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Autore Discussione: La responsabilità della sinistra  (Letto 2390 volte)
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« inserito:: Giugno 08, 2014, 06:46:19 am »

La responsabilità della sinistra
02 giugno 2014

Il voto del 25 maggio ha espresso una forte domanda di governo. Anzitutto il bisogno di garantire la governabilità e le istituzioni, minacciate dalla violenza verbale e dai propositi sfascisti di Grillo. Ma ancor più vasta è stata la richiesta di un cambio di rotta, di un’inversione di tendenza, di una nuova stagione italiana ed europea. La protesta urlata dei Cinquestelle è apparsa velleitaria, autolesionista: da qui l’arretramento. Il Pd guidato da Renzi è risultato invece credibile sia per difendere le cose che contano, sia per avviare un cambiamento razionale e profondo nel tessuto del Paese. Così quel sentimento, che altrove in Europa ha destabilizzato governi e sconvolto gerarchie politiche, si è coagulato da noi attorno a un progetto di governo. Non sono state firmate cambiali in bianco. Il consenso-record raggiunto dal Pd poggia ancora su basi fragili. Ma questo non fa che aumentare le responsabilità del premier e dell’intero Pd. Hanno una grande occasione davanti a loro: trasformare le speranze e le aspettative suscitate in una nuova prospettiva per l’Italia.

Nessuno si aspettava un simile verdetto popolare. Ora quelle cifre cambiano molte cose. Anche per Matteo Renzi. Che nei primi mesi di governo aveva usato Palazzo Chigi soprattutto per spiegare che la politica stava cambiando corso, per ridestare un po’ di fiducia, per creare un feeling anche nel linguaggio con quanti ormai erano sintonizzati sulle frequenze dell’antipolitica. Adesso al linguaggio nuovo bisogna affiancare una visione del futuro del Paese. È arrivato il tempo di trasformare i simboli di cambiamento in processi di cambiamento. Gli strappi hanno una funzione anti-congiunturale e servono per tenere alto il ritmo della comunicazione. Ma ora Renzi e il Pd devono darsi una prospettiva più lunga, più inclusiva. Dopo gli 80 euro ai lavoratori dipendenti, bisogna dare appuntamento ad altre fasce sociali in difficoltà: i pensionati, le famiglie numerose, le partite Iva. Occorre costruire un’alleanza sociale per lo sviluppo. Occorre riaprire le porte del ceto medio.

Ma per fare questo un governo, da solo, non basta. Tanto meno se parliamo di una sinistra moderna, europeista, riformatrice, che si propone di abbattere privilegi, rendite, ostacoli alla mobilità sociale. Il governo ha bisogno che si riapra nella società il cantiere del «partito». Un partito dalle forme nuove, che non pretenda di occupare le istituzioni. Un partito che sostenga e indirizzi le domande sociali. Un partito che formi e selezioni le classi dirigenti. Un partito che faccia cultura, e che si metta in rete con le risorse cognitive diffuse nei territori. Solo così il cambiamento può diventare un traguardo del Paese, e non solo una sequenza di atti legislativi separati tra loro.

Renzi ha dato l’impressione, già nella fase finale della campagna elettorale europea, di intuire la necessità di una svolta. Il suo invito all’unità nel partito non sembra più la riproposizione degli schemi di prima. Come il congresso, anche il dopo congresso sta nel passato remoto. Con Grillo e Casaleggio che, dopo la sconfitta, muovono nientemeno che verso la destra di Farage, con una destra divisa e allo stato priva di un baricentro strategico, il Pd e Renzi non possono che ripartire dalla loro responsabilità nazionale. Anzitutto responsabilità di mantenere quella promessa di cambiamento fatta agli italiani.

È una sfida inedita. Conta poco chi nel Pd era renziano della prima ora, chi lo è diventato nella seconda e chi non intende diventarlo neppure alla terza. Una nuova classe dirigente va messa in campo e misurata sui fatti. Ma c’è un nodo da sciogliere. Il partito serve all’impresa? Può dare un contributo autonomo al governo? Oppure deve occuparsi soltanto delle retrovie? Non sono domande oziose. Sono questioni vitali, anche perché rilanciare il valore dei partiti come reti di trasmissione democratica tra società, interessi e istituzioni, vuol dire andare decisamente controcorrente rispetto alla narrazione degli ultimi vent’anni. I partiti sono stati distrutti, oltre che dalle loro incapacità, dal disegno oligarchico di avere governi sempre più dipendenti dalle élite e dalle tecnocrazie. Sarebbe un errore oggi, di fronte a questa impetuosa domanda che emerge dal Paese, rispondere che la nuova classe dirigente dei quarantenni verrà selezionata sulla base di una cooptazione, che si ispira ancora al pensiero liberista dominante. La nuova classe dirigente ha bisogno invece di una cultura nuova. Che rompa i vecchi argini. Ha bisogno di un partito. Anzi, dei partiti. I partiti-società sono condizione di un cambiamento duraturo, perché a volte ci vogliono tempi e pensieri lunghi per produrre risultati. La scorciatoia del partito personale non porta al traguardo. Il populismo brucia tutto subito. A volta brucia anche le istituzioni piegandole a fini di potere. Soprattutto un partito di sinistra come il Pd, che oggi è investito della responsabilità di «partito della nazione», deve rompere lo schema degli ultimi anni. E rifondarsi. Ricostruire la propria circolazione democratica, il proprio radicamento. È un’impresa difficile: ma è il momento di avere grandi ambizioni. Se tutto il Pd sarà capace di aprire questa strada nuova si potrà anche realizzare quel sogno, di cui ieri ha parlato Susanna Camusso, cioè vedere tutta la sinistra presto in un partito di governo e di società. È un pro-memoria anche per le riforme istituzionali: sarebbe ora di tornare a puntare sui partiti (come è avvenuto alle elezioni europee) anziché sulle coalizione coatte che nella seconda Repubblica hanno demolito la credibilità della politica.

Da - http://editoriale.comunita.unita.it/2014/06/02/la-responsabilita-della-sinistra/
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