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Autore Discussione: CARLO FEDERICO GROSSO.  (Letto 44706 volte)
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« Risposta #75 inserito:: Novembre 05, 2012, 06:40:08 pm »

Editoriali
05/11/2012

Non aspettiamo che la sentenza sia definitiva

Carlo Federico Grosso


Secondo indiscrezioni, il governo starebbe lavorando alla stesura del decreto delegato sulla non candidabilità dei condannati definitivi;
l’intenzione sarebbe, addirittura, di approvare il nuovo testo legislativo in tempo utile già per le elezioni regionali di Lazio e Lombardia. 

Se la notizia fosse confermata e, soprattutto, se l’iniziativa avesse successo, si tratterebbe di una dimostrazione ulteriore di efficienza di questo esecutivo.

 

Sempre secondo le indiscrezioni ricevute, la non candidabilità conseguente alle condanne penali avrebbe natura temporanea. Essa riguarderebbe, in particolare, i soggetti condannati in via definitiva ad una pena di almeno due anni di reclusione, ed avrebbe una durata doppia rispetto alla condanna ricevuta: quattro anni di sospensione per una condanna a due anni di reclusione, sei anni di sospensione per una condanna a tre anni, e via dicendo. 

 

I reati/ostacolo ad una candidatura sarebbero stati individuati, sostanzialmente, nell’ambito di tre tipologie: quelli previsti dall’art. 51 comma 3 bis c.p.p, quelli previsti dall’art. 51 comma 3 quater c.p.p., quelli previsti dal libro II, titolo II capo I c.p.
Si tratta, fondamentalmente, delle seguenti categorie di illeciti penali: a) di reati gravissimi di tipo associativo, come le associazioni a delinquere finalizzate a commettere reati attinenti alla schiavitù delle persone, alla contraffazione di marchi o brevetti, al traffico di stupefacenti e al contrabbando, o le associazioni di tipo mafioso, nonché di reati altrettanto gravi come il sequestro di persona a scopo di estorsione e la riduzione o il mantenimento in schiavitù o in servitù e la tratta di persone; b) di reati di terrorismo; c) di tutti i delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione. 

 

Che dire di fronte a queste indiscrezioni? Un giudizio esauriente sul decreto potrà essere espresso, ovviamente, soltanto quando ci si troverà di fronte ad un testo scritto in tutti i suoi dettagli. Già ora è tuttavia possibile formulare alcune valutazioni, talune sicuramente positive, altre ispirate ad una maggiore cautela.

 

Nulla da eccepire, innanzitutto, in merito all’indicazione, fra i reati la cui condanna è di ostacolo a una candidatura politica o amministrativa, dei reati associativi più gravi, degli ulteriori reati indicati nell’art. 51 comma 3 bis c.p.p. e dei reati di terrorismo. Perché, tuttavia, tali reati, e non altri reati «comuni» altrettanto, o addirittura più gravi? Qual è il criterio in forza del quale un condannato per sequestro di persona a scopo di estorsione non può presentarsi alle elezioni e può invece, ad esempio, presentarsi l’autore di una violenza o di un altro reato contro la persona?

 

Il profilo più qualificante del decreto riguarda peraltro, sicuramente, l’inclusione, fra i reati ostacolo ad una candidatura, di tutti i delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione. Tutti, anche quelli meno gravi, come l’omissione di atti di ufficio o l’abuso di ufficio, e non soltanto il peculato, la concussione e la corruzione. Si tratta, mi sembra, di un doveroso, importante, completamento della legge anticorruzione recentemente approvata in via definitiva dal Parlamento (e che prevedeva appunto, nel suo testo, la delega al governo per la definizione delle cause d’incandidabilità).

 

Anche qui, tuttavia, una domanda è d’obbligo. Perché circoscrivere a condanne superiori a anni due di reclusione l’ostacolo a candidarsi?
Dato che i minimi edittali previsti nei confronti dei delitti contro la pubblica amministrazione non sono sempre elevati, e consentiranno frequenti condanne penali di minore entità, perché non abbassare quantomeno a un anno il livello delle condanne penali in grado di impedire di presentarsi alle elezioni? Dato che si tratta di reati commessi con abuso delle funzioni pubbliche esercitate, l’abuso mi sembrerebbe elemento di per sé in grado di impedire la sospensione temporanea del diritto di candidarsi.

 

Su un ulteriore profilo si potrebbe, infine, discutere: perché attendere, per applicare la sanzione d’incandidabilità, la sentenza definitiva, e non anticiparla invece al momento in cui viene pronunciata la sentenza di condanna di primo grado o quantomeno quella di secondo grado? Perché, mi si potrebbe rispondere, la Costituzione prevede che l’imputato deve essere presunto innocente fino alla condanna passata in giudicato, e, pertanto, fino a quel momento non lo si può ragionevolmente colpire con la limitazione di un suo diritto fondamentale. Accettiamo, nella prospettiva di questo giustificato garantismo, che le nostre assemblee elettive continuino ad essere, talvolta, zeppe di indagati e condannati di prima e di seconda istanza. Non potrebbero essere tuttavia, a questo punto, le stesse forze politiche ad autoregolamentarsi?

 

Al di là dei possibili rilievi, il testo che il governo si appresterebbe ad approvare costituisce comunque, rispetto alla situazione attuale, un grande passo avanti. Benissimo, pertanto, se esso verrà, come si prospetta, tempestivamente approvato. Che dire, tuttavia, se il governo cercasse di utilizzare gli ultimi scampoli di legislatura che l’attendono per fare approvare, magari con un decreto legge, quelle due/tre/quattro ulteriori innovazioni che renderebbero la legislazione anticorruzione davvero incisiva a tutto campo nei confronti della corruttela dilagante? 

 

Ci attendiamo dunque con ansia, dal ministro Severino, quantomeno i seguenti ulteriori provvedimenti, tutti, si badi, di agevole e rapida confezione: l’abrogazione della Cirielli (per restituire tempi ragionevoli alla prescrizione), la reintroduzione del falso in bilancio,
l’introduzione del delitto di autoriciclaggio, la riforma del voto di scambio. 

da - http://lastampa.it/2012/11/05/cultura/opinioni/editoriali/non-aspettiamo-che-la-sentenza-sia-definitiva-d1G8iMv8qVkwbgsiBDGWuM/pagina.html
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« Risposta #76 inserito:: Novembre 14, 2012, 05:40:50 pm »

Editoriali
14/11/2012

Caro Monti, non lasci sola Elsa Fornero

Gian Enrico Rusconi

Caro Presidente Monti, 

trovo incomprensibile il modo con cui Lei non reagisce ai continui indecenti attacchi contro il Suo ministro del lavoro, Elsa Fornero.
Suppongo che Lei in realtà lo abbia fatto. Ma nella comunicazione pubblica del nostro paese – come Lei ha perfettamente imparato – esiste solo ciò che si impone con prepotenza nel sistema dei media.

E mi aspettavo che lei alzasse la voce : «Chi insulta il ministro Fornero, insulta il presidente del Consiglio». Se Lei lo pensa, deve dirlo forte. Non mi fraintenda, caro Presidente. Non sto parlando dell’esasperazione delle manifestazioni pubbliche delle opinioni nel nostro paese, ma di una situazione particolare più insidiosa che cerco ora di precisare. I Suoi sostenitori, dentro e fuori il Paese, lodano l’intervento sulle pensioni e alcune misure sul lavoro come l’operazione più riuscita (forse l’unica – si spinge a dire qualcuno). Non entro nel merito di questo giudizio che credo Lei condivida. Ma anche nel caso la considerassi invece un’operazione sbagliata, iniqua o inefficace trovo inaccettabile e indecente il diverso «trattamento pubblico» riservato ai reponsabili della politica sociale che sono in solido il Presidente e il ministro. Eppure persino i competitors nelle primarie del centrosinistra hanno di fatto avallato di fronte ai loro virtuali elettori questa separazione di trattamento. 

Caro Presidente, tolga la sgradevole sensazione che ci sia un ministro parafulmine (più volgarmente sfogatoio) per le responsabilità di governo che - come tutte le persone oneste riconoscono – sono straordinariamente impegnative.

da - http://lastampa.it/2012/11/14/cultura/opinioni/editoriali/caro-monti-non-lasci-sola-elsa-fornero-yTKKW9kiAI28jmBy8KpyiP/pagina.html
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« Risposta #77 inserito:: Dicembre 02, 2012, 05:35:08 pm »

Editoriali
02/12/2012

Sallusti, se mancano politica e buonsenso

Carlo Federico Grosso


Come era prevedibile, il caso Sallusti è esploso ancora una volta. 

I fatti pregressi sono noti. Il direttore de «Il Giornale» era stato condannato alla reclusione per un reato di diffamazione commesso dal suo giornale; i giornalisti ed una parte dell’opinione pubblica aveva reagito duramente a tale condanna, giudicando assurdo usare la galera contro giornalisti e direttori ed invocando l’abolizione del carcere per la diffamazione; il Parlamento, al quale la soluzione del problema era stata affidata, non era tuttavia riuscito a trovare una soluzione condivisa, e si era avvitato in una inconcludente, quanto avvilente, sequenza di polemiche e di proposte inaccettabili. Conclusione, il blocco di qualunque decisione.

Scaduti i trenta giorni concessi per l’esecuzione della sentenza di condanna, era giocoforza che la Procura della Repubblica di Milano si muovesse. Ed essa, per contenere l’impatto esterno che l’esecuzione carceraria avrebbe provocato, ha cercato di circoscrivere i disagi, chiedendo che la reclusione fosse tramutata in arresti domiciliari (richiesta accolta dal giudice) e concedendo tutte le «libertà» ragionevolmente concedibili dato il contesto (uso del telefono, nessuna preclusione alle visite, due «ore d’aria» giornaliere, e via dicendo). 

 

Tutti sapevano, tuttavia, che Sallusti da giorni andava dicendo che mai avrebbe accettato il compromesso dei domiciliari e che, se si doveva eseguire la sentenza, essa doveva essere eseguita in carcere come avevano disposto i giudici di appello e cassazione. Una provocazione, evidentemente. Una provocazione, peraltro, assolutamente legittima da parte di chi giudicava un insulto alla libertà di stampa usare il carcere per reprimere la diffamazione ed un insulto alla intelligenza il modo scomposto con il quale il Parlamento non era riuscito a risolvere il problema di una ragionevole riforma dei delitti di diffamazione e ingiuria.

Ulteriore provocazione è stata avere atteso i poliziotti «esecutori» barricandosi nel giornale (nella cui sede aveva addirittura passato l’ultima notte di libertà), ed obbligandoli pertanto ad eseguire l’arresto nel luogo «sacrale» dell’esercizio della funzione giornalistica. Simbolicamente, un ulteriore insulto alla libertà di stampa, un po’ come, un tempo, veniva considerato un insulto alla religione ed alla pietà procedere all’arresto nei templi e nelle chiese. 

 

Detto questo, qualche parola di commento sul comportamento dei magistrati. Già in altra occasione, su questo stesso giornale, ho considerato irragionevole, se pure consentito dalla legge, condannare alla reclusione i giornalisti che hanno commesso diffamazione e, soprattutto, i direttori che, per colpa, hanno omesso di controllare il contenuto del giornale (è comunque un fatto, ho pure osservato, che le sentenze di condanna alla reclusione in materia di diffamazione a mezzo stampa si contano sulle dita di una mano, e che, normalmente, i giudici, quando ritengono esistente il reato di diffamazione, condannano, ragionevolmente, alla pena pecuniaria).

 

Nessuna questione, invece, su quanto i magistrati hanno fatto nella fase della esecuzione della sentenza. Di fronte ad un Parlamento che, si pensava, si stava muovendo per risolvere il problema con una opportuna riforma di legislazione, essi hanno, giustamente, procrastinato l’esecuzione della sentenza di condanna per tutto il tempo che la legge concedeva loro. 

 

Esaurito questo tempo, essi hanno dovuto, ovviamente, agire; ma, sempre nei limiti previsti dalla legge, hanno cercato di mitigare l’asprezza dell’esecuzione concedendo domiciliari e benefici. Quando poi, condotto coattivamente al domicilio prestabilito, Sallusti è, provocatoriamente, e per suscitare scandalo, subito uscito in strada abbandonando il luogo dove si trovava «ristretto», è scattato, inesorabile, l’arresto in flagranza. E non poteva essere altrimenti. Formalmente il condannato aveva commesso il delitto di evasione (che si applica anche a chi, essendo in stato di arresto nella propria abitazione o in altro luogo designato, se ne allontani), la flagranza imponeva l’arresto ed il processo per direttissima. Sallusti è stato quindi legittimamente (e doverosamente) riarrestato e condotto in Tribunale per i prescritti adempimenti procedurali e dovrà affrontare, di qui a poco, il processo per il nuovo reato compiuto.

 

A questo punto la giustizia seguirà il suo corso (vedremo come). La palla torna tuttavia a questo punto, inesorabilmente, al Parlamento. E vedremo allora se, di fronte ad una situazione per certi versi grottesca, ma per altri versi drammatica, avranno ancora il coraggio di baloccarsi, fra diatribe e rancori, nell’affrontare una riforma che logica vorrebbe semplice e facile: abolizione del carcere per i giornalisti e previsione di pene esclusivamente pecuniarie, possibilmente nel quadro di un processo affidato a percorsi privilegiati, dato che la vittima ha davvero ristoro soltanto se, oltre a ricevere un giusto risarcimento dei danni subiti, la condanna del diffamatore avviene in tempi non troppo lontani dalla offesa perpetrata. 

http://lastampa.it/2012/12/02/cultura/opinioni/editoriali/sallusti-se-mancano-politica-e-buonsenso-oq9oL4dvV0zePUcTWk3yjP/pagina.html
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« Risposta #78 inserito:: Luglio 19, 2014, 06:51:41 pm »

Editoriali
19/07/2014


Carlo Federico Grosso

La sentenza della Corte di Appello di Milano che, ribaltando di 360 gradi la sentenza di primo grado, ha assolto ieri Berlusconi con formula piena non può non sconcertare la gente comune. Sconcerta per il fatto in sé, in quanto difficilmente la gente può concepire che due collegi giudicanti possano valutare gli atti di uno stesso processo in modo così antitetico; sconcerta, soprattutto, stante la personalità del soggetto interessato, che dato il suo passato e il suo presente politico avrebbe avuto diritto, sempre, prima come dopo, alla massima prudenza da parte degli organi di giustizia.

In realtà, noi esperti di vicende giudiziarie, sappiano che ribaltamenti delle decisioni possono accadere, e si sono verificati numerose volte. La stessa circostanza che la legge preveda la possibilità di appellare una sentenza di primo grado, e, ulteriormente, di ricorrere in cassazione contro quella di secondo grado, presuppone, logicamente, l’eventualità del ripensamento. E proprio perché, in astratto, è sicuramente bene che più giudici diversi siano chiamati a valutare le situazioni delicate che, frequentemente, caratterizzano i processi penali, io ho sempre paventato che l’esigenza di ridurre i tempi dei processi potesse indurre qualche sprovveduto a suggerire di abbreviarli tagliando sul terreno delle impugnazioni. Perderemmo, in questo modo, una fetta importante di garanzia.

Ma veniamo al processo Berlusconi. In primo grado egli era stato condannato per concussione perché avrebbe «costretto» un funzionario di polizia a consegnare Ruby ad una persona alla quale essa, minorenne, non avrebbe potuto essere consegnata, e per prostituzione minorile perché avrebbe avuto consapevolmente rapporti sessuali con una minorenne. La Corte di Appello ieri ha assolto l’imputato dalla prima imputazione «perché il fatto non sussiste», dalla seconda imputazione «perché il fatto non costituisce reato». Non conosciamo, al momento, le motivazioni della decisione. Dalle formule assolutorie rispettivamente usate dalla Corte possiamo tuttavia intuire quale può essere stato il ragionamento che ha condotto alla decisione.

Si assolve «per insussistenza del fatto» – lo lascia intendere lo stesso significato linguistico delle parole – quando si ritiene che il reato contestato non esista, che, in altre parole, i fatti che si addebitano non concretino una condotta penalmente rilevante. Si assolve «perché il fatto non costituisce reato» quando si ritiene invece che il «fatto» sia stato commesso, ma che l’imputato non sia punibile per altra causa, ad esempio perché ha agito in buonafede (senza dolo), o perché era presente una causa di non punibilità (ha ucciso per difendersi). Le due formule, rispettivamente usate dalla Corte di Appello con riferimento ai due capi d’imputazione a carico di Berlusconi, possono pertanto fornirci qualche idea su ciò che è stato deciso in camera di consiglio.

La concussione «non sussiste», è stato decretato. Ciò significa che secondo i giudici l’intervento di Berlusconi, nella famosa serata nella quale egli si è messo in contatto con la Questura di Milano, inviando la fida Minetti a recuperare la ragazza trattenuta in un ufficio di polizia, non ha avuto alcuna valenza «costrittiva» (violenza o minaccia), come esige invece l’art. 317 c.p. che prevede il delitto di concussione (riconosciuto esistente dal giudice di primo grado). 

La Corte, esclusa la «costrizione», avrebbe potuto comunque riconoscere l’esistenza di una «induzione indebita» rilevante ai sensi del nuovo art. 319 quater c.p. (si tratta del reato previsto dalla c,d, riforma Severino, nel quale è stata fatta confluire l’originaria concussione per induzione, che con riferimento alla posizione dell’induttore – salva la pena minore – è assolutamente identico alla fattispecie originaria di concussione per induzione, e risultava pertanto, in astratto, sicuramente applicabile nel caso di specie). Si vede che la Corte, escluso che nel comportamento di Berlusconi fossero rinvenibili profili di minaccia, ha escluso altresì che vi si potessero rinvenire profili di semplice induzione di soggetti pubblici a compiere alcunché d’illecito. 

Diverso è il caso della prostituzione minorile. La formula assolutoria impiegata sembra lasciare arguire – vedremo, leggendo le motivazioni, se sarà davvero questo il ragionamento seguito – che la Corte di Appello abbia ritenuto che il «fatto», cioè la relazione dell’imputato con la giovane ragazza, vi sia stato. Che tale relazione non costituisca tuttavia reato (verosimilmente) perché mancava il dolo, cioè la percezione della minore età della sua partner da parte dell’attore maschile.

Il processo, d’altro canto, non è comunque ancora definitivamente risolto a favore di Berlusconi, perché la Procura Generale di Milano, che aveva chiesto la conferma della durissima condanna di primo grado, ed è uscita pesantemente sconfitta dal processo di appello, potrà pur sempre ricorrere in cassazione, aprendo in questo modo un’ulteriore, altrettanto drammatica, fase giudiziaria a carico dell’ex Presidente del Consiglio. 

La sentenza appena pronunciata innesca d’altronde, su altri fronti, una serie di ulteriori interrogativi giudiziari. Che cosa accadrà, ad esempio, del processo Ruby bis, che, pure, si era concluso con pesanti condanne degli imputati da parte del giudice di primo grado? Che cosa accadrà dell’indagine aperta a seguito della trasmissione, da parte del Tribunale di Milano alla locale Procura della Repubblica, di atti dai quali, a suo giudizio, emergerebbero episodi di falsa testimonianza di testi ascoltati in udienza e d’impulso a rendere falsa testimonianza addirittura da parte di alcuni legali?

 In teoria, l’assoluzione pronunciata ieri potrebbe essere ininfluente nei confronti di tali diversi processi, essendo essi affidati alle prove emergenti, o non emergenti, dai loro rispettivi atti (ad esempio, se dovesse risultare confermato il «fatto», sia pure non punibile, di prostituzione minorile, le asserite false testimonianze relative a ciò che sarebbe accaduto, o non accaduto, nel corso delle «serate eleganti» di Arcore non risulterebbero, certo, automaticamente cancellate).

L’impressione, tuttavia, è che al di là di questo o di quel particolare, dopo la sentenza di ieri nulla sarà più come prima. Inevitabilmente essa darà una scossa, farà affrontare i futuri processi Berlusconi – che pendono davanti a diverse sedi giudiziarie, Napoli e Bari oltre che Milano – in una prospettiva assolutamente «altra». 

Rispetto alla sentenza d’appello di ieri l’auspicio è, comunque, che essa abbia costituito davvero, e soltanto, come dovrebbe essere, il risultato di una scelta compiuta in coscienza, autonomia e libertà da parte di giudici onesti e trasparenti e che su di essa non abbia in nessun modo interferito l’annoso problema dei rapporti fra politica e giustizia.

Da - http://lastampa.it/2014/07/19/cultura/opinioni/editoriali/sentenza-a-futura-memoria-6cVk4kmtFIpXOgJyDjzWOI/pagina.html
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