Corriere della Sera “Il Club de La Lettura”
Il capitale umano di Volponi
Ritratto dell’autore nato 90 anni fa
Il letterato con la cultura dell’artigiano Aperto al mondo, dolcemente nevrotico
Nel suo studio lucente non incuteva soggezione al giovane giornalista che lo incontrava per la prima volta quell’alto dirigente dell’Olivetti di Ivrea. Sembrava un compagno di scuola, uno di quelli che arrivavano dalla campagna dopo gli altri perché il treno era sempre in ritardo. Sorrideva, là dentro, tra i vetri e gli specchi, Paolo Volponi, con la sua testa contadina simile a un cubo, i capelli tagliati corti, gli occhi tondi, un buco nel mento, sorridente, del tutto diverso nel vestire, anche allora, più di quarant’anni fa, dai manager acchittati, figuriamoci dai finanzieri e dagli uomini di potere di oggi.
Lo studio dell’avvocato Volponi, direttore dei servizi sociali e culturali della Olivetti, era al primo piano del palazzo della direzione. Ci si arrivava da una scala di marmo, una gigantesca chiocciola che conduceva a una cupola rivestita da un mosaico di cristalli sfaccettati. Si vedeva guardando in su, sembrava un padiglione delle meraviglie o anche la specola di un astronomo.
Parlava con semplicità, Volponi, con infinita naturalezza. Dovevo fargli un’intervista sul suo romanzo La macchina mondiale, appena uscito, la storia di un filosofo contadino dei dintorni di Urbino, un autodidatta, uno spostato, autore di un trattato sulla genesi e la palingenesi del mondo, con l’ambizione di redimere gli uomini, di spronarli a ribellarsi alle istituzioni invecchiate a causa delle incessanti scoperte della scienza, vuote cornici di un mondo inesistente.
Anteo Crocioni, il protagonista del romanzo, è al bando della società, perseguitato dalle loro eccellenze, dai preti, dai governanti, dai padroni, dai giudici. Il suo desiderio di rinnovare la gran macchina dell’universo lo fa sembrare un povero matto più che un uomo che chiede giustizia. Fino a che punto Anteo Crocioni è il ritratto dello scrittore? Come domandarglielo nella timidezza di allora? Quel ribelle rappresenta la salvazione del mondo? Che ruolo poteva giocare la fabbrica dalla faccia bella creata da Adriano Olivetti, grande maestro di Volponi, industriale e uomo anomalo di vivida intelligenza, uno che vedeva l’industria al di là dell’indice dei profitti?
Volponi faceva dei disegnetti nervosi su un foglio e dal suo sguardo si capiva che voleva parlare subito, impaziente. Sì, era convinto che i ribelli fossero il lievito della terra, gli unici a possedere la forza e il coraggio di protestare, al contrario dei più che non osano neppure criticare ciò che di orribile si trovano davanti agli occhi e subiscono tutto, impauriti, impiccati alla carriera, al guadagno, al successo. È la nevrosi la coscienza critica del mondo, la salvatrice. I ribelli dei suoi romanzi erano uomini liberi proprio perché nevrotici, mi disse di furia, come liberato da un peso.
In un’avvertenza in esergo a quel romanzo l’autore confidava ai lettori che le idee del protagonista erano del signor P.M.V., l’inventore del famoso trattato sulla salvezza del mondo. Era sembrata una trovata, un artificio letterario. Quel P.M.V. assomigliava troppo, infatti, al nome e al cognome di Paolo Volponi, soltanto con una M. in più. Paolo Maria Volponi?
Chiesi allo scrittore di svelarmi il mistero. L’uomo del trattato esisteva veramente, era un marchigiano che viveva in Piemonte e la sua idea degli uomini costruiti come macchine aveva fatto da molla al suo lavoro.
Anteo Crocioni lesse il mio articolo e ne fu soddisfatto. Era in prigione a Fermo, nelle Marche, non ricordo per quale piccolo reato. Si chiamava Pietro Maria Vallasciani, P.M.V.. Mi scrisse, mi mandò il suo trattato, era voglioso di discuterne. Ottenni l’autorizzazione a fargli visita, ma non ce ne fu bisogno, uscì quasi subito dal carcere e ci incontrammo a Ivrea una sera a cena con Volponi.
I due si assomigliavano davvero come gocce d’acqua. Lo stesso volto, lo stesso modo di parlare. Mentre Vallasciani mangiava una bistecca e beveva volentieri del buon vino delle Langhe, mi venne il dubbio di vivere dentro un’allucinazione. Sedevo a tavola con il diavolo salito in collina a bere il dolcetto d’Alba?
Era uno dei geniali inventori che popolano il mondo. L’universo, secondo lui, non era altro che una grandissima macchina con gli uomini dentro che hanno la funzione di anima pensante. Pietro Maria Vallasciani, nato quarant’anni prima a Grottazzolina, in provincia di Ascoli Piceno, dalla vita inquieta e tribolata, aveva inondato il mondo con quel suo trattato, l’aveva inviato alle università, alle accademie delle scienze, ai professori di cibernetica in Italia, negli Stati Uniti, altrove. Qualcuno gli aveva dato retta, l’Università di Bristol, il Massachusetts Institute of Technology di Boston, poi tutto era andato a monte e P.M.V. si era sentito vittima del fato. Ero io adesso l’ultima speranza. Mi scrisse per qualche anno delle raccomandate espresso gonfie di fogli protocollo di quelli che si usavano e forse si usano ancora a scuola per i compiti in classe. Mi mandava disegni, aggiunte, codicilli. Non si stancava di illustrarmi la sua macchina creatrice del mondo, appassionato, ossessivo. Ho conservato le sue lettere in una scatola. In cantina.
Paolo era un uomo dolce e insieme furioso, tenero e nevrotico, un ossimoro vivente. Diventammo amici, da quella prima volta che lo incontrai a Ivrea fino al termine doloroso della vita, nel 1994. Andammo spesso, nei decenni, in giro per le strade delle città, Milano, Roma, Torino. A Urbino la sua casa era lungo le vecchie mura, il nonno, poi il padre, possedevano non lontano un’antica fornace di mattoni. Il lanciatore di giavellotto, il suo romanzo più autobiografico, racconta della cava di argilla, sulla sponda bassa e destra del Metauro, racconta il mestiere del vasaio, gli orci pronti per la cottura.
Urbino, dove nacque il 6 febbraio di novant’anni fa, era la patria dell’infanzia e della giovinezza da cui, come i personaggi di Cechov e anche di Fellini, bisognava a un certo momento della vita fuggire nel mondo. Era il posto della pittura amata, dell’ombra di Federico di Montefeltro, del Palazzo Ducale e della Storia, anche se da 500 anni si era fermata, come soleva dire Paolo.
Le radici dei suoi amori erano tutte interrate nella città natale, la natura, la campagna, certi simboli della civiltà contadina, le ragioni del conflitto tra città e campagna, il potere e l’uomo e anche la vita semplice, chiacchierare in piazza con gli uomini e con le donne che si conoscono da una vita. Si era laureato in Giurisprudenza, il primo a studiare in famiglia, collaborava a riviste importanti come «Officina», fondata da Leonetti, Pasolini e Roversi, ma non si considerava un letterato, non era mai stato uno studente modello, alla scuola aveva preferito il gioco con i compagni del rione San Polo, era già allora amico degli sbandati, dei figli di nessuno, del mondo dei lumpen d’epoca, passava ore nelle botteghe dei falegnami e dove si ferravano i cavalli. Confessava di aver letto poco, Anna Karenina, Delitto e castigo, Oblomov, I Malavoglia. Era stato Pasolini, molti anni dopo, a mettergli in mano dei libri, a spiegargli come doveva leggerli. Amava lo sport, era un grande tifoso di Coppi e del Bologna, lo squadrone che tremare il mondo fa. L’acrobatico Pascutti era il suo idolo.
La scuola l’aveva frequentata fuori della scuola. Ma quando Adriano Olivetti, curioso della sua radice artigiana, l’aveva interrogato per un’ora e mezzo, aveva subito capito che quel poeta visionario sapeva bene che cosa è il lavoro, la fatica di chi lo fa, sapeva dov’è la miseria e qual è il modo per estirparla dalla vita dell’uomo: l’aveva imparato da ragazzo di strada rimandato ogni anno in più materie, anche se poi, a ottobre, riusciva sempre a cavarsela. Volponi fu assunto, andò a lavorare nel 1950 all’Unrra Casas di cui Olivetti era il presidente. Un’esperienza nodale. Trasformato in sociologo, in economista, fu inviato nel Sud per capire lo stato di quelle regioni, in Abruzzo, in Calabria, in Sicilia e poi a Matera dove conobbe Carlo Levi e Rocco Scotellaro, incontri per lui decisivi, diceva. Erano anni di speranza, nel nome di un’Italia che doveva nascere e non nacque, a partire proprio dal Mezzogiorno con il suo carico di dolore e di morte.
Nel 1956 approdò alla Olivetti di Ivrea, si occupava degli asili, delle colonie, delle case, dell’assistenza medica, della mensa, abitava sulla collina, si sposò allora con Giovina Jannello, donna di grande intelligenza, il puntello della sua vita, che dal 1956 fu l’assistente personale, prestigiosa e colta, di Adriano.
La sorella minore di Paolo, Maria Luisa, era la madre badessa delle Clarisse di Urbania, una donna energica che, come in una novella trecentesca, aveva dato del filo da torcere anche ai frati di un vicino monastero. Non lontano dal convento «della Volponi», come la chiamavano le monache, c’è la chiesa della Compagnia della buona morte dove sono esposte le mummie di 12 uomini e di 6 donne, morti nel Seicento, che i turisti possono vedere, angosciati o ammirati per la buona conservazione dei corpi nudi. Non è un’immagine serena — «Vieni dolce morte» — uno spettacolo macabro, piuttosto, che rassomiglia in piccolo a quello orripilante delle Catacombe dei Cappuccini di Palermo. Chissà se per Paolo — non gliel’ho mai chiesto — anche quello rappresentava per lui un reperto visivo del secolo prediletto nella sua affannosa ricerca pittorica, il secolo del Caravaggio e di Guido Reni che secondo il giudizio di un critico che lo conosceva bene, Massimo Raffaeli, nutriva coi suoi lampi corruschi, tra luci e ombre, anche i suoi grandi romanzi, Corporale, per esempio.
Accompagnavo Paolo nei suoi giri antiquari, a Roma in via del Babuino e in via dei Coronari, a Milano in corso Matteotti, in via Sant’Andrea, in corso Magenta e anche nei mercatini delle pulci. Non si faceva mancare certe aste. A Londra acquistò 11 quadri: «Non ti domandi come potrò pagarli? — scrisse a un amico —. Anzi chi li pagherà? La mia sfrenata incoscienza da sola non basta. Ma il gusto di scoprire e di battere da Sotheby’s o Christie’s è vertiginoso».
I quadri erano per lui una droga. Le nostre passeggiate prima di sera non erano mai noiose, certe volte spassose. Aveva gli occhi acuti, vedeva quel che gli altri non vedevano, gli bastava lo spicchio di un dipinto in una vetrina per capire. Se sul nostro cammino compariva una bella donna, Paolo dimenticava le arti figurative, guardava, riguardava, si voltava di nuovo a riguardare impudico, poi, sconsolato, levava le braccia al cielo. Il suo cruccio era sempre lo stesso. Chi potrà godere di quell’inestimabile bene? Corporale anch’esso come il suo famoso romanzo.
La sua casa, a Milano, dava sul Parco Sempione e sembrava un museo. Aveva raccolto lì dentro i suoi preziosi dipinti, tredici tavole e tele, tra il Trecento e il Seicento, che donò nel 1991 alla Galleria nazionale delle Marche dedicando la collezione al giovane figlio Roberto morto tragicamente in un incidente aereo a Cuba due anni prima. La moglie Giovina e la figlia Caterina hanno donato poi, nel 2003, altre otto tele secentesche. Opere tutte di alto livello artistico, Guercino, Gentileschi, Ribera, Guido Reni, Salvator Rosa, Battistello Caracciolo.
Sembra che da quei quadri, in mostra ora al Palazzo Ducale di Urbino, spuntino vive le figure dei suoi Albino Saluggia, Anteo Crocioni, Gerolamo Aspri, vittime del Seicento manzoniano, ribelli di oggi, nostri contemporanei.
Paolo parlava malvolentieri degli ultimi eventi della vita che gli erano costati dolore, scoramento, delusione, pena: dall’esclusione dall’amata Olivetti, al licenziamento dalla Fondazione Agnelli dopo la dichiarazione di voto per il Pci nel 1975. Parlava raramente, tra il drammatico e il burlesco, com’era nel suo stile, anche della sua vita politica che aveva sentito come un dovere civile, senatore indipendente dal 1983 nelle liste del Pci per due legislature, poi deputato di Rifondazione comunista, dal 1992 alle dimissioni, gravemente ammalato, un anno prima della morte il 23 agosto 1994.
Il suo ultimo gran libro, Le mosche del capitale, dedicato a Adriano, «maestro dell’industria mondiale», esce nel maggio 1989. Nel romanzo, Bruto Saraccini è un Paolo mascherato, Donna Fulgenzia è Giovanni Agnelli, Nasàpeti è Bruno Visentini, il presidente della Olivetti che l’aveva costretto ad andarsene dall’azienda dopo averlo nominato amministratore delegato. Ma le sue pagine, più che una vendetta, sono una cruda allegoria di un universo industriale devastato e avido, specchio di tante speranze fallite.
Paolo Volponi è stato un uomo integro del Novecento. I suoi libri, forse dimenticati, dovrebbero essere invece breviari per il nostro incerto presente. Scrittore di grandi passioni, ha mantenuto intatto il suo rispetto per l’uomo, il suo desiderio di giustizia sociale, la sua fede nella letteratura, «uno degli strumenti», mi disse una volta, «il più grande forse, di comprensione del mondo». Ha conservato, fino alla fine, nonostante tutto, affetto e anche un po’ di speranza per l’umile Italia. Non si è mai arreso.
Corrado Stajano
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