Il lavoro? In proprio e da soli
di Francesca Barbieri
10 febbraio 2014
La patria del "working solo"? L'Italia. Tra i grandi Paesi europei, il nostro ha il record di lavoratori in proprio senza dipendenti, soprattutto tra i giovani. Nel 2013 se ne sono contati oltre 1,3 milioni sotto la soglia dei 40 anni, come dire il 15% del totale degli occupati di quella fascia d'età. Un primato assoluto rispetto alla media dell'area euro, che si ferma alla metà (7,5%), ma anche nei confronti di Francia e Germania, entrambe al di sotto del 5 per cento.
Dal report del centro studi Datagiovani per Il Sole 24 Ore risulta che nella nostra Penisola si concentra quasi un terzo di quelli che nelle statistiche ufficiali sono definiti come own account workers. E anche sul versante femminile è alta la quota di donne che lavorano "per se stesse", pari al 44% del totale.
Sarà perché sempre più fabbriche chiudono, sarà perché per i giovani ottenere un posto fisso sta diventando un miraggio, fatto sta che ancora in tanti - per scelta o per necessità - e nonostante il clima economico sfavorevole, un lavoro decidono di darselo da sé.
«I giovani - commenta Luigi Campiglio, ordinario di Politica economica all'Università Cattolica di Milano - dimostrano un forte impegno e per tanti la strada di essere imprenditori di se stessi è obbligata, ma a causa delle dimensioni ridotte sono i più esposti alle intemperie della recessione».
Come tutte le medaglie, infatti, anche questa ha il suo rovescio. E la crisi occupazionale che ha travolto il lavoro dipendente ha lasciato il segno pure su quello in proprio. L'Italia, insieme alla Germania, ha registrato una flessione nel 2013 di dimensioni consistenti (-8,3%) sull'anno precedente, e allargando l'orizzonte temporale fino al 2008 il flop è stato del 19,3%, leggermente inferiore rispetto a quella dei dipendenti under 40 (-19,4%).
Non tutti i settori però hanno risentito della crisi. Anzi, ci sono nicchie in cui i lavoratori in proprio possono trovare spazi: restringendo l'obiettivo sui capitani d'azienda under 30 spicca il comparto degli alloggi e della ristorazione (+1,1% sul 2012), ma vanno in controtendenza anche i servizi di noleggio e consulenza alle imprese (+4,7%), quelli informatici e di comunicazione (+2%), le attività finanziarie ed assicurative (+12,9%).
«La quota di lavoro professionale altamente specializzato - commenta Maurizio Del Conte, docente di diritto del lavoro all'Università Bocconi - nei settori con maggiore utilizzo di tecnologia da noi è consistente rispetto ai Paesi europei più avanzati. Per questo in Italia queste figure possono offrire con successo i propri servizi alle moltissime piccole imprese che non sono in grado di trattenerle stabilmente al proprio interno».
I giovani sono in fuga, invece, dai settori costruzioni, manifatturiero, attività immobiliari e professionali. Il settore che soffre di più, il secondo in assoluto per numero di imprenditori giovani, è l'edilizia (-11%), seguito da agricoltura (-6,2%) e attività manifatturiere (-4,7%). Forte è stata poi la flessione in due rami che, seppure non prevalenti rispetto ad altri, riflettono le effettive condizioni economiche del Paese: si tratta delle attività immobiliari (-8,9%) e di quelle professionali, scientifiche e tecniche (-6,7%). Tutto sommato, invece, tengono commercio e riparazioni (-1,2 per cento).
Gli own account workers sono titolari di se stessi e quindi hanno potere assoluto su ogni scelta e decisione, pienamente responsabili di meriti e insuccessi. Ma che peso hanno i giovani nelle imprese più strutturate? Piuma, a giudicare dai numeri. Nel 2013 sono state circa 410mila le cariche imprenditoriali detenute da giovani, l'equivalente di poco più del 5% del totale (quasi 7,8 milioni), con il 32% di quote rosa (132mila donne ai vertici). Inoltre il numero di imprenditori under 30 è stato ridimensionato dagli anni di crisi: nel 2008, infatti, se ne contavano 94mila in più rispetto a oggi, e in un solo anno se ne sono persi 16mila.
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