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Autore Discussione: «Ecco chi era davvero Tiziano Terzani» - La moglie Angela ricorda il giornalista  (Letto 3428 volte)
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« inserito:: Giugno 04, 2014, 07:09:20 pm »

«Ecco chi era davvero Tiziano Terzani»

La moglie Angela ricorda il giornalista


Di Oreste Pivetta
26 maggio 2014

Parte domani 27 maggio, alle 21, con lo scrittore spagnolo Ildefonso Falcones De Sierra, 'Letterature-Festival internazionale di Roma'. Lo stesso De Sierra legge passaggi del suo testo inedito «Ognuno è il centro del mondo». Segue un omaggio a Tiziano Terzani con letture degli attori Sonia Bergamasco e Claudio Santamaria. Il festival proseguirà con Dario Fo, Roddy Doyle, Fabio Volo, Walter Veltroni, fino a Joshua Ferris, Stefano Benni, Alain Mabanckou e Hermann Koch. Il programma su www.festivaldelleletterature.it.


L'INTERVISTA alla moglie Angela Staude e ad Alen Loreti di Oreste Pivetta

«Cari lettori, nel 2014 cade il decennale della morte di Tiziano e la cosa straordinaria per me è che possa esserci un decennale. Dieci anni “dopo” il passato di solito è dimenticato, mentre nel caso di Tiziano la cerchia dei suoi estimatori si è enormemente allargata…». Cito le prime righe di una lettera, “pubblica”, di Angela Staude, che ricorda il marito, Tiziano Terzani. Prime righe che rappresentano con immediatezza il rischio dell’inattualità e insieme la necessità di un uomo così, un uomo assai particolare, un “personaggio”, un campione del giornalismo libero, un intellettuale che segue la storia, la racconta, la giudica, che pratica la morale senza moralismi: «rischio dell’inattualità» di fronte alla deriva consumistica universale fino alla catastrofe, alla progressiva chiusura dentro egoismi di individui, famiglie, clan, regioni (il regionalismo caro alle varie Leghe), piccoli stati, piccole e grandi “chiese”, alla caduta di quei propositi di emancipazione di popoli interi che segnarono il secolo scorso, “necessità” che qualcuno ancora possa indicare una strada diversa, di pace, giustizia, libertà, solidarietà…

C’è una frase di Angela Staude nella introduzione ai diari di Tiziano, diari inediti, pubblicati ora da Longanesi (Un’idea di destino. Diari di una vita straordinaria) che mi sembra molto pertinente: «La meta, per Tiziano, è stata la strada, il cammino». Sembra il primo comandamento di un rivoluzionario che non si lascia intrappolare dalle ideologie, che teme, raggiunto un traguardo, l’immobilità che diventa difesa corporativa dei nuovi privilegiati.

Ci spiegano Angela Staude e il curatore con lei del volume, Alen Loreti, che Tiziano Terzani aveva iniziato in vario modo la pratica dei diari nei primi anni ottanta: appunti, taccuini e soprattutto floppy disk (Terzani fu un precursore nell’uso del computer), anche le carte, che documentano i giorni, all’inizio del 1984, del suo arresto in Cina e della sua espulsione, momenti di una riflessione intima ma anche tratti di un futuro impegno di scrittura, ad uso interno insomma ma non solo (gli scatoloni che le custodivano recavano la scritta, in cinese, “neibu”, “ad uso interno”). Una pila di fogli, stampati dai floppy, alta un metro. Da cui scegliere…

Angela, ho trascritto quelle sue parole rivolte ai lettori. Non pensa anche lei che Tiziano sia stato l’uomo di un tempo alle spalle ormai, un tempo di lotte contro il colonialismo e di tradimenti, ed insieme un uomo di cui abbiamo bisogno ora per condividere una speranza, per condividere un orizzonte?

«Credo che sia così. L’ho sempre visto seguire la storia là dove si poteva immaginare un cambiamento che aiutasse un popolo, che difendesse una cultura. La sua vita è stata un procedere continuo, un cammino appunto e camminare è la parola giusta: un viandante alla ricerca della conoscenza, pronto a misurarsi con la delusione, di fronte al fallimento di tante utopie, mai rinunciatario però, mai fermo, disposto anche a ricredersi, a invertire direzione. Sapeva di dover tenere in mano il timone della propria esistenza e sapeva che l’esistenza significava responsabilità, per sé e per gli altri. Anche dall’Himalaya, rifugio spirituale, era pronto a discendere, per il dovere della presenza. Avvertiva il peso grave di certe vicende, non si rassegnava a sentirsene vittima e basta: vittima sì, di certa globalizzazione, dell’11 settembre, persino di Berlusconi, ma con la voglia di reagire. Visse uno dei momenti più difficili in Cina, quando si rese conto della natura oppressiva di quel regime comunista, come denunciò nei suoi articoli, pagando le conseguenze dei suoi giudizi franchi».

11 settembre, quando torna a scrivere, da freelance, come all’inizio della sua carriera: tenne banco allora la sua polemica sul Corriere con Oriana Fallaci... Leggendo le prime pagine dei diari, dedicate proprio all’avventura cinese, si ha la prova di un giornalismo di tante qualità e di una in particolare: l’indipendenza nello sguardo rispetto a qualsiasi vincolo ideologico, non c’è fede politica o partito che possano mettere in secondo piano il valore dell’onestà e la forza dell’esperienza diretta.

«Tiziano sapeva osservare la vita e capire attraverso la visione della quotidianità della vita. Diceva: che importano le grandi promesse, le grandi parole, se al mattino quando esci di casa e passi davanti ad un ritratto ti devi inchinare, se devi faticare in fabbrica senza poter protestare contro il tuo sfruttamento, per la tua stanchezza, se non puoi alzare la testa dalla miseria materiale e morale, se ogni vicino di casa può essere la spia che ti accusa. Descriveva la vita, con la certezza che la vita non si può rimandare: se ti rovinano questa, non hai la possibilità di ritentare».

Denunciava l’ossessione consumistica di un mondo omologato e insieme la rassegnazione, con la scusa che il mondo è troppo complicato: «Nessun ha più la sensazione – scriveva da Bangkok – di poterci fare qualcosa, inutile darsi da fare…». E ancora: «Il comunismo è finito, i sogni di una società migliore sono finiti. Tutto si risolve stando a pensare a due centimetri al di sopra del proprio ombelico». E ne soffriva: «Assalito dalla vecchia belva oscura».

«La depressione, il cane nero, una sofferenza che lo condusse a distaccarsi dal lavoro, fino alla rottura nel 1996, quando chiese a Der Spiegel il prepensionamento, e a sperimentare una spiritualità laica, senza religioni, senza riti comandati. Era un modo per reagire all’insofferenza nei confronti di una società che si modernizzava: non rifiutava la modernità, anzi, ma non tollerava il caos di una modernizzazione frenetica, le città ridotte dal traffico ad una camera a gas allo stesso modo del muezzin che chiama alla preghiera con l’altoparlante»

Quante volte si legge “depresso” e “depressione”. In una pagina del ’96 scrive: «Basta con questo mondo». Era a Cernobbio per un meeting dell’Aspen Institute. Si capisce… Un altro giorno, due anni prima, annota: «Ho sempre pensato che la fine cominciasse così, con un medico che mi dice: sa, qui c’è un’ombra». Una premonizione. La malattia arriverà nella primavera del 1997…

«Una malattia terribile, un fulmine, da vivere comunque. Tiziano ci ha insegnato che, certo, si deve fare il possibile per curare il corpo, ma che altrettanto occorre per la mente, accettando una verità semplice: che la morte fa parte della vita».

Lei, Angela, aveva diciotto anni quando incontrò Tiziano. Vi sposaste giovanissimi. Che cosa la colpì di lui? Era bello? Era alto?

«Era bello, lo si vede dalle foto. Era diverso. Si capiva che aveva un’idea, aveva un sogno, aveva un progetto. Camminava guardando sopra la testa dei suoi compagni».

Non la spaventava quel mestiere affrontato con passione totale, con tanta generosità, e quella peregrinazione da una parte all’altra del mondo. Lei ricorda una partenza per l’Asia con quattro valige e due bambini…

«L’entusiasmo era grande, la curiosità anche. Allora mi sembrava tutto facile, tranquillo. Peraltro la mia era una famiglia tedesca, abituata agli spostamenti: si era trasferita a Firenze, mio padre era nato ad Haiti, molti miei parenti erano stati in Cina. Non ci spaventava la prospettiva di traversare il mare…”»

Tiziano invece era nato in una famiglia assai modesta. È straordinaria la sua volontà di superare quella condizione, quel vincolo: studiare, conoscere, viaggiare per scrivere. Credo che la sua biografia potrebbe insegnare molto ai giovani d’oggi.

«Tiziano s’era dato un traguardo e aveva lavorato tanto per raggiungerlo. Aveva studiato duramente, era riuscito a conquistarsi due lauree, una a Pisa e l’altra in America, parlava tante lingue, conosceva il cinese e la storia della Cina, era stato impiegato all’Olivetti, sperimentando la disciplina di una grande azienda. Non aveva perso un attimo, si era addestrato con dedizione per intraprendere la strada che aveva in mente. Questo è l’insegnamento: ragazzi, non scoraggiatevi, non è obbligatorio annoiarsi nei centri commerciali o davanti alla televisione, fatevi un’idea di destino, del vostro destino»

«Un’idea di destino», appunto. Il titolo del libro. Quanto è stato difficile scegliere tra quel metro, in altezza, di fogli uno sull’altro?

«Non è stato difficile. Parti dei diari si erano già lette nei suoi libri e quindi le abbiamo escluse. Allo stesso modo abbiamo tagliato materiale giornalistico, interviste, notizie ormai di nessuna attualità. Ho lasciato invece lettere indirizzate a me, ma mi sembrava che potessero rappresentare la sensibilità di Tiziano. Adesso tutto appartiene a chi legge».

Il continuo errare di Tiziano sembra negare un rapporto con la realtà italiana. Quali erano i suoi sentimenti verso il Paese di nascita?

«Sentimenti fortissimi d’amore. Tiziano amava la diversità, la diversità dei popoli che sentiva come una inesauribile ricchezza e non poteva accettare l’omologazione consumistica. Ma per questo era anche orgoglioso della propria diversità, di essere cioè italiano. Diceva sempre: parto e spero che nella valigia, al ritorno, ci sia qualcosa di utile per il mio Paese».

Da - http://www.unita.it/culture/terzani-tiziano-giornalista-scrittore-festival-letterature-roma-angela-staude-moglie-1.571437
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« Risposta #1 inserito:: Luglio 27, 2014, 11:27:51 pm »

Dieci anni senza Terzani, ma il suo ricordo è più vivo che mai

di Marco Barbonaglia
25 luglio 2014

Sono passati ormai dieci anni dalla scomparsa di Tiziano Terzani. Ma sarebbe meglio dire da quando "lasciò il corpo", come viene definito l'atto conclusivo dell'esistenza in molte tradizioni orientali e come preferiva dire lui stesso dopo una vita intera trascorsa in Asia. Un continente che Terzani aveva esplorato per oltre 30 anni e che aveva amato profondamente. Dopo una così lunga e appassionata frequentazione, la spiritualità di quel mondo aveva finito per mettere radici dentro di lui come un seme caduto nella terra tempo prima che, quando la stagione è propizia, sboccia e si trasforma in una pianta rigogliosa. Nonostante un sano scetticismo, nonostante la pratica costante del dubbio, l'occhio critico del giornalista e lo spirito un po' polemico del fiorentino.

Così questo tipo di sensibilità, di attenzione al mondo interiore era cresciuto piano piano in lui, quasi a sua insaputa, e si era manifestato quando i tempi erano ormai maturi. Basta rileggersi la parte finale di quello straordinario libro che è "Un indovino mi disse" per ritrovare la prima esperienza di Terzani con la meditazione. «Avevo passato mezza vita in Asia e non me n'ero mai occupato». E, anche se perfino a lui pareva ormai incredibile, l'aveva sempre considerata «una cosa che non mi riguardava, una roba per disorientati, una risposta d'evasione ai problemi del mondo».

Questo perché negli anni aveva studiato, imparato, parlato con le persone. Si era imbevuto di una cultura antichissima ma si era sempre mosso spinto dalla curiosità e da un'innata irrequietezza. Al contrario degli occidentali che si gettano anima e corpo tra le braccia della prima setta o che si inginocchiano di fronte al primo santone che incontrano, sempre alla ricerca di qualche cosa a metà tra il salvagente spirituale e la moda del momento, lui aveva sempre scelto di conoscere, sperimentare, indagare.
Per questo non vestì mai i panni del guru, anche se in molti probabilmente vollero vedere in lui qualcosa di simile. Per questo arrivò a toccare altissime vette sul piano spirituale ma non aderì fino in fondo a nessuna religione in particolare. Era vicino al buddhismo, aveva studiato i testi sacri dell'induismo, conosceva a fondo il taoismo e aveva capito l'essenza stessa dell'islam ma rimaneva anche «un fiorentino scettico».

In verità scettico lo era sempre meno. Non per un atto di fede cieca, però, ma grazie alle scoperte che aveva fatto durante un lunghissimo cammino per le strade del mondo e per quelle, certo più tortuose e complesse, del proprio spirito.
Ad ogni modo, come ultima stazione del suo viaggio, aveva scelto l'Orsigna, suo personale rifugio sull'Appennino tosco-emiliano. Negli ultimi anni faceva la spola tra l'Himalaya indiano e quello che considerava il "piccolo Himalaya di casa". La natura, aveva capito, insegnava agli uomini molto più dei libri e la natura ci circonda ovunque non l'abbiamo devastata, in India come in Toscana. Ma a metà tra questi due mondi Terzani scelse di rimanerci fino all'ultimo, proprio perché lui era un fiorentino che un giorno era partito per l'Asia. Come ultima dimora, scelse di costruirsi una piccola gompa, sul modello dei templi buddhisti tibetani abbarbicati sulle vette delle montagne più alte del mondo. E fu proprio in quest'angolo di Himalaya, in questo rifugio orientale tra i boschi toscani, che Terzani scelse di lasciare il proprio corpo.

Oggi, dieci anni dopo, mentre i suoi diari pubblicati con il titolo "Un'idea di destino" scalano come se niente fosse le classifiche dei libri più venduti, viene da chiedersi che cosa cerchi questa enorme folla di lettori tra le righe dei suoi scritti. Sappiamo che fu un grande giornaliste e che, se pure visse ben prima di questi tempi di crisi, per potersi realizzare dovette andarsene dall'Italia. Dovette girare per l'Europa fino a trovare un giornale tedesco, il "Dar Spiegel", disposto a farlo lavorare come corrispondente dall'Asia. Da noi il suo progetto non interessava a nessuno.
Ma questo straordinario reporter che aveva seguito la guerra in Vietnam, l'ascesa dei Khmer Rossi in Cambogia, la fine dell'impero Sovietico, che era stato tra i primi giornalisti a vivere nella Cina Comunista e da Pechino era stato, infine, espulso, con gli anni era diventato qualcosa di diverso. Era andato oltre la cronaca, oltre il semplice racconto, aveva cercato un nuovo modo di vivere e aveva provato a gettare uno sguardo differente sul mondo e sull'esistenza stessa dell'uomo. Così era arrivato alle soglie della morte con una serenità quasi disumana, ma perfettamente coerente con il suo cammino, e aveva indicato una strada diversa dal solito a chi lo ascoltava. Ma lo aveva fatto con semplicità, senza mettersi su di un palco, senza atteggiarsi a "Maestro", parlando della natura, della bellezza, della grande ruota della vita e della morte. Soprattutto non aveva offerto risposte definitive o dispensato eterne e granitiche verità ma, da viaggiatore, aveva mostrato una via diversa da percorrere, ricordandoci che incamminarsi lungo il sentiero è, spesso, più importante della meta stessa che vorremmo raggiungere.

©RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.ilsole24ore.com/art/cultura/2014-07-25/dieci-anni-senza-terzani-ma-suo-ricordo-e-piu-vivo-che-mai-144237.shtml?uuid=ABw86IeB
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