Perché Crimea e Ucraina sono anche un pezzo della storia d'Italia
di Piero Fornara
2 marzo 2014
È sui banchi di scuola, studiando il Risorgimento italiano, che per la prima volta abbiamo sentito parlare della Crimea.
Nell'estate 1853 lo zar Nicola I invade i principati danubiani di Moldavia e Valacchia, posti sotto la sovranità dell'Impero ottomano; pochi mesi dopo la Turchia, sostenuta da Gran Bretagna e Francia, dichiara guerra alla Russia. Gli anglo-francesi cingono d'assedio la fortezza di Sebastopoli in Crimea, principale porto russo sul Mar Nero. Londra e Parigi cercano di coinvolgere nella loro alleanza antirussa anche l'Austria, che però non si schiera. È invece il Piemonte sabaudo ad accettare di intervenire nella guerra.
Nel maggio 1855 il primo ministro Cavour manda in Crimea un corpo di spedizione di 15 mila uomini al comando di Alfonso La Marmora, che prendono parte alla battaglia del fiume Cernaia (agosto 1855), distinguendosi per coraggio e preparazione militare. In settembre, dopo la caduta di Sebastopoli, il nuovo zar Alessandro II firma l'armistizio. Al Congresso di pace di Parigi, Cavour, grazie alla partecipazione piemontese alla guerra, può quindi sollevare la questione dell'unità e dell'indipendenza italiana. Dai contatti avuti con le cancellerie di Francia e Gran Bretagna, Cavour percepisce che un mutamento in Italia su iniziativa del Piemonte è fattibile, con l'appoggio delle due maggiori potenze occidentali e soprattutto di Napoleone III.
La base navale di Sebastopoli ospita la flotta russa del Mar Nero dai tempi della zarina Caterina II, verso la fine del XVIII secolo. Nel 1954 il leader sovietico Nikita Kruscev (originario di una zona al confine tra Russia e Ucraina) "regalò" la Crimea all'Ucraina, peraltro nell'ambito dell'Urss. Con il crollo dell'Unione Sovietica, Kiev mantenne la Crimea, ma nel 1997 fu stipulato un accordo ventennale che consentiva la presenza della flotta russa. In virtù del trattato, Mosca ha il diritto di dispiegare a Sebastopoli e in Crimea un centinaio di navi e 25 mila militari. La base è stata utilizzata per la guerra del 2008 contro la Georgia. Nel 2010 i parlamenti russo e ucraino hanno ratificato un nuovo accordo che estende di altri 25 anni la permanenza della flotta in cambio di uno sconto del 30% sulle forniture del gas russo, per un valore complessivo di 40 miliardi di dollari. Condizioni radicalmente mutate oggi, dopo la caduta del presidente filorusso ucraino Viktor Ianukovich.
Sempre dai ricordi di scuola, fra i libri che gli insegnanti consigliano (o forse consigliavano, fino a qualche tempo fa) in lettura ai loro studenti figurano "Centomila gavette di ghiaccio" di Giulio Bedeschi e "Il sergente nella neve" di Mario Rigoni Stern sulla ritirata dei soldati italiani dalla Russia – e dall'Ucraina - durante la Seconda guerra mondiale. Quando la Germania nazista nel giugno 1941 decise l'attacco contro l'Urss, anche Mussolini volle mandare un corpo di spedizione italiano (contro i desideri di Hitler e senza chiedere il parere dei suoi generali), che l'anno seguente fu trasformato in Armata italiana in Russia (Armir), composta di ben 220 mila uomini, peraltro male equipaggiati e armati, che per metà persero la vita o furono fatti prigionieri.
Meno noto all'opinione pubblica, nel primo conflitto mondiale 1914-18, è invece il dramma collettivo dei soldati di lingua italiana nel Trentino austro-ungarico, mandati a combattere (e a morire) sul fronte orientale, prima ancora dell'entrata in guerra dell'Italia il 24 maggio 1915. Su una popolazione che superava di poco le 350mila unità, almeno 200mila persone dovettero abbandonare le loro case. «Un numero impressionante – citiamo il direttore della Fondazione museo storico del Trentino Giuseppe Ferrandi - che comprende i 55 mila maschi abili inviati dall'Impero austro-ungarico per lo più sul fronte orientale, ai quali vanno aggiunti i circa 700 volontari che confluirono nell'esercito italiano, i 75 mila profughi destinati alle regioni più interne dell'Impero, in Boemia, in Moravia, e i 30mila trasferiti in Italia, dal Piemonte alla Sicilia».
Nella Grande Guerra il fronte orientale è stato sempre considerato un teatro minore: non giovava infatti a Lenin perché l'aveva cominciata lo zar, né agli austriaci che furono sconfitti e persero il loro impero. Pochi hanno sentito menzionare ad esempio le due battaglie combattute tra l'esercito russo e quello austriaco intorno a Leopoli – oggi L'viv in Ucraina – nel settembre 1914 e nel giugno 1915 oppure la battaglia di Gorlice-Tarnow (due città non lontane da Cracovia), voluta dai generali austriaci in collaborazione con i tedeschi, per "liberare" la Galizia e inchiodare i russi lungo i Carpazi (nei confini attuali fra Polonia e Ucraina). In questa battaglia, cominciata il 1° maggio 1915, dopo tre giorni di terribili combattimenti e un numero enorme di morti e di feriti, gli austriaci riescono a sfondare il fronte. L'obiettivo politico e diplomatico – non conseguito - era quello di dissuadere l'Italia dall'entrare in guerra a fianco dell'Intesa. La maggior parte dei militari trentini e tirolesi di lingua italiana sono stati trattenuti sul fronte orientale anche dopo l'entrata in guerra dell'Italia, perché il comando supremo austriaco temeva che quei soldati avrebbero potuto dimostrarsi meno fedeli e combattivi, se spostati sul fronte alpino.
Yalta, in Crimea (allora Urss e oggi Ucraina), nel febbraio 1945 ospitò anche l'ultima grande conferenza durante la Seconda guerra mondiale fra Roosevelt, Churchill e Stalin. Ma per la nostra storia è anche la località dove nell'agosto 1964 morì a causa di una emorragia cerebrale Palmiro Togliatti, per più di trent'anni capo indiscusso del Partito comunista italiano. In occasione della cerimonia funebre venne annunciato il suo testamento politico ("memoriale di Yalta"), scritto durante il breve soggiorno estivo sulle rive del Mar Nero, dove Togliatti auspicava fra l'altro una via nazionale e pacifica al socialismo, nel quadro di una grande battaglia democratica.
In uno dei suoi libri sulla storia dell'Italia, Indro Montanelli racconta che a battere sulla macchina da scrivere alcune copie del memoriale fu Nilde Iotti, mentre un'impiegata del settore esteri del Pcus ne fece la traduzione in lingua russa. A distanza di pochi mesi dalla scomparsa di Togliatti, a Mosca il segretario generale del Pcus Nikita Kruscev, salito al potere in Unione Sovietica dopo la morte di Stalin nel 1953, viene destituito da tutte le sue cariche nel partito e nello Stato. Gli subentra una "direzione collegiale" con Leonid Breznev segretario generale del Pcus e Aleksej Kossyghin presidente del Consiglio dei ministri. Può darsi – ma non lo possiamo sapere – che durante il suo ultimo soggiorno nell'Urss anche Togliatti avesse già intuito che il potere di Kruscev stava vacillando.
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