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Incendio di Prato, al neocapitalismo d’Oriente non interessiamo piùdi Giorgio Meletti | 3 dicembre 2013
Quella di Prato è una tragedia sociale che riguarda più che altro la nostra sublime capacità di non vedere l’inferno dietro casa. Ma sbaglierebbe chi pensasse di vedere la Cina tra i capannoni del Macrolotto, a 20 chilometri da piazza della Signoria. La Cina è lontana e gli italiani li pensa pochissimo.
È vero che la potente industria tessile cinese, afflitta, pensate un po’, dal crescente costo del lavoro, sta delocalizzando. Ma non certo a Prato, dove c’è solo una piccola comunità che più o meno ordinatamente si sposta dalla Manciuria in cerca della sua piccola America. L’industria tessile cinese de-localizza in Bangladesh, dove gli operai tessili sono ormai quattro milioni e tutto è in proporzione: sotto l’edificio crollato a Dacca lo scorso aprile c’erano fabbriche tessili e i morti furono un migliaio e non sette, e gli operai non erano cinesi. E poi ci sono il Vietnam, la Thailandia, Paesi dove l’operaio tessile non guadagna un euro all’ora come nell’inferno di Prato, ma un euro al giorno. L’Italia è piccola e scompare nei grandi disegni del capitalismo globalizzato. Nel 2012 la Cina ha investito all’estero 65 miliardi di euro, ma solo 10 miliardi verso i Paesi sviluppati. La fetta più grossa, tre miliardi, è finita nel Nord America, un po’ meno di tre miliardi sono stati investiti in Europa, prevalentemente in Gran Bretagna e Germania. All’Italia sono rimaste le briciole.
Il grosso degli investimenti cinesi all’estero sono gestiti da enti finanziari statali come la Cic (China Investment Corporation), o da grandi aziende semipubbliche, come la Haier. Il colosso degli elettrodomestici low cost è in Italia perché, a caccia non tanto di mercati (gli italiani sono pochi) quanto di tecnologie , si è insediata nello storico distretto di Varese, accanto all’americana Whirlpool che a sua volta ha acquistato la Ignis di Giovanni Borghi. Ma sono poco meno di 200 le imprese italiane passate in mano cinese: tra esse il nome più noto è forse quello dei cantieri Ferretti, che costruiscono yacht extralusso. Si calcola che le aziende passate ai cinesi impieghino 10 mila persone e rappresentino un giro d’affari di 6 miliardi di euro. Numeri piccoli.
La vera ragnatela cinese ci gira intorno, ha puntato per tempo a Paesi instabili ma con prospettive, il Sudan, il Myanmar, l’Iran. Ha scelto l’Africa, ha investito in Sud America, ha battuto le potenze occidentali in abilità colonizzatrice. Il sistema cinese dispiega 400 miliardi di euro di investimenti diretti esteri, e sta per superare gli Stati Uniti come prima economia mondiale. Ma quei cinesi di Prato, sia le vittime sia i loro aguzzini, con questa storia non c’entrano niente.
Il pensiero unico sciovinista ci fa dimenticare che nell’economia non esistono i cinesi, come non esistono gli italiani. Ci sono invece i cinesi ricchi e ricchissimi, i mediamente soddisfatti e i milioni di disperati. Ricordiamo le proporzioni: i cinesi sono un miliardo 350 milioni circa, i 300 mila immigrati in Italia rappresentano lo 0,02 per cento di quel popolo. Non sono l’avamposto dell’onda cinese, ma solo nostri nuovi vicini di casa, piaccia a non piaccia.
Twitter: @giorgiomeletti
il Fatto Quotidiano, 3 Dicembre 2013
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