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Autore Discussione: CARLO FEDERICO GROSSO.  (Letto 47401 volte)
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« Risposta #60 inserito:: Gennaio 02, 2012, 03:13:25 pm »

2/1/2012 - IL DIBATTITO SUL RUOLO DEI MAGISTRATI

La turnazione dei giudici va difesa ma riorganizzata

CARLO FEDERICO GROSSO

«La Stampa», nei giorni scorsi, ha avuto il merito di aprire un dibattito sulla qualità dell’attività giudiziaria e sulla specializzazione in magistratura.

Il problema era stato posto con forza, mesi or sono, da alcune Procure della Repubblica (Torino, Milano, Palermo), nelle quali operano gruppi specializzati nel trattare temi delicati (reati economici, inquinamento, corruzione, colpa medica, mafia). Esse lamentavano il fatto che l’applicazione delle norme che ponevano limiti alla permanenza dei magistrati in uno stesso ufficio determinava trasferimenti massicci di pubblici ministeri specializzati, con un danno evidente per il migliore esercizio dell’attività giudiziaria. E chiedevano, pertanto, flessibilità nell’applicazione di tali norme in modo da rendere, quantomeno, compatibile l’efficienza con la rotazione.

Di fronte allo sfaldamento di alcuni di questi gruppi dovuto alla contemporaneità dei tempi di scadenza di numerosi magistrati, la questione posta appariva ragionevolissima. Tuttavia, come è stato chiarito su questo giornale, vi sono esigenze di segno diverso che inducono a mantenere comunque la turnazione. Se un magistrato permane troppo a lungo nello stesso ufficio, si è detto, vi è infatti il rischio che si cristallizzino consuetudini di rapporti non opportune, e si determinino di conseguenza vischiosità o inquinamenti nell’esercizio dell’attività giudiziaria, senza che i meccanismi di vigilanza interni alla magistratura siano in grado di contrastare efficacemente il fenomeno.

Per rimediare alla situazione, senza alterare le norme che hanno introdotto limiti di tempo alla permanenza negli uffici giudiziari, perché non affrontare comunque le contingenze valutando caso per caso le situazioni, ed evitando gli smantellamenti con regole transitorie che consentano sostituzioni graduali? E perché, a regime, non si potrebbe salvaguardare l’esigenza di specializzazione con un’organizzazione appropriata del turnover, garantendo sostituzioni scaglionate che consentano al gruppo di non perdere la qualificazione complessiva ed ai nuovi arrivati d’impratichirsi lavorando a fianco dei colleghi già esperti?

D’altronde il magistrato che ha acquisito esperienze qualificate in un determinato ufficio potrebbe chiedere di passare ad un ufficio diverso, ma in cui esse siano ugualmente utilizzabili. E se, davvero, l’esigenza di specializzazione dovesse essere riconosciuta come uno dei cardini dell’efficienza della giustizia, perché non pensare, in tale specifica prospettiva, ad una deroga sia pure circoscritta al principio d’inamovibilità dei magistrati?

Al di là di quanto è emerso nel dibattito aperto nei giorni scorsi su «La Stampa», il tema della qualificazione professionale dei magistrati pone, d’altronde, ulteriori questioni e sollecita ulteriori riflessioni. Su di esse vorrei soffermarmi specificamente.

Chiediamoci, innanzitutto, in quali sedi giudiziarie possono essere costituiti gruppi o sezioni di alta specializzazione professionale. La risposta è ovvia: soltanto nelle grandi sedi. Nelle sedi piccole, i pochi magistrati che le compongono dovranno acconciarsi comunque ad operare come «magistrati tuttofare».

Chi ha maturato esperienza di difensore in processi penali concernenti materie tecnicamente complesse (violazioni economiche, disastri ambientali, grandi bancarotte, truffe compiute tramite sofisticati strumenti finanziari) e celebrati in piccole sedi giudiziarie, avrà, per altro verso, potuto constatare che i suoi assistiti erano sovente giudicati da magistrati non sufficientemente preparati e che più facilmente rischiavano pertanto di sbagliare.

Ecco che si profila, allora, un ulteriore aspetto del tema delle specializzazioni in magistratura, forse ancora più delicato, e che dev’essere affrontato con una coraggiosa rimeditazione dell’intera organizzazione degli uffici giudiziari e delle loro rispettive competenze.

La questione ha, in realtà, quantomeno due risvolti. Coinvolge da un lato il problema dell’eliminazione delle sedi giudiziarie minori, dall’altro quello dell’introduzione di «riserve di competenze» a favore degli uffici giudiziari più importanti.

Il primo tema è da tempo oggetto di attenzione da parte di tecnici e politici. A causa delle resistenze di natura locale, nessuno è riuscito tuttavia a realizzare, fino ad ora, la riforma auspicata. Il secondo, tutto sommato più semplice (sarebbe sufficiente prevedere che le materie che maggiormente richiedono specializzazione siano assegnate alla competenza dei tribunali più importanti, situati nelle sedi di Corte d’appello), non è stato, addirittura, mai affrontato.

Eppure, per una classe politica che intendesse assicurare al Paese una giustizia penale la più efficace possibile, sembrerebbe un tema ancora più strategico.

Il ministro della Giustizia Severino ha affermato, nei giorni scorsi, che uno degli obiettivi prioritari della sua gestione sarà, proprio, la riorganizzazione delle circoscrizioni giudiziarie. Perché, prendendo spunto dall’esigenza di specializzazione, non muovere, allora, da tale già riconosciuta esigenza di riorganizzazione per affrontare a tutto campo il tema di una migliore utilizzazione specialistica delle risorse?

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9603
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« Risposta #61 inserito:: Gennaio 16, 2012, 11:47:32 am »

16/1/2012

Avvocati, sì all'esame selettivo no all'abolizione dell'ordine

CARLO FEDERICO GROSSO

Le liberalizzazioni che il governo s’appresta ad approvare mi sembrano, in linea di principio, auspicabili. Esse possono produrre vantaggi economici, ma, soprattutto, incrinare le numerose incrostazioni che ingessano commerci, mestieri e professioni, liberando la società italiana dai troppi lacci che frenano il suo sviluppo.

Alcune categorie interessate, prima ancora di conoscere i dettagli delle nuove discipline, tuttavia già protestano. «La Stampa» ha documentato ieri l’altro, riportando opinioni e commenti, le preoccupazioni di una delle lobby più potenti, quella degli avvocati. Vediamo di valutare torti e ragioni, soffermandoci su talune delle principali questioni aperte (qualificazione professionale, trasparenza, tariffe, associazione di professionisti).

Il primo è profilo particolarmente delicato. Giustamente Alpa, presidente del Consiglio nazionale forense, in un intervento su «Il Corriere della Sera» ha rivendicato che gli avvocati puntano su competenza e qualità, poiché i diritti dei cittadini sono troppo importanti per essere affidati a chi non ha sufficiente scienza e coscienza. Parole sacrosante. Siamo tuttavia sicuri che la paventata liberalizzazione porterà davvero danni alla qualificazione di una categoria che, già oggi, presenta ampie sacche di dequalificazione?

Si tratta, evidentemente, di valutare come la riforma affronterà i problemi. È ovvio che se dovesse passare un addolcimento dei test d’ingresso alla professione, o, addirittura, l’abbandono dell’esame di Stato, le conseguenze di questa (abnorme) liberalizzazione degli accessi sarebbero nefaste. Ma se dovesse essere liberalizzato semplicemente il tirocinio (oggi riservato agli studi professionali), e si dovessero prevedere altre modalità di praticantato (presso uffici della magistratura, od organizzate in scuole postuniversitarie di elevato livello od all’interno delle stesse Università nell’ultimo biennio degli studi (come si prospetta in una delle bozze di riforma), il risultato potrebbe essere addirittura migliore.

Più aspiranti, nel complesso meglio selezionati e preparati, potrebbero presentarsi, allora, ad un esame che dovrebbe diventare molto selettivo e consentire pertanto la costituzione di una categoria professionale altamente qualificata. Perché mai gli avvocati dovrebbero opporsi, a questo punto, a tale encomiabile prospettiva?

Ma veniamo al secondo profilo: la trasparenza con i clienti. Già la riforma della professione approvata dal Senato nel 2010 prevedeva che gli avvocati dovessero essere assicurati, dovessero pattuire preventivamente il compenso e fornire ogni informazione sugli oneri, sui rischi e sulla complessità della causa. Questi principi, se dovessero essere anticipati nel decreto sulle liberalizzazioni, data la loro ragionevolezza non dovrebbero suscitare nessun dissenso.

Più complesso è il tema delle tariffe, che la riforma pretenderebbe di abolire, minimi compresi. Come si evince dalle prime reazioni, la valutazione dei professionisti su questo profilo è molto negativa. Si sostiene che s’innescherebbe una concorrenza selvaggia, si rischierebbe d’abbassare il livello delle prestazioni, si rischierebbe di favorire lo sfruttamento dei professionisti da parte delle grandi committenze.

In larga misura queste osservazioni sono fondate. Il problema è, tuttavia, valutare il peso delle esigenze contrapposte. Da un lato c’è quella di tutelare il professionista, ma dall’altro quella di calmierare il costo delle prestazioni, di fornire chances d’inserimento professionale ai giovani, di aprire comunque il più possibile il Paese alla concorrenza. Ed allora, purché sia salvaguardato il livello delle prestazioni, perché non sperimentare, quantomeno, l’abolizione temporanea delle tariffe, e sottoporre tale sperimentazione ad un monitoraggio «indipendente»? Se l’innovazione dovesse condurre davvero ai guasti paventati, si potrebbe, sempre, ritornare indietro.

Su di un profilo sono, invece, del tutto contrario: la possibilità d'introdurre, senza limiti, soci non professionisti nelle associazioni professionali, secondo quanto prevede il maxi emendamento al patto di stabilità. Qui, davvero, i rischi di conseguenze gravi per la tutela dei diritti dei cittadini e per la libertà dei professionisti sono elevati: soltanto i grandi gruppi imprenditoriali e finanziari (e, quel che è peggio, la stessa criminalità organizzata) avranno interesse ad entrare in tali società, per abbassare i costi delle prestazioni o per condizionare selezione o conduzione delle cause; si rischierà d’indebolire l’indipendenza dell’avvocato, che difficilmente sarà in grado di fronteggiare le pretese del socio di mero capitale; sarà minacciato il segreto professionale, in quanto a stento il professionista sarà in grado di difendere i propri fascicoli dalla curiosità del socio dominante. Davvero, dunque, si tratta di una riforma utile per l’avvocatura?

Non approfondisco, per ragioni di spazio, gli altri problemi. Mi limito ad accennare che riterrei nefasto ipotizzare, addirittura, l’abolizione degli ordini forensi come taluno ha sostenuto, e che mi sembra che la forte opposizione alla «conciliazione obbligatoria» introdotta dal ministro Alfano sia viziata da troppi profili «corporativi» per poter essere difesa fino in fondo.

Una cosa, comunque, mi conforta. Ho letto che il ministro Severino dovrebbe incontrare oggi o domani i rappresentanti dei professionisti, e che vi sarà, forse, un attimo di riflessione ulteriore sul tema delle liberalizzazioni delle professioni. La notizia è confortante, perché nessuna riforma può prescindere da un confronto del governo con le categorie. Speriamo che in tutti gli interlocutori, pure nei rappresentanti delle corporazioni, vi sia attenzione anche per gli interessi generali del Paese.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9653
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« Risposta #62 inserito:: Gennaio 27, 2012, 03:23:29 pm »

27/1/2012

Tav, punite le violenze non il movimento

CARLO FEDERICO GROSSO

L’ operazione coordinata ieri dalla procura della Repubblica di Torino, che ha portato all’arresto di ventisei manifestanti No Tav per le violenze compiute nel corso delle manifestazioni dell’anno scorso in Val di Susa, susciterà inevitabilmente discussioni e polemiche. Rilevati i fatti che sono stati contestati, essa era comunque inevitabile.

Noi viviamo in uno Stato di diritto, nel quale è giustamente riconosciuto il diritto di esprimere, anche in forma dura, il proprio dissenso e la propria opposizione alle decisioni delle autorità, ma nel quale non è consentito usare la violenza contro persone o cose per affermare, e fare eventualmente prevalere, le proprie disapprovazioni.

D’altro canto, se si riscontra la commissione di reati, è dovere dell’autorità giudiziaria procedere secondo le regole stabilite dal codice di procedura penale: aprendo indagini, eventualmente arrestando, esercitando l’azione penale nei confronti di coloro a carico dei quali sono emersi sufficienti indizi di colpevolezza. Si tratta di un ulteriore profilo del principio di legalità sul quale si fonda lo Stato di diritto.

Proprio perché viviamo in uno Stato di diritto, a ciascun indagato (ed a ciascun arrestato) è d’altro canto riconosciuto il diritto di difendersi in un giusto processo, dimostrando la propria innocenza o la liceità di ciò che si è commesso e per il quale si è accusati.

Avremo sicuramente modo di vedere, in futuro, se gli arrestati di ieri mattina sapranno smontare le accuse che sono state loro rivolte. Al momento non possiamo che prendere atto del lavoro compiuto dagli investigatori e rilevare che, se le contestazioni dovessero trovare ulteriore riscontro nel corso delle indagini e/od essere confermate nel processo penale, la condanna sarà inevitabile e sacrosanta, perché a nessuno è consentito provocare lesioni personali, danneggiare dolosamente cose, usare violenza o resistere illegittimamente alle forze dell’ordine. Tanto più, ove queste condotte rischino di minare le regole della civile convivenza democratica.

Questo precisato, le imputazioni configurate dalla Procura della Repubblica meritano qualche ulteriore riflessione.

Innanzitutto, mi sembra doveroso sottolineare che la Procura di Torino ha contestato, a soggetti singoli ed individuati, specifiche condotte che hanno cagionato lesioni personali o dato luogo a violenza o resistenza a pubblici ufficiali. In questa prospettiva è evidente che l’autorità giudiziaria non ha in nessun modo inteso criminalizzare il «movimento», o minacciare il diritto delle popolazioni interessate a dissentire o protestare contro l’Alta velocità. Ha, semplicemente, colpito singole persone che si sono rese individualmente responsabili di singole (o plurime) azioni illegali.

La preoccupazione che non si facesse confusione fra tali piani è apparsa d’altronde chiara nelle parole del Procuratore Caselli, che ha tenuto a precisare che l’operazione coordinata dal suo ufficio era specificamente mirata a perseguire «singoli autori di azioni criminose», non a criminalizzare «una valle», «un movimento di opinione» o «mobilitazioni che si svolgono entro i confini della legge». Si è trattato, ha soggiunto, di una «azione di cesello su di una materia incandescente», volta alla repressione di comportamenti, di fatti illeciti specifici, non di idee od opinioni, e, soprattutto, attenta a non coinvolgere indiscriminatamente chi manifestava sulla base della sola circostanza che era presente sul luogo dei fatti.

Delle dichiarazioni di Caselli mi ha colpito, d’altronde, anche un ulteriore profilo. Nel descrivere l’oggetto delle indagini del suo ufficio, egli ha precisato che gli attacchi alle forze dell’ordine non sarebbero stati frutto d’improvvisazione, bensì sarebbero consistiti in azioni coordinate e organizzate, realizzate nel quadro di un’accurata programmazione e con obbiettivi preordinati (come sarebbe fra l’altro dimostrato dalla tipologia degli oggetti utilizzati dai manifestanti nel corso delle loro azioni: «Pietre, punte ferrate, bulloni, oggetti contundenti vari, secchi di vernice, letame, petardi, bombe carta e paratie per ostacolare il lavoro delle forze dell’ordine»).

Prendo atto di questa ricostruzione. Essa è, d’altronde, del tutto credibile. Però a questo punto mi domando. Perché agli imputati sono stati contestati soltanto gli specifici, molteplici, delitti di lesione personale commessi, gli specifici atti di danneggiamento, di violenza o di resistenza ai pubblici ufficiali rilevati, e non l’associazione a delinquere? Se è vero che una pluralità di persone, in concorso, ha aggredito le forze dell’ordine, ha ferito persone, ha resistito illegittimamente alla polizia, e se è vero che queste azioni si sono ripetute in diverse manifestazioni, e sembravano rispondere ad un’idea organizzata piuttosto che ad un’improvvisazione estemporanea, l’ipotesi di reità associativa (quantomeno secondo l’idea che noi penalisti abbiamo dell’associazione a delinquere: pluralità di persone che, dotati di un minimo di organizzazione, si associano allo scopo di commettere una pluralità di delitti) è, forse, qualcosa di più di una mera ipotesi teorica.

Anche a questo riguardo sarebbe tuttavia indispensabile sottolineare con forza un aspetto fondamentale. Se davvero dovessero emergere, in ciò che è accaduto, profili di delinquenza associativa, dovrebbe essere chiaro che si tratterebbe di un’associazione fra i violenti, che mai potrebbe coinvolgere coloro che manifestano pacificamente per il solo fatto di avere partecipato a manifestazioni nel corso delle quali sono accaduti fatti di violenza organizzata o, ancor prima, il movimento No Tav in quanto tale.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9698
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« Risposta #63 inserito:: Febbraio 09, 2012, 10:30:25 am »

9/2/2012

Meglio assolvere un colpevole che condannare un innocente

CARLO FEDERICO GROSSO

Ancora una volta una sentenza d'assoluzione è destinata a far discutere. Un bambino è stato (probabilmente) ucciso. Non si sa se dalla mamma, o dal convivente della mamma, o dalla mamma e dal suo convivente insieme. Nessuno (probabilmente) sarà mai condannato per avere cagionato quella morte.

Il dato di cronaca è drammatico. Ambiente degradato, intossicazione da stupefacenti, la mamma che esce di casa per procurarsi la droga, ritorna istupidita, durante la notte il compagno la sveglia indicandole il bambino ormai freddo. Cercano di nascondere le responsabilità denunciando un incidente, poi si accusano a vicenda.

La Procura della Repubblica incrimina d'omicidio il convivente, ed accusa la madre (soltanto) d'abbandono di minore. In primo grado l'uomo, ritenuto colpevole, viene condannato a ventiseì anni di reclusione per il grave reato che gli era stato contestato (la Corte chiede tuttavia che la Procura torni ad indagare per omicidio anche la madre, non ritenendo escluso un suo contributo alla causazione della morte del bambino). Ieri il ribaltone: l'uomo è assolto per non aver commesso il fatto, ed è immediatamente scarcerato. Per la donna, al momento, nessuna novità.

Ancora una volta, con riferimento ad un fatto di sangue, la giustizia italiana non è dunque riuscita a far chiarezza, ad individuare il responsabile, ad incastrare il colpevole. E in una vicenda nella quale è pressoché sicuro che un bambino, per dolo, per colpa o per incuria è stato ucciso da qualcuno individuabile in una cerchia ristretta di persone, nessuno, probabilmente, sarà mai chiamato a rispondere di quella morte cagionata (o non impedita).

Inadeguatezza del nostro sistema giudiziario (incapacità di fare indagini, trasandatezza nella raccolta delle prove, incertezza nella fase del giudizio), ovvero insuperabile complessità del caso e, conseguentemente, ineludibile incertezza nelle prove?

Può darsi che vi sia stato qualche errore. Può darsi, comunque, che data la peculiarità del contesto (nessun testimone, nessun elemento in grado di caricare univocamente su taluno dei protagonisti della tragica vicenda la responsabilità della morte del bimbo, nessuna confessione ma, anzi, l'accusa reciproca dei due indiziati), fornire una riposta in termini di colpevolezza certa "al di là di ogni ragionevole dubbio" (come prescrive la nostra legge) fosse difficile, se non, addirittura, impossibile.

Così stando le cose, la risposta "ultima" offerta dal nostro sistema di giustizia nel caso di specie potrebbe essere giudicata comunque "ineccepibile", poiché nessuno, secondo le regole del nostro codice di procedura penale, può essere condannato senza prova certa della sua colpevolezza.

Non sarebbe d'altronde la prima volta che i nostri giudici hanno affrontato casi nei quali c'era la certezza che uno degli imputati fosse il colpevole, ma non si era in grado di dimostrare chi, fra di essi, avesse commesso il reato. In questi casi i giudici sono stati, di regola, costretti ad assolvere tutti gli imputati, anche se era sicuro che, così facendo, si assolveva certamente anche un colpevole (si ricordi il famoso «caso Bebawi», nel quale due amanti, uno dei quali aveva sicuramente assassinato il marito della donna, si sono accusati reciprocamente del delitto, cercando in questo modo di sfuggire entrambi alla condanna penale).

Ma assolvere un colpevole nei cui confronti non esiste prova certa di reità costituisce cardine dello Stato di diritto, come costituisce cardine del processo penale in uno Stato di diritto la circostanza che è preferibile rischiare di assolvere un colpevole che rischiare di condannare un innocente.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9752
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« Risposta #64 inserito:: Febbraio 19, 2012, 11:34:53 am »

17/2/2012

Un altro risanamento necessario

CARLO FEDERICO GROSSO

Il presidente della Corte dei Conti, nella sua relazione annuale, ha denunciato ieri che illegalità e corruzione sono fenomeni tuttora ampiamente presenti nel Paese.

A vent’anni da Mani Pulite tutto sembra, dunque, immutato (o quasi). Colpa della disonestà di molti operatori economici e pubblici ufficiali. Colpa, soprattutto, della classe politica, che non ha mai affrontato il problema con la dovuta solerzia.

Eppure, tecnici del diritto ed esperti d’indagini penali hanno, più volte, indicato la strada attraverso cui sarebbe possibile realizzare un sistema incisivo di prevenzione e repressione degli illeciti. E gli organismi internazionali hanno richiamato l’Italia all’osservanza delle regole stabilite da trattati e convenzioni.

Ieri un autorevole esponente della magistratura milanese ha sottolineato gli aspetti sui quali occorrerebbe intervenire prioritariamente: trasparenza dei flussi contabili e finanziari, riforma della prescrizione, organizzazione degli organi preposti alla repressione degli illeciti, introduzione di nuovi reati quali la corruzione fra privati.

I primi due profili sono d’importanza fondamentale. Evasione fiscale e corruzione sono fenomeni connessi, essendo le tangenti in larga misura dipendenti dalla possibilità di procurarsi il «nero» in grado di soddisfare le richieste dei pubblici ufficiali corrotti. Ed allora, perché si tarda a mettere in agenda l’indispensabile riforma dei delitti di falso in bilancio (di fatto depenalizzati nel 2002)? Perché non si considera l’urgenza di stroncare le fatturazioni gonfiate o per operazioni inesistenti? Perché (abbassando le soglie di non punibilità) non si elimina la condizione di sostanziale impunità di gran parte delle frodi fiscali? Perché, ancora, non si pensa di colpire più incisivamente il riciclaggio e, soprattutto, di punire anche in Italia il c.d. «autoriciclaggio» (cioè la condotta di chi accumula denaro illegalmente - mediante tangenti, evasioni, ecc. - e poi se lo ripulisce da solo)?

Se si volesse davvero fare la guerra alla corruzione, occorrerebbe d’altronde ascoltare anche altre «raccomandazioni internazionali»: rafforzare le istituzioni preposte alla prevenzione degli illeciti (si pensi che l’Italia non è stata neppure in grado d’istituire un’Autorità Anticorruzione incisiva e indipendente; si è inventata un’Autorità, ma non l’ha dotata di forze e mezzi, ed essa, poco tempo dopo, è stata sciolta per palese inefficienza); accogliere le sollecitazioni Ocse sulla prescrizione, oggi in materia di corruzione sciaguratamente breve (dai quindici anni di un tempo, si è passati, con la Cirielli, ad un incredibile «sette anni e mezzo»); rafforzare l’incisività della disciplina penale della corruzione (ad esempio, introducendo premi a favore del privato che denunci i pubblici ufficiali corrotti); affiancare al delitto di corruzione dei pubblici ufficiali quello di corruzione fra privati (il numero dei manager privati infedeli che accettano tangenti è elevatissimo, e, oggi, assurdamente non punito).

O ancora, si potrebbero introdurre regole di totale trasparenza degli appalti, istituire albi pubblici delle imprese vincitrici delle gare, pubblicare gli elenchi degli imprenditori condannati. E via dicendo.

Una cosa è, comunque, certa. Che di fronte alle «cifre» del nostro Paese, ogni ulteriore ritardo sarebbe delittuoso. L’Italia, d’altro canto, è largamente inadempiente rispetto alle convenzioni internazionali anticorruzione, si tratti di quella comunitaria oppure di quella Ocse (da anni il Parlamento si gingilla con una legge di attuazione mai approvata). Ieri il Guardasigilli ha promesso grandissima attenzione. Per il governo tecnico, credo, date le finalità di risanamento complessivo del Paese che persegue, dovrebbe trattarsi di un obiettivo imprescindibile. Che sia, davvero, la volta buona?

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9783
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« Risposta #65 inserito:: Febbraio 26, 2012, 06:21:25 pm »

26/2/2012

Un esito figlio di tre leggi

CARLO FEDERICO GROSSO

Il Tribunale di Milano ha «prosciolto» ieri Berlusconi per intervenuta prescrizione. Questa decisione può essere condivisa o non essere condivisa. Come dimostra la varietà delle reazioni manifestate alla sentenza, c’è chi ritiene che l’ex presidente del Consiglio avrebbe dovuto essere assolto nel merito e chi ritiene che egli avrebbe dovuto essere invece condannato.

Discutere questo tema, a questo punto, non appassiona più di tanto. Interessa, piuttosto, chiarire le ragioni che hanno consentito che la prescrizione potesse maturare. La domanda è la seguente. Si è trattato di un decorso del tempo dovuto alle eccessive lungaggini in cui si dibatte sovente la giustizia italiana o di un epilogo giudiziale che non si sarebbe verificato se non fossero intervenute pesanti interferenze legislative sull’ordinato e ragionevole svolgimento dei processi?

Sul punto non credo vi possano essere dubbi. La sentenza maturata ieri è la conseguenza diretta degli interventi legislativi attraverso i quali, nell’ultimo decennio, una parte della classe politica ha cercato di intralciare, coprire, proteggere. Intralciare l’ordinato esercizio della giustizia; coprire e proteggere coloro che avrebbero dovuto essere, invece, inflessibilmente perseguiti.

Tre sono gli interventi legislativi che hanno, sia pure in modo diverso, interferito sul processo Mills: la legge Cirielli, il lodo Alfano, il c.d. legittimo impedimento. Il primo intervento, diretto in realtà a «tutelare» numerosi imputati eccellenti in numerosi processi penali, ha prodotto sul processo Mills effetti devastanti, consentendo l’epilogo di non luogo a procedere per prescrizione maturato ieri.

Il secondo ed il terzo, pensati specificamente per «coprire» l’allora presidente del Consiglio, non hanno conseguito l’obiettivo «di blocco» del processo perseguito con la loro approvazione (in quanto entrambi sono stati tempestivamente dichiarati illegittimi dalla Corte Costituzionale), ma sono comunque serviti a dilatare i tempi processuali.

La legge Cirielli, approvata nel 2005, ha rivoluzionato disciplina e durata della prescrizione, prevedendo, soprattutto con riferimento a reati che destavano particolare «preoccupazione» nel mondo della politica, significative abbreviazioni dei tempi necessari a prescrivere (ad esempio, nella corruzione per un atto contrario ai doveri d’ufficio da quindici anni si è scesi a sette anni e mezzo, nella corruzione in atti giudiziari da quindici anni si è scesi a dieci anni).

Accorciare la durata della prescrizione può anche costituire un obiettivo apprezzabile: purché si assicuri, con riforme appropriate dei codici e dell’organizzazione giudiziaria, che i tempi necessari a celebrare i processi si accorcino parallelamente. Se si abbrevia la prescrizione senza assicurare (con le menzionate riforme) che i processi si accorcino, la conseguenza sarà, invece, nefasta: migliaia di reati si prescriveranno per impossibilità di portare a compimento in tempo utile i dibattimenti.

E’ ciò che è accaduto, appunto, con la legge Cirielli, che rompendo (volutamente) l’equilibrio prima esistente fra la durata della prescrizione e quella dei processi, ha prodotto l’estinzione di migliaia di reati. Fra di essi, anche l’estinzione della corruzione in atti giudiziari contestata a Berlusconi (con la vecchia legge tale reato si sarebbe prescritto in quindici anni e non in dieci, e si sarebbe pertanto sicuramente concluso con una sentenza di merito di condanna o di assoluzione).

Ma ad interferire sul processo Mills non è stata soltanto la legge Cirielli. Sono stati, anche, il lodo Alfano e la legge sul legittimo impedimento. Con il lodo Alfano (22 luglio 2008) il Parlamento ha previsto la «sospensione» dei processi penali a carico delle più alte cariche dello Stato. Entrato in vigore il lodo, la posizione di Berlusconi è stata, ovviamente, stralciata dal processo ed esso è proseguito a carico del solo avvocato inglese. Poiché la Corte Costituzionale ha, successivamente, dichiarato il lodo illegittimo (7 ottobre 2009), il processo a carico di Berlusconi ha potuto in ogni caso, ed a dispetto di coloro che avevano votato la legge, ripartire abbastanza tempestivamente (dicembre 2009).

A questo punto il Parlamento è intervenuto nuovamente, approvando una legge che prevedeva un regime particolarmente «vantaggioso» di legittimo impedimento del presidente del Consiglio, che gli consentiva di dichiarare la ragione della richiesta di rinvio delle udienze senza possibilità di sindacato da parte del giudice. Anche questa legge è stata giudicata (in parte) illegittima dalla Corte Costituzionale (13 gennaio 2011; è poi stata abrogata con il referendum del 12 e 23 giugno 2011). Ma nel frattempo ha consentito a Berlusconi di ottenere rinvii utili a rallentare ancora una volta il dibattimento.

La prescrizione del reato di corruzione contestato a Berlusconi non può, dunque, essere addebitata ad una cattiva gestione processuale. I giudici, anzi, sembrano avere fatto ogni sforzo per cercare di riassumere il processo appena possibile ogni volta in cui esso s’inceppava a causa delle sospensioni e dei rinvii imposti dalle leggi. E quando gli ostacoli giuridici si sono allentati, hanno comunque cercato d’imprimergli un ritmo il più veloce possibile.

E’ sicuramente dovuta, invece, alla legge Cirielli ed alla sua infausta alterazione del giusto equilibrio che deve intercorrere fra durata della prescrizione e tempo necessario per celebrare i processi complessi. A quando finalmente, a livello di governo, una seria riflessione sulla prescrizione, in grado di rimuovere l’intollerabile situazione in cui è costretta, oggi, la giustizia penale?

DA - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9816
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« Risposta #66 inserito:: Febbraio 29, 2012, 10:01:28 am »

29/2/2012

Un aiuto per inasprire le pene

CARLO FEDERICO GROSSO

Il ministro Passera, nel corso di un’audizione in commissione Trasporti della Camera, ha affrontato ieri il tema dell’introduzione in Italia del delitto di «omicidio stradale» (un reato destinato a reprimere duramente chi commette omicidio mettendosi alla guida di un automezzo in condizione di ubriachezza od avendo ingerito sostanze stupefacenti o psicotrope).

Di fronte a un testo di legge-delega di riforma del Codice della strada che intenderebbe introdurre sanzioni pesanti nei confronti di chi uccide guidando in condizione di ebbrezza o avendo ingerito droghe (reclusione non inferiore nel minimo ad otto anni e nel massimo a diciotto anni, possibilità di arresto in fragranza, revoca definitiva della patente), il ministro ha espresso apprezzamento, ma, nel contempo, ha manifestato cautela. L’iniziativa è seria, ha detto, e merita riflessione. Occorre tuttavia fare attenzione a rispettare i parametri europei, evitare di introdurre divieti radicali che costituirebbero un «unicum» in Europa e rischierebbero di risolversi in un pregiudizio per la circolazione (ritiro perpetuo della patente), rispettare il criterio della «delega» che fa riferimento al «principio di ragionevolezza, proporzionalità e non discriminazione nell’ambito dell’Unione europea».

Al di là delle preoccupazioni manifestate, è comunque importante che il governo abbia preso atto dell’esistenza del problema dei così detti «omicidi stradali» e si sia dichiarato disponibile ad affrontarlo. Da anni, infatti, alcuni tecnici del diritto ed una parte dell’opinione pubblica insistono sulla necessità di reprimere adeguatamente il fenomeno di chi si mette consapevolmente alla guida di un automezzo sapendo di essere ubriaco o di avere ingerito sostanze stupefacenti o psicotrope e cagiona incidenti mortali.

Vediamo, innanzitutto, di chiarire qual è, oggi, lo stato della legislazione e quali orientamenti giurisprudenziali si sono imposti nelle aule di giustizia. Quando si verifica un incidente stradale che cagiona la morte di una persona, di regola viene applicata la norma che prevede l’omicidio colposo. La pena prevista per chi cagiona colposamente la morte guidando un automezzo in stato di ubriachezza o avendo ingerito sostanze stupefacenti o psicotrope è, oggi, dopo gli aumenti introdotti nel 2008, la reclusione da tre a dieci anni.

Nonostante l’aumento introdotto nel 2008, la repressione dell’omicidio causato in stato di ebbrezza o da chi ha ingerito sostanze stupefacenti è stata, in realtà, relativa. La pena minima prevista dalla legge è, come si è visto, di soli tre anni di reclusione; essa può essere ulteriormente diminuita se sono presenti circostanze attenuanti; ulteriori diminuzioni possono essere concesse in ragione del rito prescelto dall’imputato (giudizio abbreviato o patteggiamento).

In questa situazione è sovente accaduto che le pene concretamente irrogate siano state assai poco elevate ed agevole preda della sospensione condizionale. E’ vero che, proprio per evitare tale «marginalizzazione criminale», alcuni magistrati hanno cercato di inquadrare l’omicidio in questione nel ben più grave delitto di omicidio doloso, ritenendo che nei casi indicati fosse possibile riscontrare il c.d. «dolo eventuale» (chi si è messo alla guida di un’autovettura ubriaco o drogato avrebbe «accettato il rischio» di cagionare un evento mortale; tale evento dovrebbe essergli pertanto addebitato a titolo di «dolo eventuale», che si riscontra appunto quando un soggetto, pur non volendo cagionare la morte, «accetta il rischio» che essa si verifichi a cagione della condotta improvvida posta in essere).

Si è trattato, tuttavia, di tentativi sporadici. Non ha d’altronde senso fare dipendere dalla casualità dell’interpretazione giuridica specificamente seguita conseguenze così rilevanti quali sono l’applicazione dell’omicidio colposo ovvero di quello doloso (punito, si badi, con la reclusione non inferiore ad anni ventuno). Di qui la forte spinta ad introdurre, appunto, un autonomo reato di omicidio stradale, punito adeguatamente (reclusione da otto a diciotto anni) ed in grado di sottrarsi ad ogni casualità interpretativa.

Bene ha fatto, tuttavia, il ministro Passera a richiedere comunque una riflessione, soprattutto alla luce della (doverosa) armonizzazione europea della materia. Nei Paesi europei, sebbene non sia di regola previsto un delitto autonomo di omicidio stradale, e si utilizzi normalmente lo strumento dell’omicidio colposo, la repressione di chi cagiona incidenti guidando in condizione di ebbrezza o avendo ingerito sostanze stupefacenti o psicotrope è comunque più dura di quanto lo sia oggi in Italia. Un incremento delle nostre pene non introdurrebbe pertanto, sicuramente, di per sé disarmonia.

Non potrebbe essere, d’altronde, l'Italia, con l'introduzione del menzionato delitto autonomo di omicidio stradale, ad aprire una strada che potrebbe essere ragionevolmente seguita, presto, da altri Paesi?

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9826
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« Risposta #67 inserito:: Marzo 12, 2012, 04:24:48 pm »

12/3/2012 - CASO DELL'UTRI

Senza "concorso" Mafia più forte

CARLO FEDERICO GROSSO

L’ annullamento della sentenza Dell’Utri e le parole del Procuratore Generale («nessuno crede più, oggi, al concorso esterno in associazione mafiosa»), hanno riacceso l’attenzione su tale discusso istituto giuridico.

Ieri, in una bella intervista su questo giornale, Violante ha cercato di fare il punto. Il concorso esterno, ha osservato, esiste, ed è stato utile alla magistratura per incidere nella zona grigia di chi aiuta dall’esterno la mafia. Esso pecca tuttavia d’indeterminatezza, perché non individua gli specifici comportamenti che devono essere considerati reato; occorre pertanto che il Parlamento intervenga, tipizzando le condotte che si intende incriminare.

La questione è stata individuata in termini corretti. Permane, si è detto, l’esigenza di disporre di strumenti giuridici adeguati per colpire i colletti bianchi che aiutano la mafia. Il problema, tuttavia, è configurare un intervento repressivo che consenta, nel contempo, alla magistratura di essere incisiva ed ai cittadini di essere sufficientemente garantiti sul terreno della certezza del diritto.

Davvero, tuttavia, per ottenere questo risultato sarebbe necessario rivedere l’istituto del concorso esterno, sostituendo alla sua attuale configurazione «generale» la tipizzazione legislativa delle singole condotte punibili? E non potrebbe essere invece, questa tipizzazione, lo strumento per indebolire l’attività di contrasto del fenomeno mafioso?

Domandiamoci, innanzitutto, se veramente l’applicazione del concorso esterno sia, oggi, priva di regole in grado d’assicurare un livello sufficiente di certezza giuridica. È vero che anni fa, quando la magistratura ha iniziato a far uso di tale istituto, vi sono state divergenze interpretative e, pertanto, decisioni giudiziali di segno diverso. La Cassazione ha tuttavia provveduto ad armonizzare l’interpretazione, enunciando i criteri sulla base dei quali è possibile stabilire se il contatto con la mafia costituisca concorso esterno punibile o fatto penalmente irrilevante.

In questa prospettiva ha stabilito che non qualsiasi rapporto con l’organizzazione criminale o con singoli mafiosi può essere considerato reato, ma che può essere ritenuto tale soltanto il contatto «che abbia concretamente contribuito al rafforzamento dell’organizzazione criminale o quantomeno alla conservazione della sua forza». La condotta punibile, si è soggiunto, dev’essere specificamente individuata e dimostrata, e dev’essere altresì provato che essa ha contribuito al menzionato mantenimento dell’efficienza dell’associazione o al suo rafforzamento. Su questa base, la tipizzazione della fattispecie penale sembra, in larga misura, soddisfatta. Saranno sicuramente esclusi dall’ambito dell’incriminazione, ad esempio, i contatti sporadici, i contributi marginali, le prestazioni che non forniscano alla mafia strumenti per raggiungere i suoi obiettivi, gli apporti che rientrino nella fisiologia delle prestazioni professionali. Perché un politico possa essere incriminato, non sarà d’altronde sufficiente che si accerti che ha accettato i voti mafiosi, ma sarà necessario stabilire che è stato stipulato un patto e quale è stata la controprestazione promessa.

Se si tipizzassero i singoli comportamenti punibili a titolo di concorso esterno, la tassatività delle fattispecie penali diventerebbe indubbiamente più stringente. Ma non potrebbero emergere, a questo punto, specifiche controindicazioni? Non potrebbe accadere, ad esempio, che, nell’ansia di tipizzare questo o quel comportamento, si rischi di tagliare fuori situazioni che, nella concretezza dell’esercizio dell’attività giudiziaria, potrebbero rivelare una sicura caratura criminale? Non potrebbe allora, in questa prospettiva, la proposta tipizzazione, da riforma diretta a garantire la certezza del diritto, trasformarsi in riforma funzionale agli obiettivi di chi vorrebbe, impropriamente, allentare l’attenzione sui rapporti illeciti tra la mafia, la politica e le articolazioni della società civile?

La discussione è, e rimane, aperta. È comunque un fatto che esiste oggi un’interpretazione garantista del concorso esterno, avallata dalla cassazione, in grado d’assicurare un’applicazione omogenea e rigorosa dell’istituto. Che bisogno c’è, dunque, di procedere a innovazioni che potrebbero indebolire la repressione del fenomeno mafioso?

Tanto più che, alla luce della menzionata interpretazione rigoristica, sembrano ormai pressoché abbandonate prospettive (abnormi) quali quelle che pretendevano d’individuare la prova del concorso esterno in fatti e/o accadimenti fisiologici nella vita sociale di una regione ad alta densità mafiosa, come la semplice partecipazione ad un battesimo o ad un matrimonio, la presenza ad una cena, la frequentazione dello stesso circolo, l’amicizia giovanile, e via dicendo. Analogamente, sembra esservi maggiore prudenza nel valutare la condotta dell’imprenditore che, vittima di estorsione, per attenuare il pizzo cerca d’interloquire con la mafia finendo così per contraccambiare in qualche modo (assumendo personale, mettendo a disposizione i propri mezzi di movimento terra, acquistando materiale da determinate imprese, ecc.).

Non vorrei, per altro verso, che l’abbandono dell’istituto generale del concorso in reato associativo suonasse, nei fatti e nell’immaginario collettivo, come un’inversione di rotta rispetto alla grande intuizione di Falcone e Borsellino sulla necessità di colpire con incisività i rapporti impropri fra mafia e istituzioni, mafia e politica, mafia e imprenditoria. Anche soltanto sul terreno dell’immagine sarebbe un segnale molto grave.


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« Risposta #68 inserito:: Marzo 24, 2012, 03:22:55 pm »

24/3/2012

L'incognita della durata dei processi

CARLO FEDERICO GROSSO

L’intervento legislativo sull’art. 18 approvato dal governo inciderà profondamente sui licenziamenti consentiti. I sindacati, ed una parte delle forze politiche, hanno posto, come era naturale, l’accento sul tema, delicatissimo, dell’affievolimento dei diritti.

C’è tuttavia un ulteriore profilo che merita una riflessione: l’impatto che la nuova disciplina può avere sull’esercizio della giustizia, e conseguentemente sui costi per imprese e lavoratori, dato che il protrarsi dei processi di lavoro può recare danno ad entrambi.
La circostanza che il giudice continui ad essere, in un processo, l’arbitro della legittimità o dell’illegittimità dei licenziamenti è stato considerato (nei giorni scorsi) dal governo una risorsa per i lavoratori: la maggiore flessibilità non avverrà senza regole, si è detto, ed a garanzia del rispetto delle norme ci sarà il presidio, prezioso, dell’autorità giudiziaria, che giudicherà se esistevano, o non esistevano, i presupposti per il licenziamento.

In astratto questo ragionamento è ineccepibile. Ma in concreto? La nostra giustizia non è in grandissima salute, e anche se, nel settore della giustizia del lavoro, si rinvengono eccellenze che riescono a chiudere le pratiche giudiziarie in tempi abbastanza accettabili, ma vi sono situazioni diverse, nelle quali si fatica ad arrivare anche soltanto ad una sentenza di primo grato. Come ha riferito l’altro ieri La Stampa, da una recente ricerca condotta su undicimila controversie in materia di licenziamento per giusta causa ex art. 18 (vigente), trattate dai tribunali di Torino, Milano e Roma, è emerso che le disomogeneità fra sede e sede, e addirittura fra giudice e giudice della stessa sede, sono clamorose: in media un processo per licenziamento dura 200 giorni a Torino, 266 giorni a Milano, 429 a Roma, e fra i singoli giudici di quei tribunali le discrasie sono ancora più marcate (da 179 giorni di durata a 693). Che cosa accade in altre sedi giudiziarie, soprattutto in molte sedi periferiche, è d’altronde agevolmente intuibile.

Il problema è rilevante, e rischia di diventare drammatico se con la riforma dell’art. 18 il contenzioso dovesse aumentare, e non si provvedesse, nel contempo, ad attrezzare adeguatamente le sezioni dei giudici del lavoro.

Bisogna dare atto che il governo non ha ignorato il problema. Nel comunicato stampa diffuso ieri subito dopo l’approvazione del disegno di legge esso ha precisato che, quanto ai costi dovuti all’incertezza che circonda gli esiti dei procedimenti avviati a fronte dei licenziamenti, si è introdotta «una precisa delimitazione dell’entità dell’indennità risarcitoria eventualmente dovuta e si sono eliminati alcuni costi indiretti dell’eventuale condanna», svincolando in tal modo «il datore di lavoro, in caso di vittoria del lavoratore, dalla durata del procedimento e dalle inefficienze del sistema giudiziario»; stabilito che la reintegrazione nel posto di lavoro può essere disposta dal giudice soltanto nel caso di licenziamenti discriminatori o in alcuni casi d’infondatezza del licenziamento disciplinare, ha sottolineato che «negli altri casi, tra cui il licenziamento per motivi economici, il datore di lavoro può essere condannato solo al pagamento di un’indennità» (è stata comunque dedicata, si è precisato, «particolare attenzione all’intento di evitare abusi»); ha infine sottolineato che «è prevista l’introduzione di un rito procedurale abbreviato per le controversie in materia di licenziamenti, che ridurrà ulteriormente i costi indiretti del licenziamento».

Quanto al rito speciale, specificamente destinato ad abbreviare i tempi di trattazione delle controversie concernenti i licenziamenti, in astratto va benissimo: la sua introduzione (i cui dettagli saranno individuati di concerto con il ministero della Giustizia), se le sue cadenze saranno ben congegnate, potrà servire ad accelerare (eventualmente) le cause. Speriamo che accada.

Rimane, per altro verso, intatto il rischio di effetti nefasti sul terreno dell’incremento del contenzioso, conseguenti alla diversità del trattamento stabilito per i licenziamenti discriminatori e quelli disciplinari (che consentono la reintegrazione), e quelli effettuati per motivi economici (che non la consentono, e per i quali è previsto il solo indennizzo del lavoratore). E’ infatti agevole prevedere che il lavoratore licenziato per motivi economici cercherà comunque di sostenere che il suo allontanamento è avvenuto per motivi discriminatori; mentre il datore di lavoro potrebbe essere tentato di contrabbandare per motivo economico il motivo discriminatorio, o di cercare di privilegiare, a danno degli altri, i lavoratori che considera «meno pericolosi», mantenendo loro il posto o reimpiegandoli in posti diversi da quelli soppressi per ragioni economiche. Se ciò dovesse accadere (o se i lavoratori dovessero anche soltanto sospettarlo) la spinta al contenzioso sarebbe ovviamente fortissima.

Il governo si è preoccupato di precisare, a questo punto, che particolare attenzione sarà prestata «all’obiettivo di evitare abusi».
Anche qui, in astratto, benissimo. Perché l’intenzione manifestata si traduca in misure efficaci, occorrerà tuttavia che gli strumenti ipotizzati per prevenire abusi e violazioni da parte dei datori di lavoro siano davvero stringenti (descrizione dettagliata delle situazioni qualificabili come giusta causa economica di licenziamento, eventuale costituzione di organismi indipendenti ai quali affidare la valutazione preventiva sull’effettiva esistenza delle ragioni che legittimano l’espulsione dei lavoratori dall’azienda, sanzioni per i datori di lavoro inadempienti, e via dicendo).

Non è comunque sicuro che, nonostante le attenzioni, il paventato incremento dei processi dovuto all’aumento della flessibilità ed alla mutata disciplina delle categorie dei licenziamenti consentiti riesca ad essere evitato. Lo stesso governo ha, d’altronde, ammesso questo rischio quando ha indicato la ragione per cui ha ritenuto d’introdurre misure dirette a contenere i costi del datore di lavoro nelle cause: in questo modo, ha detto, si è inteso svincolare tali costi «dalla durata del procedimento e dalle inefficienze del sistema giudiziario», riconoscendo così, palesemente, il possibile fallimento di ogni politica diretta a contenere contenzioso e durata dei processi.
Non sarebbe, anche sotto questo profilo, un buon viatico per la nuova disciplina dei licenziamenti che sta per intraprendere il suo difficile cammino nelle aule di Camera e Senato.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9919
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« Risposta #69 inserito:: Giugno 12, 2012, 11:32:23 pm »

11/6/2012

Anticorruzione, la migliore riforma possibile

CARLO FEDERICO GROSSO

Se il governo chiederà davvero la fiducia sul ddl anticorruzione, e se la Camera l’approverà, ci troveremmo di fronte ad un’ulteriore «tacca» che l’esecutivo potrebbe inserire nel suo carnet di provvedimenti positivamente assunti nell’interesse del Paese.

La riforma non è, in astratto, la migliore possibile. Di fronte al dilagare della corruzione sarebbe stato opportuno essere più drastici: ripristinando la vecchia durata della prescrizione, vergognosamente accorciata dalla legge ex Cirielli; reinserendo (o inserendo ex novo) reati utili a colpire le provvigioni di denaro «nero», usuale premessa per l’esecuzione di operazioni corruttive (recupero di reati quali il falso in bilancio, repressione più pesante delle false fatturazioni, introduzione del reato di autoriciclaggio); prevedendo minimi di pena più elevati; disciplinando in maniera più incisiva talune fattispecie (pur opportunamente introdotte nel nuovo testo legislativo) come la corruzione tra privati e il traffico d’influenze.

In concreto, l’articolato proposto costituisce tuttavia uno dei testi «migliori» praticabili nell’attuale, difficile, contesto politico.

Esso adempie, finalmente, agli impegni internazionali assunti dallo Stato italiano (Convenzione contro la corruzione delle Nazioni Unite, Convenzione di Strasburgo); rispetto alla legislazione vigente rafforza in modo rilevante gli strumenti di prevenzione e repressione contro la corruttela; sotto diversi profili si allinea ai meccanismi di contrasto utilizzati dalla maggior parte delle legislazioni europee.

In questo contesto, nell’impossibilità «politica» di realizzare una legislazione ancora più incisiva, è preferibile fare saltare l’intera riforma (in attesa di ipotetici tempi «migliori») ovvero approvare la soluzione «compromissoria», ma tutto sommato equilibrata, elaborata dal governo? Personalmente non avrei dubbi: poiché il disegno di legge prevede l’introduzione d’istituti amministrativi di forte impatto nella lotta alla corruzione e rafforza, pur con diverse timidezze, l’attuale livello della repressione penale, perché soprassedere, rinunciando a un significativo passo avanti nella lotta alla corruzione?

Per dare, sia pure brevemente, conto dell’utilità di approvare il progetto mi sembra opportuno riassumere alcuni dei suoi profili qualificanti. Il ddl prevede d’introdurre, in attuazione dell’art. 6 della Convenzione delle Nazioni Unite e degli artt. 20 e 21 della Convenzione di Strasburgo, una «Autorità nazionale anticorruzione» deputata a realizzare attività coordinata di controllo e di prevenzione della corruzione e ad approvare un «Piano nazionale anticorruzione» in grado di programmare il contrasto dei fenomeni corruttivi; assicura trasparenza alle pubbliche amministrazioni prescrivendo la pubblicazione sui siti istituzionali delle informazioni relative ad ogni procedimento amministrativo; prescrive la pubblicità delle posizioni dirigenziali in modo da rendere palesi gli assetti decisionali delle pubbliche amministrazioni; prevede norme a protezione dei dipendenti pubblici che riferiscano condotte illecite; prevede norme di controllo delle imprese esposte al rischio d’infiltrazioni mafiose; prevede, novità davvero rilevante, l’adozione di norme in tema di divieto a ricoprire cariche elettive e di governo conseguente a sentenze definitive di condanna.

In materia penale prevede a sua volta un aumento pressoché generalizzato delle sanzioni (ancorché non sempre adeguato alla gravità di ciascun illecito previsto); introduce (sia pure in modo perfettibile) alcuni nuovi reati, come il traffico d’influenze illecite, particolarmente importante per colpire indebiti arricchimenti di pubblici ufficiali sganciati dal compimento di specifici atti di ufficio, e (sia pure con una configurazione non del tutto adeguata alla pluralità degli interessi offesi) la corruzione tra privati; per effetto degli aumenti delle sanzioni determina un allungamento (sia pure non sufficiente) dei tempi della prescrizione di buona parte dei reati previsti.

Perché allora, come dicevo, non approvare un progetto che, ancorché perfettibile, contiene comunque norme che migliorano, e di non poco, lo standard della nostra legislazione anticorruzione?

Rimane, a questo punto, un’unica obiezione, riguardante il cosiddetto «spacchettamento» del delitto di concussione. Si tratta di questo. Nel ddl anticorruzione la «induzione» a dare o promettere utilità al pubblico ufficiale (oggi punita come concussione al pari della «costrizione» a pagare usando violenza o minaccia) viene estrapolata dal delitto di concussione e prevista come reato autonomo. Con questa innovazione s’intende trattare come vittima del reato (e pertanto come soggetto non punibile) soltanto chi paga la tangente perché «costretto», e punire invece chi si è lasciato semplicemente «indurre» a farlo. L’innovazione tende a rendere più incisiva la disciplina anticorruzione, evitando ampliamenti non giustificati dell’ambito d’impunità di chi, nella sostanza, è concorrente nel reato e non vittima dello stesso (si badi che in nessun altro Paese europeo si prevede il delitto di concussione per induzione: il privato «indotto» è sempre punito a titolo di concorso in corruzione).

Ebbene, si sostiene dai critici più accesi, con questa innovazione il governo tecnico, cedendo alle pressioni del Pdl, e con l’avallo del Pd, favorirebbe, nei fatti, Berlusconi, imputato di concussione per induzione del processo Ruby, in quanto i suoi difensori, dopo l’approvazione della riforma, avranno buon gioco nel sostenere che il reato di concussione per induzione è stato abrogato e che, pertanto, il loro assistito deve essere conseguentemente assolto.

Tecnicamente, quest’obiezione non sta in piedi. Il reato d’induzione a pagare tangenti al pubblico ufficiale, se la riforma dovesse essere approvata, non risulterebbe abrogato, ma sarebbe, semplicemente, previsto come un reato autonomo; in base ai principi vigenti in materia di successione di leggi penali, trattandosi di cambiamento della disciplina di un fatto che era, e continua ad essere, reato, troverà applicazione la norma penale più favorevole al reo. Berlusconi, ove venisse riconosciuto colpevole dei fatti ascrittigli, dovrebbe essere pertanto in ogni caso condannato, tutt’al più con una pena leggermente inferiore.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10216
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« Risposta #70 inserito:: Giugno 19, 2012, 11:19:10 pm »

19/6/2012

Il Quirinale e la mossa legittima

CARLO FEDERICO GROSSO

Tutti speriamo che l’autorità giudiziaria sia messa, finalmente, nella condizione di far luce sulla trattativa che si presume intercorsa fra mafia e Stato nella primavera del 1992.

Tutti confidiamo che i responsabili dei reati siano individuati e condannati. Permane d’altronde intatto lo sconcerto di fronte al fatto che tanti politici che sapevano siano rimasti per tanti anni silenti e che, soltanto ora, fra reticenze e sussurri, qualcuno cominci a raccontare.

La vicenda, com’era inevitabile, a causa della sua enorme rilevanza politica e criminale (Borsellino sarebbe stato assassinato proprio per la sua opposizione alla trattativa; le stragi di Firenze e Roma sarebbero state la reazione alle incertezze dello Stato), non poteva non lasciare dietro di sé, ad ogni passaggio, sciami di polemiche e di veleni.

Da ieri l’altro la polemica sembra lambire il Capo dello Stato a causa di una lettera che egli ha fatto inviare il 4 aprile 2012 dal segretario generale della Presidenza al procuratore generale presso la Cassazione, concernente una doglianza, ricevuta dell'onorevole Mancino, sul fatto che non fossero state, fino ad allora, adottate forme di coordinamento delle attività svolte da più uffici giudiziari.

Che cosa scriveva in quella lettera il segretario generale? Trasmettendo la lettera a sua volta inviata a Napolitano da Mancino, egli precisava che «conformemente a quanto da ultimo sostenuto nella Adunanza plenaria del Csm del 15 febbraio scorso, il Capo dello Stato auspica che possano essere adottate iniziative che assicurino la conformità di indirizzo delle procedure sulla base degli strumenti previsti dal nostro ordinamento, al fine di dissipare le perplessità che possono derivare da gestioni non unitarie delle indagini collegate, i cui esiti possono anche incidere sulla coerenza dei successivi percorsi processuali».

In termini burocratici, si sollecitava dunque, semplicemente, il procuratore generale della Cassazione ad assicurare, per quanto possibile, l’opportuno coordinamento delle indagini, allo scopo di evitare che iniziative discordanti potessero danneggiarle. Ed allora, che c’è di strano? Il Capo dello Stato, nella prospettiva di una proficua collaborazione istituzionale, ha sollecitato, semplicemente, il procuratore generale presso la Cassazione ad esercitare con tempestività ed efficienza i suoi poteri di controllo in una materia particolarmente incandescente quali sono le indagini sulla trattativa mafia-Stato.

Si badi che l’esercizio dei poteri di sorveglianza sollecitati al procuratore generale della Cassazione sono specificamente riconosciuti dalla legge. L’art. 106 del d.lgs. n. 106/2006 dispone che «il procuratore generale presso la Corte di Appello, al fine di verificare il corretto ed uniforme esercizio dell’azione penale, acquisisce dati e notizie dalle procure della Repubblica del distretto, ed invia al procuratore generale presso la Cassazione una relazione annuale» (ovviamente per consentirgli un’adeguata sorveglianza); l’art. 104 del d.lgs. n. 159/2011, sotto il titolo «attribuzioni del procuratore generale della Cassazione in relazione alla attività di coordinamento investigativo», dispone a sua volta che «il procuratore generale presso la corte di Cassazione esercita la sorveglianza sul procuratore nazionale antimafia». Il procuratore nazionale antimafia ha sicuramente il potere di dirigere e coordinare le attività investigative delle Direzioni distrettuali antimafia; egli è tuttavia soggetto, a sua volta, a specifica sorveglianza da parte del procuratore generale presso la Cassazione, la massima autorità requirente del Paese.

Il Capo dello Stato, nei suoi interventi in materia di giustizia, aveva d’altronde manifestato più volte preoccupazione sul fatto che indagini collegate potessero avere sviluppi non adeguatamente coordinati; e già altre volte aveva opportunamente allertato il procuratore generale in questo senso (si può ad esempio ricordare il suo intervento nel momento in cui era scoppiato un grave conflitto fra le procure generali di Catanzaro e Salerno). È pertanto naturale che anche questa volta abbia potuto, in piena legittimità, rivolgersi alla massima autorità giudiziaria competente a sorvegliare il funzionamento delle procure per sollecitare interventi funzionali al miglior esercizio possibile dell’attività giudiziaria.

Dato il tenore della lettera, non è d’altronde vero che si siano verificate indebite pressioni sul procuratore generale, non è vero che sia stato scavalcato il Capo della Dna, nulla, nella lettera, fa lontanamente pensare che essa tendesse a salvare in qualche modo i politici.

Che su questa vicenda si sia imbastita una polemica di tal fatta, è segno tristissimo della crisi in cui annaspa il nostro Paese.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10242
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« Risposta #71 inserito:: Luglio 06, 2012, 11:07:33 am »

6/7/2012

No Tav, l'udienza della chiarezza

CARLO FEDERICO GROSSO

Oggi inizia il processo contro i No Tav imputati di gravi reati contro le forze dell’ordine commessi il 27 giugno e il 3 luglio 2011. E’ l’occasione per rendere giustizia con un processo «giusto»: garantista nei confronti degli imputati, come dev’essere ogni processo penale, ma nel contempo attento alle esigenze della «difesa sociale».

L’inizio del processo può essere altresì l’occasione per fare il punto su ciò che è accaduto, fino ad ora, in tale vicenda giudiziaria: occasione tanto più importante, date le polemiche che hanno investito l’attività della procura della Repubblica di Torino che ha condotto le indagini, e chiesto le misure cautelari e i rinvii a giudizio.

Un punto dev’essere innanzitutto evidenziato: che a scorrere gli atti giudiziari nulla sembra essere stato ispirato a una logica d’intervento «emergenziale». Nessuna applicazione di legge speciale (allo stato d’altronde inesistente); nessun coinvolgimento «collettivo», ma paziente ricerca, e individuazione, degli elementi in grado di sostenere l’accusa nei confronti di ciascun manifestante incriminato; grande attenzione a non criminalizzare «il movimento», ma criminalizzazione, soltanto, degli autori identificati di specifici, e dimostrati, atti di violenza; rigoroso rispetto, quindi, del principio di personalità della responsabilità penale e nessuna confusione fra responsabilità individuale e comportamenti collettivi; addirittura (nonostante la sussistenza di indizi a mio avviso precisi in tale direzione), mancata contestazione del delitto di associazione a delinquere, che avrebbe potuto far sorgere il sospetto di criminalizzazioni collettive o del movimento in quanto tale.

I fatti emersi appaiono, d’altronde, di rilevante gravità: lancio di pietre, massi, bombe carta, razzi, estintori, altri oggetti contundenti contro le forze dell’ordine; riversamento sui mezzi d’opera di liquido infiammabile e ammoniaca, con evidente creazione di una situazione di pericolo per l’incolumità delle maestranze e della polizia; meticolosa organizzazione degli attacchi da parte di gruppi che uscivano a turno dalla boscaglia per attaccare le posizioni difese dalla polizia; centinaia di persone che agivano «previo concerto» (cioè dopo essersi accordate nell’esecuzione di un piano prestabilito) e «travisate» (con caschi, cappucci, maschere antigas); centinaia di poliziotti feriti e contusi. Né conta che alcuni degli episodi contestati siano meno gravi di altri: si è sostenuto, ad esempio, da taluno dei critici delle indagini compiute, che «afferrare per un braccio un operatore di polizia», «ostruire il passaggio delle forze dell’ordine con una paratia mobile», «rimuovere un cancello», siano cose diverse dal lanciare sassi o biglie. Che c’entra? Anche tali episodi, giustamente contestati dalla procura della Repubblica, costituiscono reato (violenza, resistenza, danneggiamento); essi, unitamente ai fatti più gravi, concorrono a dimostrare in ogni caso la presenza in Valsusa, nel giugno e nel luglio di un anno fa, di un compendio di violenza criminale intollerabile da qualunque Stato di diritto.

Le indagini che hanno appurato questi fatti, e che nel mare d’impuniti (concorrenti «allo stato non identificati», come li definisce ripetutamente il capo di imputazione) sono riuscite a individuare, riconoscendoli, alcuni dei facinorosi, ad evidenziare le loro specifiche gesta, ed a pretendere di conseguenza, con la richiesta di rinvio a giudizio, la loro punizione, sono state pertanto null’altro che normalissime indagini preliminari rispettose dei nostri principi processuali. Non è d’altronde irrilevante che le decisioni prese da procura e gip siano state avallate da numerose ordinanze del Tribunale del riesame, e che la stessa Cassazione, pur annullando talune decisioni di custodia cautelare, abbia salvaguardato l’impianto complessivo dell’accusa.

Detto questo, poche parole sul processo che sta per iniziare. Come ho accennato, che esso sia processo «giusto» e come tale rispettoso delle garanzie degli imputati ma, anche, di quelle delle vittime. Guai se non lo fosse, guai se sulla spinta di rinnovati sommovimenti di piazza, il processo dovesse subire qualche sbandamento. Non si può dimenticare, infatti, ciò che è accaduto in occasione dei provvedimenti di custodia cautelare, e dopo di essi: le scritte vergognose sui muri di Torino contro il procuratore Caselli, le violenze che gli hanno addirittura impedito di esercitare, in diverse città, il suo legittimo diritto di parlare.

I dirigenti del movimento No Tav si sono dissociati da tali manifestazioni d’eversione. Ovviamente non basta. I facinorosi dovrebbero essere isolati, cacciati, espulsi dalla Valle, in modo da consentire, nell’opposizione all’opera ferroviaria, quantomeno il ripristino della legalità. Anche per questo è necessario che il processo che inizia oggi proceda con la necessaria speditezza, e, individuati i colpevoli, li condanni alle pene previste dalla legge.

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« Risposta #72 inserito:: Luglio 14, 2012, 03:57:09 pm »

14/7/2012

Le punizioni e i benefici devono essere uguali per tutti

CARLO FEDERICO GROSSO

La Cassazionehaconfermato,ieri,l’impianto della condanna dei dieci manifestanti accusati di devastazione e saccheggio» in occasione del G8: le condanne sono state tutte rese definitive, soltanto alcune delle pene originariamente comminate sono state ridotte (con annullamento conrinviointalunicasi,conridefinizionedaparte della stessa Corte in altri). A pochi giorni di distanza, dunque, per una strana coincidenza, la Suprema Corte si è pronunciata sia sulla vicenda a carico dei poliziotti responsabili dei fatti commessi alla scuola Diaz, sia su quella a carico dei giovani accusati di avere messo a ferro e fuoco la città.

La decisione assunta ieri riaprirà inevitabilmente le polemiche, numerosi intellettuali abbiano sottoscritto, nei giorni scorsi, un appello nel quale si chiedeva alla Cassazione l’annullamento di tale sentenza. Da un lato si contestava la legittimità dell’imputazione per «devastazione e saccheggio», un reato, si sosteneva, ereditato dal fascismo, punito con una pena troppo elevata, non adeguatamente definito sul terreno della individuazione delle condotte punibili, sempre più utilizzato contro chi manifesta, protesta, si oppone. Dall’altro ci si domandava se era giusto fare dei dieci imputati condannati i «capri espiatori» della moltitudine d’incappucciati che aveva partecipato ai disordini(perchéproprioqueidieci,enonaltri?),eseera giusto, soprattutto, condannarli per un reato che prevedeva una pena molto più elevata di quella prevista per i reati per i quali erano stati a loro volta incriminati i poliziotti autori di violenze e crudeltà nei confronti di manifestanti inermi.

Siponevainfineun’ultima questione: se a dieci anni di distanza dai fatti fosse ragionevole infliggere sanzioni così devastanti a persone che nel frattempo erano cambiate, si erano inserite nella società, avevano trovato lavoro, si erano sposate, avevano avuto figli: persone che non possedevano pertanto più la «pericolosità» (eventualmente) posseduta al momento dei fatti e che esigevano pertanto tutt’altro trattamento.

Ciascuna delle questioni poste merita attenzione. E’possibilechelapesantezzadellapenaprevista per il delitto di devastazione e saccheggio risenta dello spirito autoritario del codice penale Rocco del 1930. I fatti di «devastazione», cioè di distruzione sistematica, carica d’odio, di cose e luoghi della città da parte di gruppi organizzati, travisati,armatidimazze,sprangheebombemolotov,sonoinognicasogravissimi:nonhannonulla a che vedere con i semplici «danneggiamenti», sono espressione di guerriglia eversiva, costituiscono un attentato all’ordine pubblico e alla sicurezza dei cittadini. In questa prospettiva mi sembra che, di conseguenza, anche in uno Stato democratico essi debbano trovare una collocazione adeguata alla loro oggettiva gravità. Osservazioni analoghe possono essere formulate con riferimento al concetto di «saccheggio», che non è semplice sottrazione di cose altrui (furto), bensì asportazione sistematica di ogni bene rinvenuto in determinati luoghi o circostanze.

E’ vero invece che non è ragionevole che i manifestantiautorididevastazioniesaccheggisiano puniti in modo tanto più pesante di chi, dovendo operare in nome della legge, ha commesso invece, nell’esercizio della funzione, indebite violenze o cagionato lesioni personali a cittadini inermi. L’abnormitàèdovutatuttaviaalfattocheilParlamento, nonostante gli impegni internazionali assunti, non ha ancora previsto il delitto di tortura. Se tale delitto fosse stato introdotto, ben diverso sarebbe stato l’epilogo del processo concernente le violenze perpetrate. Nessun problema di disparità di trattamento avrebbe avuto, pertanto, ragione di essere posto.

Inognicaso,questaèlanostralegge.Chepoteva fare, a questo punto, la Cassazione: annullare la sentenza contro i manifestanti condannati per devastazione e saccheggio perché i poliziotti, in un altro processo, non sarebbero stati adeguatamente puniti per le violenze perpetrate alla scuola Diaz?

Quanto al rischio di fare, dei dieci ragazzi condannati, i «capri espiatori» della moltitudine di persone che nel 2001 ha messo Genova a ferro e fuoco, è agevole obbiettare che, anzi, la circostanzachesoltantoneiconfrontididiecipersonesisia giunti alla condanna per il delitto di devastazione e saccheggio rivela, positivamente, l’attenzione dell’autorità giudiziaria a non coinvolgere nell’imputazione persone nei confronti delle quali non erano emerse prove specifiche di responsabilità penale.

Rimanel’ultimaquestione:gliimputati,oggi,a oltre dieci anni di distanza, sono persone diverse. Non ha pertanto senso applicare loro una sanzione che poteva, tutt’al più, essere giustificata al tempo del commesso reato.

Il problema non è di poco conto. Esso si pone tutte le volte in cui il processo dura troppo a lungo,esifiniscepereseguireunacondannaaeccessiva distanza dal momento della commissione del reato. Se l’autore del fatto non presenta più i profili criminogeni che lo hanno condotto a delinquere, sostiene una corrente di pensiero, è giocoforza rinunciare alla pena; altrimenti sarebbe contraddetta la stessa funzione rieducativa che la Costituzione assegna alla sanzione penale, che verrebbeapplicataachi,essendodifattogià«rieducato», dovrebbe essere per tale ragione rimesso immediatamente in libertà.

Altri risponde, a mio avviso a ragione, che il problema non riguarda l’applicazione della pena, che è assolutamente inderogabile, ma, eventualmente, la sua esecuzione, che nei limiti stabiliti dalla legge dovrà tenere comunque conto della già avvenuta rieducazione del condannato.

Nel caso di specie stupisce, comunque, che il richiamo della personalità cambiata, che giustificherebbe la rinuncia alla punizione, sia stata invocata soltanto nei confronti dei manifestanti, non nei confronti dei poliziotti, che anch’essi, a distanza di dieci anni, possono essere diventati «diversi», e alcuni dei quali, nel frattempo, sono stati protagonisti di brillanti operazioni. Se si ritiene che un beneficio debba essere concesso, esso dovrebbe essere infatti preteso per tutti, e non soltanto per qualcuno.

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« Risposta #73 inserito:: Agosto 11, 2012, 10:38:43 am »

11/8/2012

Deputati-detenuti i limiti del colloquio

CARLO FEDERICO GROSSO

Davvero illegittime le visite in carcere dei parlamentari Sonia Alfano e Giuseppe Lumia? Come è noto essi, rispettivamente impegnati nelle commissioni Antimafia dei Parlamenti europeo ed italiano, nel corso delle visite avrebbero invitato alcuni boss a collaborare con lo Stato. Di qui la polemica esplosa a seguito della pubblicazione della notizia su di uno dei maggiori quotidiani italiani.

Vediamo, innanzitutto, che cosa stabiliscono le norme. L’art. 67 dell’ordinamento penitenziario (1975) prevede che ministri, parlamentari, giudici costituzionali ed altre circoscritte categorie di soggetti possano visitare le carceri senza necessità d’autorizzazione. Il suo regolamento di esecuzione (d.p.r. n. 230/2000), all’art. 117 disciplina le visite disponendo che esse «sono rivolte particolarmente alla verifica delle condizioni di vita degli stessi. Non è consentito fare osservazioni sulla vita dell’istituto in presenza di detenuti o internati o trattare con imputati argomenti relativi al processo in corso».

Non v’è pertanto dubbio che se i due parlamentari avessero rivolto ai boss con i quali sono entrati in contatto domande su processi per i quali erano imputati (ad esempio la trattativa fra Stato e mafia), avrebbero clamorosamente infranto una prescrizione di legge. Ma davvero è pensabile che essi abbiano interloquito sui processi? E’, piuttosto, verosimile che essi si siano limitati ad invitare in generale i mafiosi a collaborare con lo Stato. E’ su questa ipotesi che, pertanto, ha esclusivamente senso interrogarsi.

Ebbene, alla luce del citato art. 117 non pare dubbio che, se vi fosse stata una sollecitazione a collaborare con lo Stato, essa sarebbe apparsa, comunque, non vietata: come ho precisato, tale articolo vieta infatti soltanto di «fare commenti sulle condizioni carcerarie davanti ai detenuti» e di «rivolgere ad essi domande sui processi in corso» e null’altro.
Oltre che con la legge, sempre sul terreno delle norme dettate in materia carceraria, occorre tuttavia fare i conti anche con una circolare ministeriale, emanata nel 2009 con l’obiettivo di raccogliere, per ragioni di chiarezza, le disposizioni concernenti le modalità di svolgimento delle visite, nonché di «apportare gli aggiornamenti suggeriti dall’esperienza applicativa della legge».

Orbene, nell’art. 4 tale circolare stabilisce che le autorità in visita «possono rivolgere la parola ai detenuti al fine di rendersi conto in maniera più completa delle condizioni di vita degli stessi. Tali dialoghi, però, non possono travalicare in veri e propri colloqui e/o interviste, specialmente se vertenti sui contenuti espressamente vietati dell’art. 117 del d.p.r. n. 230/2000. Nel caso in cui la disposizione del capoverso precedente non venga rispettata, il direttore (del carcere) invita l’autorità a non perseverare in tale condotta». In questo modo sembrerebbe che il dialogo autorità/detenuto, pur consentito, debba risultare tuttavia circoscritto al tema delle condizioni di vita carceraria, e che non possa comunque travalicare in un colloquio o in una intervista: due limitazioni che sicuramente non comparivano nel regolamento di esecuzione del 2000, e tanto meno nel testo dell’ordinamento giudiziario del 1975.

Che valore ha, tuttavia, questa apparente modifica restrittiva? Su di un terreno di valutazione giuridica formale, si può obbiettare che una circolare non può contraddire una norma di rango superiore, come è quella contenuta nel d.p.r. n. 230/2000. Da un punto di vista sostanziale, che senso avrebbe, d’altronde, circoscrivere il dialogo fra autorità visitante e detenuto al tema delle sue condizioni di vita carceraria, con esclusione di ogni divagazione su temi diversi (che possono magari essere di loro conforto)? E come è possibile distinguere il «dialogo» dal «vero e proprio colloquio» nel quale esso non dovrebbe trasformarsi? La realtà è che fra autorità visitante e carcerato, fra i quali è sicuramente consentito un contatto diretto e un dialogo (sia pure alla presenza del direttore o di un suo delegato), potrà instaurarsi un rapporto umano, un discorso, che potrà vertere su diversi temi, purché essi non siano specificamente vietati dalla legislazione carceraria o da altre leggi.

Tornando al caso dell’iniziativa dei due parlamentari in questione, quali potrebbero essere i divieti scaturenti dalla legge? La legislazione carceraria, abbiamo visto, vieta esplicitamente soltanto che il dialogo concerna processi in corso. In un generico invito a collaborare con lo Stato (se davvero soltanto questo è stato l’invito rivolto dai due parlamentari in questione ai mafiosi), è d’altronde individuabile, come è stato sostenuto da alcuni commentatori, un indebito straripamento della politica in un campo riservato all’autorità giudiziaria? Una indebita invasione di campo vi sarebbe sicuramente stata se i due parlamentari, entrando nel merito di qualche particolare processo, avessero cercato di convincere ad uno specifico e mirato pentimento. Ma se l’obbiettivo era, genericamente, di spingere qualche criminale di rango a collaborare con lo Stato, non comprendo quale violazione di «campo riservato» vi sarebbe mai stata.

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« Risposta #74 inserito:: Agosto 27, 2012, 05:21:02 pm »

27/8/2012 - GIUSTIZIA

Anticorruzione una riforma senza scambi

CARLO FEDERICO GROSSO

Il ministro Severino, alla ripresa dei lavori del governo, ha fatto il punto sulle riforme possibili in materia di giustizia. Ancora una volta le idee del ministro mi sono sembrate in larga misura condivisibili: priorità assoluta allo smaltimento dei processi civili e alle norme anticorruzione, anche per rispondere positivamente alle sollecitazioni europee. Poi si vedrà.

Questa calendarizzazione mi sembra importante. Durata irragionevole dei processi civili e dilagare della corruzione costituiscono due piaghe che, unitamente alle lungaggini della burocrazia, contribuiscono a rendere l’Italia un luogo poco appetibile per le imprese e a danneggiare pertanto la sua economia. Non stupisce pertanto che siano individuate come priorità da un governo che si prefigge, appunto, il risanamento economico del Paese e la sua uscita dalla crisi, costituendo la durata eccessiva delle controversie civili e la corruzione oneri aggiuntivi molto pesanti per chi intende intraprendere un’attività imprenditoriale o commerciale.

I numeri della giustizia civile forniti ieri da «La Stampa» sono drammatici: cinque milioni e mezzo di processi pendenti al 30 giugno 2011, oltre quattro anni la durata media di un processo, 1032 giorni quella di un processo di appello.

Giusto, quindi, che il ministro annunci misure specifiche per contrastare il fenomeno: introduzione (già decisa) di un filtro per l’appello nei processi civili (che in prospettiva dovrebbe consentire di non accumulare eccessivi arretrati), una task force da dedicare alla trattazione dei processi pendenti (secondo una simulazione, ha rilevato il ministro, se si applicassero duecento persone a smaltire le cause in appello che sono in attesa di decisione da oltre tre anni, calcolando quarantamila sentenze l’anno, s’impiegherebbero cinque anni e mezzo per azzerare l’arretrato complessivo). Semmai, se possibile, le misure dovrebbero essere ancora più incisive.

Per altro verso, l’Europa sta aspettando da oltre dieci anni che l’Italia adempia agli obblighi internazionali assunti con la sottoscrizione dei trattati anticorruzione. Una legge perfettibile, ma tutto sommato ampiamente accettabile (anche se non è riuscita a risolvere adeguatamente tutti i problemi: ad esempio, quello della prescrizione dei reati), è stata approvata dalla Camera prima dell’estate e attende ora l’approvazione del Senato. Il Consiglio dei ministri di venerdì scorso ha, giustamente, ribadito che l’approvazione definitiva di tale ddl costituisce una priorità del governo. Ma esso riuscirà davvero a condurlo in porto, date le critiche concentriche, di segno contrapposto, che sono state rivolte sia da una parte consistente del Pdl sia dall’attuale opposizione? L’auspicio è che vi riesca, anche se le difficoltà (e i possibili costi) sono elevati.

Vale la pena di fare il punto della situazione per cercare d’individuare appunto difficoltà e rischi dell’iter prossimo venturo degli interventi legislativi in materia di giustizia. Il Pdl, critico nei confronti di alcuni profili importanti della legge anticorruzione (ha manifestato, ad esempio, contrarietà all’introduzione dei reati di corruzione fra privati e di traffico d’influenze illecite, e all’aumento generalizzato dei massimi delle pene, in quanto a suo dire esso allungherebbe eccessivamente i tempi della prescrizione), prima dell’estate aveva posto come condizione che in Senato si affrontassero insieme i temi della legge anticorruzione, delle intercettazioni e della responsabilità civile dei magistrati. L’obiettivo era evidente: affrontare insieme tutti i nodi sul tappeto avrebbe consentito di trattare con le altre forze politiche di maggioranza e con lo stesso governo possibili scambi, ed eventualmente ottenere soluzioni auspicate sull’uno o sull’altro fronte.

I rischi maggiori concernono la materia delle intercettazioni, sulla quale da anni governi e Parlamenti si stanno cimentando. E’ noto come il Pdl, ma anche frange non marginali del Pd, da anni cerchino di ridurre l’incisività delle indagini penali e d’imbavagliare l’informazione attraverso una drastica limitazione delle intercettazioni e un altrettanto drastico divieto di pubblicare atti delle indagini penali (ben al di là del ragionevole intento di evitare che persone estranee ai processi penali, casualmente intercettate, possano finire nel tritacarne massmediatico). Ebbene, preoccupa non poco che questo tema possa diventare oggetto di scambio con la normativa anticorruzione, magari utilizzando, come clava, lo spauracchio della legge sulla responsabilità civile dei magistrati, ufficialmente osteggiata dal Pd ma appoggiata dalla Lega.

Ecco perché una rigorosa calendarizzazione dei problemi, che non consenta improprie confusioni fra l’una e l’altra questione, mi sembrerebbe essenziale per una ragionevole ed ordinata loro soluzione (anche per, eventualmente, porre la fiducia sull’uno o sull’altro provvedimento). Il ministro, nell’intervista rilasciata ieri a «La Stampa», dopo avere precisato che costituisce valutazione comune dell’intero governo che la legge anticorruzione rappresenti una assoluta priorità, ha soggiunto che «i problemi tecnici sono, comunque, tutti ragionevolmente risolvibili» e che anche il tema delle intercettazioni «va risolto laicamente» e che in ogni caso «si è molto avanti, grazie anche al contributo del confronto svolto dai responsabili dei partiti della maggioranza».

Continuo a ritenere che sarebbe in ogni caso più tranquillizzante se il governo, rispettando le priorità che a dire del ministro esso stesso si sarebbe dato, procedesse senza tentennamenti lungo la strada indicata, senza rischiare pericolose commistioni fra problemi diversi e senza mescolare le urgenze (legge anticorruzione, accelerazione dei processi civili) con questioni che non sembrano proprio essere altrettanto urgenti per il bene del Paese.

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