1917, il giorno in cui nacque il Novecento
Bruno Gravagnuolo
La Rivoluzione d'Ottobre era inevitabile? Vecchia domanda ancora buona, nonché titolo di un famoso saggio di Mevdevev risalente a prima del 1989, e pubblicato in Italia in una bella edizione con «guardia rossa» sulla copertina dagli Editori Riuniti. Il saggio in questione era centrato in realtà più sulla «guerra civile» successiva al 25 ottobre (7 novembre per il nostro calendario) che sulla domanda di cui sopra. Che nondimeno rilanciava con forza. Tesi revisionista di Mevdevev: «gli eventi oscillarono fino all'ultimo». E, soprattutto, non era affatto necessario l'epilogo catastrofico della «guerra civile» che a sua volta segnò indelebilmente identità e struttura dello stato bolscevico in senso totalitario, malgrado le correzioni apportate da Lenin nel 1921 con la Nuova Politica Economica. Insomma, diceva lo storico, un'altra rivoluzione era possibile, e quel tipo di Rivoluzione non necessariamente «doveva» essere quel che poi fu.
Oggi, in concomitanza con il novantesimo di quegli eventi, un altro studioso si confronta con quel problema: Marcello Flores, storico a Siena e assessore in quella città. Autore di libri importanti sul Novecento e in particolare sulla violenza del secolo come Il Secolo Mondo (Bologna, 2002) Tutta la violenza di un secolo (Milano 2005) e Il genocidio degli armeni (Bologna 2006). Storico dunque che lavora con una dimensione comparata e che fa uso di strumenti «molecolari»: la musica, l'immaginario, l'iconografia, il linguaggio comune. Oltre alle fonti d'archivio, naturalmente.
E stavolta Flores si misura, in un suo saggio breve, proprio con l'«evento singolo»: la presa del potere bolscevica. Nella convulsa giornata politica del 25 ottobre 1917, tra l'istituto Smolny, sede dei Soviet e del congresso panrusso, il palazzo d'Inverno, il Palazzo della Tauride e gli altri luoghi del dramma disseminati in una distratta Pietrogrado, per nulla elettrizzata o coinvolta, come invece la leggenda dell'Oktjabr di Eizenstein ci ha tramandato.
Il libretto di Flores si intitola 1917, la Rivoluzione (Einaudi, pp. 139, euro
e contiene anche un utile cronologia dei fatti, decisivi a capire l'evento. Il suo pregio è esattamente questo: circoscrivere la narrazione alla rottura di un equilibrio. Quello del «dualismo di potere». Invalso dopo che la «rivoluzione di febbraio» - con la fine dello zarismo - aveva sancito appunto la nascita di due centri di legittimazione. Il governo provvisorio espressione della Duma da un lato, e l'assemblea panrussa dei soviet (di fabbrica, circoscrizioni e distretti contadini), dall'altro. Poteri bilanciati, reciprocamente ostili ma anche contaminati, poiché nell'uno e nell'altro v'erano menscevichi, socialisti rivoluzionari e laburisti (tale era Kerenskj). Un patto instabile e irrisolto, che esponeva il governo al controllo dei soviet, e poneva i soviet sotto la minaccia del governo provvisorio, su cui premevano dall'interno le forze militari decise a protrarre la guerra del 1914-18, accanto all'Intesa. Grande peso specifico avevano inoltre i liberali (i «cadetti») nel governo, e ovviamente i bolscevichi, capaci via via di egemonizzare e guidare maggioranze sovietiste sempre più infiltrate e dominate dalle loro parole d'ordine.
Quello tra i due poteri non era un accordo costituzionale, nel senso di «costituzionalizzato», bensì legato all'emergenza di una situazione molto fluida e bisognosa di una definizione risolutiva. Mentre premevano sullo sfondo i problemi irrisolti. La guerra, la fame, l'anarchia sociale, e le aspettive di riforma agraria già in moto con le riforme abbozzate dal ministro Stolypin, ucciso da un attentato nel 1911.
Situazione impossibile quindi, e indecisa. E il pregio del libro di Flores è proprio quello di fissarne un' istantanea mobile, fluida e animata da una «colonna sonora». I rumori dello Smolny, certo. Con il rimbombo dei fucili sul pavimento, le grida e le accensioni improvvise al comparire, dai sotterranei di quel collegio femminile, di gente come Lenin, Trotzky, Kamenev. E poi le bandiere rosse, le canzoni, dalla «Marsigliese operaia», tipica dell'atmosfera di febbraio, all'«Internazionale», contesa tra menscevichi e bolscevichi. Inoltre le autoblindo, i fogli di giornali, il cinema di allora, e l'iconologia degli eroi. Per un po' lo stesso Kerensky e la sua «santa russia laica» furono sugli scudi.
Si badi, tutto era molto più quotidiano e normale di quanto non ci possa oggi immaginare. A confronto di quel che sarebbe accaduto dopo, con la guerra civile, le fucilazioni e gli espropri specie nelle campagne (espropri di derrate).
E tuttavia tra quei palazzi e la rada da cui l'incrociatore Aurora spara i suoi colpi a salve all'alba del 25 Ottobre, il dramma politico «indeciso» si consuma. Accadono alcune cose. Primo: la polarizzazione tra i ceti sociali: «verchy» e «nizi», ceti alti e bassi. Una contrapposizione che spinge anche i più moderati su posizioni estreme, e li costringe a scegliere «esistenzialmente» una barricata. Poi: l'acuirsi di un‘insostenibilità carica di attese. Non si capisce né si decide chi abbia il potere di continuare la guerra, oppure di porvi fine. E il tutto mentre le guarnigioni si ribellano, e lo stesso potere di decisione militare è stato consegnato nelle mani del soviet di Pietrogrado: con un'intesa concordata con lo stesso governo provvisorio. Ancora: due tentativi di colpi di stato. Quello di Kornilov bloccato dai bolscevichi chiamati in soccorso dallo stesso Kerensky che li aveva messi fuori legge. E quello dei bolscevichi, poi abortito. Non basta perché da febbraio, dopo la famosa «seconda domenica di sangue» c'erano state l'abdicazione di Nicola II, la rinuncia di suo fratello il Granduca Alessio, il governo del princie L'Vov, il governo di Kerensky, le dimissioni di ministri della guerra. E rivolte, sparatorie, la cacciata del soviet dal Palazzo di Tauride. In una città senza viveri e senza combustibile.
Finché la situazione precipita, e proprio secondo le direttive sapientemente costruite da Lenin, rientrato dalla Finlandia e proclamate dalle Tesi d'Aprile: tutto il potere ai soviet, pace senza annessioni, terra ai contadini.
L'abilità di Lenin, contro l'attendismo di altri bolscevichi, sta in questo: recepire la radicalizzazione. Assecondarla, e farsi portavoce di un principio d'ordine. Di un principio decisionale. Semplice. Comprensibile. Efficace. Invano i socialisti rivoluzionari e i menscevichi tentano di dare una forma lineare al processo, ipotizzando al soviet - dove via via vanno in minoranza - un «governo di tutti i socialisti di sinistra». L'errore loro è quello di voler evitare una rottura, di temporeggiare sulla guerra, ma soprattutto sulla cacciata di quel governo Kerensky, che annovera numerosi socialisti di sinistra al suo interno. È quello di confidare in un trapasso pacifico, democratico, poi da sanzionare con l'impegno già strappato dell'«Assemblea Costituente» (liquidata dai bolscevichi in seguito). Impossibile, in quelle condizioni castrofiche, ogni transizione morbida.
Ed è così che i bolscevichi «danno» i tempi. Votano infatti il 25 ottobre l'ordine del giorno sul governo unitario, ma contestualmente, e in precedenza, hanno già occupato i punti strategici della città, grazie al Comando militare del soviet che hanno «infiltrato». Giocano sui due tavoli, i bolscevichi. Sono emanazione del soviet, ma al contempo forzano ad esso la mano. Sicchè dopo aver votato la mozione unitaria, e aver assistito all'uscita per protesta dei menscevichi avversi, vanno a raccogliere - unici depositari del potere - l'eredità di Kerenski, messo in fuga nella stessa giornata.
Già, perchè Lenin e i suoi hanno sloggiato con la forza il governo provvisorio. E il voto unitario al Soviet è solo sanzione del già accaduto: la fine di Kerensky. Sanzione inutile e secondaria, peraltro, perchè il «putsch» ha già imposto la sua legge.
Domanda: fu putsch o rivoluzione? Vecchia domanda anch'essa. Fu tutt'e due. Fu rivoluzione, perché il sommovimento andava avanti da febbraio ed era un'onda da incanalare soltanto. Cosa che i bolscevichi fecero, profittando dell'indecisione degli altri, laddove in politica, e specie in situazioni come quella, i vuoti non esistono.
A questo punto la rivoluzione inizia davvero, o meglio re-inizia. Con i decreti sulla pace, sulla terra e con quelli sulle banche e l'industria. Poco a poco Lenin stringe il cerchio e marginalizza i comprimari, menscevichi e socialisti. Abolisce la proprietà privata e «dà» la terra ai contadini, ma senza dire come e «quanto». Rimettendo all'arbitrio politico la gestione della questione contadina. Di sicuro avviene che tutta la campagna passa sotto il controllo della «Ceka» e delle sue requisizioni, volte a consentire il comunismo integrale, poi quello «di guerra» legato all'inevitabile guerra civile suscitata dal «giacobinismo contro il Capitale». Più in là verranno Brest-Litovsk, la pace coi tedeschi e poi l'assedio dall'esterno. Ma senza dubbio è Lenin a imprimere un accelerazione inaudita a tutto il processo, in bilico tra volontà di instaurare ordine e «nuovi rapporti di produzione», e aspettive di rivoluzione mondiale.
Che cosa fu quell'Ottobre 1917? Una grande rottura, certo, dell'ordine globale. Scatenata prima di tutto dalla carneficina imperialista della prima guerra mondiale, che spiantava gli equilibri multietnici zaristi. Rottura con l'esterno, e interna. Con polarizzazione irrimediabile tra i ceti sociali, e impossibilità di una mediazione democratica, a meno che i democratici non avessero accettato di far argine ai bolscevichi. Egemonizzandoli, per poi magari reprimerli. Ma infine l'Ottobre fu ricostruzione di un Impero, con nuove simbologie eredi delle vecchie. E un tasso di religiosità di massa «mediatico» e propagandistico, capace di controllare masse semibarbariche, orfane di un vecchio ordine.
Ben per questo Bertrand Russell parlò di un «bolscevismo che univa le caratteristiche della Rivoluzione francese con quelle della nascita dell'Islam». E Keynes addirittura di un «Lenin che è un Maometto e non un Bismarck». In realtà Lenin, nonché Maometto, fu anche e in parte un Bismarck, quando installò con Brest-Litovsk lo stato sovietico nella geopolitica mondiale successiva al 1918.
E nondimeno resta un fatto, che oggi è più di una percezione retrospettiva: l'Ottobre 1917 fu sigillo inaugurale di una emancipazione barbarica e di massa. In quanto eredità rinnovata dello zarismo, riproiettata dinamicamente all'esterno. Segnale mondiale della fine di un certo ordine imperiale internazionale. E contraccolpo liberatorio - ma insieme repressivo - delle attese che la Rivoluzione, come «Mito» in azione, aveva suscitato a partire dal febbraio 1917.
Infine L'Ottobre bolscevico fu edificazione di una Chiesa mondiale, che Stalin rinsalderà come «fortezza». Sulle basi della pulsione volontaristica e militare leniniana. Quella «Chiesa» scatenerà processi di liberazione, e al contempo li stroncherà. Evocando anche opposti totalitarismi. Con conseguenze incalcolabili sulla storia dell'intera umanità. E, come dice Flores nelle righe finali, «con conseguenze incalcolabili per l'intero movimento operaio e per la stessa possibilità e credibilità del socialismo». Ecco perché vale ancora la pena di chiedersi: la Rivoluzione d'ottobre, «quella» Rivoluzione, era inevitabile?
Pubblicato il: 15.10.07
Modificato il: 15.10.07 alle ore 12.14
© l'Unità.