LA-U dell'OLIVO
Novembre 24, 2024, 12:34:08 am *
Benvenuto! Accedi o registrati.

Accesso con nome utente, password e durata della sessione
Notizie:
 
   Home   Guida Ricerca Agenda Accedi Registrati  
Pagine: [1]
  Stampa  
Autore Discussione: Gianni MARSILLI -  (Letto 8076 volte)
Admin
Utente non iscritto
« inserito:: Ottobre 11, 2007, 04:38:34 pm »

Sarkò, le spine di sinistra

Gianni Marsilli


Fadela Amara è una donna che non le manda a dire. Non lo faceva quand’era alla testa di «Ni putes ni soumises», né puttane né sottomesse, bellicosa associazione di donne dei quartieri ad alto tasso di immigrazione nata per combattere il machismo di casa e il razzismo di fuori, né quand’era consigliere comunale nelle file del partito socialista.

È proprio per questo che Sarkozy la scelse come viceministro delle politiche urbane.

Lo choc, per i francesi, fu certamente superiore alla non-sorpresa di ritrovarsi come ministro degli Esteri il vanesio Bernard Kouchner, che il Ps aveva lasciato inopinatamente disoccupato alla tenera età di 67 anni. Fadela è di origine algerina, e martedi’ scorso non si è più trattenuta. La legge che introduce il test Dna per gli immigrati? «Una cosa disgustosa», ha sparato in una delle sue collere leggendarie. Apriti cielo. Patrick Devedjan, un puntuto avvocato di bella presenza (ex di Ordine nuovo), successore di Sarkozy alla testa dell’Ump oltre che suo amico intimo da sempre, ha denunciato «gli insulti» dell’iraconda Fadela alla maggioranza di governo. Insomma un membro del governo che ingiuria la maggioranza di governo: come si fa? «Si abbassano i toni», ha risposto il gran capo da Mosca. Ma il nervosismo resta e serpeggia.

Con Fadela si è schierato Jack Lang, autosospesosi dal partito socialista sia in spregio di François Hollande, sia in omaggio alle sue funzioni di vicepresidente della commissione sulle riforme istituzionali, per sua natura al di sopra delle parti (sì, ci sono paesi in cui le regole comuni si scrivono insieme). Jack Lang, che era in forte odore di governo, ieri è stato chiaro, laddove fino all’altro ieri coltivava una certa ambiguità: «Io al governo? Ma quando mai. Non è questione». E si è detto arcistufo della strumentalizzazione che da trent’anni la destra fa dell’immigrazione, agitandola sempre come uno spettro.

Va segnalato anche che Sarkozy avrebbe voluto che Michel Rocard fosse il padrino della sua sbandieratissima iniziativa euro-mediterranea. Ma quando Rocard gli ha fatto notare che sì, idea splendida, ma da realizzare nell’ambito europeo comunitario molto più che franco-francese, Sarkozy ha ritirato l’offerta, della quale ha visto sfuggirgli il beneficio politico. L’apertura a sinistra, che pareva rimescolare tutte le carte della Quinta Repubblica (o Sesta che sia, visto che il primo ministro è stato semplicemente abolito da Sarkozy), è servita.

In visita a Sofia, la scorsa settimana, Nicolas Sarkozy aveva carezzato i suoi ospiti bulgari per il verso giusto: «La Russia è un paese che complica la soluzione dei grandi problemi del mondo». Lo scorso agosto aveva addirittura parlato di «brutalità» della politica di Vladimir Putin. In maggio, la sera del trionfo elettorale, aveva evocato con enfasi la Cecenia, e i diritti dell'uomo che lì venivano calpestati, e aveva giurato di non scordarsene mai. Ma ieri a Mosca, al fianco di Putin, Sarkozy ha ripetuto più volte che «la Francia non vuole dar lezioni a nessuno sui diritti dell’uomo». Di più: «Riconosco e comprendo la specificità russa». Solo agli studenti dell’università Bauman aveva riservato una timida apologia dell’indipendenza della giustizia, affinché una democrazia possa godere di buona salute. In ultima analisi, la sua visita è stata piuttosto simile a quelle che, cordialissime e rafforzate dalla comune ostilità all’intervento americano in Iraq, effettuava Jacques Chirac. Certo, il vecchio presidente amava chiacchierare di Lermontov, di cui era (è) appassionato lettore, e che anche Putin apprezza molto. Con Sarkozy hanno invece rivaleggiato sul piano atletico: che fai per tenerti in forma, nuoto e jogging? No, solo nuoto. Ogni giorno? Sì, ogni giorno, se vuoi più tardi andiamo in piscina, ne ho una qui nella dacia. André Glucksmann, il celebre filosofo «di sinistra» che aveva ardentemente sostenuto Sarkozy proprio perché a Putin gliele cantasse sonoramente, è servito.

Sarkozy ha recentemente detto che intende continuare sulla strada dell’apertura («addirittura fino ai sarkozysti?», ama chiedergli con pesante ironia il pur fido Devedjan), ma ne sta verificando i limiti. Ha pescato qualche personalità e senz’altro parecchie competenze, ma non ha mai avviato alcun processo politico. Non c’è nessuno «spirito di coalizione» che aleggia nel suo governo. È il governo del presidente, punto e basta. Ma dietro c’è un esercito di deputati, senatori, imprenditori, che avevano creduto alla sua campagna elettorale, che era stata di destra. Avevano creduto alla «rottura» liberista, alla nuova fierezza francese, e in parecchi alla lotta senza quartiere all’immigrazione. Quanto ai sedotti di sinistra, ne avevano ammirato il decisionismo e l’assenza di ideologia. I primi aspettano ancora la «rottura» e si sentono «insultati» da un ministro "ni pute ni soumise", i secondi cominciano a realizzare che se Sarkozy tiene ancora a loro, gli altri del suo campo sono li’ con il cappio in mano. L’«apertura» si fa acrobatica, e per il momento sta in piedi solo perché l’opposizione socialista non c’è, è tuttora priva di testa e di pensiero. Da tener presente, in tempi di sarkomania diffusa.

Pubblicato il: 11.10.07
Modificato il: 11.10.07 alle ore 8.36   
© l'Unità.
« Ultima modifica: Novembre 05, 2008, 08:42:36 am da Admin » Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #1 inserito:: Ottobre 25, 2007, 10:33:24 pm »

Sarkozy, svolta verde: più treni basta autostrade, eco-case

Gianni Marsilli


Ci sarà Al Gore, oggi a Parigi, per benedire la «rivoluzione verde» di Nicolas Sarkozy. Con lui un altro premio Nobel per la pace (2004), la kenyana Wangari Maathai, da sempre in prima fila contro la deforestazione dell’Africa. E anche Manuel Barroso, presidente della Commissione europea, per sottolineare il carattere esemplare della svolta ecologica annunciata dalla Francia, che del problema ambientale farà la sua «prima priorità» quando, nel secondo semestre del 2008, assumerà la presidenza dell’Unione. L’occasione è data dalla conclusione, dopo tre mesi, della prima fase del negoziato più ampio e partecipato svoltosi in Francia da molti decenni a questa parte.

Stasera Sarkozy ne tirerà le conclusioni e individuerà le tracce operative. L’impegno è che, nella prima metà del prossimo anno, gli intenti e le proposte, una ventina di «piani d’azione», assumano forma di legge. Il processo l’hanno chiamato «Grenelle dell’ambiente», dal nome degli storici accordi che misero fine al lungo conflitto sociale del '68.

Alle trattative hanno partecipato lo Stato e il governo, i sindacati, il padronato, le collettività locali, le organizzazioni ambientaliste e non governative. Un solo tabù: il nucleare, che fornisce l'80 per cento dell'energia elettrica francese, e che nessuno, tranne pochi militanti, mette seriamente in discussione. Su tutto il resto il ministro dell'Ambiente Jean Louis Borloo (numero due del governo, come volle Sarkozy per il titolare del nuovo megadicastero) ha ascoltato, registrato, messo in cantiere. Già si profilano alcuni assi d'intervento prioritario, i più consensuali, soprattutto sul terreno dei trasporti e dell'edilizia pubblica e privata. Borloo è d'accordo: meno traffico stradale e aereo e più linee ferroviarie. Il governo considera che la Francia non debba più aumentare la sua rete autostradale, tranne eventuali circonvallazioni di grandi città. Quella che c'è è sufficiente, soprattutto in prospettiva, visto che l'idea è di eliminare il traffico dei Tir in transito attraverso il Paese: «Li metteremo sui treni - ha detto Borloo - faremo due grandi linee da nord verso sud-est e da nord verso sud-ovest, e tutto dovrà esser fatto entro tre anni». Per capirsi: un Tir rumeno diretto in Gran Bretagna risalirà i Balcani e attraverserà il nord Italia appestandoci di anidride carbonica, per poi attraversare la Francia a motore spento. Pare che il governo (lobbies permettendo) sia anche favorevole all'istituzione di un bonus per chi acquista automobili «pulite», finanziato da un «malus» che colpirà i proprietari di fuoristrada e altri veicoli particolarmente inquinanti. Si dovrà inoltre passare dagli attuali 329 chilometri di linee tranviarie (al di fuori della regione parigina) a 1500, per un costo di 17 miliardi di euro, dei quali 4 sborsati dallo Stato. Il tram, si sa, non inquina.

Altro grande cantiere sarà quello dell'isolamento termico degli edifici, che sono la prima fonte di consumo energetico, pari al 42 per cento del totale. Le associazioni dei costruttori non hanno opposto riserve: si profila per loro un aumento considerevole di attività economica, visto che il rinnovamento termico del parco immobiliare dovrebbe costare attorno ai 600 miliardi di euro. Restano per ora nel vago gli strumenti, e la loro copertura finanziaria, che lo Stato appronterà: sconti fiscali, prestiti a tasso ridotto, incitazioni di vario tipo ai privati. Borloo vuole cominciare dando il buon esempio: entro cinque anni tutti gli edifici pubblici dovranno essere messi a regime ecologico, quindi adeguatamente isolati. Si è invece discusso aspramente sul terreno agricolo. Decine di associazioni ambientaliste hanno chiesto una riduzione del 50 per cento dei pesticidi, trovando la fiera opposizione dei sindacati degli agricoltori e dei rappresentanti dell'industria chimica. I casi litigiosi, si è detto, saranno risolti da governo, parlamento e presidente. Toccherà a quest'ultimo, in particolare, decidere sulla proposta avanzata da molte Ong per una «tassa ecologica» che colpisca tutte le attività che ricorrano ad energia fossile. Anche qui, lobbies e interessi si accumulano e si scontrano.

Il frutto concreto di tutti questi mesi di dibattiti e negoziati (e di quelli a venire) dovrebbe vedere la luce entro l'anno, quando verranno resi noti costi e coperture finanziarie, e all'inizio del 2008, quando il governo presenterà una legge quadro. Salvo sorprese, si può dire fin d'ora che l'operazione appare la più riuscita dei primi mesi della presidenza Sarkozy: è moderna e postideologica, e ha portato inoltre tutto il vasto movimento ambientalista (di cui il partito dei Verdi è solo piccola parte) a confrontarsi con questioni di governo. Ieri il premier François Fillon ha vantato la capacità di far «convivere economia ed ecologia». Ed è proprio su questo che s'interrogano numerosi osservatori, nel momento in cui un altro cantiere, quello della commissione Attali, riflette sui modi di liberare la crescita, senza per ora dedicare una sola parola ai temi ambientali. Ricchi e inquinati, o più poveri e puliti? Se Sarkozy troverà una risposta equilibrata, entrerà nella storia.

Pubblicato il: 25.10.07
Modificato il: 25.10.07 alle ore 8.51   
© l'Unità.
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #2 inserito:: Ottobre 27, 2007, 11:16:13 pm »

I ladri di bambini del Darfur

Gianni Marsilli


Questa è una storia da pazzi, che non si sa ancora se iscrivere nell’orrido album del traffico di bambini, o se annoverare tra le buone ma incoscienti intenzioni delle quali, come si sa, sono lastricate le strade dell’inferno.

Fatto sta che all’aeroporto di Abéché, nella parte orientale del Ciad, stazionano da due giorni 103 creature tra gli uno e gli otto anni di età. E nel contempo all’aeroporto di Vatry, nella Marna francese, centinaia di adulti, francesi e belgi, aspettano l’arrivo dei piccoli africani. Giurano tutti che non si tratta di un carico di bimbi da adottare, ma solo da «accogliere» e soprattutto da «salvare da morte certa». I piccoli deportati verrebbero infatti in gran parte da Darfur sudanese, che confina con il Ciad. Per finire, 9 accompagnatori francesi dell’insolito charter, compresi tre giornalisti al seguito, sono stati arrestati dalle autorità ciadiane.

L’associazione che ha curato l’operazione si chiama Arche de Zoé. Si tratta di un gruppo di amatori di fuoristrada e di pompieri volontari, costituitisi in ong umanitaria nel 2004, in occasione dello tsunami asiatico. Hanno lanciato la loro iniziativa già nel giugno scorso, soprattutto via internet, al fine di «salvare un migliaio» di orfanelli del Darfur devastato da guerra e carestie. Avevano risposto circa trecento famiglie, sborsando ciascuna dai 2800 ai 6000 euro. Che si trattasse in sostanza di adozioni a pagamento l’ha confermato ieri il rappresentante dell’Unicef francese, Jacques Hintzy, esibendo un documento dell’Arche de Zoé in cui si indica alle famiglie il percorso amministrativo da seguire: «Una domanda di diritto d’asilo seguita da una domanda di adozione». Hintzy era scandalizzato, e ha definito l’operazione «illegale e irresponsabile». Le stesse parole usate da una disperata Rama Yade, viceministro degli Esteri e dei Diritti umani. Rama Yade aveva messo in guardia l’Arche de Zoé già nel luglio scorso, diffidando l’associazione dal proseguire nella sua azione. Ma Eric Breteau, presidente dell’Arche de Zoé agli arresti in Ciad, non ha voluto sentir ragioni.

I suoi collaboratori rimasti in Francia negano che si trattasse di una gigantesca operazione di adozioni, tantomeno a pagamento: «Volevamo solo salvarli dalla morte offrendo loro una famiglia». Negano anche, malgrado numerose testimonianze che affermano il contrario, di aver speso abusivamente il nome di Cecilia Sarkozy per convincere i più diffidenti. Dicono di disporre di documenti probanti: dichiarazioni «di capi tribù e di sindaci» che attesterebbero lo stato di orfani dei bambini e la loro provenienza dal Darfur. Dichiarazioni che hanno tenuto la strada solo per quale ora. Dall’antenna Unicef in Ciad, che si è presa cura della sorte dei piccoli, è arrivata la verità. Pochi di quei bambini sarebbero veramente orfani. Quasi tutti sarebbero inoltre originari del Ciad. La grande maggioranza avrebbe stato civile, genitori, o comunque una famiglia d’origine. Sotto le vistose fasce e garze che li ricoprivano non c’erano ferite né piaghe: «Stanno bene e giocano». Come sono stati raccolti e incanalati verso Abéché? Il dubbio che si tratti di compravendita rasenta la certezza. Le autorità ciadiane si limitano a trattenere la comitiva «umanitaria» sotto l’accusa di aver agito «senza alcuna autorizzazione», ma il presidente Idriss Deby ha promesso «severe sanzioni».

Se il Quai d’Orsay, nella persona di Rama Yade, aveva già avvertito l’Arche de Zoé dell’illegalità delle sue intenzioni, è perché la Francia è tra i paesi firmatari della convenzione dell’Aja del 1993, che regola le adozioni internazionali. Vi si parla di «libero consenso dei genitori biologici», escludendo categoricamente «pagamenti o contropartite di sorta» al fine di prevenire «il sequestro, la vendita o la tratta di bambini». Né il Ciad né il Sudan risultano tra i firmatari della convenzione, ed è probabilmente su questo che contava l’Arche de Zoé. Il 70% delle adozioni internazionali realizzate in Francia concernono Paesi che non hanno firmato quella convenzione. È più facile: si va, si paga di nascosto, e si diventa genitori. Quelli dell’Arche devono aver pensato che si poteva fare in grande stile. Non hanno tenuto conto neanche del fatto che nei paesi musulmani non vige l’adozione, espressamente rifiutata dal Corano, ma piuttosto il tutorato che esclude un rapporto di filiazione. Ricordava ieri la portavoce dell’Unicef Veronique Taveau che la prima regola umanitaria, davanti a bambini vittime di guerre , è di ricercare i loro genitori, cosa che l’Arche non sembra proprio aver preso in considerazione. Ha però pensato di munire tutti i bambini di un braccialetto con un numero di identificazione: «Non sappiamo a cosa corrisponda», ha detto la Taveau. Non è difficile da immaginare: un numero al posto del nome, in attesa di chiamarsi Jean o Charles. A che prezzo?

Pubblicato il: 27.10.07
Modificato il: 27.10.07 alle ore 9.48   
© l'Unità.
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #3 inserito:: Novembre 15, 2007, 10:57:25 pm »

Pensioni e studenti, l’autunno caldo di Sarkozy

Gianni Marsilli


Come annunciato, la Francia ieri si è fermata e anche oggi avrà qualche difficoltà a muoversi. Contro la riforma delle pensioni, hanno scioperato i ferrovieri, i lavoratori dei trasporti urbani (autobus, tram e metrò), i settori del gas e dell’elettricità. Ieri dunque stazioni deserte, lunghe code automobilistiche agli ingressi delle città, noleggi di biciclette presi d’assalto, manifestazioni nelle strade. Eppure lo sciopero già ieri sera mancava di convinzione. Sono in molti a pensare che il braccio di ferro tra i sindacati e il governo di Nicolas Sarkozy potrebbe rapidamente trasformarsi in una stretta di mano. Mentre viaggiatori e utenti si dibattevano nei disagi, sindacati e governo avevano infatti già sbloccato la situazione e negoziavano con discrezione. È in corso una pretrattativa, che potrebbe sfociare in un accordo tra qualche settimana.

Le cifre a disposizione confermano che non tira aria da conflitto rude e durevole, come accadde nel ’95. Intanto l’opinione pubblica appare molto meno bendisposta verso i sindacati, accusati da circa il 70 per cento dei francesi di corporativismo e arcaismo. Gli stessi francesi, inoltre, in misura dell’84 per cento ritengono che il governo non cederà. In secondo luogo le percentuali di astensione dal lavoro sono apparse in serata in netto ribasso. Se il 18 ottobre scorso (che fu la prima giornata di sciopero) i ferrovieri erano rimasti a casa in misura del 73 per cento, ieri ha scioperato il 61 per cento. Tra gli elettrici si è astenuto dal lavoro il 28 per cento: erano stati il doppio il 18 ottobre. I treni in circolazione erano pochi, ma comunque più del previsto, il 25 per cento circa. Un metrò su cinque funzionava, il doppio del 18 ottobre. Per finire, alla manifestazione parigina indetta da tutti i sindacati hanno partecipato, secondo gli organizzatori, 25mila persone, molte di meno secondo la prefettura di polizia. In ogni caso, non è stato certo un corteo oceanico.

A sbloccare la situazione negoziale è stato Bernard Thibault, segretario generale della Cgt, che ha scritto una lettera a Sarkozy dicendosi disponibile per trattative azienda per azienda, categoria per categoria. Thibault accetta insomma il principio generale della riforma: 40 anni di contributi per tutti, pubblico e privato, e 60 anni di età per andare in pensione. Vuole negoziare condizioni ed eccezioni, premi per chi resta, penalità per chi si ritira, definizione e lista dei lavori usuranti, ma nella sostanza riconosce l’urgenza e la necessità della riforma. Il governo ha colto la palla al balzo, e già ieri pomeriggio il ministro del Lavoro dichiarava all’Assemblea nazionale di esser fiducioso in una prossima soluzione. Da parte sua il segretario generale dell’Eliseo Claude Gueant non nascondeva il suo ottimismo: «Bernard Thibault ha fatto in modo che la crisi possa risolversi fin dal primo giorno di conflitto». Un simile auspicio esprimeva il segretario socialista François Hollande: «Spero che lo sciopero si concluda fin da stasera». Vero è che, se fosse al governo, anche il partito socialista dovrebbe avviare una riforma dello stesso tenore, come riconoscono numerosi dei suoi dirigenti.

L’altra miccia dell’autunno caldo di Sarkozy sono le università, dopo la legge dello scorso agosto sulla loro autonomia di bilancio e di gestione delle «risorse umane». In questi giorni un terzo circa degli 85 atenei francesi sono bloccati o occupati «contro la privatizzazione». La protesta appare nettamente minoritaria, condotta spesso in forza da gruppi scarsamente numerosi. Anche in questo caso la miccia potrebbe spegnersi prima del previsto. Il ministro competente, Valerie Pecresse, ha infatti invitato per oggi al suo tavolo le organizzazioni degli studenti. Bruno Julliard, segretario dell’Unef, la più forte tra esse, si è detto «molto contento» dell’invito del ministro. È lo stesso dirigente studentesco che nella primavera del 2006 mise in ginocchio il governo di Villepin opponendosi al Cpe, quel contratto di primo impiego che non vide mai la luce. Se Sarkozy e il suo governo riusciranno a disinnescare questi due primi ordigni tradizionalmente esplosivi (pensioni e università), potranno guardare con maggiore tranquillità al terzo giogo d’autunno: la giornata del 20 novembre, quando a scioperare saranno chiamati tutti i funzionari pubblici.

Pubblicato il: 15.11.07
Modificato il: 15.11.07 alle ore 9.20   
© l'Unità.
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #4 inserito:: Novembre 28, 2007, 05:25:31 pm »

L’esercito delle banlieue

Gianni Marsilli


Molotov e petardi, pietre e sbarre di ferro, ma anche fucilate. Bruciano automobili scuole e biblioteche ma ci sono proiettili che mirano ad uccidere il flic, il «porco» in uniforme. La rabbia del 2005 è ancora lì, intatta e rovente. Ma si è fatta più lucida e affilata, quasi omicida. La rivolta potrebbe essere meno estesa della sollevazione di due anni fa.

Ma anche più cattiva e determinata, non solo nichilista e disperata. Dicono le cronache che quelle centinaia di ragazzi - tutti neri o maghrebini - che hanno messo a ferro e fuoco Villiers-le-Bel stavolta hanno avuto il sostegno della gente intorno, come si aiutano i resistenti. Perché nulla è cambiato da due anni a questa parte, malgrado le promesse e i cantieri per nuovi alloggi popolari e le leggi - non applicate - che incoraggiano l’occupazione. Si vive sempre male, disoccupati ed etnicamente separati, in banlieue. Anche se si è francesi a tutti gli effetti. Capita allora che un incidente diventi una provocazione, qualsiasi sia stata la sua dinamica. Che la violenza sia spontanea, scontata, pavloviana. Era colpa dei poliziotti? Pare di no, pare. Ma non ha più molta importanza. La scintilla è scattata e l’incendio è scoppiato, travolgendo torti e ragioni.

Oggi Nicolas Sarkozy, appena rientrato dal suo viaggio in Cina, dovrebbe ricevere all’Eliseo le famiglie dei due ragazzi morti domenica sera. Prima, avrà reso visita ai gendarmi feriti, in particolare ai sei impallinati da un ignoto fucile da caccia. Sarkozy, si spera, è il primo a sapere che il tempo cammina molto in fretta, nelle banlieues. Che l’esperienza del 2005 non ha più molto da insegnare. Che le grandi manovre di anti-guerriglia urbana di migliaia di gendarmi non servono più a gran cosa, davanti a ragazzi pronti a diventare snipers. Che la faccenda, quindi, potrebbe farsi molto più pericolosa in questo autunno. Che il ministero degli Interni è in mano a Michèle Alliot Marie, che prima reggeva la Difesa, ed è portata a confondere i rivoltosi delle periferie con truppe di un esercito nemico. Alliot Marie ha cominciato male. Lunedì, già prima degli scontri più aspri, li aveva archiviati nella cartella della «delinquenza organizzata». Quei ragazzini di tredici, quindici anni relegati al rango di spacciatori, ladri, banditi. Ha così negato implicitamente l’esistenza del disagio nel quale vivono, che è grande. È parsa scordare che ci sono aziende che catalogano le richieste di lavoro a seconda del colore della pelle: nella colonna 1 i neri, in quella 2 i maghrebini, in quella 3 gli asiatici, nella 4 i «pure whites», come dire gli ariani. Che i senza lavoro toccano punte del 40-50 per cento. Che le ZUS (zone urbane sensibili) comprendono cinque milioni di francesi. Per questo l’Eliseo ha tenuto a far sapere che da Shanghai Sarkozy aveva telefonato ad Alliot Marie, e le aveva rivolto «un certo numero di raccomandazioni». La signora ministro è insomma sotto stretta tutela. Al timone è tornato lui, il suo predecessore diventato presidente. Con un rischio: che alzando il livello della gestione della crisi, si alzi anche il livello dello scontro. Malgrado la linea di Sarkozy, che si vorrebbe meno aggressiva di due anni fa, quando annunciava a gran voce di voler «ripulire» quei quartieri, come si disinfesta un tugurio.

Era stato lo stesso Sarkozy, però, a promettere in campagna elettorale un grande «piano Marshall» per le banlieues, del quale non si è vista ancora traccia. Ci sta lavorando Fadela Amara, ministro alle politiche urbane, di origine algerina, da sempre di sinistra, nel governo grazie alla «ouverture» politica presidenziale. Ma è ancora «in fase di concertazione» con sindaci e associazioni, e non sarà pronta prima di gennaio. Nel frattempo, i sindaci temono il peggio.


Pubblicato il: 28.11.07
Modificato il: 28.11.07 alle ore 13.20   
© l'Unità.
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #5 inserito:: Dicembre 11, 2007, 11:32:37 pm »

Gheddafi a Parigi, una tenda a 5 stelle

Gianni Marsilli


Con il piglio di una rugosa rockstar, Gheddafi è arrivato ieri a Parigi per una visita ufficiale di 5 lunghi giorni. Avviluppato in una toga color ocra abbinata ad un copricapo nero, regalmente trasportato da Orly al palazzo presidenziale a bordo di una limousine bianca che avrebbe fatto invidia a Madonna, il leader libico ha piantato le tende nel giardino dell’Hotel de Marigny, attinente all’Eliseo. Lì, al riparo del sipario beduino montato per lui nel corso del weekend e protetto da qualche decina delle «sorelle kaki», le amazzoni che costituiscono la sua guardia ravvicinata, la Guida della Rivoluzione riceverà i suoi ospiti, soprattutto industriali e petrolieri francesi.

Sdoganato alla grande da Sarkozy, ieri Gheddafi ha salito lo scalone dell’Eliseo nel pomeriggio per un primo colloquio con il suo ospite, e in serata, per una cena che più ufficiale non si può. Per il colonnello non era la prima volta. Era già stato qui nel ’73, accolto da Pompidou, quando Sarkozy era ancora un liceale.

La sfarzosa accoglienza riservata a Gheddafi costituisce con tutta evidenza la contropartita, assortita da fior di contratti militari e civili, per la liberazione delle infermiere bulgare, lo scorso luglio, che tanto lustro diede al debuttante presidente francese e alla sua signora dell’epoca, Cecilia. Era quindi inevitabile che la sua venuta, oltretutto così prolungata e immodesta, desse luogo a proteste e malesseri. A giusto titolo, si dicono «indignate» le associazioni delle famiglie delle «vittime del DC10», l’aereo civile dell’Uta che verosimilmente un cognato della Guida, una ventina d’anni fa, fece esplodere con successo (nessun superstite) sul cielo del Niger. Come loro, anche le numerose associazioni che si richiamano ai diritti dell’uomo, nel Paese che usa rivendicare di esserne «la patria»". Per una volta spara ad altezza d’uomo l’opposizione tutta intera. Ségolène Royal, per esempio, giudica la benevolenza di Sarkozy «odiosa e inammissibile», e rifiuta «che ci si metta in ginocchio davanti agli interessi finanziari». Ma l’opposizione alla visita è arrivata fin dentro la famiglia governativa, con effetti assai spettacolari e difficilmente riassorbibili, che hanno messo in luce i limiti dell’«apertura» operata da Sarkozy verso sinistra.

Ha aperto il fuoco Rama Yade, trentenne di origini senegalesi che, nei suoi panni di viceministro degli Esteri con delega ai Diritti dell’Uomo, rifiuta pervicacemente di recitare la parte della bellissima ed esotica comparsa. Già era rimasta malissimo per non aver accompagnato Sarkozy in Cina, due settimane fa: avrebbe potuto dire qualche parola di troppo, tale da perturbare la firma di contratti per venti miliardi. Ma l’arrivo di Gheddafi, proprio nel giorno che il mondo dedica ai Diritti dell’Uomo, le è sembrato un rospo troppo grosso da ingoiare. E allora ha parlato: «Il nostro Paese non è uno stuoino sul quale un dirigente, terrorista o meno che sia, può venire ad asciugarsi i piedi con il sangue dei suoi misfatti. La Francia non deve ricevere questo bacio della morte. La Francia non è solo una bilancia commerciale». Immediata la convocazione all’Eliseo, per una mezz’oretta di colloquio che è facile immaginare tempestoso. Le hanno chiesto se si dimetterà: «Non si diserta in piena campagna», ha risposto. Più tardi, forse.

Ogni giorno più sconcertante appare il suo ministro di tutela, il socialista Kouchner, che regge le sorti del Quai d’Orsay. Ieri ha espresso la sua «invidia» per la libertà di parola di Rama Yade, della quale lui, per via delle sue altissime responsabilità, evidentemente non gode. E ha definito «una fortunata circostanza» il fatto di dover presenziare, ieri sera, ad una riunione a Bruxelles, che l’ha salvato dal ricevimento all’Eliseo in onore di Gheddafi. Aveva già avuto modo di dire, davanti ad una commissione parlamentare, che «un ministro degli Esteri deve saper mangiare il suo cappello», cioè tacere e trangugiare rospi. Sarà, ma dal giugno scorso pare che sia la sua attività principale. Stavolta i rospi sono numerosi: 12 elicotteri da combattimento «Tigre» e altri di tipo Super Puma, una dozzina di Mirage e Rafale, due corvette Gowind, 26 Airbus e, come dessert, «un reattore nucleare», come ha detto al «Figaro» Seif al-Islam Gheddafi, figlio della Guida. Una scorpacciata di rospi, per monsieur Kouchner: 10 miliardi di euro di rospi. Ah, già: Sarkozy dice di aver detto a Gheddafi di «progredire» sul terreno dei diritti umani.

Pubblicato il: 11.12.07
Modificato il: 11.12.07 alle ore 12.53   
© l'Unità.
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #6 inserito:: Dicembre 22, 2007, 11:30:26 pm »

Quella sottile linea bianca

Gianni Marsilli


Il confine era la doppia fatica di Edvard, o di Carlo, o di Ivanka. Venivano in bicicletta con i loro lasciapassare in tasca. Il primo per far legna, visto che era robusto e largo come una quercia. Il secondo, se ricordo bene, piuttosto per falciare l’erba. Ivanka si occupava invece delle faccende di casa, mungeva le mucche e dava un occhio al sottoscritto. Venivano per tre giorni, perché poi il visto scadeva e andava rinnovato. Venivano, lavoravano, dormivano nel fienile o nella stanzetta sul lato della casa, e alla fine del terzo giorno inforcavano le loro biciclette e tornavano dall’altra parte a farsi rinnovare il visto. La settimana dopo ripetevano il viaggio, e così di seguito. Stagionali a singhiozzo, sloveni, in casa del nonno, sloveno nato asburgico, che la Storia aveva reso cittadino italiano, e che aveva un po’ di terra proprio lì sul ciglione carsico, a un tiro di schioppo dalle sbarre italo-jugoslave.

Il confine erano nomi foschi e fascinosi che dal ’45 non potevano più metter piede «di qua», pena la galera, e si erano stabiliti giusto «di là», a un passo dalla frontiera, dov’erano invece eroi nazionali col petto pieno di medaglie. Si chiamavano Blitz, Iskra, nomi da partigiani.

Ogni tanto all’osteria qualcuno sussurrava di aver visto l’uno o l’altro “di qua”, chissà cos’era venuto a fare. Il confine erano anche i cingolati italiani che si piazzavano nel cortile di casa per fare le loro manovre militari. Ragazzi simpatici, ogni tanto una cannonata che faceva sussultare le donne di casa. Era qualche anno dopo la crisi del ‘53, quando Italia e Jugoslavia sfiorarono lo scontro e per qualche giorno ci sfollarono a Venezia, visto che eravamo proprio lì tra i due che si guardavano in cagnesco, il dito sul grilletto. L’eco della guerra era molto più forte delle sbarre confinarie, che ognuno accettava a modo suo. La frontiera ce l’aveva ognuno nella sua testa, collocata a seconda della sua storia personale. Gli italiani d’Istria, per esempio, la soffrivano di più. “Di là” erano rimasti case e campi, e talvolta i propri cari. E spesso il confine l’avevano dovuto passare di nascosto, o in barca di notte.

Più tardi le nubi si diradarono un po’, e il confine diventò soprattutto il mettersi in coda, il sabato pomeriggio, per andare a far provviste “di là, in jugo”. Soprattutto la carne, che costava la metà e godeva di ottima e chissà se meritata fama. C’era gente che si metteva un vitello nel bagagliaio, salvo farsi beccare dal doganiere, pagare salatissime multe e magari farsi anche qualche giorno al fresco e ispirare titoloni cubitali al quotidiano locale. C’erano infatti dei tetti da non superare: mezzo chilo di vitello a testa, un chilo di salsicce... Il resto era contrabbando, allegramente esercitato dall’intera cittadinanza triestina. Ti fermavano gli italiani e gli jugoslavi, ti perquisivano la macchina e le borse, ma insomma si andava di qua e di là di buona lena e senza grossi impacci, salvo le file chilometriche. La Jugoslavia di Tito, negli anni ‘70, non era certo la Bulgaria di Dimitrov.

Allora che cosa accade, in questi giorni attorno a Trieste, che non sia già accaduto, o iniziato prima? Accade che scompaiono le garritte e gli uomini in divisa, e credetemi non è poco. Erano già da qualche anno bonariamente intenti ai loro compiti di guardie di confine, ma erano lì, potenzialmente pronti a ritornare in un minuto corruschi e armati, ostili se non proprio nemici. Era questa la guerra fredda: una guerra virtuale, come un’interminabile attesa del peggio, di una raffica di mitra in un quieto pomeriggio di sole. Anche se era già lontano il ricordo di Tito, sulle alture dietro la città, che mostra a Nikita Kruscev il bellissimo golfo e il porto, che nei suoi piani sarebbe dovuto diventare la settima repubblica federativa jugoslava. Anche se si è stemperato il ricordo molto più recente di un paio di garritte fatte esplodere dall’esercito federale jugoslavo, quando la Slovenia si proclamò indipendente. Anche se qualche rigurgito fascistoide, soprattutto durante il primo governo Berlusconi, aveva riappestato l’aria di vecchi miasmi. Anche se un congestionato, maldestro e recente culto della memoria, in Italia, ha ricostruito a piacer suo così tante, dolorose vicende. Errori tragedie e malintesi restano, ma diventano armi finalmente e definitivamente spuntate. L’Europa politica non divora i suoi figli, li pacifica e capita addirittura che li riconcili.

Si fa grande festa in questi giorni sui confini attorno a Trieste, arrivano Barroso e ministri, star dello sport e dello spettacolo. Sono lì soprattutto i più giovani, quelli che da tempo vanno a bersi un caffè nella bella Lubiana, neanche un’ora di macchina, senza stati d’animo particolari. Non sanno lo sloveno? Non c’è problema, visto che a Lubiana tutti parlano almeno l’inglese. Fanno festa i più giovani anche perché hanno l’animo sgombro da vecchie ipoteche e riserve mentali. Non conoscono, almeno lo spero, i confini interiori che sono stati pesante zavorra per tante generazioni, i pregiudizi, i revanscismi, le offese. È da un po’ che da queste parti si respira aria nuova, che si tende a sfuggire alla tagliola etnico-politica. C’è un’Euroregione italo-austro-slovena, di cui Trieste è la capitale. Si fa molta ricerca, e la città ospita numerosi premi Nobel. Recupera finalmente qualcosa del suo storico e vasto retroterra, brutalmente macinato e mutilato dal ventesimo secolo. Le garritte e le guardie di frontiera, in questo contesto, erano già reperti del passato, inutili e fastidiosi. È venuto il tempo di costruire trasporti veloci e di integrare le università, e che i governi si diano una mossa.

Pubblicato il: 22.12.07
Modificato il: 22.12.07 alle ore 8.17   
© l'Unità.
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #7 inserito:: Gennaio 07, 2008, 06:48:32 pm »

Nicolas e Carla, Parigi val bene una sposa

Gianni Marsilli


Spunta dappertutto, come un personaggio da fumetti. Una settimana fa era in Egitto, prima con Carla Bruni, poi senza. La sera del 31 ha fatto gli auguri a reti unificate dal suo ufficio all’Eliseo, come d’uso, materializzandosi tonico e abbronzato nei tinelli di Francia, senza Carla. Sabato è riapparso a Petra in Giordania, in jeans e giubbetto, stavolta con Carla e sulle spalle a cavalcioni il pargolo di Carla, frutto della sua relazione con il filosofo Enthoven figlio, che era succeduto al filosofo Enthoven padre nel cuore dell’ex top model. Già si parla del prossimo viaggio in India, alla fine del mese: con Carla o senza Carla?

Gli usi indiani vorrebbero un uomo solo o con consorte, non con la «compagna» di turno. Si potrebbe escogitare un artifizio: Carla con lui, ma come membro della delegazione francese. A che titolo non si capisce, ma che importa. Con Sarkozy, si sa, le regole saltano come birilli.

Ha fretta, il presidente. Tanta fretta che ha fatto trapelare la notizia: il 9 febbraio, o forse già l’8, potrebbe convolare a giuste e terze nozze con la bella torinese. La stampa «people» non crede a tanta manna, tutta servita su un piatto d’argento. Un presidente che pare Ester Williams o Alain Delon, star a tutti gli effetti, una pacchia per le copertine. A Carla ha già offerto un diamante Dior, e lei ha ricambiato con un Patek Philippe in acciaio brunito.

La mamma di lei ciacola volentieri: Carla «première dame», perché no? E poi sarebbe più pratico per tutti questi viaggi in Paesi dove il concubinaggio non ha diritto di rappresentanza. Una notizia scaccia l’altra: chi si ricorda di Cecilia? Sì, giusto un accenno malizioso: fu proprio a Petra che l’ex first lady fece la sua prima scappatella con quel pubblicitario, come si chiamava, Richard Attias, ecco, Attias, chi era costui? Pare che Cecilia stia preparando un libro di rivelazioni, ma nessuno se la fila.

Macina tutto, il presidente Sarkozy. Tanto macina che ha sterilizzato l’effetto sorpresa: dicono i sondaggi che ai francesi (come agli italiani) della sua storia con Carla Bruni non importa un fico secco, o quasi. Un occhio alle riviste dal parrucchiere o dal dentista, giusto per essere al corrente, e via. Messa in campo senza filtri, la sua vita privata non intriga più di tanto. La privacy è interessante quand’è violata, quando apre porte e finestre diventa noiosa. Vedi ieri il popolarissimo «Journal du Dimanche»: doverosa fotona in prima pagina dei due a braccetto, ma dentro un articoletto striminzito, giusto per non snobbare l’idillio presidenziale, affogato in tre pagine di elezioni comunali.

Ma il 2008, dicono gli osservatori più avvertiti, sarà l’anno del giudizio. Il barometro dell’economia invia segnali di bonaccia, se non di tempesta. Crescita al lumicino, inflazione in rialzo, energia più cara. Per ora la fortuna di Sarkozy, e la bravura, è di essere solo ad occupare il campo: l’opposizione è apparsa muta in questo autunno, e quando attacca lo fa con armi spuntate. Denunciare il «regime berluskozysta», come ha fatto il socialista Laurent Fabius, appare ai più nient’altro che un neologismo da tribuna elettorale. La prima vera prova per Sarkozy saranno le municipali del marzo prossimo. Ha deciso di impegnarsi a fondo, e di sviluppare su larga scala il suo metodo dell’«ouverture». L’Ump, il suo partito, vanta già 500 conversioni: gente di sinistra che si candiderà nelle file del partito del presidente.

«Cifre di pura fantasia», replica François Hollande, piccatissimo. Ma l’esodo c’è, anche se non se ne conoscono ancora le dimensioni. Tra due mesi e mezzo il responso delle urne: si saprà, con Carla o senza Carla, se l’uomo dell’Eliseo potrà continuare a vivere come un velocista, o se dovrà cominciare ad apprendere la difficile arte della corsa di fondo.

Pubblicato il: 07.01.08
Modificato il: 07.01.08 alle ore 13.44   
© l'Unità.
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #8 inserito:: Gennaio 08, 2008, 12:42:08 pm »

Ben 450 giornalisti per la conferenza stampa di inizio anno

Sarko-show all'Eliseo: «La Francia sia l'anima del nuovo rinascimento»

Il presidente: garantire uguaglianza effettiva tra uomini e donne. Impulso deciso alle politiche di integrazione


PARIGI - Nicolas Sarkozy «rimette in marcia la macchina» della politica francese. Nella prima conferenza stampa dell'anno, all'Eliseo, il presidente ha confermato le linee guida della sua azione, con i soliti accenti retorici, già criticati in occasione del discorso del 31 dicembre scorso: «Sono stato eletto per cambiare le politica francese, per effettuare una vera rupture con il passato. La mia strategia è la politica di civilizzazione, dove l'uomo occupa il centro della scena». Il presidente ha ribadito che la Francia deve essere «l'anima del nuovo rinascimento di cui il mondo ha bisogno».

RIFORME - Tra difficoltà pubbliche e gioie private, il presidente francese ha così fatto ritorno sulla scena politica nazionale - con una conferenza stampa per la quale sono stati accolti all’Eliseo quasi 600 giornalisti, accreditati da 40 Paesi - dopo le lunghe vacanze di fine anno, trascorse tra Egitto e Giordania con la fidanzata Carla Bruni. Il gradimento del presidente, dall'elezione in poi, è andata gradatamente scemando, fino a scendere, secondo le ultime rilevazioni, sotto il 50%, in flessione da 2 a 7 punti a seconda dei sondaggi. Sarkozy ha ricordato di «aver capito l'impazienza dei francesi» ma ha sottolineato che «l'urgenza è ovunque» e si è impegnato a dare «libertà nuove ai cittadini». Per questo «servono riforme»: con il governo di Francois Fillon, ha sottolineato Sarkozy, «cerchiamo di rispondere a queste emergenze».

UGUAGLIANZA - Tra le prime misure annunciate, il presidente ha detto di voler «garantire effettivamente» l'uguaglianza tra uomini e donne, il rispetto delle diversità e l'integrazione delle minoranze, iscrivendo questi principi nel premabolo della Costituzione francese.

LA FIDANZATA - Il primo «Sarko-show» dell’anno è stato preceduto da un discorso di mezz’ora durante il quale Sarkozy ha offerto i dettagli del programma presidenziale dei prossimi mesi. Sarkozy - aveva fatto sapere ieri l'Eliseo - risponderà su tutti i temi, anche quello del suo eventuale matrimonio con Carla Bruni, che secondo la stampa francese sarebbe stato fissato per l'8 o il 9 febbraio prossimo.

L'INDIA SI PREPARA - Nel frattempo, l'India è pronta ad accogliere la «fidanzata» del presidente francese Nicolas Sarkozy come se fosse la vera e legittima first lady. Dovrà essere però la Francia a chiarire in quale ruolo dovrà essere ricevuta Carla Bruni, se dovesse accompagnare Sarkozy nel suo primo viaggio a New Delhi, il 24 gennaio prossimo. L'apertura del governo indiano, dopo giorni di tentennamenti, arriva da una fonte del ministero degli Esteri che ha dichiarato al Times of India: «Da parte nostra non ci sono problemi di protocollo se lei arrivasse».

08 gennaio 2008

da corriere.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #9 inserito:: Gennaio 10, 2008, 11:01:29 am »

Se Sarkò fa il democratico

Gianni Marsilli


Diciamola tutta: il discorso pronunciato ieri da Nicolas Sarkozy (un’ora di prologo alla conferenza stampa d’inizio anno) solleverebbe un’ovazione al futuro congresso del Partito democratico italiano. I soli problemi che porrebbe sarebbero di leadership, poiché Walter Veltroni avrebbe di che preoccuparsi molto seriamente per il suo primato. Parliamo del piano visionario, quasi filosofico, sul quale Sarkozy ha voluto collocare la sua presidenza. Ha citato più volte Edgar Morin, sociologo di chiarissima fama, che oggi denuncia il ripiego individualista e l’assenza di luoghi e gesti di vera solidarietà nelle nostre società. Ha citato Amartya K. Sen, indiano, premio Nobel per l’economia, che ha elaborato un sistema di valutazione della ricchezza e della qualità di vita alternativo ai criteri puramente mercantili, diventando un punto di riferimento per tanti filoni del no-globalismo di questo ultimo decennio. Ha citato Joseph Stiglitz, americano, anch’egli premio Nobel per l’economia, anch’egli ispiratore di una critica severissima di questa mondializzazione, universalmente noto per la sua denuncia delle istituzioni finanziarie internazionali come il Fondo monetario e la Banca mondiale, rei a suo avviso di aver sottoposto negli anni 90 Paesi come l’Argentina e la Russia a cure drammaticamente sbagliate, figlie del «pensiero unico» di stampo liberista. I due Nobel, per la cronaca, rifletteranno per lui in un’apposita commissione.

Ha citato ancora Leon Blum, storico leader del socialismo francese, per la sua «genialità» quando capì dove portava il comunismo, e nel 1920 al Congresso di Tours se ne andò per conto proprio. Nessun gollista nel suo Pantheon, neanche il Generale. Nessun santone del liberismo, nessun «Chicago boy», e neanche un Raymond Aron, per dire, che pure qualche merito avrebbe. Solo gente che negli ultimi decenni è stata il lievito del pensiero «di sinistra» non dogmatico né pavlovianamente classista, che insomma si è preoccupata più di altri di trovare il modo di coniugare modernità e giustizia sociale. Cosa chiedere di più, ad un leader del partito democratico?

Una cosa innanzitutto: che alle parole faccia seguire i fatti. Ed è qui che il dente duole, con Sarkozy (con Veltroni vedremo). A più di sei mesi dalla sua elezione, appare ancora e sempre in campagna elettorale. Solo che adesso, privo di contraddittorio, può disegnare indisturbato splendide e nuove costellazioni politiche. Sembra essersi attribuito il ruolo di rianimatore del paese, di colui che senza sosta soffia la parola fiducia, fiducia, fiducia. È una versione molto più colta e ambiziosa dell’«ottimismo» brianzolo da Caffé Sport sempre proclamato dal nostro Berlusconi. Ma i limiti sono gli stessi: se il potere d’acquisto non aumenta e se i prezzi salgono, se le banlieues restano posti orrendi e i disoccupati restano tali, più il tempo passa e più lo slancio rinascimentale di Sarkozy rischia il tracollo. In questo senso è molto probabile che il 2008 sia per lui l’anno della verità.

Un leader del Partito democratico inoltre, a nostro avviso, avrebbe un’altra idea dell’Europa, che lui continua a considerare unicamente come un ombrello «protettivo», come ha avuto modo di ribadire anche ieri. La vorrebbe più unita e protagonista, più politicamente integrata.

Si comporterebbe diversamente anche in tema di immigrazione, combattendo contro l’idea che «l’altro» metta necessariamente in pericolo la nostra identità. Sarkozy no, continua a fissare quote di espulsioni che il suo ministro è tenuto a rispettare, come se i sans papiers fossero pacchi da smaltire, perché lo stoccaggio costa, e a introdurre la prova del Dna per i ricongiungimenti familiari, malgrado la «ripugnanza» che tale legge provoca in Carla Bruni.

No, stia tranquillo Veltroni: l’iscrizione di Sarkozy al Pd non è per domani. Però il presidente promette bene, e contrariamente alla destra italiana non appare per nulla turbato dalla preminenza della sinistra, per lo meno sul piano culturale. Almeno fino a che, sul piano politico, potrà continuare a dormire tra due guanciali.

Pubblicato il: 09.01.08
Modificato il: 09.01.08 alle ore 14.31   
© l'Unità.
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #10 inserito:: Aprile 30, 2008, 11:21:49 pm »

Londra al voto, trema il sindaco Ken il rosso

Gianni Marsilli


Licenziarono Churchill alle legislative del ’45, quand’era aureolato di gloria, più che altro perché avevano voglia di cambiar pagina: grazie sir Winston, ma di «lacrime e sangue» ne abbiamo avuto abbastanza. Figuriamoci di questi tempi, molto più leziosi.

Gli inglesi sono così: non amano esser governati troppo a lungo dalle stesse facce. Gordon Brown lo sa bene, e questa settimana incrocia le dita. Domani in Inghilterra e Galles si va alle urne per le elezioni locali, e tutto indica (i sondaggi, gli indici di popolarità, le analisi politiche) che per il successore di Tony Blair sarà un brutto tonfo. I tory son tornati, ecco la verità, corrono attorno al 40 per cento, il primo ministro non carbura e il Labour, dato al 26 per cento, è stanco e litigioso dopo undici anni di governo.

La sberla più bruciante si stamperà con ogni probabilità sulle floride guance di Londra, il municipio con un bilancio da dieci miliardi di sterline, e Ken Livingstone, 63 anni, per i sondaggi al 35%, dovrà lasciare il posto di sindaco a Boris Johnson, dato al 46%, venti anni di meno. Lo chiamano «Boris il buffone» per la sua inesauribile verve umoristica e caricaturale. Ne dice di tutti i colori, sempre intonati al celebre humour britannico. Quando in tv appare la sua folta e cespugliosa capigliatura bionda l’audience sale, e resta alta. Non espone alcun programma ma è un turbine di battute, a cominciare da quelle autoironiche, piuttosto rare nel mondo politico, foss’anche british, e per questo particolarmente apprezzate. Figlio dell’upper class, studente a Eton e poi a Oxford, nato a New York. Padre alto funzionario della Banca mondiale, della Commissione europea e infine deputato conservatore a Strasburgo. Dell’itinerario paterno gli sono rimasti un ottimo francese e un certo spirito cosmopolita, che non guasta in una megacapitale nella quale il 40 per cento degli abitanti è nato fuori dai patri confini e il 37 per cento è di tutti i colori tranne che bianco. In aggiunta, Boris tira di boxe e gioca a football, sempre pronto a introdurre una nota clownesca: lo trovate su YouTube, impegnato in una partita di calcio a scopo di beneficenza, mentre avvinghia le gambe di un avversario con mossa tipicamente rugbystica. Insomma un simpaticone, ma non solo. È stato giornalista (corrispondente da Bruxelles per il Daily Telegraph, direttore del settimanale Spectator, inviato anche a Bagdad da dove tornò con un celebre e sbandierato bottino: il portasigari di Tarek Aziz, trovato frugando la villa bombardata dell’ex ministro degli Esteri di Saddam), molto brevemente manager e da qualche anno ha scoperto la politica, sempre con i tory. Fila d’amore e d’accordo con David Cameron, il leader nazionale, quarantenne come lui, e nel luglio scorso alle primarie per il municipio di Londra stravinse con il 75 per cento. I vecchi del suo partito, come Michael Howard, non l’amano troppo. Dicono che manchi di contegno, e rabbrividiscono davanti alla promessa di sapore laburista, solennemente fatta da Boris, di un’amnistia per gli immigrati clandestini: è un tory, ma «new».

Davanti a questo tornado Ken Livingstone è deciso a vendere cara la pelle. Il vecchio sindaco ha parecchie frecce al suo arco: il pedaggio per circolare in centro, l’aumento del numero degli autobus, l’acquisita centralità planetaria della città nell’ultimo decennio, le Olimpiadi del 2012 a spese di Parigi, un’esperienza amministrativa che dura dal lontano 1973, quando per la prima volta entrò a far parte del Greater London Council, l’organismo che all’epoca coordinava i diversi comuni della capitale. Ne fece per anni un laboratorio labour e radicaleggiante, in omaggio ai suoi trascorsi trotzkisti, che gli valsero il soprannome di «Red Ken». Con il tempo il «red» si è stemperato, fino al punto di dichiarare la sua contrarietà all’imposizione fiscale destinata ai ricchi e straricchi stranieri che a Londra risiedono, ma solo per non pagare le tasse né qui né lì, nel loro paese d’origine e di domicilio. Se Klaus Wowereit, sindaco di Berlino, dice della sua città che è «povera ma sexy», il suo omologo londinese si è fatto sedurre dalla finanza dominante, alla quale non oppone un’idea più fondata sull’economia reale che sui terminali della City. Livingstone si presenta per la terza volta (è sindaco dal 2000, l’anno in cui per la prima volta il primo cittadino è stato eletto a suffragio universale), e sono in molti a pensare che è la volta di troppo. Soffre inoltre dell’andazzo generale del Labour, che ha conosciuto giorni migliori. Se Ken, contro venti e maree, dovesse farcela per la terza volta, per Gordon Brown sarebbe una vitale ed insperata boccata di ossigeno.

Dice Tony Travers, della London School of Economics (LSE), che Londra segna da sempre il bello e cattivo tempo politico del paese. Se insomma Boris Johnson vincesse, sarebbe il segnale di un mutamento d’epoca, quindi duraturo e ineluttabile anche alle prossime elezioni legislative (2009 o più probabilmente 2010, a seconda di quanto il premier giudicherà opportuno e tempestivo). Ne trova conferma nel profilo nuovo dei tory, che David Cameron e Boris Johnson incarnano gagliardamente. Secondo Travers il centrodestra britannico «si situa ormai alla sinistra di Sarkozy e di Berlusconi, molto a sinistra di Margaret Thatcher», insomma nei paraggi di Angela Merkel. Pare che in Europa (non in Italia) facciano furore personaggi dal percorso atipico e poco novecentesco, dotati di scarso riguardo per le famiglie politiche di provenienza e soprattutto provvisti di una buona carica di novità, se non altro sul piano personale, e di pragmatismo social-liberale. È stata la forza di «Boris il buffone»: drenare consensi, grazie al suo modo diverso di essere un tory, anche tra quella classe media che sembrava ormai acquisita al New Labour di Tony Blair e Gordon Brown. Un ultimo avvertimento: Londra è città molteplice, sociologicamente ed etnicamente complicatissima, ma politicamente da sempre più progressista del resto del paese. Sarà l’occasione di verificare se «progressismo» e «laburismo» sono ancora sinonimi.

Pubblicato il: 30.04.08
Modificato il: 30.04.08 alle ore 8.14   
© l'Unità.
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #11 inserito:: Ottobre 13, 2008, 05:16:53 pm »

Torna l’asse franco-tedesco

Gianni Marsilli


Buona parte del nostro continente ha passato gli ultimi anni con il dito puntato contro l’Europa che di tutto s’immischia, che tutto vuol regolare, codificare, addirittura costituzionalizzare.

Scopre invece adesso con orrore (a volte a scoprirlo sono gli stessi che puntavano il dito ammonitore) - avendo alle porte un precipitoso ribasso dei consumi, una caduta verticale dei prezzi immobiliari, un aumento della disoccupazione, un ribasso dei profitti delle imprese: in una parola, la crisi dell’economia reale - che l’Unione europea, per com’è stata costruita, ha grosse, evidenti, difficoltà nell’aiutare le sue banche pesantemente indebitate sui mercati finanziari internazionali, che le è quasi impossibile ricapitalizzare il suo settore bancario in maniera comunitaria e omogenea.

Scopre anche che gli istituti di credito lavorano con le rispettive banche centrali limitandosi a chiedere "l’appoggio" della Bce (come nel caso Fortis) e non il "permesso" della stessa, e solamente ad "informare" Nellie Kroes, commissario alla concorrenza, delle fusioni attuate nell’urgenza, e che Trichet, oh, sorpresa, non ha i titoli per varare un "piano Paulson" europeo.

Alle diverse istanze europee, per una volta, si rimprovera il deficit, anziché l’eccesso, di regole comuni, quelle che potrebbero fornire il quadro, o quantomeno il trampolino, per una strategia "europea" davanti alla crisi che avanza. Tutto resta quindi affidato alla volontà politica dell’uno o dell’altro. Nello specifico, in questo autunno, alla presidenza di turno dell’Unione, che spetta alla Francia di Nicolas Sarkozy. Per nostra fortuna, ci sia consentito di aggiungere.

Il presidente francese potrà essere accusato di fare molto rumore per nulla, di praticare una "politica degli annunci" ai quali non dà seguito e di altre mille carenze, ma il suo ruolo di presidente europeo lo sta svolgendo con indubbio dinamismo e benvenuto pragmatismo. L’Europa denuncia la sua crudele assenza di strumenti d’intervento, ma le diverse riunioni parigine non sono aria fritta. Almeno sul piano politico, dicono che l’Europa c’è, che batte un colpo. Le manca ancora il famoso numero di telefono che inutilmente cercava Kissinger, ma i suoi dirigenti sono chiamati a dar prova di una responsabilità comune, anzi comunitaria. Persino il pallido Barroso ieri si è lasciato andare: «Serve un livello di coordinamento senza precedenti». Alcuni nella crisi ritrovano persino il colorito perduto. E’ il caso di Gordon Brown, ancora poche settimane fa dato in agonia politica, che ha indicato la strada delle garanzie interbancarie e non si è certo imbarazzato - lui, il social-liberale che per dieci anni ha retto l’economia al tempo del blairismo - quando si è trattato di nazionalizzare buona parte del sistema bancario britannico. Appare proprio come ama definirsi: un nocchiero dall’aspetto ingrato e dall’eloquio laborioso, ma capace di guidare la nave in tempi di tempesta. Gli inglesi se ne sono accorti, almeno stando ai sondaggi che ricominciano a premiarlo. Ed è paradossale che proprio lui non abbia partecipato al vertice, non essendo il suo paese membro dell’Eurogruppo, tranne una mezz’oretta iniziale, dopo un l colloquio con Sarkozy.

È il caso della coppia franco-tedesca, che ha avuto l’intelligenza di rimettersi in campo, anche se in zona Cesarini. Il cancelliere, si sa, sopporta male la verbosità di Sarkozy e soprattutto la sua tendenza a lavorare in proprio (Angela Merkel scopre spesso le iniziative francesi leggendo i giornali: impensabile al tempo di Adenauer-De Gaulle o di Mitterrand-Kohl), ma si ritrova con lui sul terreno pragmatico, post-ideologico. Né l’uno né l’altra s’ingombrano di categorie predefinite: liberali in economia, ma compatibilmente con la cifra sociale delle loro decisioni. Godono anche, ambedue, ottima salute politica: lei viaggia su consensi che sfiorano il 70 per cento, lui domina il suo campo e sgomina quello dell’opposizione. Nel caso di Sarkozy, chi l’ha incontrato racconta che l’animale politico che è in lui è più sveglio che mai: come nel caso della Georgia l’estate scorsa, anche nella crisi attuale fiuta la Storia, e non vuole che gli passi sotto il naso così, senza imprimerle la sua traccia. Tiene legittimamente al primato politico francese in ambito comunitario, a volte in modo goffo (si pensi all’Unione mediterranea), ma appare sempre più cooperativo, e comunque sensibile alla collegialità delle decisioni, se non proprio al loro carattere comunitario. Non intende arrivare in mutande al vertice europeo di Bruxelles della prossima settimana. Ha preso le misure della crisi finanziaria ed economica, che va ben al di là dei pur doverosi appuntamenti di routine. Approfitta, infine, della vacanza politica washingtoniana: Bush non c’è più, e il suo successore non è ancora arrivato. Globalmente, ci pare che gli egoismi nazionali sono sempre presenti nell’Unione, ma che in questa fase abbiano dovuto mettersi un po’ in sordina. Anche a forza di riunioni a 4, ieri a 15, nei prossimi giorni a 27.

Pubblicato il: 13.10.08
Modificato il: 13.10.08 alle ore 13.16   
© l'Unità.
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #12 inserito:: Ottobre 22, 2008, 11:16:17 pm »

Lezione europea di un neogollista


Gianni Marsilli


«Lei parla come un buon vecchio socialista europeo»: sono le parole che Martin Schulz, presidente del gruppo socialista al Parlamento europeo, ha rivolto ieri tra il serio e il faceto a Nicolas Sarkozy. Ne è seguito un puntuto ma amabile scambio di battute, nel quadro di un sostanziale apprezzamento della «grande determinazione» di cui ha dato prova il presidente francese dall’inizio della crisi finanziaria ed economica. Al Parlamento di Strasburgo piace molto Sarkozy l’europeo, anzi europeista, meglio: euroentusiasta. Piace il ritorno in auge, all’Eliseo come a Downing Street, di John Maynard Keynes. Piace che il modello europeo sopravviva in qualche modo a quello americano, che era stato egemonico e che ora non è più. Piace che il welfare e l’«economia sociale di mercato», che sembravano destinati alla soffitta della storia, servano ancora ad attutire i colpi della crisi, e che la vecchia Europa, data per spacciata, dia ancora inequivocabili segni di vita.

Se questo è possibile, è anche perché l’insieme comunitario, per una volta, è dotato di un leader, non solo di un presidente semestrale. E questo leader porta il nome di Nicolas Sarkozy.

Sarkozy l’europeo, dunque. Eppure le premesse biografiche e politiche non c’erano. Il suo liquido amniotico è stato il neogollismo. È cresciuto alla scuola di Jacques Chirac, che aveva grandi intuizioni ma tendeva a ridurre l’Europa ad una questione di quote latte e di allevamenti di vitelli. Non ha mai avuto incarichi internazionali. Si è fatto le ossa nel pollaio politico di casa, dove le correnti «sovraniste» soffiavano più forti che mai. Pareva insomma un volitivo ma tipico rappresentante dell’Europa intergovernativa, la stessa che al momento l’ha avuta vinta su quella comunitaria, in perenne affanno e laboriosa costruzione, quasi affogata sotto i colpi dei referendum irlandese, francese, olandese. L’Europa delle nazioni e delle Cancellerie, quella cara a De Gaulle, il cui perno centrale e la sala di comando stanno al massimo tra Parigi e Berlino, ma non a Bruxelles né tantomeno a Strasburgo. E invece che ti fa, Nicolas Sarkozy? Sul più bello del ciclone prende in mano le redini comunitarie, fa vivere l’Europa come non le accadeva dai tempi di Jacques Delors. Esercita la presidenza semestrale in modo tutt’altro che notarile, come dimostra la determinazione sulla questione climatica: sarebbe «drammatico» e «irresponsabile» rinviare alle calende greche le scadenze già fissate. Già a Bruxelles, al vertice della scorsa settimana, aveva detto di aver «gettato sul tavolo tutto il peso della Francia» perché gli impegni venissero mantenuti, con buona pace di Silvio Berlusconi e Stefania Prestigiacomo. L’Europa, proclama incessantemente Sarkozy, dev’essere all’avanguardia della battaglia per la salvezza del pianeta. Visibilmente, crede nell’Europa e nelle sue potenzialità. Rifiuta il declino del vecchio continente, tante volte annunciato. E si comporta di conseguenza.

Ha messo in luce due doti in particolare: il volontarismo politico - che sembrava aver definitivamente ceduto le armi allo spirito animale dei mercati - e l’inventiva, con grande spregio della routine. È figlia del suo volontarismo la decisiva riunione dei Quindici dell’Eurogruppo a Parigi il 12 ottobre scorso. È figlio della sua inventiva l’invito rivolto a Gordon Brown di venire, anche se non ne aveva diritto, visto che in Gran Bretagna c’è ancora la sterlina. Da quel giorno Sarkozy non è stato fermo un solo minuto. È andato in Canada, portandosi dietro il presidente della Commissione Barroso. È andato a Washington da Bush, incurante del fatto che quello stia facendo le valige, sempre accompagnato da Barroso. Tra qualche giorno andrà in Cina, ancora con Barroso, per coinvolgere le potenze asiatiche, riunite a Pechino per il vertice dell’ASEM, nel suo progetto di «rifondazione del capitalismo mondiale». Va di qua e di là «perché - ripete senza sosta a tutti i suoi interlocutori - io agisco su mandato dei 27 membri dell’Unione». Così agendo, attuo di fatto una cessione di sovranità: non opera in nome della Francia, ma di tutti noi europei che l’abbiamo delegato a farlo. Nessuno aveva ancora interpretato una presidenza semestrale con tanta convinzione e dinamismo. Per la stanca Europa dalle tante piccole capitali è un passo da gigante. Reversibile, certo. Ma Sarkozy, rispetto a chi l’ha preceduto da qualche lustro, sembra indossi gli stivali delle sette leghe.

Si spinge molto avanti: «Non è possibile che la zona euro continui ad esistere senza un governo economico chiaramente identificato», ha detto ieri davanti al Parlamento. Persino il fido Barroso ha pensato di prendere le distanze: «Non bisogna creare l’illusione molto pericolosa che l’idea sia quella di dare istruzioni alla Banca centrale». Dell’indipendenza della Bce Sarkozy, è noto, non ha una grande opinione. Sostiene di rispettarla, ma «la Bce deve poter discutere con un governo economico». Questione di governance, la stessa per la quale è andato da Bush a perorare la causa del vertice di New York: al diavolo il ristretto club del G8, largo alle potenze emergenti, al Brasile, al Messico, all’Egitto. E visto che la crisi è cominciata a New York, Wall Street, che trovi il suo sbocco a New York, là dove la politica ritrova il suo primato, possibilmente all’Onu. Così va il mondo: nei fatti, tocca ad un uomo uscito dai ranghi della destra, per quanto sia senza complessi, portare la bandiera e la cultura del riformismo europeo, che più di altri nel dopoguerra hanno interpretato i socialdemocratici da Berlino a Londra a Madrid. Per dirla con Martin Schulz, ci voleva un «buon vecchio socialista». Che poi costui si chiami Sarkozy e il suo partito l’Ump, dovrebbe far riflettere tutta quanta la sinistra europea.

Pubblicato il: 22.10.08
Modificato il: 22.10.08 alle ore 9.24   
© l'Unità.
Registrato
Pagine: [1]
  Stampa  
 
Vai a:  

Powered by MySQL Powered by PHP Powered by SMF 1.1.21 | SMF © 2015, Simple Machines XHTML 1.0 valido! CSS valido!