LA-U dell'OLIVO
Novembre 22, 2024, 03:24:14 pm *
Benvenuto! Accedi o registrati.

Accesso con nome utente, password e durata della sessione
Notizie:
 
   Home   Guida Ricerca Agenda Accedi Registrati  
Pagine: [1]
  Stampa  
Autore Discussione: Moravia: una religione chiamata comunismo (ma le religioni imprigionano! ndr.).  (Letto 3226 volte)
Admin
Utente non iscritto
« inserito:: Ottobre 08, 2007, 11:10:32 am »

Il manoscritto ritrovato

Moravia: una religione chiamata comunismo

«L'unica religione possibile per gli intellettuali»

Comunismo come fede: romanzo inedito di Moravia


Appena finita la guerra si verificarono nella mia vita due avvenimenti importanti. Il primo fu che mi iscrissi al Partito comunista. Immagino che ogni uomo agisca per motivi al tempo stesso interessati e disinteressati, personali e impersonali. I motivi disinteressati della mia iscrizione al Partito (lo chiamerò d'ora in poi così senza aggiungere la parola comunista, per noi comunisti il Partito comunista è il partito, senza più) non differiscono granché da quelli di tanti che in quel periodo fecero lo stesso passo (...)

Parlare di questi motivi disinteressati mi sembra inutile, perché io qui intraprendo di raccontare una storia molto personale che mi permetterà di definirmi di fronte a me stesso e agli altri e i motivi disinteressati, appunto perché tali, non hanno mai definito nessuno e sono sempre stati invece patrimonio comune di tutti gli uomini. Mi basti dunque affermare che mi iscrissi al partito in perfetta buona fede, con sufficiente entusiasmo sentimentale e buona conoscenza dottrinaria. Quanto ai motivi interessati essi furono parecchi ed esaminandoli mi accorgo che tutti più o meno mi riconducono a Maurizio e ai miei rapporti con Maurizio. Ma andiamo per ordine, la materia è ricca e in un certo modo strana e nuova, senza un criterio di scelta secondo importanza non mi riuscirà mai di dipanarla. Dunque, cominciando dal principio, tra le tante cose che Maurizio ogni tanto mi rinfacciava nella sua maniera accondiscendente e sarcastica era il mio carattere, diceva lui, di intellettuale. Spesso, gli avveniva di dirmi «Voialtri intellettuali », oppure «tu che sei quello che volgarmente si chiama un intellettuale»; oppure ancora «non sei che un intellettuale». Debbo dire a questo punto che non ci sarebbe stato bisogno di Maurizio per farmi odiare la parola intellettuale. Essa, un po' come la parola «borghese» e tante altre, si è deteriorata col tempo, si è caricata di significati negativi che prima non aveva: oggi è quasi un insulto e non c'è persona che sentendosela affibbiare non provi l'impulso di protestare. Ma ciò che mi dispiaceva era che fosse proprio lui a dirmelo, lui per il quale, irragionevolmente, provavo tanta attrazione, che stimavo tanto non meno irragionevolmente e di cui insomma volevo diventare amico.

D'altra parte, mi rendevo conto che sia pure in maniera sfavorevole e maligna, Maurizio diceva in fondo la verità: io ero, senza ombra di dubbio, quello che si chiama di solito un intellettuale. Ossia una persona colta ma povera e perciò incapace di far della cultura un mero ornamento e passatempo, costretto per campare a fare il critico cinematografico in un giornale di terz'ordine, a tradurre libri gialli, a scrivere articoli di varietà, in fondo ozioso seppure attivo, eternamente disoccupato seppure occupatissimo. Ma non basta, anche nel fisico, come egli mi fece notare più volte, ero un perfetto tipo di intellettuale: piuttosto piccolo di statura, arruffato nei capelli, occhialuto, vestito di maglioni sportivi in luogo di camicia, le tasche piene di carte, i pantaloni sfrangiati, le scarpe infangate. Ero dunque un intellettuale in tutto e per tutto e sapevo di esserlo. Perché allora sentirmelo dire da Maurizio mi offendeva tanto? Ho già accennato che la parola intellettuale è di per sé ormai ingiuriosa; aggiungerò che mi sentivo anche ferito dal fatto che Maurizio, adoperandola, mostrasse di non aver dubbi sul vero esser mio, di avermi classificato per sempre, una volta per tutte. In altri termini, agli occhi suoi, io non riserbavo più sorprese, ero un intellettuale, e qualunque cosa facessi non avrei potuto mai comportarmi che da intellettuale. Mancavo insomma di quella libertà che permette un margine di autonomia e di imprevisto nei rapporti umani e consente di farli uscire dalla mortificante rotaia dei meccanismi e delle abitudini.

Questo ancor più che il senso ingiurioso della parola intellettuale mi feriva; e suppongo che tra i motivi interessati della mia iscrizione al partito comunista ci fosse anche quello di essere in grado di dirgli: «Tu mi credevi un intellettuale... ed ecco invece che mi sono iscritto al partito... sono un comunista... che ne dici?». Mi verrà osservato a questo punto che farsi comunista non è la sola alternativa all'essere un intellettuale. Se avessi voluto cambiare, infatti, avrei potuto egualmente diventare, che so io, impiegato, esploratore, operaio, aviatore. È vero; ma non bisogna dimenticare che nel contegno di Maurizio verso di me, in quella sua accondiscendenza sprezzante e puntigliosa, c'entrava per molta parte un complesso, come si dice, di superiorità di chiara origine sociale: lui era ricco e io povero, lui di famiglia nota e potente, io di oscura piccola borghesia, lui elegante ben vestito mondano, io malvestito, oscuro, goffo. Senza confessarmelo forse, io mi feci comunista anche per trovarmi in una posizione accusatoria e superiore di fronte a Maurizio, anche per potergli dire: «Non soltanto non sono un intellettuale come tu dicevi, ma sono anche qualcuno che può dirti in faccia, che ha il diritto di dirti in faccia che sei condannato, che appartieni a una classe condannata, che tutti i tuoi soldi, la tua mondanità, la tua eleganza, le tue arie non ti salveranno il giorno del giudizio e che questo giorno è prossimo e che in questo giorno tu sarai pesato sulla bilancia e sarai trovato mancante e sarai buttato via tra i rifiuti, come una spazzatura». Queste cose non tanto le pensavo quanto le sentivo, con estrema vivacità, mescolate, però, sempre a quell'eterna e irragionevole attrazione che Maurizio esercitava sopra di me. Comunque questo è certamente il secondo motivo per cui mi iscrissi al partito, dico il secondo motivo personale e interessato.

Veniamo al terzo e ultimo motivo. Questo motivo, connesso con gli altri due, fu che io sentivo effettivamente di non essere abbastanza forte di fronte a Maurizio. Forte, intendo, come presenza fisica, visto che moralmente mi ritenevo molto superiore a lui. Questa presenza fisica, non potevo evidentemente crearmela: anche alzandomi in punta di piedi o gonfiando il petto non potevo diventare più alto e più robusto di quanto non fossi. (...) *** Per intendere il significato del mio incontro con Maurizio, voglio qui ripetere con enfasi che in quel tempo io ero assolutamente sicuro che una rivoluzione comunista si sarebbe prodotta al più presto in Italia; sicuro come sono adesso sicuro di scrivere queste parole. Mi pareva impossibile che le condizioni di disordine, di miseria, di corruzione e di disgregamento sociale italiane di quegli anni del dopoguerra non dovessero sboccare in una rivoluzione; non dubitavo che appena finita l'occupazione alleata, la rivoluzione sarebbe scoppiata spazzando via ogni ostacolo. Ma ancor più delle condizioni in cui si trovava il paese in quel tempo, mi sentivo portato a ritenere imminente la rivoluzione dal sentimento che custodivo in fondo al mio animo e che consideravo, tra tante passioni contraddittorie, tanta impotenza e tanta oscurità, la sola cosa ferma e luminosa della mia vita. Questo sentimento consisteva nella speranza ineffabile, rapita, quasi mistica dell'avvento di un mondo migliore in cui io stesso mi sarei sentito migliore e finalmente in pace con me stesso. (...) Immagino che sentimenti simili portino nelle persone più semplici all'esaltazione religiosa; o che portassero in altri tempi a tale esaltazione anche gli uomini di cultura. Ma io non ero una persona semplice, ero, come diceva ironicamente Maurizio, un intellettuale; inoltre non vivevo nel medioevo bensì in pieno ventesimo secolo.

Il comunismo di cui conoscevo e avevo studiato le teorie mi pareva allora dare a quel miraggio tutto l'aspetto di un piano quasi di ingegnere che con calcoli matematici e ipotesi fondate sopra esperienze e valori indiscutibili e concreti si proponga in un futuro prossimo di erigere un certo edificio. Nelle mie riflessioni diuturne avevo voltato e rivoltato per tutti i sensi le teorie comuniste; e sempre più mi ero meravigliato di vedere quanto combaciassero esattamente l'entusiasmo e il calcolo, la psicologia e la statistica, la teoria e la pratica, la storia e l'utopia, i mezzi e il fine. Mi sembrava la teoria comunista un congegno meravigliosamente ben architettato, in cui i fattori morali e umani sposavano perfettamente bene quelli materiali e scientifici. Mi dicevo dunque che in un secolo come il nostro, così legato al progresso scientifico, la teoria comunista, a fondo religioso né più né meno del cristianesimo, aveva però su quest'ultimo la superiorità di esprimersi con il linguaggio del tempo che non era appunto religioso ma scientifico. Essa insomma ripresentava al mondo il vecchio sogno di una palingenesi totale, ma possibile questa volta se era vero, come mi pareva che fosse vero, che la scienza era appunto il mezzo finalmente scoperto con il quale l'uomo poteva rinnovarsi dall'imo.

Alberto Moravia
08 ottobre 2007

da corriere.it
Registrato
Pagine: [1]
  Stampa  
 
Vai a:  

Powered by MySQL Powered by PHP Powered by SMF 1.1.21 | SMF © 2015, Simple Machines XHTML 1.0 valido! CSS valido!