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Autore Discussione: Per tagliare il debito pubblico italiano occorrerebbe privatizzare Marte.  (Letto 1832 volte)
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« inserito:: Febbraio 09, 2014, 05:23:01 pm »

«Dire che la privatizzazione, e quale privatizzazione, di Poste italiane serva a tagliare il debito pubblico italiano non è solo ridicolo ma anche offensivo.
Per tagliare il debito pubblico italiano occorrerebbe privatizzare Marte.
Si sia onesti e si dica che questo tipo di privatizzazioni serve a tappare dei buchetti e casomai a rendere più efficiente il sistema, obiettivo comunque non secondario delle privatizzazioni».


Il Professor Carlo Alberto Carnevale dell'Università Bocconi è come un fiume in piena nella trasmissione Caffè affari di venerdì 31 su Class Cnbc. Chi lo conosce non se ne meraviglia. Ma chi non lo conosce ha sicuramente apprezzato la passione con cui ha detto una sacrosanta verità, che il presidente del Consiglio, Enrico Letta, e il ministro dell'Economia, Fabrizio Saccomanni, non dovrebbero dimenticare. Il Paese ha bisogno di messaggi chiari e corrispondenti alla realtà. Non di parole, che proprio per la loro distanza dalla realtà non hanno la possibilità di essere credute e di ridare fiducia ai cittadini.

Aggiunge Andrea Monorchio, mitico ex Ragioniere generale dello Stato e oggi, fra l'altro, vicepresidente di Banca popolare di Vicenza: «Non si è ancora capito che occorre creare un fondo unico e immettervi tutto ciò che è da privatizzare, non solo le poche aziende rimaste nelle mani dello stato ma anche tutte le municipalizzate e i circa 400 miliardi di immobili, che lo Stato ha passato agli enti territoriali, i quali, concorrendo al debito pubblico per oltre 400 miliardi, hanno il dovere di conferire questi beni al Fondo Italia».

Perché un fondo unico? Perché immediatamente dopo la costituzione e i conferimenti, si devono trovare investitori capaci di acquisire quote del fondo, che gestito da mani professionali potrà valorizzare tutti gli asset conferiti. A investire possono essere compagnie di assicurazioni, fondi previdenziali e investitori istituzionali, non solo la Cassa depositi e prestiti, per far sì che lo Stato possa iscrivere un sostanzioso taglio del debito. Se si pensa che nel mondo ci sono giganti come il fondo BlackRock, che gestiscono un patrimonio quasi doppio di tutto il debito italiano, non è impossibile trovare gestori del Fondo Italia, che usufruirebbe immediatamente di alta professionalità e quindi della possibilità di valorizzare quegli asset.

In questo modo il debito potrebbe essere tagliato immediatamente di 200-300 miliardi, innescando finalmente un circolo virtuoso dove il risparmio di interessi sui tassi di interesse diventerebbe un tesoretto da impiegare per ridurre drasticamente il livello di tassazione e per fare investimenti in infrastrutture, come raccomandava la settimana scorsa il professor Lawrence Summers dell'Università di Harvard: che cosa si aspetta a rifare l'aeroporto JFK di New York ormai obsoleto, visto che i tassi di interesse sono ancora molto bassi e si può ottenere denaro in via ordinaria anche al 3%?

Se chiede questo uno dei più stimati professori di Harvard per gli Stati Uniti, dove il Pil è cresciuto nel 2013 (ultimo dato) del 3,2%, che cosa dovrebbero gridare e reclamare dal governo gli economisti italiani? Basta camminare per le vie di New York, anche negli ultimi giorni di gelo polare, per capire come gli Stati Uniti si siano ripresi alla grande. La più grave crisi finanziaria e poi economica dell'umanità è stata provocata dagli abusi finanziari made in Usa, ma il presidente Barack Obama non si è soffermato su manovrine. Ha preso di petto il problema della crescita che era caduta in recessione e la conseguente disoccupazione. Lo ha fatto sottoscrivendo, tramite il Tesoro, nuovo capitale delle banche in difficoltà, facendo prestiti alle due case automobilistiche più disastrate, GM e Chrysler, concordando con la Federal Bank la più spettacolare immissione di liquidità nel sistema con il riacquisto di titoli di Stato. Mentre il presidente Obama sottoponeva gli Stati Uniti a una cura da cavallo, in Europa la cancelliera Angela Merkel si faceva pregare per dare un aiuto di pochi miliardi di euro alla Grecia, decidendosi a fare qualcosa solo quando le arrivò di notte una telefonata dura dello stesso Obama.

Il Tesoro Usa, rivendendo sul mercato il capitale delle banche salvate, ha fatto buoni profitti; dalle case automobilistiche ha ricevuto indietro quasi tutti i dollari prestati più gli interessi. Nonostante ciò i rigoristi europei, quasi tutti di lingua inglese, criticavano Obama e il presidente della Fed, Ben Bernanke, perché con tutti i dollari che riversavano sul mercato, stavano creando le premesse di una inflazione colossale e di una nuova bolla finanziaria. Visione miope e distorta, perché con la recessione che girava per il mondo occidentale il pericolo di inflazione era impossibile; così la Fed ha anche portato sotto zero il costo del denaro, incentivando gli imprenditori e le famiglie a chiedere prestiti per investimenti e consumi, senza la crescita dei quali non ci può essere ripresa.

Una delle banche più importanti degli Stati Uniti, JP Morgan, può così tuttora, anche nelle sue filiali estere, prestare denaro a tassi irrisori a chi deposita titoli obbligazionari, consentendo così o di lucrare non poco con l'investimento in titoli del debito pubblico europeo oppure effettuando investimenti a costo bassissimo.

Se si torna in Europa, si assiste al paradosso che il ceo di Unicredit, oggi il banchiere più professionale e solido del Paese, non smette di ricordare: e cioè che mentre la banca in Germania raccoglie denaro a tassi molto bassi non può poi usarli, per divieto della Bundesbank, per prestarli in Italia alle aziende e alle famiglie. Con l'aggravante che non può neppure prestare quei capitali alle aziende tedesche, perché la maggior parte di quelle affidabili è piena di liquidità, riflessa nell'assurdo surplus della Germania.

Ora il mondo che prima criticava Obama e Bernanke per l'enorme immissione di liquidità nel sistema onde ridare slancio alla crescita è diventato critico perché nella sua ultima conferenza stampa da presidente della Fed il capo della Banca centrale americana (che viene sostituito in questi giorni dalla sua numero due, Janet Yellen) ha annunciato un'ulteriore riduzione delle immissioni di liquidità, dopo la prima di un mese fa. Questa volta chi gridava al pericolo di inflazione (soprattutto in lingua tedesca) ora capisce che con quella politica gli Usa sono usciti alla grande dalla crisi, hanno un dollaro che rende competitive le merci americane (poiché paga tassi di interesse assai più bassi dell'euro e quindi è sottovalutato rispetto alla moneta europea) mentre l'Europa è al palo e in Germania si comincia a temere la deflazione.

Detto in sintesi, la crisi è stata provocata dal mondo finanziario americano, ma gli Stati Uniti hanno saputo uscirne prima degli altri e ora stanno tornando a essere i leader del mondo. L'aspetto più interessante è che una componente importante della ripresa è stata la reindustrializzazione manifatturiera del Paese. La flessibilità del sistema ha fatto sì che sia ritornato conveniente produrre in Usa ciò che era stato delocalizzato. Ma la vittoria più grande degli Usa, che non a caso Obama ha esaltato chiamando per nome e cognome le aziende di questo enorme fenomeno, è stato il grande salto tecnologico. Google, Facebook, Twitter... Tecnologia inarrivabile dagli altri Paesi perché nei dormitori di Harvard, di Stanford, del Mit ci sono giovani di tutte le nazionalità che si ingegnano per seguire il sogno realizzato dai fondatori dei grandi colossi digitali. Un così grande gap rispetto agli altri Paesi da consentire a Google di rivendere a Lenovo, perdendoci, la possibilità di costruire telefonini con il marchio Motorola, pagato 9 miliardi e rivenduto a 2,9 miliardi di dollari.

Se a ciò si aggiunge che gli Usa hanno praticamente raggiunto l'indipendenza energetica grazie anche alla scoperta e alla messa a punto di estrazione di gas di scisto dalle rocce (shale gas) con un costo infinitesimale rispetto all'estrazione tradizionale, si comprende bene come gli Usa siano tornati a fare da attrazione a capitali di tutto il mondo. Nell'aeroporto JFK effettivamente si respira aria stantia di un impianto datato molti decenni, ma la quantità di volti di tutte le razze che vi arrivano e partono è impressionante. Al terminal 4 si assiste perfino alla convivenza ravvicinatissima fra la israeliana El Al e l'araba Emirates. Gli ebrei ortodossi convivono con i ricchissimi arabi che ostentano la loro ricchezza, anche se a ogni angolo c'è un poliziotto con un grande mitra permanentemente in mano. La Grande Mela, insomma, è tornata a profumare e a essere l'ombelico del mondo. Anche per i cinesi.

Si era diffusa la voce che la Cina avesse significativamente ridotto l'investimento dei suoi 1.300 miliardi di riserve in titoli del Tesoro americano. La recente uscita del capo dei gestori di queste riserve, vissuto in Usa per 20 anni alla Pimco, MohamedEl Erian, ha fatto emergere i numeri, per una sorta di valutazione del suo operato. Gli investimenti in debito americano sono saliti, anche se di soli 12 milioni. Se anche i più accorti investitori del mondo, la oligarchia cinese, investe ancora in dollari non si può non concludere che gli Stati Uniti sono tornati davvero il Paese più attraente per i capitali. Quindi non è difficile immaginare che la crescita anche nel 2014 sarà sostenuta.

E l'Italia? E l'Europa?

Le università italiane non hanno sfornato e non stanno sfornando cervelli in grado di competere con le menti più avanzate americane non per un gap personale, ma per le drammatiche condizioni del Paese. La fuga di cervelli ha come effetto immediato un ulteriore gap su tutti i fronti. Ma è inevitabile che sia così, se nessun governo italiano (ed europeo) riesce a capire che la cura deve essere da cavallo come quella somministrata da Obama e Bernanke all'economia statunitense.

La speranza, oggi, specialmente per l'Italia, è una sola: che Matteo Renzi non sia disinnescato nel suo energico operare dalla inefficiente e parassitaria burocrazia, che in primo luogo è quella degli alti burocrati che fanno il bello e cattivo tempo al di là di qualsiasi governo e qualsiasi ministro. Non è la prima volta che viene scritto su queste colonne, ma Franco Bassanini e Giuliano Amato (prima della sua nomina alla Corte Costituzionale) avevano, con il loro centro ricerche, messo a punto il sistema per far incassare alle aziende i 120 miliardi di crediti che vantano dallo Stato: bastava che lo Stato li riconoscesse e quei crediti sarebbero stati immediatamente scontabili in banca, visto che per le norme di Bankitalia, giustamente, un debito garantito dallo Stato non presenta rischio e quindi non consuma capitale delle banche nel rapporto che devono mantenere fra mezzi propri e denaro prestato. Letta aveva approvato il progetto; Saccomanni pure; appena la pratica è arrivata alla prima linea della Ragioneria dello Stato, è stato immediatamente bloccato da burocrati pavidi o peggio.

Caro Matteo, appena avrai portato a casa la nuova legge elettorale, dedica ogni energia a una rottamazione dell'alta (e anche della bassa) burocrazia. Chiedi al ministro Maurizio Lupi come ha fatto a rifiutare il capo di gabinetto che la casa gli aveva preparato e come ha fatto a sceglierne uno efficiente, riuscendo anche a cambiare il direttore generale del ministero. Una esperienza positiva da clonare. (riproduzione riservata)

Paolo Panerai

Da - http://www.milanofinanza.it/talkback/orsietori.asp
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