerebbe questa previsione. Le macchine si preparano a sostituire l’uomo in moltissime funzioni, anche quelle più legate alla sfera intellettuale.

Il segno del nuovo mercato del lavoro è la precarietà di vita, l’insicurezza materiale delle basi del proprio vivere la difficoltà di progettare il futuro individuale. E, intanto, la sensazione di un progressivo peggioramento delle condizioni di vita proprie e delle generazioni a venire. Si può pensare che tutto questo non abbia a che fare con gli orientamenti dell’opinione pubblica dell’Occidente?

Lo stupore dei superficiali di fronte alla vittoria di Trump, evento che domina l’anno che finisce, o al successo della Brexit dimostrano il ritardo terribile del pensiero critico, deprivato ormai di ogni dimensione collettiva di crescita e verifica dalla crisi dei grandi agenti unificanti: partiti, associazioni, sindacati, università, giornali. Non si capisce più una società la cui mutazione non viene osservata collettivamente e verificata dallo scambio del pensiero. Il discorso pubblico è demandato a 140 caratteri di banalità e di invettive.

Il 2016 è stato anche l’anno in cui la rete si è trasformata in una macchina che, con le sue meraviglie anche sociali, ha mostrato il suo volto peggiore: la capacità di generare menzogne e di sollecitare odio. In rete agiscono, e spesso sono politici di professione e disperati, dei nuovi squadristi che cercano di intimidire i pavidi e di seminare divisione e rancore. Io non credo che il dibattito pubblico abbia fin qui avuto il coraggio, anche per timore, di separare la bellezza dei processi di opportunità che la rete porta con sé dalla barbarie di cui si rende responsabile inventando false notizie e creando un clima sociale di odio e contrapposizione simile a quello degli anni del terrorismo.

Il 2016 è stato, lo ha ricordato Saviano, l’anno dei muri. Quelli costruiti, quelli annunciati, quelli minacciati. Il mondo globalizzato si ritrae, impaurito, e immagina di chiudersi in nuove forme autarchiche, particolaristiche, nazionalistiche. Di qui la messa in mora dell’idea di una Europa forte e unitaria, incrinata anche dalle lentezze e dalla incapacità delle leadership del continente. Nel 2017 si voterà in Francia e in Germania.

Nel paese dei nostri cugini si annuncia che, se andrà bene, prevarrà una destra, quella di Fillon, che certo non ama l’Europa e, se andrà male, sarà al governo il partito di Marine le Pen. Nella stessa Germania le elezioni non hanno un esito scontato. Il terrorismo ha colpito recentemente lì, con l’evidente obiettivo di mettere in difficoltà la leadership di Angela Merkel. Se la Germania dovesse vedere un’ulteriore affermazione di Afd, la forza della destra estrema, tutta la costruzione europea sarebbe in crisi profonda. Al prossimo G8 siederanno Trump e Putin, la May della Brexit e forse la destra francese.

Dopo l’insediamento, scopriremo la realtà della presidenza Trump. C’è da sperare che il ruolo attenui l’estremismo, ma non sono affatto sicuro che sarà così. Anzi, temo il contrario. Ultimo dato del 2016 è la crisi, quasi l’asfissia della sinistra. Non governa più in molti dei paesi in cui era al vertice nella seconda metà degli anni novanta. Allora Usa, Gran Bretagna, Germania, Francia, Italia, avevano dei primi ministri di sinistra.

Ora? Ora la sinistra deve ripensarsi in un mondo senza classi sociali rigide, con processi violenti di disintermediazione sociale, con la mutazione antropologica delle categorie del pensiero e della relazione umana e sociale in atto, con il bisogno impellente di ridare forza e vigore alla democrazia inventando nuove forme di partecipazione che arginino il populismo barbaro del pollice in su o in giù, come al Colosseo. Non sarà rimpiangendo un passato che non tornerà o assumendo posizioni conservatrici che ciò accadrà. E non accadrà neanche se si cadrà nella tentazione del camuffamento in un indistinto senza identità e valori forti.

Bisogna inventare una sinistra di questo tempo. Che sia sinistra, perché forza dei diritti e dell’equità sociale. Che sia dalle parte degli ultimi e di chi ha talento, che abbia voglia di futuro e non si pensi come minoranza balbettante. Che capisca la società, perché il suo corpo è immerso in essa e non lontano dal vivere comune. Un compito immenso, urgente e affascinante. Da vivere collettivamente. Sono parole amare a commento di un anno difficile. Non mi sembrava giusto edulcorare le mie preoccupazioni. Sento la responsabilità, scrivendo su questo giornale, di dire ai nostri lettori ciò che penso davvero.

Solo noi, solo una sinistra coraggiosa e innovativa, solo una sinistra che non abbia paura di esserlo, può evitare che la società si strappi, che la rabbia sociale diventi miscela per il populismo antidemocratico. Solo la sinistra può farlo. È questo il mio augurio a chi, leggendo questo giornale, si sente parte di una comunità fatta di valori e di sogni comuni. Sia, il prossimo, un anno buono. Per una parte, dipenderà da ciascuno di noi.

Da - http://www.unita.tv/opinioni/capire-il-proprio-tempo/
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« Risposta #40 inserito:: Gennaio 17, 2017, 11:33:51 am »

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Walter Veltroni - @veltroniwalter
· 15 gennaio 2017

Democrazia: rivoluzione o ritorno?
Oggi la democrazia è, per me, la grande ammalata, di questo nuovo secolo

È in uscita, in libreria, La democrazia e i suoi limiti, un saggio di Sabino Cassese, certamente una delle persone più titolate, per profondità di studi ed esperienze, a stimolare una riflessione sul tema. Che è la questione cruciale di questo tempo confuso. Una rivoluzione, parola tante volte invocata, è in corso. Ma la stessa parola rivoluzione ha, letteralmente, un doppio significato: se dal punto di vista politico essa corrisponde al significato di rivolgimento dell’assetto politico e/o istituzionale, dal punto di vista astronomico indica, invece, il tempo che un astro impiega per tornare nello stesso posto tra le stelle.

Persino la radice etimologica della parola, ci ricorda la Treccani, rimanda, dal latino, a un significato apparentemente contraddittorio: rivolgimento, ritorno. Stiamo vivendo, quasi inconsapevoli, la più grande rivoluzione degli ultimi cinquant’anni. Stanno mutando modelli di produzione, la definizione stessa di classe sociali, la distribuzione della ricchezza, l’assetto geopolitico del mondo (si pensi solo alla crisi dell’Europa). Stanno cambiando, molto velocemente, i modi di informarsi, di sapere, di comunicare, di stabilire relazioni umane, sentimentali, sessuali.

Il parlamento europeo si prepara ad approvare un preoccupato documento sulle implicazioni etiche, giuridiche, sociali della massiccia e crescente introduzione della robotica nello svolgimento di prestazioni fino ad oggi affidate a funzioni umane. Non siamo a Blade Runner, certo, ma davvero già oggi ciascuno di noi potrebbe dire la frase con la quale inizia il monologo del replicante nel film di Ridley Scott: «Io ne ho viste cose che voi umani non potreste immaginare…».

E speriamo di non dover mai pronunciare la parte finale di quell’incipit. L’esito di una rivoluzione di questa portata è incerto. Essa può portare ad una società in cui l’essere umano potrà dispiegare le sue facoltà fino all’estremo, in cui non esisteranno limiti possibili ai diritti di vivere la vita in una condizione di piena libertà individuale e collettiva, in cui il sapere si diffonderà travolgendo le barriere sociali e ciascuno vivrà godendo delle opportunità per far valere il proprio talento. Può essere, chi ama la vita e non la morte, la libertà e non la dittatura, deve lavorare per questo.

Le grandi rivoluzioni scientifiche richiedono una politica alta e geniale, capace di leggere il mutamento nella sua sconcertante profondità e di elaborare un nuovo lessico. Che sia figlio, però, di un sistema di valori, forte e appassionante. Cassese, nel suo saggio, ci ricorda come, nella sua storia, la democrazia abbia faticato a includere milioni di esseri umani nei suoi processi decisionali. Per lungo tempo milioni di neri, in sistemi detti democrazia, non avevano diritto al voto e in Italia e in Francia le donne hanno potuto partecipare alle consultazioni elettorali solo a partire dal dopoguerra.

È un problema che abbiamo ancora oggi: ricorda Cassese che nel 1960 coloro che vivevano in un paese diverso da quello della loro nascita erano 77 milioni (e molti erano italiani, non dimentichiamolo mai). Oggi sono 244 milioni, 136 dei quali nei paesi sviluppati. Per la stragrande maggioranza questi esseri umani vivono subendo gli effetti di decisioni alle quali non hanno partecipato.

Oggi la democrazia è, per me, la grande ammalata, di questo nuovo secolo. Non riesce a ritrovarsi e dopo aver demolito tutte le forme di mediazione del rapporto tra governati e governanti si trova sospesa tra la crescente tentazione di forme di potere autoritario che riducano la complessità processuale della democrazia e il suo contrario, la furba utopia di una finta democrazia diretta che in realtà è una nuova forma di partitismo assoluto. Ma la democrazia ha bisogno di essere ripensata, nel tempo di questa caotica rivoluzione.

Si devono immaginare forme di democrazia dal basso, di sussidiarietà, che integrino il lavoro delle istituzioni e responsabilizzino i cittadini nella gestione di segmenti rilevanti della propria esistenza: il lavoro, il quartiere, la scuole dei figli. Una democrazia che delega potere, che diventa cabina di regia di grandi scelte, che agisce in trasparenza assoluta, che è rappresentata non, come accade sempre di più, dai pretoriani di correnti senza anima né politica, ma da cittadini che si formino nel fuoco di esperienze di cittadinanza e nei processi formativi di partiti chiamati a ripensarsi nella società, in orizzontale, aprendosi.

Non ho mai usato la definizione di partito liquido – che non condivido, come considero assurdo il partito pesante e correntizio – ma ho sempre amato l’idea di un partito aperto, nemico dei capibastone di ogni rango e capace di formare, nel senso letterale del termine, generazioni di ragazzi appassionati di politica e non di potere. Partiti capaci di sentirsi una comunità, unita da un comune sentire e da una passione indefessa per il dibattito, per il senso critico, per il dubbio. Questo, luogo di una comunità e agorà della libera ricerca comune, è stata L’Unità.

Spero continui ad esserlo, ce n’è bisogno. Tra qualche giorno negli Stati Uniti si svolgerà la cerimonia di insediamento del nuovo presidente. Credo chiunque capisca che, questa volta, sarà qualcosa di diverso. Sta nascendo qualcosa di assolutamente inedito e la cui portata, da queste colonne previsto in largo anticipo, sarà la storia a misurare. C’è ragione di forte inquietudine.

L’America che Obama ha trovato era un paese sconvolto dall’esplosione della recessione. Dopo otto anni la disoccupazione è al 4,9 e si sono creati 15,5 milioni posti di lavoro. Ovviamente il bilancio della sua presidenza è più complesso e anche contraddittorio. Ma i risultati e la popolarità di Obama, al punto massimo in questi mesi, non hanno impedito la vittoria di Trump. Capita, in politica. E capita con radicalità estrema quando spira un vento di crisi della politica e della democrazia.

Nel momento in cui Barack Obama esce dalla Casa Bianca vale la pena ricordare una sua breve frase: «Credo che saremo giudicati per come ci prendiamo cura del povero e del vulnerabile, del malato e dell’anziano, dell’immigra – to e del rifugiato, di tutti coloro che stanno cercando una seconda possibilità». Così, per ricordarci chi siamo. O chi dovremmo essere.

Da - http://www.unita.tv/opinioni/veltroni-democrazia-rivoluzione-o-ritorno/
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« Risposta #41 inserito:: Febbraio 07, 2017, 03:59:38 pm »

Walter Veltroni sull'Unità: "Umiltà, unità e orgoglio per tornare a far emergere la magnifica differenza della sinistra"

L'Huffington Post
Pubblicato: 05/02/2017 11:32 CET Aggiornato: 2 ore fa

"Cos’altro deve fare Donald Trump per far capire alla sinistra che è cominciato un nuovo tempo della storia? Cos’altro deve accadere perché la sinistra si accorga che il mondo occidentale sta slittando a destra? Lo dico così, in forma rozza e semplificata, perché mi rendo conto che forse non è più tempo di analisi strutturate, di riflessioni compiute". Comincia così la riflessione di Walter Veltroni sulle pagine dell'Unità, che parte dall'osservazione della realtà - a cominciare dall'analisi dell'ascesa di Donald Trump - per avvisare sui rischi che anche in Italia sia la destra a imporsi.

    "Nulla è come prima, lo vogliamo capire? Anche in Italia, si leggano i sondaggi, mentre a sinistra si pensa che la partita per il futuro governo sia tra il Pd e i 5 Stelle, basta fare la somma delle intenzioni di voto, crescenti, per i partiti della destra e si scoprirà che già ora la destra ha più consenso di tutti. E non ha un leader. Se lo trovasse, e rischia di farlo, sarà ancora più competitiva. E non si preoccuperà di coltivare ambiguità programmatiche fra le sue diverse forze".

Un richiamo che l'Unità sposa nel titolo di apertura della sua edizione odierna: "Pd attento, la destra può vincere". Come la destra avanza su scala mondiale, osserva Veltroni.

    "Non basterà dire solo "cioè che non siamo, cioè che non vogliamo". Servirà molto di più. Un nuovo pensiero, una nuova capacità di condivisione dello smarrimento sociale. Serviranno umiltà e unità, due parole che fanno fatica a essere al primo posto nel vocabolario della sinistra. E servirà orgoglio di sé".

Veltroni sottolinea proprio la "magnifica differenza" della sinistra e dei suoi valori, che "mai come oggi" deve emergere.

    "Siamo in un nuovo secolo e la destra che combattiamo è la più estrema e pericolosa che ci sia stata nel nostro tempo. La sinistra non deve essere quella del Novecento, perché il mondo è un altro mondo. Ma deve essere sinistra. Sinistra moderna, aperta, di popolo e forte di valori dei quali la società ha immensamente bisogno, prima che sia tardi".

Da - http://www.huffingtonpost.it/2017/02/05/walter-veltroni-sinistra_n_14628980.html?utm_hp_ref=italy
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« Risposta #42 inserito:: Febbraio 21, 2017, 12:27:08 am »

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Walter Veltroni - @veltroniwalter
· 19 febbraio 2017

Un sogno da non spezzare
“Fare un’Italia nuova. È questa la ragione, la missione, il senso del Partito democratico”

Le parole che seguono sono tratte dal discorso del Lingotto, dieci anni fa, con il quale prese le mosse la nascita del Pd. Il Pd nacque per fusione e non per scissione, come invece spesso è successo nella storia della sinistra. Nacque come forza di sinistra capace di pensarsi oltre le colonne d’Ercole di una funzione minoritaria. Nacque per riunire le culture riformiste e organizzarle in forma aperta in una forza nuova, per programmi e linguaggi. Mai, se non con Berlinguer, la sinistra ha raggiunto i livelli di consenso ottenuti, in due occasioni, con il partito democratico. Dopo dieci anni l’orologio sembra tornare bruscamente indietro. Sembra tornare allo schema tradizionale dei cattolici democratici e della sinistra ristretti in due formazioni separate e inevitabilmente conflittuali.

«Fare un’Italia nuova. È questa la ragione, la missione, il senso del Partito democratico. Riunire l’Italia, farla sentire di nuovo una grande nazione, cosciente e orgogliosa di sé. Unire gli italiani, unire ciò che oggi viene contrapposto: Nord e Sud, giovani e anziani, operai e lavoratori autonomi. Ridare speranza ai nuovi italiani, ai ragazzi di questo Paese convinti, per la prima volta dal dopoguerra, che il futuro faccia paura, che il loro destino sia l’insicurezza sociale e personale.

Per questo nasce il Partito democratico. Che si chiamerà così. A indicare un’identità che si definisce con la più grande conquista del Novecento: la coscienza che le comunità umane possono esistere e convivere solo con la libertà individuale e collettiva, con la piena libertà delle idee e la libertà di intraprendere. Con la libertà intrecciata alla giustizia sociale e all’irrinunciabile tensione all’uguaglianza degli individui, che oggi vuol dire garanzia delle stesse opportunità per ognuno. Il Partito democratico, il partito di chi crede che la crescita economica e l’equa ripartizione della ricchezza non siano obiettivi in conflitto, e che senza l’una non vi potrà essere l’altra. Il Partito democratico, il partito dell’innovazione, del cambiamento realistico e radicale, della sfida ai conservatorismi, di destra e di sinistra, che paralizzano il nostro Paese. Il Partito democratico, il partito che dovrà dare l’ultima spallata a quel muro che per troppo tempo ha resistito e che ha ostacolato la piena irruzione della soggettività femminile nella decisione politica e nella vita del Paese. La rivoluzione delle donne ha affermato in tutte le culture politiche il principio del riconoscimento della differenza di genere come elemento costitutivo di una democrazia moderna. È questa esperienza che dovrà essere decisiva, fin dal momento della fondazione del nostro partito.

Il Partito democratico, un partito che nasce dalla confluenza di grandi storie politiche, culturali, umane. Che nasce avendo dentro di sé l’eredità di quelle formazioni che hanno restituito la libertà agli italiani, di quelle donne e di quegli uomini che hanno pagato con il carcere e con la propria vita il sogno di dare ad altri la libertà perduta.

Ma il Partito Democratico non è la pura conclusione di un cammino. Se lo fosse, o se si raccontasse così, inchioderebbe se stesso al passato. Invece, ciò di cui l’Italia ha bisogno è un partito del nuovo millennio. Una forza del cambiamento, libera da ideologismi, libera dall’obbligo di apparire, di volta in volta, moderata o estremista per legittimare o cancellare la propria storia. Un partito che non nasce dal nulla, e insieme un partito del tutto nuovo. È quello a cui ha pensato, a cui ha lavorato, per cui si è speso con coerenza e determinazione il fondatore dell’Ulivo, Romano Prodi. Il Partito democratico, un partito aperto che si propone, perché vuole e ne ha bisogno, di affascinare quei milioni di italiani che credono nei valori dell’innovazione, del talento, del merito, delle pari opportunità. Quei milioni di italiani che nelle imprese, negli uffici e nelle fabbriche dove lavorano, nelle scuole dove insegnano, sentono di voler fare qualcosa per il loro Paese, per i loro figli. Quei milioni di italiani che si impegnano nel volontariato, che fanno vivere esperienze quotidiane e concrete di solidarietà. Quei milioni di italiani che trovano la politica chiusa, e che se provano ad avvicinarsi ad essa è più facile che si imbattano nella richiesta di aderire ad una corrente o ad un gruppo di potere, piuttosto che a un’idea, ad un progetto. Sono convinto che il 14 ottobre sarà un giorno importante per la democrazia italiana. Nasce, in forma nuova, un partito nuovo. Nasce consentendo a chiunque creda in questo progetto di iscriversi, naturalmente e direttamente, e di candidarsi. Associazioni e gruppi, comitati e movimenti, singole persone potranno, nello stesso momento, formare un nuovo partito e decidere gli organi dirigenti e il leader nazionale.

È un fatto mai accaduto prima. È stato sempre più facile che nuovi partiti nascessero da scissioni o da proiezioni personali di leader carismatici. Unire le culture e le forze riformiste del nostro Paese. Superare la parzialità e l’insufficienza di ognuna di essa, di ognuno di noi.  Dar vita a una forza plurale attraverso non il semplice accostamento, ma una creazione nuova. Far nascere, finalmente, il Partito democratico, la grande forza riformista che l’Italia non ha mai avuto.

Personalmente ho creduto alla prospettiva del Partito democratico anche quando pareva difficile, quando era considerata lontana e impossibile. Mi sembrava che con l’abbattimento del Muro, con la vittoria della libertà sulle dittature comuniste, potesse aprirsi un tempo nuovo. Un tempo di libertà, un tempo di ricerca fuori dai recinti ideologici, un tempo di curiosità intellettuale e di incontro con l’altro. Un tempo di ponti e non più di fili spinati. Mi sembrava che si aprisse la possibilità di costruire un campo ampio e pluralista, capace di comprendere chi pensava che con la fine degli “ismi” non fosse finito il bisogno di giustizia sociale, di riscatto degli ultimi, di difesa dei diritti umani e civili. Il bisogno di una sinistra moderna e innovativa, per chi ad essa sentiva di appartenere e vedeva aprirsi opportunità inedite per rispondere, in modo nuovo, ai propri compiti di sempre.

Ora, dopo un percorso inevitabilmente travagliato, questo sogno si sta realizzando, e si sta facendo strada, credo non solo in Italia, l’idea che occorra far vivere un nuovo campo del pensiero democratico, delle idee di libertà, di giustizia sociale e di innovazione. L’Europa è andata a destra, in questi anni, perché la sinistra è apparsa imprigionata, salvo eccezioni, in schemi che l’hanno fatta apparire vecchia e conservatrice, ideologica e chiusa. Ad una società in movimento, veloce, portatrice di domande e bisogni del tutto inediti, si è risposto con la logica dei “blocchi sociali”e della pura tutela di conquiste la cui difesa immobile finiva con il privare di diritti fondamentali altri pezzi di società.

Il Partito democratico dovrà saper corrispondere alle nuove domande. Al bisogno di libertà e di fluidità sociale di ceti sempre più mobili, coniugando queste esigenze con la ragione della sua stessa esistenza, e cioè la costruzione di una società in cui le capacità di ciascuno possano essere messe alla prova indipendentemente dalle condizioni di partenza. Di una società che “si prenda carico”, che non sia cinica o egoista, che si ponga il problema che l’Istat ci ha appena detto essere intatto: la distanza tra chi sta molto bene e chi sta molto male, in Italia, non accenna a diminuire. Una società dove la precarietà non sia la regola, dove non sia l’incertezza a segnare, a ferire, la vita delle persone. È la precarietà soprattutto dei giovani, dei nostri ragazzi, delle nostre ragazze. In un tempo fantastico della vita viene chiesto loro solo di “aspettare”. Aspettare di avere un lavoro certo, un mutuo per la casa e, con questi, la possibilità di mettere su famiglia e avere dei figli. La vita non può essere saltuaria. La vita non può essere part-time. Un imprenditore può assumere così, all’inizio, ma poi spetta alla comunità rendere certo l’incerto, per il ragazzo e per l’impresa. È la lotta alla precarietà, la grande frontiera che il Partito democratico ha davanti a sé. È più di una scelta.

Deve essere nella natura del Partito democratico, fare questo. Dobbiamo saperlo: senza crescita, gli obiettivi di una grande forza dell’equità e delle opportunità sono destinati a soccombere. La battaglia da sostenere, diceva Olof Palme, «non è contro la ricchezza, è contro la povertà». Ricordiamole sempre, tutte e due le cose. Una nuova Italia richiede un cambiamento profondo, in molti casi radicale. Il Partito democratico, la sua stessa nascita, può contribuire ad accelerare, a introdurre un forte elemento di coesione politica e programmatica. Il Partito Democratico, ognuno lo intende, serve anche a “fissare“ i riformisti al principio del bipolarismo e della alternanza. Quel principio che in varie forme, e con vari modelli elettorali, vive in ogni paese europeo. Bipolarismo, in alcuni casi bipartitismo, appaiono il modo in cui, per virtù politiche e/o istituzionali, si succedono al governo forze diverse, in un clima di stabilità e di rappresentanza non frammentata. La democrazia invece è proprio questo: «decisione».

È ascolto, è condivisione. Ma alla fine, è decisione. Un governo che abbia i poteri per essere tale, un Parlamento che controlli severamente e indirizzi l’azione dell’esecutivo, ma che non pretenda di essere, esso stesso, governo assembleare.

La legge elettorale deve essere cambiata. Si trovi un meccanismo, non bisogna guardare lontano, che garantisca quattro obiettivi: contrasto della frammentazione, stabilità di legislatura, rappresentatività del pluralismo, scelta del governo da parte dei cittadini. Questa è la forza della democrazia, di una «democrazia che decide». Delega e responsabilità. Equilibrio tra potere di decisione e potere di controllo. Con lo scettro affidato a coloro ai quali spetta in democrazia: i cittadini, il popolo che vota e che dopo cinque anni approverà o boccerà l’op erato di chi li ha governati.

È il sistema istituzionale, che in molti aspetti, deve cambiare. È ormai matura, sulla spinta della sollecitazione dell’opinione pubblica e della consapevolezza degli stessi gruppi parlamentari, una profonda riforma della politica. Perché se i parlamentari eletti direttamente sono 577 in Francia, 646 in Gran Bretagna, 614 in Germania e 435 negli Stati Uniti, in Italia ci devono essere mille tra deputati e senatori? Perché una legge deve passare, per essere approvata, una o due volte in due rami del Parlamento? Perché il governo non può vedere approvate o respinte le sue proposte di legge in un tempo certo? Perché il Presidente del Consiglio non ha il diritto di proporre lui al Presidente della Repubblica la nomina e la revoca dei ministri? Perché non ridurre, a tutti i livelli, la numerosità di tutti gli organismi elettivi? Perché, una volta sviluppato tutto il necessario confronto nelle Commissioni, non approvare la legge finanziaria senza lo stillicidio degli emendamenti in Aula?

Il Parlamento sta andando in questa direzione. Ma bisogna fare presto. La risposta alle domande retoriche che ho posto è una sola, purtroppo. Perché molti, in questo Paese, vogliono una democrazia debole, poteri istituzionali fragili, una politica al tempo stesso flebile e invadente. Non possono passare anni per una decisione. Non possono essere decine di organismi a dare pareri, mettere veti, condizionare scelte. Non ci possono essere decine di istituzioni da cui un cittadino, un imprenditore o un amministratore deve passare prima di vedere realizzato un progetto. L’Italia è diventata il Paese in cui tutti, a tutti i livelli, hanno il diritto di mettere veti e nessuno ha il diritto di decidere. Più è lunga e sfilacciata la filiera delle decisioni, più si fa strada il fenomeno, che temo riemergere, della corruzione. Uno Stato semplice, non barocco, è uno Stato moderno. Quello che la storia e la pratica ci consegnano è invece una eredità confusa e vecchia. Se di fronte ad ogni problema urgente gli amministratori e i cittadini sono costretti a chiedere poteri straordinari, è perché evidentemente quelli ordinari non funzionano.

E torniamo al tema: senza poteri democratici funzionanti, è tutto il sistema che si allenta, si smaglia, apre la strada a poteri illegittimi. Un Paese può perdere la sua democrazia per “eccesso”di decisione, ma può anche perderla per “difetto “di decisione. Gli italiani vogliono che il governo che guida il Paese possa assumere su di sé decisioni e responsabilità, e che e ne risponda. E vogliono sceglierlo. Come in altre democrazie, che funzionano. È così, con un’alta capacità di risposta, che si combatterà l’antipolitica. Occorre qui distinguere: un cittadino che critica sprechi e irrazionalità, che chiede alla politica sobrietà e rigore, non coltiva l’antipolitica, dice qualcosa di giusto. Come qualcosa di giusto dice chi vuole siano sempre rispettati i paletti tra sfera della politica e autonomia della società. Chi invece indica qualunquisticamente la politica come il nemico, chi soffia demagogicamente sul fuoco dell’insoddisfazione, ha il dovere di dire cosa si dovrebbe sostituire alla politica e alle istituzioni...

Io credo nella insostituibilità della politica come strumento di regolazione, come capacità di evitare che una società smarrisca il senso di sé e rifluisca in ogni possibile forma di particolarismo. Ma la politica, per far questo, deve sapere mostrare il suo volto migliore. Bisogna stare meno nei talk-show televisivi, non pensare di avere ogni giorno una cosa speciale da dire. Bisogna che le leadership politiche si misurino con la vita reale dei cittadini. Bisogna che il potere sia sobrio, che rinunci più che chiedere, che non si faccia corpo separato, lontano. Penso al senso dello Stato e all’impegno civile di uomini come Massimo D’Antona e come Marco Biagi, solo e senza scorta.

Una politica che sappia condividere: la vita dei cittadini, la quotidianità di persone che iniziano la loro giornata senza leggere gli editoriali dei giornali né domandandosi a quale dei vecchi partiti italiani si sentono legati. No, non fanno e non si chiedono questo, l’anziana che fatica a pagare l’ultima bolletta del mese con quello che resta della sua pensione, l’operaio che deve mettere insieme un lavoro che non lo soddisfa e il dovere di mandare avanti una famiglia, l’imprenditore che sbatte la testa contro la burocrazia o l’artigiano e il commerciante che ha il dovere di pagare le tasse ma ha anche il diritto di avere uno Stato che gli renda più semplice la vita e lo consideri non un peso ma una risorsa. Una politica sincera, pragmatica, ancorata ai suoi valori, non ideologica. E che contribuisca a voltare pagina in Italia.

La politica è, e deve essere, contrapposizione aperta, netta e trasparente tra programmi e soluzioni diverse. Ma c’è un confine di sobrietà e di rispetto dei problemi reali delle persone che non può consentire di proseguire oltre su una strada sbagliata. Sbagliato è che ogni nuovo governo si senta in diritto di smantellare sempre e comunque tutte le leggi varate dal governo precedente e in particolare le regole più importanti, quelle da cui dipende il funzionamento e lo sviluppo del Paese. Non è possibile che tutto ciò che è stato fatto da chi c’era prima di te, se era dello schieramento avverso, sia sempre sbagliato. E con questo voglio dire, per essere chiaro, che una cosa sono le leggi “ad personam”, che vanno cancellate, e una cosa è ad esempio una legge come quella sul risparmio, che non è stata negativa.

Basta. Dobbiamo farla finita con lo scontro feroce e con i veleni, con le polemiche che diventano insulto. Il Paese di tutto questo è stanco, non ne può più. E da tempo non perde occasione per dirlo. Per dire che non vuole una politica avvolta dall’odio, dove l’altro è un nemico, dove i problemi reali finiscono in un angolo o vengono affrontati con soluzioni temporanee. Voltiamo pagina. Gettiamoci alle spalle un modo di intendere i rapporti tra maggioranza e opposizione che non porta a nulla. A nulla, se non a far male all’Italia. Voltiamo pagina. La politica può essere diversa. Non c’è niente, tranne la nostra volontà, che impedisca la costruzione di un modo di intendere i rapporti basato sulla civiltà, sul riconoscersi reciprocamente. Mi è stato più volte dato atto di non aver mai partecipato a questa degenerazione del confronto. In ogni caso continuerò così, anche unilateralmente. Continuerò a pensare che non c’è un titolo di giornale che valga più del rispetto di un avversario. Non una battuta volgare che possa essere accettata come normale da un paese non volgare. Voltiamo pagina. Facciamo in modo, per la prima volta da quindici anni, che non si formino più schieramenti “contro” qualcuno, ma schieramenti “per ” affrontare le grandi sfide dell’Italia moderna.

Il Partito democratico deve avere in sé un’ambizione, al tempo stesso, non autosufficiente ma maggioritaria. Deve sapere che il suo messaggio di innovazione e di comunità può motivare il suo campo e conquistare consensi anche diversi. L’elettorato è razionale, mobile, orientato a scegliere la migliore proposta programmatica e la migliore visione. Il Partito democratico al quale pensiamo, voglio dirlo ancora una volta, è uno strumento per i nuovi italiani.

C’è una generazione che rischia di subire il furto più terribile, quello del futuro, e di essere catturata dal sentimento più negativo e paralizzante che ci sia, la paura. Ed è un paradosso inaccettabile che questo avvenga in un tempo che come mai è proiettato nel domani, che come mai è ricco di opportunità, che offre possibilità di conoscenza, di formazione, di comunicazione e di scambi una volta impensabili, di relazioni umane e culturali una volta impossibili. E se qualcuno dice che c’è chi vuole «rendere uguali il figlio del professionista e il figlio dell’operaio», noi rispondiamo sì: vogliamo che siano uguali. Uguali non nel punto di arrivo. Ma in quello di partenza. Vogliamo che il figlio dell’operaio abbia tutte le opportunità cui ha diritto. Vogliamo che siano le sue capacità, i suoi sacrifici, la sua intelligenza a dire dove arriverà, e non che il suo posto nella società di domani sia stabilito a priori dal salario che suo padre porta a casa dopo una giornata passata davanti a una pressa. Vogliamo che il figlio del professionista non debba trovare più comodo o più realistico seguire il sentiero già tracciato, che possa scommettere su se stesso e seguire ciò che lo affascina, e diventare un ricercatore, uno scienziato, se è questo che desidera.

Da - http://www.unita.tv/opinioni/veltroni-un-sogno-da-non-spezzare/
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« Risposta #43 inserito:: Marzo 01, 2017, 04:59:21 pm »

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Walter Veltroni - @veltroniwalter
· 26 novembre 2016

Il pericolo della post verità

Oggi è facile semplificare fino a distorcere. Queste righe solo per richiamare tutti noi alla bellezza dello spirito critico, alla capacità di leggere la realtà nella sua complessità

Ha fatto bene, anzi benissimo, Laura Boldrini a rendere noti, con nomi e cognomi, i messaggi offensivi e sessisti da lei ricevuti nel tempo. Bisogna leggerli, per capire la spirale di orrore nella quale si rischia di precipitare. E l’idea della donna che sopravvive, come una bestia immortale, al modificarsi del tempo. Al trivio reso discorso pubblico si unisce il desiderio del dolore e della morte atroce di chi ha idee diverse dalla propria.

Si insulta, si aggredisce, si minaccia. Tutto impunemente. Le parole diventano violente ed è questa, da sempre, l’anticamera della violenza. Ma tutto il circuito comunicativo oggi è sottoposto a fenomeni morbosi, per usare un’espressione gramsciana. Oggi, ad esempio, si fa strada semplicemente, come fosse ovvia, l’idea che circolino ampiamente, tra l’opinione pubblica, informazioni false, costruite ad arte per interessi di varie natura. Nobilitando quelle che potrebbero essere altrimenti dette delle insulse menzogne, questo dileggio della realtà è stato gentilmente definito la “post verità”.

Se ne parla come fosse una frivola moda del tempo, come il Pokemon Go, che per tre settimane è stato il fesso protagonista della stampa mondiale e ora giace, goffo, nella polverosa soffitta dei ricordi inutili. A me non viene da scherzare o da sottovalutare questo fenomeno nuovo e inquietante. Lo prendo sul serio e mi fa orrore, come il clima infernale che la nuova dimensione del discorso pubblico sta prendendo.

Urla e balle, odio e certezze assolute, ce n’è abbastanza per aspettarsi il peggio. Trovo, in questo, conferma della necessità di monitorare bene le grandi mutazioni che stanno intervenendo nei processi di selezione e diffusione della conoscenza nel mondo nuovo. Quando ci renderemo conto che quella in corso è una rivoluzione tecnologica paragonabile a quella che portò, nella seconda metà dell’ottocento alla nascita della società moderna, delle città, delle classi sociali e di forti idee politiche? Oggi sta succedendo qualcosa di persino più grande, perché più invasivo, anche perché avviene non in una fase espansiva dell’economia.

La immensa e affascinante trasformazione di ogni modalità del vivere sta cambiando tutti i codici, tutte le relazioni tra sé e il tempo, tra sé e gli altri. E, poi, tra sé e il lavoro, precario e incerto, e tra sé e la democrazia. Cose grandi, passaggi di fase storica di cui i singoli frammenti non possono essere capiti senza uno sguardo d’insieme.

La vittoria di Trump non può essere spiegata con analisi ordinarie, come la Brexit, quello che avviene in Turchia, l’affermazione del populismo su scala mondiale… Leggere, in proposito, l’articolo di George Monbiot sul Guardian a proposito delle tredici crisi che l’umanità ha di fronte. Ma soffermiamoci sulla coda della cometa, sulla cosiddetta post verità.

Un sito internazionale ha raccolto, nel 2015, la prova che almeno 76 fotografie, divenute virali in rete, erano false, manipolate. La notte del Bataclan circolò la notizia che, nelle stesse ore, un terribile terremoto aveva provocato migliaia di vittime in Giappone. La campagna sulla Brexit è stata alimentata dalla notizia, inventata, che la Gran Bretagna pagava 350 milioni di sterline a settimana per l’Europa. Dopo gli attentati di Parigi è circolata la foto di uno dei presunti attentatori, solo che era in realtà un pacifico critico di videogiochi impegnato in un selfie nel bagno con un Ipad, prontamente trasformato graficamente in libro del Corano, e a cui era stato, con il Photoshop, aggiunta una cintura esplosiva al fianco.

Circola, in questi giorni, un video che raccoglie dichiarazioni di dirigenti della sinistra contro le proposte di riforma della Costituzione di Berlusconi. E lo si usa per mostrare una palese contraddizione con il sostegno che le stesse persone hanno dichiarato al sì nel referendum del 4 dicembre. Non lo sarebbero state neanche se si fossero riferite a quando, nel 2006, Berlusconi approvò una riforma nella quale il premier aveva il potere di scioglimento delle camere e di nomina e revoca dei ministri, qualcosa evidentemente di molto diverso da ciò di cui discutiamo oggi.

Ma quelle dichiarazioni si riferiscono invece a una manifestazione che il Pd promosse nel 2009 quando Berlusconi dichiarò, da presidente del consiglio, che la Costituzione era filocomunista e che si proponeva interventi sulla carta per limitare l’autonomia dei giudici e per far avanzare il presidenzialismo. Di questo si trattava. Non del superamento del bicameralismo perfetto o dello scioglimento del Cnel. In quella occasione Scalfaro, che parlò per tutti noi, chiarì: «Non abbiamo mai detto che non si può toccare la Costituzione – ha proseguito – vogliamo aggiornarla, ma non si può stravolgerla. Non si possono toccare i valori di fondo, la libertà, la giustizia, i diritti primari delle persone». Affermazione che condivido in toto.

Dunque ciò che è diverso, in quel video, non è l’opinione delle persone ma l’oggetto del loro giudizio. Propaganda per ingannare i cittadini, alimentata da una manipolazione, gravissima, nella quale è caduta onestamente anche una persona dabbene come Maurizio Crozza. Ciascuno di noi dovrebbe cercare di dire la verità, essere sempre attraversato dalla meraviglia del dubbio, e accettare la complessità.

Oggi invece è più facile fermarsi al titolo che entrare nei contenuti. Semplificare fino a distorcere, che volete che sia. Molto sulla rete è così, ma la colpa non è solo della rete, sottratta alla mediazione responsabile del giornalista. Come ha dimostrato Luca Sofri nel suo bel volume Notizie che non lo erano, ormai anche i giornali, per inseguire lo spirito del tempo, costruiscono o ospitano deliberate, non casuali, fandonie.

Queste righe solo per richiamare tutti noi alla bellezza dello spirito critico, alla capacità di leggere la realtà nella sua complessità, al guardarsi dalla emotività che vogliono indurre fabbricanti, consapevoli o no, della post verità. Altrimenti si potrà finire col credere davvero che le camere a gas di Birkenau non siano mai esistite ma che, cito da uno dei testi dei negazionisti, «quei mucchi di cadaveri furono il prodotto di una epidemia di tifo prodotta dai bombardamenti alleati». Il mio amico Shlomo Venezia, uno dei meravigliosi sopravvissuti allo sterminio degli ebrei, mi raccontava sempre che quando tornò da Auschwitz la sua pena maggiore stava nel non essere creduto quando raccontava ciò che aveva vissuto e visto. Degli ebrei, per sostenerne l’eliminazione, era stato detto di tutto, inventato di tutto. Non dimentichiamolo, mai.

Da - http://www.unita.tv/opinioni/il-pericolo-della-post-verita/
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« Risposta #44 inserito:: Marzo 05, 2017, 10:58:23 pm »

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Walter Veltroni - @veltroniwalter
· 5 marzo 2017

Il rischio più grande
Tutti lo sanno, con il proporzionale puro, il paese va verso la totale ingovernabilità

Cosa accadrebbe se alle prossime elezioni, non mi interessa la data, non ci fosse nessuna maggioranza possibile di governo? Tutti si affannano a discutere del quando e nessuno parla del come. Nessuno sembra occuparsene, tutto è silenzio. Nel 2013 ci fu un risultato elettorale che vide tre blocchi quasi equivalersi.

Ma c’era una legge elettorale, oggi giustamente cassata dalla Corte, che trasformò una minoranza in una maggioranza. Che ha prodotto quattro governi non scelti dagli elettori. Paradosso di un maggioritario sui generis. Oggi non c’è neppure quella clausola di salvaguardia che, comunque, ha fatto procedere una legislatura che pure ha prodotto decisioni importanti.

Oggi si è tornati, tra la gioia incontenibile di molti, a un sistema proporzionale puro. Quel sistema non funzionò quando c’erano partiti forti, fortissimi. Si arrivò al paradosso politico istituzionale di cinquantasei governi in cinquanta anni. Tutti con lo stesso partito al centro del governo. Furono inventati i governi balneari e quelli di decantazione.

Ora, che i partiti sono una galassia di marmellata, davvero si pensa di tornare a un sistema per il quale i governi si fanno attraverso le trattative e le mediazioni di potere tra partiti o coalizioni, per di più della stessa dimensione elettorale? Non siamo in Germania e neanche in Spagna, non raccontiamoci frottole.

Che coalizioni si potrebbero creare tra due coalizioni delle tre che sono in gara? Un governo con la destra che comprende la Lega e il Pd? Uno dei Cinque stelle della Lega? Ipotesi fantascientifiche e, comunque, raggelanti. Allora la si smetta di pensare solo al proprio scranno, meglio garantito da una frammentazione esasperata, e si pensi al paese.

Ma davvero nessuno, in questa momento drammatico, sta pensando a cosa potrà succedere se l’Italia si troverà, ancora una volta, senza nessun governo possibile? Potremo precipitare in una crisi drammatica della nostra democrazia. Questa è la posta in gioco. Bisogna essere ciechi per non vederla I l giorno delle elezioni si deve sapere chi governa. E chi governa deve essere stato scelto dai cittadini. Ci vuole un mix di proporzionale e maggioritario.

Non spetta a me fare ipotesi, non ne ho più titolo né ruolo. Personalmente sono sempre legato al doppio turno di collegio alla francese ma considero il Mattarellum una soluzione adeguata, come può esserlo un premio di coalizione a chi superi un tetto, come indicato dalla Corte. Ma, tutti lo sanno, con il proporzionale puro il paese va verso la totale ingovernabilità. Lo dico chiaramente: preferisco che vincano altri al rischio che non vinca nessuno e si debba tornare a votare in un clima drammatico. Una seconda cosa, della quale ho parlato all’Assemblea nazionale.

Sia evitato l’obbrobrio delle preferenze. Possibile che non si veda come e quanto sia oggi debole la politica e forte la pressione di poteri criminali e non solo? Quanto questi siano capaci di condizionare la scelta del personale politico? I collegi uninominali, per il rapporto che stabiliscono tra cittadini e eletti, mi sembrano la soluzione più opportuna. Infine penso sarebbe utile mettere un freno, nel rispetto della Costituzione, al proliferare in Parlamento del fenomeno del trasformismo e della migrazione costante di eletti tra partiti e schieramenti opposti.

Quanti gruppi con nomi assurdi si sono formati in questa legislatura? La politica è una cosa bellissima, serve a un paese a migliorare se stesso. La politica è necessaria e la demagogia, diventata retorica facile, contro le istituzioni è un veleno pericoloso. Ma la politica è bella quando mostra di occuparsi degli altri, più che di se stessa. Il paese, prima di tutto.

Da - http://www.unita.tv/opinioni/il-rischio-piu-grande/
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