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Autore Discussione: Una femminista ante litteram nella Persia dell''800, un modello per le iraniane  (Letto 2849 volte)
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« inserito:: Ottobre 14, 2007, 12:34:20 pm »

13/10/2007
 
Tahereh che leggeva troppo
 
Una femminista ante litteram nella Persia dell''800, un modello per le iraniane di oggi
 
 
L’amore per la Persia è nel dna degli iraniani, soprattutto di quelli che non possono tornarvi. Quando vivi all’estero te ne puoi dimenticare per anni. Sei un emigrato, ti integri senza difficoltà. Ma in un certo momento della tua vita l’identità persiana riaffiora. E ti sconvolge la vita. Senti di non poter più fare a meno di quelle note, di quei versi, di quei sapori. La notte sogni il monte Damavand che si staglia a nord di Teheran, oppure i ponti sul fiume che scorre languido a Isfahan.
A sessant’anni, Bahiyyih Nakhjavani si è accorta che dell’Iran non può più fare a meno. Se ne era andata con i genitori quando aveva solo tre anni. Vi era tornata adolescente, al tempo dell’ultimo scià, per scoprire di essere perseguitata perché appartenente alla minoranza bahai, una religione rivelata in Iran nel 1866 da Bahaullah che professava un pacifismo e un umanitarismo universale, affermando che tutte le religioni fondate dai profeti sono vere.
Nella Repubblica islamica i Bahai sono considerati eretici e Bahiyyih non osa tornare, per timore di essere perseguitata. Pur vivendo da sempre in Francia non riesce però a dimenticare il paese in cui è nata. Per sfuggire alla nostalgia che tanto attanaglia gli iraniani della diaspora, Bahiyyig ha scritto “La donna che leggeva troppo” (Rizzoli 2007), un romanzo ambientato nella Persia di metà Ottocento. Un romanzo dedicato alla poetessa bahai Tahereh Qurratu’l-Ayn che rifiutava il velo e insegnava alle altre donne a leggere e a mettere in discussione le tradizioni.

Bahiyyih, chi era Tahereh?
“Tahereh è l’unica donna persiana le cui fattezze sono scolpite su una lapide del cimitero di Qazvin ma non ha mai avuto l’onore di un epitaffio. La sua vita drammatica e idealista, la sua eloquenza che non ha né pari né timori, hanno lasciato il segno in Iran. La poetessa è morta perché lottava contro le tradizioni, una battaglia che le iraniane non hanno ancora vinto”.

Esiste quindi un legame tra la poetessa di metà Ottocento e le iraniane di oggi?
“Tahereh rifiuta la tradizione, osa sfidare le interpretazioni delle leggi islamiche e lo strapotere dei religiosi. Problematiche quanto mai attuali. È una donna dei nostri tempi anche se è diventata leggenda: il suo coraggio di fronte al clero le conferisce una statura eroica ma la sua sofferenza è, in tutta la sua intensità, umana. La sua intelligenza ed erudizione nella giurisprudenza islamica spaventano ma i dilemmi che deve affrontare - come figlia, madre, sorella e moglie – sono contemporanei. Tahereh era più avanti rispetto alla sua epoca? Lottava per una causa persa? Il suo sacrificio ricade sulla sua famiglia? Oppure costituisce un’eredità per le generazioni future? È difficile conoscere la verità, anche perché la sua storia è stata distorta sia dai simpatizzanti sia dai detrattori”.

Che cosa c’è di vero nelle vicende di Tahereh che lei racconta?
“Sebbene la storia delle donne dell’epoca cagiara sia poco documentata, alcuni fatti sono noti. Tahereh nasce in Iran nel 1817 nella provincia di Qazvin e muore a 36 anni nella capitale, agli arresti domiciliari. È accusata dell’assassinio dello zio e condannata per eresia dal suo ex marito, un alto membro del clero sciita che è anche suo cugino. I nemici la definiscono un’apostata che abbandona senza scrupoli i suoi bambini. I simpatizzanti sostengono invece che i figli le sono sottratti contro la sua volontà e la venerano come uno dei più grandi intellettuali dell’epoca. Tutti concordano su un punto: Tahereh rifiuta il velo”.

Un reato che le costerà parecchio…
“Sì, muore strangolata in un giardino abbandonato in una calda notte di agosto, nel 1852, e il suo corpo è ritrovato in un pozzo. In Iran il suo nome è sinonimo di scandalo, i suoi versi sono censurati nella terra che le ha dato i natali ma i diplomatici stranieri, i viaggiatori e gli studiosi scrivono di lei. Talvolta in modo non accurato ma comunque con entusiasmo. I suoi ideali sono fatti propri dalle femministe. La sua vita è messa in versi e persino in scena. Se ne appropriano in molti ed è naturale concludere che non sia stata compresa né da viva né da morta”.

Il velo è un atto di fede ma anche lo slogan degli integralisti. Perché Tahereh lo rifiuta?
“Lo considera il simbolo del pregiudizio, della lettura fondamentalista delle Scritture e dell’uniformità nel pensiero. Rappresenta la manipolazione e l’oppressione, vuole toglierlo per dimostrare di avere un’anima”.

Nel suo romanzo il velo non ha però sempre una connotazione negativa. Per esempio, quando descrive la giovane moglie dell’ambasciatore inglese in visita all’harem dello Shah scrive: “Era una di quelle creature timide che arrossivano facilmente e non sapevano che cosa farsene della mani. Chissà perché, meditò, le occidentali arrossiscono con tanta facilità? Forse sarebbero meno imbarazzate se portassero il velo”. Chi è la donna inglese del suo romanzo?
“Scrivendo “La donna che leggeva troppo” ho voluto svelare la storia della Persia di metà Ottocento. La giovane inglese è Mary Leonora Wolffe Sheil, moglie del colonnello Sheil, ambasciatore britannico in Persia tra il 1847 e il 1853. Il suo soggiorno nel Paese coincide con la prigionia di Tahereh nella residenza del sindaco di Teheran. Nel 1956 Mary pubblica il suo diario in cui descrive la visita alla madre dello Shah, dando sfogo ai proprio pregiudizi vittoriani e infatti è scandalizzata dagli abiti succinti indossati dalle donne nell’harem reale. Per Mary il velo è sinonimo di arretratezza ma si rende conto che è meno fastidioso degli stretti corsetti delle europee. E mette quindi da parte i pregiudizi. Inizialmente, per esempio, crede che “le donne in Persia contino meno degli asini” ma poi si rende conto che le native esercitano libertà a lei vietate e che, a dispetto delle apparenze, quello è un paese governato di fatto dalle donne”.

Noi, donne iraniane della diaspora, siamo spesso interrogate sulla condizione femminile nel nostro Paese d’origine. Perché lei insiste su Tahereh, una donna fuori dal comune, “né pazza né stupida, che difende la giustizia ma sfida le antiche consuetudini”?
“I problemi di Tahereh sono quelli delle donne di oggi: ha tante qualità ma “una donna intelligente dovrebbe essere meno bella, una donna che dà scandalo non dovrebbe essere anche avvenente”. Ed è perseguitata pure per le sue profezie: “Quando la interrogano sulle sue straordinarie doti di preveggenza, lei si mette a ridere e dice che è proprio come leggere. Se guardi solo le parole che ti stanno sotto il naso, risponde, non riesci a vedere il collegamento con quello che viene prima e quello che viene dopo. Se vedi solo quello che ti succede in questo momento, non puoi capire il legame tra ieri e domani”. La poetessa prevede il tradimento dello Shah verso i notabili che faranno da capro espiatorio salvando la capitale dalla rivoluzione, ma anche dei mariti nei confronti delle mogli rinchiuse nell’andarun, l’universo femminile. La sua colpa maggiore sembra però essere il fatto di saper leggere e scrivere. Ad essete istruire erano solo le principesse della corte cagiara. Tahereh insegna l’alfabeto alle mogli e alle figlie dei mercanti. Il suo è un atto rivoluzionario, sono in molti a cadere nell’incantesimo della prigioniera. Le donne intelligenti fanno paura. E più che l’amor per Dio si teme l’amor profano".

Che ruolo ha Dio nel suo romanzo?
“È un Dio su cui le donne non fanno conto. La madre di Nasereddin Shah, il sovrano assassinato in un santuario nel 1896 nel cinquantesimo anniversario (secondo il calendario lunare) del suo regno, è una donna materialista e priva di scrupoli che non si era mai preoccupata troppo dell’amore di Dio. L’aveva sfruttato, come del resto aveva fatto con quello degli uomini. Aveva temuto complotti e cospirazioni, e tanto più regicidi e rivoluzioni. Prima che il giovane Shah salisse al trono, per quanto la riguardava la divinità aveva brillato solo per assenza. Non c’era da stupirsi, dunque, se riteneva che il figlio dovesse i suoi titoli agli sforzi materni più che a una grazia accidentale".
 
da lastampa.it
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