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« inserito:: Ottobre 08, 2007, 10:33:40 pm » |
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Galeano: «Sostengo Chavez ma ora basta con la retorica»
Leonardo Sacchetti
«Ho dedicato la mia vita e i miei scritti a raccontare gli ultimi. Ma l’errore più frequente è quello di non ascoltarli o, peggio ancora, assumersi il ruolo di dare loro voce. Non mi fido di chi parla per loro: gli invisibili non ne hanno bisogno». È dagli «invisibili», dagli ultimi dell’America Latina e non solo che lo scrittore uruguayano Eduardo Galeano inizia questa intervista in esclusiva per l’Unità, poco prima di ricevere il premio «Tom Benettollo», il compianto ex-presidente dell’Arci, organizzato dall’associazione Punto Critico a Viareggio. «Nei caffè di Montevideo ho imparato una cosa semplice: per non essere muto, devi iniziare con il non essere sordo», dice Galeano parlando del suo «mestiere» di giornalista, scrittore e storico degli «invisibili».
La prima domanda è legata a questa giornata: 8 ottobre, 40 anni dalla morte di Ernesto Che Guevara. Uno dei simboli più usati o abusati per raccontare gli ultimi? «Entrambe le cose. A 40 anni dal suo assassinio, la figura del "Che", quella della foto di Alberto Korda, è ormai ovunque. È un gadget ma anche un simbolo per gli ultimi. Credo però che la società del consumo si sbagli: non è vendendo magliette col suo volto che lo trasformerà in una pubblicità. È una diffusione pericolosa per il consumismo perché la chiave di questo successo commerciale sta in una dote del "Che": la semplicità. Era una persona eccezionale che faceva quel che diceva e pensava. Una rarità che continua ad avere una potente carica rivoluzionaria».
La globalizzazione che tutto ingoia e digerisce? «Certo, ma non solo. Il peggior vizio dei politici e di noi intellettuali, oggi, è quelo di dare ordini alla realtà e di arrabbiarci quando questa non segue quel che diciamo. È un periodo in cui tutto sembra irrefrenabile».
Forse è questione di alternative. Lei ha sempre difeso l’esperienza di Hugo Chavez. Non crede che le ultime riforme (presidenza vitalizia, partito unico, ecc) rischino di portare alla deriva il Venezuela? «Ho sempre apprezzato il tentativo del presidente venezualano di trasformare, caso unico nella storia, un paese ricco di petrolio in un paese generoso. Ma è anche vero che reputo fondamentale poter criticare anche le cose che ci piacciono. Nel caso di queste nuove riforme proposte da Chavez lo faccio. Parlare di presidenza vitalizia o di partito unico mi riporta a esperienze del XX secolo sconfitte e che hanno prodotto tragedie e questo immobilismo in cui adesso ci troviamo. Penso che siano passaggi sbagliati, come il ripetuto uso di slogan che assomigliano a pubblicità per pompe funebri. "Socialismo o morte", "Patria o morte": sono esempi, anche da Cuba, che riportano a quegli inni nazionali che invitano ad uccidere e basta. Forse è l’ora di farla finita con questa retorica. Detto questo, non posso negare che Chavez stia portando avanti una delle poche esperienze alternative, dopo essersi sottoposto a ben nove elezioni democratiche. Appoggio questa esperienza perché è riuscita a far dire a un disperato di Caracas: oggi non sono più invisibile».
In America Latina ci sono altre alternative, forse più moderate, rispetto al modello neo-liberista. Che giudizio dà al governo uruguayano di centrosinistra guidato da Tabaré Vazquez? «Il giudizio è positivo anche se non mi piace vedere il mio paese sulla strada di trasformarsi nella cartiera del continente. Questa industria è dannosa per l’ambiente e non mi stancherò di criticare Tabaré per questo. La cosa che mi sembra più innovativa della sua esperienza è quella legata alla coalizione che l’appoggia: il Frente Amplio. A differenza di voglie da partito unico, la sinistra uruguayana è stata capace di federarsi. Questa è un’alternativa».
In Cile, la presidente socialista Michelle Bachelet viene criticata da sinistra, così come Lula in Brasile. Perché? «È come se esperienze di centrosinistra, una volta al potere, si siano trasformate in esperienze di centro. Ma non penso sia una critica da rivolgere solo ai leader. Il nostro è il tempo della sfiducia: la sfiducia nel cambiamento, quasi la paura di poter cambiare. Tempo fa, su un muro di Quito, capitale dell’Ecuador, vidi una scritta illuminante: "Quando avevamo tutte le risposte, ci hanno cambiato tutte le domande". Oggi essere realisti è essere cinici. Ma sono fiducioso: non durerà ancora per molto».
Da dove le viene questo suo ottimismo? «Dalla rottura del monopolio della storia vista dall’Europa e dall’Occidente. Su questo tema sto per finire il mio ultimo lavoro: si tratta di una Storia Universale degli Invisibili, una sorta di seguito delle mie Memorie del Fuoco. È scrivendo di loro, delle donne dimenticate della Rivoluzione Francese, dei cinesi di oggi, degli indigeni di ieri, che sento come il cambiamento non possa più aspettare. Il riflettore della storia non potrà continuare a illuminare solo il centro del palco: gli invisibili sono i veri protagonisti».
Pubblicato il: 08.10.07 Modificato il: 08.10.07 alle ore 9.33 © l'Unità.
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