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Autore Discussione: CARLO FEDERICO GROSSO.  (Letto 47619 volte)
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« Risposta #45 inserito:: Ottobre 11, 2010, 07:28:47 am »

11/10/2010

La giustizia "sotto il trono"

CARLO FEDERICO GROSSO

Il tema giustizia è al centro dell’attenzione riformatrice del capo del governo. Le riforme pensate riguardano peraltro, in larga misura, temi che poco hanno a che fare con l’obiettivo di efficienza che dovrebbe essere prioritario.

Mi riferisco non soltanto ai progetti che salvaguardano il premier dai suoi processi, come il lodo Alfano, ma soprattutto a quelli finalizzati a «riequilibrare», così si dice, i poteri dello Stato, assicurando una protezione generalizzata alla politica contro le iniziative giudiziarie: articolato sistema di immunità, indebolimento del Csm, rafforzamento dell’ingerenza dei partiti nella gestione della magistratura, limitazioni dell’indipendenza di pubblici ministeri e giudici. In questa prospettiva, ancora in questi giorni, si è parlato di sdoppiamento del Csm, d’incremento della componente di nomina politica dei suoi membri, di separazione delle carriere, di ribaltamento dei poteri fra procure e polizia giudiziaria nella conduzione delle indagini.

Io sono in larga misura critico di fronte a questo «nuovo». E sono critico, soprattutto, nei confronti delle ventilate riforme costituzionali «di struttura», che finirebbero per assicurare molta impunità alla politica, ma sicuramente poca giustizia rapida ed eguale nell’interesse dei cittadini. Mi si obietta tuttavia da qualche lettore: bene, ma non basta criticare. Quali sono invece, concretamente, le proposte alternative finalizzate all’efficienza? Senza pretese d’esaustività, mi sembra possibile tratteggiare un quadro di possibili riforme utili a una giustizia funzionante. Occorrerebbe, in primo luogo, affrontare la questione della riorganizzazione delle sedi giudiziarie, eliminando quelle inutili e procedendo ai necessari accorpamenti (sono anni che tale problema è sul tappeto; nulla è stato peraltro realizzato a causa delle resistenze locali).

Ancor prima, occorrerebbe risolvere il nodo delle sedi disagiate vacanti (vi sono, addirittura, procure della Repubblica ormai senza sostituti, e quindi di fatto impedite). A questo riguardo il governo ha varato una riforma che prevede il trasferimento coattivo dalle sedi limitrofe. Tale provvedimento è stato accusato da taluno d’incostituzionalità (violerebbe il principio d’inamovibilità dei magistrati); sembrerebbe, addirittura, che il Csm stia facendo resistenza alla sua applicazione. In ogni caso, la questione dovrebbe essere risolta in fretta: o con la rigorosa applicazione della nuova legge o con altri, possibili, strumenti.

C’è, in secondo luogo, un problema di riorganizzazione interna degli uffici giudiziari. Nel Paese esistono alcuni esempi d’interventi che hanno consentito l’ottimizzazione dei mezzi con risultati apprezzabili; il che dimostra che, riorganizzando in maniera razionale, è possibile ottenere. Perché non cercare d’estendere la riorganizzazione felicemente praticata all’intero sistema? D’importanza decisiva può diventare, a questo punto, l’informatizzazione del servizio giustizia, con la sostituzione degli accessi alle cancellerie con collegamenti via Internet e quella delle copie cartacee degli atti con la loro trasmissione per e-mail.

Sono prospettabili, inoltre, interventi legislativi mirati che potrebbero assicurare l’abbattimento dei rinvii o degli annullamenti «postumi» dei processi. Ne indico alcuni: semplificazione del regime delle notifiche; esaurimento delle questioni relative alla competenza nell’udienza preliminare, e possibilità di ricorso immediato in Cassazione; semplificazione delle nullità con onere, per i difensori, di eccepirle immediatamente; riduzione dei legittimi impedimenti (sovente strumentali) di imputati e avvocati; modificazione della disciplina della contumacia.

Si potrebbe, a questo punto, pensare a cambiamenti più articolati del sistema processuale. Ad esempio, imposizione ai pubblici ministeri di un termine perentorio per le proprie determinazioni una volta esauriti i tempi delle indagini; riordino della disciplina dell’udienza preliminare (oggi trasformata in una sorta di «quarto» grado di giudizio); rivisitazione del sistema delle impugnazioni (es. limitazioni all’uso contemporaneo dell’appello e del ricorso per Cassazione e dei casi di ricorribilità in Cassazione, divieto di ricorrere contro i patteggiamenti).

Si potrebbe, infine, prospettare una riforma organica dei codici e del processo. I tempi per la realizzazione di iniziative di ampio respiro di questo tipo potrebbero essere lunghi. È tuttavia peculiare che progetti organici di riforma, elaborati nell’ultimo decennio da alcune commissioni ministeriali (io stesso ho presieduto una di esse, di riforma del codice penale), siano stati lasciati cadere, sprecando così risorse e vanificando risultati positivi possibili. Requisito indispensabile sarebbe, infine, non tagliare, ma se possibile incrementare, e di molto, le risorse destinate alla giustizia.

A questo punto, di fronte a un’inerzia apparentemente incomprensibile (talune delle menzionate riforme, si badi, sarebbero realizzabili velocemente e a costo zero), viene peraltro un sospetto: che alla politica, al di là delle parole, una giustizia veramente funzionante interessi poco. Ciò che interessa in realtà a larghi settori dell’una come dell’altra sponda politica è, soprattutto, che la magistratura sia saldamente, e definitivamente, collocata «sotto il trono»

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« Risposta #46 inserito:: Gennaio 14, 2011, 11:19:30 am »

14/1/2011

Ristabilita l'uguaglianza

CARLO FEDERICO GROSSO

La Corte Costituzionale ha deliberato nei tempi previsti. Con uno stringato, ma esauriente, comunicato diffuso ieri pomeriggio, ha reso pubblici i contenuti della sua importante decisione sul legittimo impedimento. Essi mi paiono assolutamente condivisibili. I giudizi potranno essere esaustivi solo quando si potranno leggere le motivazioni della sentenza.

Oggi mi sembra importante cercare di capire il significato di ciò che è stato deciso e quali saranno le conseguenze sui processi penali del premier.

Vediamo, innanzitutto, di riassumere che cosa stabiliva, esattamente, la legge sul legittimo impedimento. Nel suo art. 1 comma 1 essa elencava i casi «che costituiscono legittimo impedimento per il Presidente del Consiglio a comparire quale imputato nelle udienze penali in ragione del concomitante esercizio di una o più delle sue attribuzioni». Nell’art. 1 comma 3 disponeva a sua volta che il giudice, su richiesta della parte, era obbligato a rinviare il processo ad altra udienza, senza potere procedere ad alcuna valutazione di merito sulla istanza presentata. Nell’art. 1 comma 4 soggiungeva che la presidenza del Consiglio aveva titolo «ad attestare che l’impedimento era continuativo e correlato allo svolgimento delle funzioni», e che in questo caso il giudice era tenuto «a rinviare il processo ad udienza successiva al periodo indicato» (che poteva essere addirittura di sei mesi).

In questo modo si configurava un vero e proprio titolo dell’Alta Carica, insindacabile dal giudice, a non presentarsi alle udienze penali adducendo l’impedimento, e ad ottenere in questo modo, automaticamente, il rinvio del processo (è utile ricordare che l’imputato ha diritto ad essere presente alle udienze penali nelle quali si tratta il suo processo). Secondo i critici, si veniva così a configurare una vera e propria condizione personale d’immunità processuale, che configgeva con il principio d’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, tanto più grave se si considerava che con certificazione, neppure motivata, la presidenza del Consiglio avrebbe potuto «attestare» la continuità dell’impedimento ed ottenere, in questo modo, un rinvio automatico del processo di rilevante durata.

Ebbene, la Corte Costituzionale ha, innanzitutto, dichiarato in modo assolutamente deciso l’illegittimità dell’art. 1 comma 4 della legge sul legittimo impedimento, stabilendo che l’ipotesi d’impedimento continuativo attestato dalla presidenza del Consiglio viola clamorosamente il principio di eguaglianza. Esso infrange infatti, è scritto nel comunicato, l’art. 3 Cost., che prevede, appunto, che «tutti i cittadini sono eguali di fronte alla legge».

In secondo luogo la Corte ha stabilito che è incostituzionale altresì il comma 3 dell’art. 1, «nella parte in cui non prevede che il giudice valuti in concreto, a norma dell’art. 420 ter c.p.p., l’impedimento addotto». Tale comma 3 prevedeva l’automatismo della sospensione del processo: l’Alta Carica presentava istanza di rinvio adducendo l’esistenza di un legittimo impedimento; il giudice era obbligato a disporre il rinvio. Questo automatismo, ha deciso la Corte, viola anch’esso il principio di eguaglianza, introducendo una situazione di privilegio ingiustificabile a favore di determinati soggetti. La norma ritorna, invece, ad essere legittima nella misura in cui si riconosca che il giudice può valutare in concreto, secondo quanto stabilisce per tutti i cittadini l’art. 420 ter c.p.p., se l’impedimento è appunto giustificato o no. Ma ciò significa avere, anche in questo caso, eliminato la norma di privilegio introdotta dalla legge n. 51/2010.

Dell’impalcatura originaria di tale legge rimane in piedi, quindi, soltanto la previsione dei casi d’impedimento, elencati nel comma 1 dell’art. 1. Nei confronti di questa norma la Corte ha infatti precisato che le questioni di legittimità costituzionale sollevate «non sono fondate». Ha tuttavia specificato che esse non sono fondate nella misura in cui «la disposizione venga interpretata in conformità con l’art. 420 ter c.p.p.»: che venga, cioè, interpretata nello spirito dei principi generali enunciati nei confronti di tutti i cittadini. Anche sotto questo profilo, pertanto, pure se non attraverso una dichiarazione d’illegittimità costituzionale, il privilegio sembra pertanto svanire. A questo punto è agevole indicare quali saranno gli effetti della sentenza della Corte sui processi del premier. Essi ovviamente riprenderanno. Il premier avrà, pur sempre, titolo per opporre, di volta in volta, un suo eventuale legittimo impedimento. Il giudice avrà, tuttavia, la possibilità di valutare in concreto la fondatezza o meno dell’istanza. Il principio di eguaglianza risulterà, in questo modo, sicuramente ristabilito. Non è difficile tuttavia immaginare quali saranno le tensioni che si accompagneranno ad ogni istanza presentata e ad ogni decisione di merito del giudice.

Un’ultima riflessione. Nel comunicato della Corte Costituzionale si precisa che le due norme sono state dichiarate incostituzionali per violazione «degli artt. 3 e 138 Cost.». Dell’art. 3 ho già parlato. Il riferimento all’art. 138 Cost. significa, verosimilmente, che a giudizio della Corte il «privilegio» del presidente del Consiglio potrebbe essere reintrodotto attraverso una legge di rango costituzionale. Un principio che era già stato enunciato nelle sentenze che avevano sancito l’incostituzionalità dei lodi Schifani ed Alfano.

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« Risposta #47 inserito:: Febbraio 16, 2011, 04:48:39 pm »

16/2/2011

Il rito breve diventerà molto lungo

CARLO FEDERICO GROSSO

Come era prevedibile, il gip di Milano ha accolto la richiesta di giudizio immediato nei confronti di Berlusconi. Evidentemente ha ritenuto che sussistessero entrambi i requisiti ai quali la legge subordina tale specialissimo rito processuale (l’evidenza della prova e l’avvenuto interrogatorio dell’indagato o la sua mancata comparizione davanti al pubblico ministero).

Non è questo il momento di discutere se questo rito sia stato assunto a ragione o a torto, anche se le notizie sul contenuto dell’inchiesta pubblicate sui giornali consentono, ampiamente, di capire le ragioni in forza delle quali la richiesta di giudizio immediato ha potuto essere formulata e, quindi, essere accolta dal giudice. Piuttosto, può essere interessante capire che cosa potrà accadere d’ora in avanti sul terreno del processo.

Iniziamo dalla polemica innescata ieri da esponenti del mondo politico sull’irritualità dell’attività giudiziaria compiuta dalla magistratura, in quanto essa contrasterebbe con le valutazioni del Parlamento. Poiché la Camera, giudicando su di una richiesta di autorizzazione ad eseguire una perquisizione, ha affermato che la concussione sarebbe stata compiuta da Berlusconi nell’esercizio delle sue funzioni, ed avrebbe pertanto dovuto essere giudicata dal Tribunale dei ministri, il differente avviso manifestato dall’autorità giudiziaria costituirebbe un attentato alla sovranità popolare.

Questa affermazione, giuridicamente, è una sciocchezza, poiché la magistratura nell’interpretare le leggi è totalmente indipendente e le sue decisioni non sono, pertanto, condizionate dal giudizio espresso da una maggioranza parlamentare. Tali accuse lasciano comunque supporre che di qui a poco il governo, la maggioranza parlamentare, o i difensori di Berlusconi, solleveranno conflitto di attribuzione fra poteri dello Stato davanti alla Corte Costituzionale, cercando di sottrarre comunque il premier alla giurisdizione della magistratura ordinaria, se non addirittura alla giustizia (per potere procedere nei confronti dei reati ministeriali è necessario, infatti, che il Parlamento conceda la sua autorizzazione. E quando mai questo Parlamento la concederebbe?).

Diciamo subito che il conflitto di attribuzione non obbliga a sospendere il processo (tutt’al più, se la Corte dovesse dare torto alla magistratura, gli atti giudiziari compiuti risulterebbero nulli). Ciò significa che il 6 aprile il processo penale a Berlusconi per concussione e prostituzione minorile potrà essere iniziato (a meno che egli non chieda, incredibilmente, il giudizio abbreviato o il patteggiamento). E’ difficile, tuttavia, pensare che esso possa comunque proseguire spedito.

La difesa potrà infatti utilizzare un vasto arsenale di operazioni dilatorie: innanzitutto fare leva sul legittimo impedimento dell’imputato. Questo «rimedio» non è più così agevole com’era fino a ieri, in quanto la Corte Costituzionale ha dichiarato illegittima la legge che riconosceva a Palazzo Chigi il potere di certificare in modo vincolante la condizione di soggetto impedito del primo ministro. Berlusconi pertanto, come ogni altro cittadino, se vorrà rinviare il processo dovrà di volta in volta addurre uno specifico, documentato, impegno istituzionale, la cui consistenza potrà essere valutata dal giudice. Non è peraltro difficile immaginare quali e quante tensioni e polemiche potrà suscitare, ad ogni udienza, l’eventuale decisione del premier di ostacolare la prosecuzione del suo processo. E soprattutto, quanto effettivo ritardo essa potrà concretamente causare all’ordinato svolgimento della giustizia nei suoi confronti.

In via preliminare, i difensori di Berlusconi potranno d’altronde dispiegare un complesso articolato di eccezioni. Innanzitutto potranno eccepire l’incompetenza del tribunale ordinario, affermando che la concussione, in quanto reato ministeriale, deve essere giudicata dal Tribunale dei ministri, ed affermare che la prostituzione minorile, a questo punto necessariamente separata dalla concussione, deve essere a sua volta assegnata al suo giudice naturale, cioè il Tribunale di Monza (in quanto Arcore, luogo nel quale sarebbero state commesse le condotte costitutive di tale delitto, si trova in quel circondario). In secondo luogo potranno sostenere l’illegittimità della richiesta di giudizio immediato, eccependo che di tale rito difettava taluno dei presupposti, magari, addirittura, l’evidenza delle prove. In terzo luogo potranno cercare, fra le pieghe della burocrazia giudiziaria (eventuali avvisi difettosi, termini non rispettati, altre incombenze processuali trascurate), la strada per ottenere in qualche modo annullamenti, ripetizioni di atti, comunque ritardi.

Un percorso difficile, dunque, dalle possibili conseguenze imprevedibili. Sicuramente un processo lungo, carico di tensioni, che decollerà con difficoltà e non si sa come e quando potrà arrivare a sentenza, ad onta del rito «breve» specificamente adottato.

Un ingorgo per altro verso pericoloso per la tranquillità della vita istituzionale del Paese, foriero di ulteriori strappi e distorsioni nel mondo della politica e della giustizia. Mi ha ad esempio colpito, ieri, la precipitazione con la quale una importante conferenza stampa congiunta del presidente del Consiglio e del ministro Maroni è stata annullata non appena la notizia relativa al processo immediato ha cominciato a circolare. Un imbarazzo, dato che le asserite vittime della concussione del premier sono dipendenti del ministero dell’Interno? E quanti altri imbarazzi si porranno, di qui al 6 aprile, e dal 6 aprile in avanti?

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« Risposta #48 inserito:: Marzo 10, 2011, 06:24:50 pm »

10/3/2011

Conflitto tra poteri dello Stato

CARLO FEDERICO GROSSO

Oggi il Consiglio dei ministri dovrebbe varare la riforma costituzionale della giustizia. Una riforma «epocale», l’ha definita qualche giorno fa il presidente del Consiglio.

Se il Parlamento, a chiusura del lungo iter parlamentare previsto, dovesse davvero approvarla, la giustizia italiana non sarebbe, in effetti, più la stessa. Cambierebbe pelle, caratura, peso, incisività, colore. Sarebbe una giustizia del tutto diversa rispetto a quella che conosciamo.

I punti salienti della riforma dovrebbero essere, stando alle indiscrezioni, la separazione delle carriere, la spaccatura in due del Csm, l’istituzione di una «Alta corte di giustizia» destinata a gestire la disciplina dei magistrati, un diverso livello d’indipendenza a seconda che si tratti di giudici o di pubblici ministeri. L’elenco prosegue con la limitazione dell’obbligatorietà dell’azione penale (che diventerebbe esercitabile «secondo le priorità stabilite da una legge» votata ogni anno dal Parlamento), la polizia giudiziaria autonoma dal pubblico ministero, l’introduzione della responsabilità civile dei magistrati che sbagliano.

Ebbene, nel suo insieme questo complesso di innovazioni determinerebbe una profonda alterazione del rapporto oggi esistente fra i poteri dello Stato. L’idea liberale di una magistratura destinata ad esercitare in modo indipendente il controllo di legalità sull’attività dei cittadini, soggetta soltanto al rispetto della legge, cederebbe il passo all’idea di una magistratura condizionata dal potere politico, ed in particolare dal potere esecutivo. Si realizzerebbe in modo traumatico, e fortemente limitativo delle prerogative della giurisdizione, quel «riequilibrio» fra i poteri che viene da tempo vagheggiato da una parte consistente della nostra classe politica.

Soprattutto, una riforma così configurata rischierebbe d’incidere profondamente sull’autonomia delle Procure della Repubblica e, pertanto, sull’esercizio dell’azione penale da parte dell’ordine giudiziario. Pensate: il pubblico ministero, secondo quanto si prefigurerebbe, non farebbe più parte di un «ordine autonomo ed indipendente da ogni altro potere dello Stato», ma costituirebbe, più semplicemente, un «ufficio» al quale la legge «assicura l’indipendenza»; esso non sarebbe più il protagonista delle indagini, ma dovrebbe sottostare alle iniziative ed alle valutazioni di una polizia giudiziaria resa autonoma dal suo ufficio e gerarchicamente dipendente dal governo; esso non sarebbe più libero di scegliere le priorità nelle indagini penali, ma dovrebbe comunque sottostare alle priorità dettate dal Parlamento.

Si consideri, d’altronde, la profonda modificazione che subirebbe il principio di indipendenza dell’ordine giudiziario, considerato a ragione cardine dello Stato di diritto. Oggi il principio d’indipendenza della magistratura è formulato in maniera piena dalla Costituzione, che stabilisce che «la magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere», e prevede, a presidio concreto di questo enunciato, un Csm forte ed autorevole, presieduto dal Capo dello Stato. Domani, se la riforma avviata dal governo dovesse essere approvata, s’indebolirebbe il principio generale d’indipendenza (riconoscendo la funzione di potere dello Stato autonomo dagli altri poteri soltanto alla magistratura giudicante), e, soprattutto, si vanificherebbe il presidio concreto dell’indipendenza dell’ordine giudiziario costituito dal sistema di autogoverno della magistratura.

Dividere, spaccare, significa già di per sé indebolire. S’ipotizza, peraltro, non soltanto di dividere in due il Csm, ma, altresì, di privarlo dei suoi poteri più nobili e incisivi, attraverso i quali esso ha potuto, negli anni, costituire uno strumento di tutela efficace dei singoli magistrati e della magistratura nel suo insieme ed essere voce autorevole dell’ordine giudiziario, riducendolo, nei fatti, a mera istituzione burocratica per la gestione dei trasferimenti e delle promozioni dei magistrati. Davvero una iniziativa utile per il Paese?

C’è un ulteriore profilo che, su tutt’altro piano, preoccupa. Si prevede che i due Csm siano modificati nella loro composizione, con incremento dei componenti laici di designazione politica, si prevede di istituire una «Alta corte di giustizia» anch’essa a maggioranza «laica», si prevede di introdurre la responsabilità civile dei magistrati che sbagliano. Talune di queste innovazioni di per sé potrebbero anche essere apprezzate. Non c’è tuttavia il rischio che esse, ancora una volta considerate nel loro insieme, e sommate alle altre novità proposte, realizzino, nei fatti, una intimidazione destinata a rendere i magistrati timorosi, e pertanto più timidi nel perseguire i reati e i loro autori?

Tutti riteniamo che la giustizia italiana oggi non funzioni come dovrebbe e che sia pressante l’esigenza di una riforma in grado di restituirle efficienza, rapidità e credibilità. Per soddisfare questa esigenza prioritaria servono peraltro incisive modificazioni dei codici e della legislazione ordinaria. Non serve sicuramente l’azzardo di una modifica dei principi costituzionali.

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« Risposta #49 inserito:: Aprile 06, 2011, 03:50:46 pm »

6/4/2011

La scelta del rinvio senza fine


CARLO FEDERICO GROSSO

La Camera ha votato il conflitto di attribuzioni sul caso Ruby. Il voto era scontato in quanto già una volta, poche settimane fa, la maggioranza aveva stabilito che la telefonata del premier alla polizia diretta a far rilasciare la ragazza costituiva esercizio delle funzioni ed era pertanto qualificabile come reato ministeriale di competenza del tribunale dei ministri.

È interessante chiedersi, a questo punto, quali saranno gli effetti di tale voto nei palazzi di giustizia di Milano e Roma, nei quali saranno assunte, di qui a poco, le decisioni relative alla vicenda. Prima di affrontare questo problema, mi preme chiarire tuttavia un profilo fondamentale per capire le ragioni di tanta attenzione parlamentare attorno a questo caso e, in particolare, attorno al tema del conflitto.

I tribunali dei ministri sono costituiti da magistrati di carriera (estratti a sorte ogni tre anni fra i magistrati del distretto); magistrati di carriera compongono, allo stesso modo, i tribunali ordinari. Non è tuttavia vero, come hanno sostenuto nei giorni scorsi numerosi politici del polo, che per un ministro essere giudicato dall’uno ovvero dall’altro organismo è lo stesso. La legge stabilisce, infatti, che in caso di reato ministeriale il processo può iniziare soltanto se il parlamento l’autorizzi. Ecco perché, per la maggioranza, era così importante dichiarare che nel caso Ruby non era competente il tribunale ordinario. Spostare il processo significava, infatti, porre le premesse perché il parlamento potesse bloccarlo «politicamente» con un voto di totale impunità del Presidente.

Che cosa accadrà tuttavia, ora che il conflitto è stato sollevato, sul terreno dei processi penali e costituzionali che si apriranno? Questa mattina si inaugurerà normalmente, a Milano, il processo Ruby, che, secondo prassi, trattandosi della prima udienza, dopo la costituzione delle parti verrà rinviato all’udienza dedicata alle questioni preliminari.

Nel frattempo le carte verranno inviate dal parlamento alla Corte costituzionale. Qui si porrà, subito, una prima delicata questione: l’asserito conflitto sollevato dal parlamento è ammissibile o inammissibile? Il problema esiste perché si può sollevare conflitto di attribuzioni fra poteri dello Stato soltanto quando si contrappongono poteri di enti diversi o di diverse articolazioni statuali (Stato e Regione, Regione e Regione, Parlamento e magistratura, e via dicendo). Ma nel caso di specie di che tipo di conflitto, davvero, si tratta, dato che si discute, in realtà, di competenza di diverse autorità tutte giudiziarie (tribunale ordinario e tribunale dei ministri), fra le quali non esiste fra l’altro, al momento, nessun conflitto?

Da un lato c’è la magistratura ordinaria che ritiene, ricostruendo i fatti di causa e interpretando la legge in un certo modo, che la competenza appartiene al tribunale ordinario; dall’altro c’è il Parlamento che, ricostruendo altrimenti i fatti, e interpretando diversamente la legge, sostiene che la competenza appartiene invece al tribunale dei ministri. Ma davvero il Parlamento ha il potere di sostituirsi alla magistratura nel ricostruire fatti giudiziari ed interpretare le leggi loro applicabili, ed investire per questa ragione la Corte di questo specifico «conflitto interpretativo»? Davvero si potrebbe, sotto altro profilo, sostenere che la magistratura ordinaria, dichiarandosi competente, è venuta «di fatto» a menomare il diritto dei parlamentari di non autorizzare un processo che era, a loro avviso, di competenza del tribunale dei ministri?

Bizantinismi giuridici, forse. La Corte dovrà, comunque, necessariamente affrontarli e gestirli in tempi possibilmente rapidi. E soltanto nel caso in cui decidesse che la questione sollevata è, nonostante i molti dubbi, ammissibile, potrà andare al cuore del problema entrando nel merito.

Nel frattempo il tribunale di Milano non sarà obbligato a sospendere il processo. Semplicemente, se la Corte costituzionale dovesse in futuro ritenere la sua incompetenza, gli atti processuali posti in essere sarebbero nulli (ma in questo caso sarebbero nulli anche gli atti d’indagine compiuti dalla Procura, e l’istruttoria dovrebbe ricominciare daccapo secondo le regole stabilite per il tribunale dei ministri).

Ammettiamo d’altronde che, dopo l’udienza di smistamento che si terrà questa mattina, il processo (fra qualche mese) riesca in qualche modo a decollare. La prima questione che, verosimilmente, i difensori di Berlusconi solleveranno sarà, ancora una volta, quella d’incompetenza del tribunale ordinario. Su di essa il collegio dovrà decidere immediatamente. Ove essa fosse respinta, si procederebbe oltre. Compatibilmente, tuttavia, con la decisione della Corte costituzionale, con gli impegni istituzionali del premier, con l’ingorgo dei processi concentrati al lunedì secondo gli accordi intervenuti. Fino a quando, tuttavia, per quanto tempo, con quali strascichi e tensioni? E quando mai potrà essere pronunciata anche soltanto la prima sentenza?

Nel complesso, una grande tristezza. Ieri c’è stato il voto con il quale la maggioranza ha cercato di porre le premesse per bloccare (tramite il futuro diniego dell’autorizzazione a procedere) il processo Ruby; a breve vi sarà quello sull’abbreviazione della prescrizione, che dovrebbe assicurare a Berlusconi di evitare anche soltanto l’onta di una sentenza di primo grado per corruzione nel processo Mills. Dopodomani, se anche questi tentativi dovessero fallire, voteranno, magari, l’improcedibilità a prescindere, l’immunità assoluta, l’esenzione totale dalla responsabilità, o quant’altro d’immaginabile sul terreno della protezione penale personalissima del capo del governo?

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« Risposta #50 inserito:: Aprile 14, 2011, 05:02:35 pm »

14/4/2011

La riforma aiuterà i corrotti

CARLO FEDERICO GROSSO

Tutti sanno che la prescrizione abbreviata risponde all’interesse del premier nel processo Mills. Si può dire, anzi, che i suoi dettagli sono stati studiati per favorire il Presidente: l’abbreviazione vale per gli incensurati, e Berlusconi è incensurato, l’accorciamento non è elevato, ma quanto basta per evitargli una condanna, le nuove regole si applicano quando non è stata pronunciata sentenza di primo grado.

E in nessuno dei suoi processi tale sentenza è stata, appunto, pronunciata.

Dove è finito, tuttavia, il «processo breve» che costituiva l’obiettivo originario del progetto e, soprattutto, quali saranno le conseguenze della nuova «prescrizione» sulla sorte dei processi normali? Con il «processo breve» s’intendeva introdurre una durata prestabilita di tutti i processi, nel senso che essi non dovevano superare determinati tempi, e se il giudice li sforava, il processo automaticamente si estingueva. Tale meccanismo era demenziale. Qualunque fosse stata la complessità del processo, anche se fosse stato impossibile chiuderlo nei tempi prefissati, esso sarebbe comunque finito nel nulla. La conseguenza? Un’ecatombe di processi, un mare d’impuniti. Un assurdo che lo stesso Capo dello Stato aveva, a suo tempo, additato con preoccupazione.

La legge approvata ha mantenuto lo scadenzario, ma ha eliminato l’estinzione, stabilendo, semplicemente, che in caso di sforamento il capo dell’ufficio «comunica il ritardo al guardasigilli ed al procuratore generale» (cioè ai due titolari dell’azione disciplinare). Per certi versi, bene. Non si rischia tuttavia, così, di scaricare sul magistrato «inadempiente» il carico degli sforamenti che, molte volte, sono dovuti a carenze delle strutture piuttosto che a negligenze individuali? Non sarà, questo, un modo per intimidire l’ordine giudiziario?

Ma veniamo al tema che interessa di più i cittadini. La prescrizione abbreviata per gli incensurati avrà l’effetto d’estinguere un numero elevato di reati? La prescrizione era già stata accorciata nel 2005, senza che fossero state, già allora, previste le riforme indispensabili per consentire un’accelerazione dei processi. Ciò ha causato una situazione pesante, con oltre 150 mila reati estinti all’anno. Se si considera che la maggior parte dei processi che si concludono con una decisione di merito riesce, già oggi, ad evitare per un soffio la mannaia, è facile immaginare che la nuova legge determinerà, in ogni caso, un ulteriore, doloroso, incremento del fenomeno.

Le conseguenze appaiono d’altronde ancora più gravi se si considerano i reati che saranno i più toccati, perché commessi da incensurati. Un incremento rilevante di reati prescritti si verificherà fra i reati dei colletti bianchi. Si pensi ai processi per truffa, per aggiotaggio, per bancarotta, per incidenti sul lavoro, molti dei quali già oggi riescono a sfuggire per poco, quando vi riescono, all’estinzione. Ad esempio, il primo processo Parmalat per aggiotaggio (che si prescriverà a giugno) riuscirà, forse, a concludersi con sentenza definitiva ai primi di maggio; ed il secondo, contro le banche, a giungere a sua volta alla sentenza di primo grado entro aprile, salvando così quantomeno i risarcimenti. Si tratta di processi che, dopo l’ulteriore riforma, sarebbero stati sicuramente prescritti. Davvero ragionevole?

Non solo. In taluni casi la normativa contraddice linee di politica criminale assolutamente prioritarie. Si consideri la corruzione. Le statistiche parlano di un suo incremento del 30%. Giuristi ed economisti chiedono, da anni, un’apposita legge anticorruzione (fra l’altro imposta dalla normativa europea). Ebbene, poiché i pubblici ufficiali corrotti sono, di regola, incensurati, con la nuova legge l’Italia, incrementando i reati prescritti, favorirà, anziché contrastare, la corruttela. Una vergogna, tanto più che il Parlamento, nel frattempo, si guarda bene dall’approvare il disegno di legge anticorruzione.

Il Guardasigilli ha sostenuto che l’aumento delle prescrizioni sarà minimo (0,2%). Il dato è contestabile (il Csm ha parlato del 10% in più); ma anche se fosse corretto, dato l’alto numero di prescrizioni già presenti, sarebbe comunque un male. Il ministro si è, d’altronde, ben guardato dallo spiegare «quali» saranno i reati più colpiti. Se lo avesse fatto, la gente avrebbe tanto più motivo d’indignarsi.

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« Risposta #51 inserito:: Luglio 05, 2011, 04:28:45 pm »

5/7/2011

Contro ogni logica

CARLO FEDERICO GROSSO

L’ art. 373 del codice di procedura civile stabilisce nel suo comma 1, che «il ricorso in Cassazione non sospende l’esecuzione delle sentenze». Soggiunge che «tuttavia il giudice che ha pronunciato la sentenza impugnata può, su istanza di parte, e qualora dall’esecuzione possa derivare un grave ed irreparabile danno, disporre con ordinanza non impugnabile che l’esecuzione sia sospesa o che sia prestata congrua cauzione».

Il significato di questa disciplina è chiaro. La sentenza civile d’appello è esecutiva ed il ricorso in Cassazione non vale a sospendere tale esecutorietà. Cionondimeno il giudice che ha deciso «qualora dall’esecuzione possa scaturire un danno grave ed irreparabile», ad evitarlo «può» disporre che l’esecuzione sia sospesa o che sia prestata idonea cauzione in attesa della sentenza definitiva. Norma ragionevole, dato che mira ad evitare danni irreparabili, previa valutazione discrezionale del giudice, e sentite le ragioni delle parti in causa.

Il governo ha approvato un decreto recante «disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria». Nel suo art. 37, contenente «disposizioni per l’efficienza del sistema giudiziario e la celere definizione delle controversie», è stato inserito (proprio al fondo, al suo punto 23 lettera b), una norma che precisa che nel menzionato art. 373 del codice di procedura civile dev’essere inserita la seguente ulteriore disposizione: «La sospensione prevista è in ogni caso concessa per condanne superiori a venti milioni di euro se la parte istante presta idonea cauzione». Sembrerebbe che tale disposizione non figurasse nelle bozze del decreto che erano circolate in giornata, e che sia improvvisamente comparsa nel testo ufficiale inviato alla Presidenza della Repubblica.

L’aggiunta appare, di per sé, stupefacente. Perché mai la sospensione della esecuzione della esecutorietà della sentenza dovrebbe essere «in ogni caso» concessa se la parte istante presta idonea cauzione, essere in altre parole concessa a prescindere da qualsiasi valutazione di danno grave ed irreparabile da parte del giudice? Perché mai questa strana disposizione derogatoria rispetto alla discrezionalità giudiziale dovrebbe valere per condanne «di ammontare superiore a venti milioni di euro», creando pertanto, quantomeno, una discriminazione nei confronti di chi, ad esempio, sia stato condannato a pagare venti milioni esatti, o diciannove milioni, diciotto e via dicendo?

Ma soprattutto. Che senso ha inserire una norma siffatta in un provvedimento legislativo concernente la stabilizzazione finanziaria? E ancor più, dato che la nuova norma figura in un articolo destinato ad assicurare «l’efficienza del sistema giudiziario» nonché «la celere definizione delle controversie», che cosa c’entra, la disposizione di cui si discute, con tale dichiarato obiettivo generale? Rendere «in ogni caso» concessa la sospensione dell’esecutività di una sentenza civile se l’istante presta idonea cauzione significa, semplicemente, favorire una parte a danno della parte avversa, parte che fra l’altro ha vinto la causa, e che ha diritto, in mancanza di danno irreparabile alla parte soccombente, di non vedersi privato del suo sacrosanto titolo ad essere risarcito.

Quale è, infine, la ragione «di urgenza» che giustificherebbe l’ «innovazione» introdotta all’ultimo momento nel testo del decreto sottoposto al Capo dello Stato? Nessuna, apparentemente. A meno che, ovviamente, l’urgenza sia individuabile nell’imminenza di qualche sentenza che potrebbe incidere sugli interessi di qualcuno. Tutti sappiamo, ad esempio, che è attesa fra pochi giorni la sentenza d’appello concernente il Lodo Mondadori che, se confermasse la sentenza di primo grado, condannerebbe una società del Presidente del Consiglio a pagare una somma superiore ai settecento milioni di euro.

Al di là di questo possibile profilo, che spiegherebbe ovviamente l’altrimenti inspiegabile realtà della specifica innovazione della quale stiamo discutendo, rimangono, comunque, le gravissime discrasie di carattere generale.

Ci troviamo di fronte ad una nuova norma che modifica illogicamente una disciplina che appare, oggi, logica a ragionevole; di fronte ad una norma che non trova nessuna sua collocazione razionale nel contesto di un decreto finalizzato a risanare, se possibile, la nostra economia; di fronte ad una norma che costituisce un corpo estraneo rispetto alla stessa finalità specifica, di celerità ed efficienza della giustizia civile, cui vorrebbe rispondere l’articolo nel quale essa risulta inserita. Ci troviamo, infine, di fronte ad una norma che non ha nessuna valenza generale d’urgenza. Si tratta di una norma che, davvero, può pertanto legittimamente permanere nel testo del decreto nel quale è stata, all’ultimo momento, più meno furbescamente inserita?

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8936&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #52 inserito:: Luglio 28, 2011, 05:26:15 pm »

28/7/2011

Qualche idea per il nuovo ministro

CARLO FEDERICO GROSSO


Alfano si è dimesso, rinunciando al doppio incarico, ministeriale e politico, che lo assillava. Abbiamo, pertanto, un nuovo Guardasigilli: l’ex magistrato Nitto Palma. Se la legislatura dovesse durare fino alla sua scadenza naturale del 2013, egli avrebbe, al massimo, poco più di un anno e mezzo per lasciare la sua impronta al ministero. Quale impronta, tuttavia, egli potrebbe, davvero, imprimere in questo non lunghissimo lasso di tempo?

Noi abbiamo bisogno di riforme incisive in grado di dare nuovi ritmi ed efficienza sia alla giustizia civile che a quella penale. Le carceri stanno d’altronde scoppiando, e anche su questo terreno (più che aprire nuove prigioni come si sta cercando di fare) sarebbero urgenti interventi sulla legislazione penale e penitenziaria in grado di risolvere il problema del sovraffollamento utilizzando un ampio sistema di sanzioni alternative al carcere.

Non credo che un anno e mezzo, o poco più, siano tuttavia sufficienti per realizzare riforme dei codici in grado di fornire risposte convincenti alle esigenze di giustizia della gente e/o risolvere il problema carcerario. Tanto più che nessun progetto di questo tipo è stato elaborato dal Guardasigilli che si è appena dimesso. Tutt’altri erano, infatti, i suoi pensieri.

Per capire che cosa potrebbe succedere, guardiamo dunque, piuttosto, ai progetti elaborati fino ad ora e al dibattito in corso sui temi della giustizia. Il panorama è deludente. Nessuno dei temi di fondo di una riforma utile per i cittadini è stato infatti messo in cantiere dal governo nel corso di questa legislatura, e fra i politici si è discusso, soprattutto, di come risolvere per legge i problemi giudiziari di qualcuno e di come modificare i rapporti di forza con la magistratura. Cercherà, NittoPalma, di modificarequest’impronta?

Egli dovrà, innanzitutto, decidere come affrontare i temi caldi della riforma costituzionale della giustizia (in discussione davanti alle commissioni Affari costituzionali e Giustizia della Camera) e dei numerosi progetti di riforma di legislazione ordinaria che modificano alcuni profili altrettanto caldi del processo penale.

E’ quasi certo che la riforma costituzionale della giustizia, che esige un doppio passaggio in entrambi i rami del Parlamento, non potrà essere approvata nel corso dell’attuale legislatura. Sarebbe, comunque, un bel segnale se il nuovo ministro dovesse in qualche modo frenare.

Sarebbe, d’altronde, un segnale ancora migliore se il nuovo ministro dovesse frenare su altri disegni di legge che pendono in Parlamento: il disegno di legge sulla prescrizione breve, quello, ancora più dannoso, sul processo breve, quello sulle intercettazioni, quello che prevede il divieto per il giudice di sfoltire gli elenchi dei testimoni predisposti dalle parti (che già oggi dovrebbe essere discusso, e forse votato, in Senato).

Non spero ovviamente in tanto. Ciascuno di tali disegni di legge è destinato ad aiutare il premier in uno dei suoi processi, ed è pertanto giocoforza che un ministro indicato dal presidente del Consiglio in sostituzione di altro ministro che, di quei progetti, era stato acceso paladino, segua la linea tracciata con la dovuta dedizione, anche se essa rischia di recare grandi danni all’ordinato esercizio della giustizia quotidiana. Come accadrà, ad esempio, se il progetto che vieta di sfoltire la lista dei testimoni presentati dalle parti dovesse essere approvato, poiché ogni avvocato sarebbe, a quel punto, inevitabilmente spinto a gonfiare la lista, cercando così di allungare i tempi del processo in modo da ottenere la prescrizione del reato di cui è accusato il suo assistito.

Al di fuori dei menzionati settori sui quali si articola ormai da tempo, e in maniera incattivita, il dibattito quotidiano in materia di giustizia, che cosa potrebbe qualificare comunque, oggi, l’attività di un nuovo Guardasigilli che si affaccia sulla scena del governo in un momento assai poco positivo per l’immagine del mondo al quale appartiene? Che cosa potrebbe dare, ad esempio, una grandissima caratura positiva alla sua immagine di ministro di Giustizia?

Io avrei una idea. Perché il nuovo ministro, raccogliendo il dilagare del disgusto della gente di fronte all’esplosione di una questione «corruzione» senza precedenti, peggiore, forse, di quella emersa venti anni or sono, non si fa paladino di qualche iniziativa dirompente? Perché, per esempio, non propone lui stesso, come ministro di Giustizia, di abolire l’autorizzazione per l’arresto dei parlamentari, che, giustificata un tempo, oggi non ha più nessuna ragione per essere difesa? Perché non impegna l’intero ministero a redigere un testo, finalmente efficace, per la prevenzione del malaffare in politica e per la moralizzazione dei partiti? Perché non si fa deciso promotore di una immediata abolizione di ogni privilegio della categoria di cui fa parte?

Sarebbe un modo per riuscire, nonostante il tempo non lunghissimo che egli ha davanti a sé, a lasciare un segno della sua presenza al ministero.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9028
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« Risposta #53 inserito:: Agosto 17, 2011, 04:30:51 pm »

17/8/2011

Perchè è utile il reato di omicidio stradale

CARLO FEDERICO GROSSO

L’incidente provocato alcuni giorni fa dall'automobilista che, drogato, guidando contromano in autostrada aveva cagionato la morte di quattro ragazzi francesi aveva destato grande scalpore. Scalpore ancora più grande aveva cagionato, d'altronde, la circostanza che il responsabile della strage non fosse stato neppure tratto in arresto.

In questa prospettiva la dichiarazione del ministro Maroni, che ha annunciato la volontà del governo d'introdurre un delitto esemplare di omicidio stradale per chi si mette alla guida avendo ingerito sostanze alcoliche o stupefacenti, può anche essere condivisa. Come può essere condivisa l'intenzione di prevedere, oltre che una elevata sanzione penale, l'arresto in condizione di flagranza o di quasi flagranza.

Per comprendere quale sia, tuttavia, esattamente l'utilità di una nuova (eventuale) disciplina della materia, vale la pena di chiarire quale è, al momento, esattamente il contesto normativo che regola il fatto di chi cagiona la morte sulle strade in violazione delle norme sulla circolazione stradale, guidando in stato di ebbrezza o avendo assunto sostanze stupefacenti o psicotrope.

Bisogna innanzitutto ricordare che, di fronte al ripetersi frequente, negli ultimi anni, di fenomeni di questo tipo, ed al rischio che la magistratura non reagisse con sufficiente severità alle stragi cagionate da chi guidava ubriaco o drogato (il delitto di omicidio colposo era punito con la reclusione da sei mesi a - soli - cinque anni), il Parlamento, con decreto legge 23 maggio 2008, convertito in legge il 24 luglio 2008, ha previsto che, in caso di omicidio colposo, «si applica la pena della reclusione da tre a dieci anni se il fatto è commesso con violazione delle norme sulla circolazione stradale da soggetto in stato di ebbrezza e sotto l'effetto di sostanze stupefacenti o psicotrope» (art. 589 comma 3 c.p.), aumentabile fino al triplo (sia pure con limite di quindici anni massimo) nel caso di morte di più persone. E' d'altronde previsto sia l'arresto facoltativo in flagranza da parte degli agenti ed ufficiali di polizia giudiziaria (se la misura risulta giustificata dalla gravità del fatto o dalla pericolosità del soggetto), sia il provvedimento di custodia cautelare da parte dell'autorità giudiziaria.

La pena prevista dalla legislazione vigente è, quindi, in astratto, tutto sommato già elevata. Nel caso, recente, che ha sollevato un generalizzato scalpore per l'obiettiva gravità della condotta tenuta dal guidatore, e per le spaventose conseguenze cagionate, l'autorità giudiziaria avrebbe d'altronde potuto applicare, sicuramente, un provvedimento restrittivo della libertà personale.

Quale è, tuttavia, il punto debole di tale normativa? Poiché la violazione delle norme sulla circolazione stradale e la guida in stato di ebbrezza o di alterazione psichica dovuta all'assunzione di droga sono previste come semplici «circostanze aggravanti» del delitto di omicidio colposo, in base ai principi generali previsti dal codice penale la sanzione astrattamente prevista potrà essere, in concreto, abbattuta nel caso in cui il giudice dovesse ritenere di «bilanciare» tali circostanze con eventuali circostanze attenuanti del reato (in questo caso il giudice può infatti infliggere la pena prevista per il reato base, annullando del tutto la maggior pena prevista in considerazione delle circostanze aggravanti).

Ecco, allora, la vera utilità di prevedere un autonomo delitto di «omicidio stradale» finalizzato a colpire, senza possibilità di sconti, chi, guidando in stato di ebbrezza o avendo ingerito droghe, cagioni la morte di una o più persone. Perché abbia senso, la nuova incriminazione dovrebbe verosimilmente prevedere una pena ancora superiore a quella oggi configurata dall'art. 589 comma 3 c.p., e, soprattutto, una pena che, essendo prevista come sanzione di un autonomo delitto di omicidio stradale, non sia suscettiva di subire incongrui abbattimenti nelle fasi della sua irrogazione ed applicazione.

Vi è, d'altronde, un motivo in più per ritenere assolutamente ragionevole introdurre il nuovo, duro, reato di omicidio stradale. Una parte consistente della dottrina penalistica ritiene, giustamente, che chi ingerisce consapevolmente alcol o sostanze stupefacenti, e poi si mette alla guida di un’automobile, accetta implicitamente il rischio di provocare un incidente e la conseguente morte o lesione personale di qualcuno. Questa «accettazione del rischio» trasformerebbe il delitto colposo in doloso, sia pure nella forma attenuata del c.d. «dolo eventuale». Pubblici ministeri e giudici hanno, in qualche caso, seguito questa strada. La stragrande maggioranza di essi ha continuato tuttavia a contestare, ed a condannare, soltanto per omicidio colposo.

Prevedere un delitto autonomo di omicidio stradale, punito con una pena non molto meno elevata di quella prevista per l'omicidio doloso, consentirebbe di superare la disputa dogmatica sulla natura dolosa o colposa del reato, consentendo in ogni caso l'inflizione di una pena adeguata alla oggettiva gravità e pericolosità sociale del fenomeno della guida in stato di ebbrezza o di alterazione psichica dovuta alla assunzione di sostanze stupefacenti.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9100
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« Risposta #54 inserito:: Settembre 17, 2011, 04:30:02 pm »

17/9/2011

Tre domande sul conflitto con la procura

CARLO FEDERICO GROSSO

Gli avvocati Longo e Ghedini hanno annunciato, ieri, che Berlusconi non si farà interrogare come persona offesa nell’ambito dell’inchiesta sulla presunta estorsione realizzata ai suoi danni. I due legali sostengono che il premier dovrebbe essere, al massimo, sentito come imputato in un procedimento connesso o collegato (Rubygate).

E quindi, a loro giudizio, con l’assistenza dei difensori. La Procura di Napoli ha fatto sapere che non vi sono le condizioni perché egli possa essere considerato imputato in un procedimento connesso, e che egli dovrà pertanto presentarsi, in quanto persona offesa da un reato, come una normale persona informata sui fatti e rendere testimonianza senza nessuna assistenza e che, ove egli dovesse rifiutare di presentarsi, sarebbe giocoforza procedere alla richiesta di un suo accompagnamento coattivo.

Un nuovo conflitto fra Berlusconi e Procure, dunque. Su quali presupposti tuttavia, e perché? Apparentemente il presidente del Consiglio non dovrebbe, infatti, avere difficoltà a presentarsi davanti ad una Procura che lo ha individuato come vittima di un reato e, dicendo il vero, contribuire a ricostruire la verità dei fatti perpetrati a suo danno. Ed invece, evidentemente, teme qualcosa. Ma, bando alle supposizioni o ai sospetti, rimaniamo ai fatti. Chi ha ragione, giuridicamente, in questo contrasto di posizioni fra Procura partenopea e difesa del premier?

Procediamo per gradi. Prima domanda: davvero un presidente del Consiglio può essere citato, a discrezione, da una Procura perché deponga come teste? La risposta è, ovviamente, positiva. Non si vede infatti perché un'autorità pubblica, per elevato che sia il suo rango, dovrebbe essere esentata dal dovere, civico prima ancora che giuridico, di riferire all'autorità giudiziaria ciò che sa intorno a circostanze oggetto di indagini, collaborando in tal modo all'accertamento della verità. La legge stabilisce, d'altronde, tassativamente i casi nei quali un soggetto è esentato dal dovere di testimoniare (prossimi congiunti, titolari di segreti professionali, di segreti di ufficio, di segreti di Stato). Ciascuno di questi casi ha una sua ratio. Al di fuori di essi il dovere di testimoniare è tuttavia, giustamente, inderogabile, e vale ovviamente per tutti, cittadino comune e pubblica autorità.

Seconda domanda. Che cosa accade se il testimone, citato, non si presenta? La legge prevede che, in questo caso, l'autorità giudiziaria può disporre il suo accompagnamento coattivo. Nel caso di specie, poiché Berlusconi è parlamentare, e l'accompagnamento coattivo costituisce una, sia pure circoscritta, limitazione della sua libertà personale, sembrerebbe che l'autorità giudiziaria debba, comunque, sottoporre alla Camera la richiesta di accompagnamento per l'autorizzazione. Il che creerebbe qualche problema alla Procura, ma, forse, anche al Parlamento, in quanto non sarebbe agevole dimostrare che il parlamentare è vittima di accanimento quando l'autorità giudiziaria intende sentirlo per tutelare, ed eventualmente rafforzare, la sua posizione di vittima di un reato. Ma veniamo all'emergenza dell'ultima ora. Davvero Berlusconi, come sostengono i suoi difensori, ha diritto di essere sentito in qualità di imputato di procedimento connesso (o collegato) e pertanto con l'assistenza dei difensori, e, eventualmente, con le ulteriori garanzie riconosciute a questo tipo affatto particolare di «testimone»?

Non conoscendo né gli atti del procedimento milanese né di quello napoletano non sono ovviamente in grado di dare una risposta. Posso, soltanto, fornire qualche indicazione sulle norme che regolano l'interrogatorio di persona imputata in un procedimento connesso (o «collegato»). Si ha «connessione» o «colleganza» di procedimenti quando essi riguardano situazioni fra loro interdipendenti. Quando si tratta, ad esempio, di reato commesso da più persone, ma processate separatamente; o di un reato commesso per eseguirne od occultarne un altro; o quando la prova di un reato influisce su quella dell'altro. In queste situazioni l'imputato, interrogato nel procedimento connesso, rischia di danneggiare la sua situazione processuale in quello a suo carico. Per questa ragione gli si assicura l'assistenza del difensore e, se del caso, addirittura il diritto di avvalersi della facoltà di non rispondere.

Sostenendo che Berlusconi, a Milano, è imputato di processo connesso a quello per cui si procede a Napoli, i suoi difensori affermano dunque, nella sostanza, che il rapporto con la minore Ruby avrebbe qualche collegamento, quantomeno probatorio, con l'estorsione di cui egli sarebbe persona offesa. Davvero? E non sarebbe, questa, un'ammissione per certi versi addirittura pericolosa per il premier? Non potrebbe trattarsi allora, dato che i suoi difensori sono, tecnicamente, molto preparati, soltanto di un espediente, l'ultimo, per ritardare, o addirittura bloccare, l'iniziativa giudiziaria in corso?

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« Risposta #55 inserito:: Ottobre 03, 2011, 06:19:58 pm »

3/10/2011 - IL DELITTO MEREDITH

L'incerta prova scientifica

CARLO FEDERICO GROSSO

Oggi i giudici di Perugia si riuniranno in camera di consiglio. Questa sera, forse nella notte, dovremmo conoscere la sentenza. Raramente un epilogo giudiziale è stato tuttavia così aperto, così incerto.

Tutti abbiamo seguito con attenzione il processo. Un processo indiziario nel quale c’è stata un’accanita, a volte violenta battaglia giudiziaria. Un processo nel quale scenari, prospettive, quadro e dettagli sono sovente cambiati. Un processo in cui, ancora una volta, come in altri processi per delitti di sangue, un ruolo di rilievo ha avuto la «prova scientifica», ma nel quale essa, ancora una volta, si è rivelata fonte di dubbi piuttosto che di certezze.

Non credo sia il caso di ripercorrere, qui, la storia del processo o di riassumere gli elementi a carico o a discarico attorno ai quali hanno discusso accusa e difese. Lo hanno già ampiamente fatto, nei giorni scorsi, le cronache giudiziarie. Mi preme, piuttosto, cogliere l’occasione dell’attesa di una importante sentenza per riproporre vecchi interrogativi in materia di processo indiziario e porre gli interrogativi nuovi suscitati da vicende giudiziarie il cui epilogo, in un modo o nell’altro, non ha del tutto convinto.

Il processo indiziario è un processo nel quale non esiste una «prova decisiva» a carico dell’imputato, ma nel quale a suo carico è emersa una pluralità di elementi indizianti che, nel loro insieme, fanno ritenere che egli sia colpevole. La legge stabilisce che gli indizi possono essere considerati prova, e legittimare la condanna, se sono sufficientemente numerosi, se sono univoci e se sono concordanti.

La legislazione penale italiana prevede tuttavia anche (norma approvata qualche anno fa) che «nessuno può essere condannato se non esiste prova certa al di là di ogni ragionevole dubbio della sua colpevolezza». È un segnale forte di garanzia. Per potere condannare, nel nostro sistema giuridico, occorre, cioè, avere raggiunto l’assoluta certezza della responsabilità penale dell’imputato. Se un dubbio, anche minimo, permane, si deve assolvere. Ciò significa che gli indizi, per consentire una condanna penale, devono essere talmente forti, talmente univoci, talmente concordanti, da garantire la totale certezza della colpevolezza. Se non l’assicurano, ed i giudici cionondimeno condannano, violano la legge.

Che faranno, allora, i giudici di Perugia? Ovviamente non lo so. So soltanto che, per legge, potranno condannare i due ragazzi soltanto se gli elementi sottoposti alla loro attenzione garantiranno davvero la sicurezza della loro responsabilità. Se dovesse residuare anche soltanto un piccolo dubbio, dovranno necessariamente assolvere.

Sappiamo che media ed opinione pubblica americana, con riferimento al processo ad Amanda Knox e Raffaele Sollecito, hanno criticato, anche pesantemente, il nostro sistema di giustizia, hanno tacciato addirittura di barbarie la nostra legge ed i nostri tribunali. Sul terreno della legge, tuttavia, per le ragioni indicate non abbiamo nulla di cui rimproverarci. Il nostro è un processo garantista, esattamente come garantista è il processo «accusatorio» americano: in entrambi, se non si raggiunge la certezza processuale della colpevolezza, è giocoforza assolvere. Un problema, se esiste, non è pertanto di legislazione, ma di prassi, di costume giudiziario, di capacità degli inquirenti e dei giudici di gestire con capacità e correttezza prove ed indizi. Ed in effetti, proprio questo è il punto, poiché è su questo terreno che, a quanto ci è stato dato di sapere dalle cronache del processo, ragioni di critica e di perplessità non sono mancate.

Uno dei profili che ha attirato la mia attenzione è stato, su questo terreno, il tema delle prove scientifiche. Sappiamo, ad esempio, che i periti del primo giudice avevano riscontrato sul reggiseno della ragazza uccisa e sull’arma del delitto tracce ematiche asseritamente decisive nei confronti, rispettivamente, di Raffaele e di Amanda; ma che una perizia disposta dai giudici di appello ha ritenuto del tutto inattendibili tali prove. Un contrasto di giudizio tecnico stupefacente, che mai, se nessun perito avesse compiuto errori, dovrebbe profilarsi in un’aula di giustizia.

Non conoscendo gli atti non sono in grado di valutare, nel caso di specie, torti e ragioni. In ciò che è accaduto a Perugia c’è tuttavia una conferma di quanto molti penalisti vanno ripetendo ormai da qualche anno: che troppe volte la prova scientifica nei processi nei quali, altrimenti, non c’è prova della commissione del reato, ma vi sono soltanto indizi, è fonte d’incertezza piuttosto che, come dovrebbe, di certezze. È accaduto, ad esempio, nel processo a carico di Alberto Stasi, dove vi è stata assoluzione, ma è accaduto altresì, a mio parere, nel processo a carico di Annamaria Franzoni, dove vi è stata invece condanna. Vedremo questa sera, o domani, che cosa decideranno i giudici di Perugia.

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« Risposta #56 inserito:: Ottobre 04, 2011, 05:06:02 pm »

4/10/2011

Non si poteva decidere altrimenti

CARLO FEDERICO GROSSO

I giudici hanno deciso ed assolto. Non conosco gli atti, ma d’istinto, per quanto sono riuscito a cogliere dalle cronache, ritengo che non potessero fare altrimenti.

Spiace che l’assassinio di una giovane donna rimanga in larga misura insoluto (non si può sicuramente dire che la condanna definitiva di Rudy Guede possa tranquillizzare le coscienze; anzi, la nuova sentenza aggiunge perplessità a perplessità). Regole e garanzie del processo penale devono, tuttavia, essere sempre rispettate, e nel caso di specie garanzia voleva che, di fronte alla contraddittorietà degli elementi emersi nel corso dell’istruttoria dibattimentale, i giudici non potessero fare altro che assolvere. Non c’erano indizi sufficienti, non c’erano, soprattutto, stante le contraddizioni emerse nel dibattimento, indizi univoci e concordanti.

Anche se le regole sono state rispettate, e la sentenza è, verosimilmente, ineccepibile, per la giustizia italiana non è, comunque, una vittoria. E’ mancato il riscontro probatorio delle accuse; di fronte al dubbio i giudici hanno tratto, inesorabilmente, ma anche giustamente, le loro conclusioni. Si tratta di un’assoluzione che lascia, comunque, l’amaro in bocca. Chi ci dice che, se non vi fossero stati errori, incertezze, cambi improvvisi di rotta nella prospettazione accusatoria, inconcepibili divergenze fra i periti, fallimento della prova scientifica, la risposta processuale non avrebbe potuto essere diversa? Ma perché potesse essere diversa, sarebbe stato necessario evitare, appunto, i vuoti, le incertezze e le contraddizioni, e non incorrere in errori. Tutto ciò non è, sicuramente, accaduto.

Ed allora, quasi per necessità, il discorso si sposta sull’efficienza della nostra giustizia e sulle capacità dei nostri magistrati, poiché troppi sono, ormai, i casi d’omicidio ai quali la giustizia non è riuscita a dare risposte in grado di convincere del tutto o, addirittura, di convincere e basta. Su questo terreno è, sicuramente, necessaria una riflessione. Il processo di Perugia, in questa prospettiva, fornisce più di uno spunto. Ma in realtà altri spunti, e di non poco conto, erano già stati forniti da altri, altrettanto clamorosi, casi giudiziari.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9280
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« Risposta #57 inserito:: Ottobre 06, 2011, 09:25:35 am »

6/10/2011

Conflitto di interessi famigliari

CARLO FEDERICO GROSSO


Marina Berlusconi ha rilasciato ieri al «Corriere» un’intervista il cui contenuto è a dir poco stupefacente.

Il punto centrale del ragionamento è costituito da una vicenda e da una notizia. La vicenda è la controversia civile che ha visto Cir contrapposta a Fininvest, e quest’ultima condannata, in appello, a risarcire alla prima oltre 564 milioni di euro. La notizia è che Fininvest avrebbe «appena presentato un esposto al ministro della Giustizia e al procuratore generale della Cassazione (cioè ai titolari dell’azione disciplinare) nel quale si segnala un’anomalia che avrebbe avuto un peso decisivo sulla sentenza». Sarebbe accaduto che, nella motivazione, la Corte di appello avrebbe fatto perno su un precedente giurisprudenziale fondamentale, che sarebbe stato tuttavia stravolto con il taglio di passaggi decisivi, tali da ribaltare addirittura «totalmente» la tesi giuridica ivi sostenuta.

Le parole usate da Marina Berlusconi sono durissime: «Altro che leggi ad personam, qui siamo al diritto cucito su misura; quando ci sono di mezzo mio padre o le nostre aziende, spuntano addirittura princìpi giurisprudenziali inediti; peccato che siano princìpi inesistenti, nati dal “taglio” di una frase e dalla mancata citazione di altre».

Anche se a domanda successiva del giornalista: «Ma allora sta dicendo che la sentenza è stata manipolata; accusa i giudici di un falso?», la presidente risponde: «Me ne guardo bene, l’esposto si limita a segnalare alle autorità competenti quanto è accaduto», l’accusa ai giudici è, in ogni caso, precisa e grave. In questa sede non m’interessa tanto stabilire se ciò che è stato denunciato sia giusto o sbagliato (anche se mi sembra davvero peculiare che giudici esperti, chiamati a giudicare un caso tanto scottante, siano incorsi in un errore clamoroso agevolmente individuabile dai legali del soccombente). Mi interessa, piuttosto, domandarmi: che significato «politico» ha denunciare a tutto tondo, sul maggior quotidiano italiano, che i giudici che hanno condannato ad un risarcimento pesante un’azienda del presidente del Consiglio hanno manipolato le carte ed annunciare l’avvenuta presentazione di un esposto disciplinare?

L'esposto al ministro e al procuratore generale non è un’iniziativa di routine; presuppone il sospetto (o addirittura la certezza) di dolo o colpa grave da parte di chi ha giudicato; costituisce un’extrema ratio che raramente si ritrova nelle aule di giustizia. Di regola, se si sospetta un’utilizzazione errata di atti o di sentenze, noi avvocati ricorriamo in Cassazione, denunciamo l’errore di diritto, sicuri, se veramente abbiamo certezza di essere nel giusto, di ottenere l’auspicato annullamento. Se davvero la sentenza che ha condannato Fininvest a pagare oltre 564 milioni a Cir fosse viziata da un’inesatta, errata o monca utilizzazione di precedenti decisivi, il suo annullamento da parte della Cassazione sarebbe fuori discussione. Ed allora perché, appunto, la presentazione, del tutto inusuale, addirittura anticipata rispetto al deposito del ricorso in Cassazione, di un esposto?

Presentare un esposto costituisce un diritto di chi ritiene di avere subito un torto. Non potrebbe essere tuttavia, questa specifica iniziativa, fatta dal presidente di Fininvest (e Mondadori), che è figlia del presidente del Consiglio (a sua volta interessato nella stessa), oggettivamente, un’intimidazione e basta? Un’intimidazione ai giudici che saranno chiamati a giudicare in Cassazione, alla magistratura tutta intera? Gli interessi di famiglia sono troppo importanti, a questo punto, e troppo minacciati, perché si possa ancora tentennare.

Ma non solo. Dopo avere discettato a lungo su torti e ragioni della menzionata vicenda giudiziaria privata di famiglia, Marina apre a tutto campo. Il suo babbo sarebbe la vittima di un’aggressione concertata: contro di lui «s’inventano inchieste a ripetizione su reati inesistenti», «il fango fabbricato viene palleggiato fra una Procura e l’altra e infine riciclato», «il processo, con relativa, inevitabile condanna, lo si celebra sui media». Infine, rispondendo a specifica domanda che citava l’editoriale di Panebianco che chiedeva a Berlusconi un passo indietro nell'interesse del Paese, un’affermazione tranciante: «Mio padre non deve assolutamente mollare e non mollerà».

Privato e pubblico, a questo punto, sembrerebbero impropriamente mescolati: risarcimenti non dovuti che devono essere pagati, Procure eversive che utilizzano il potere giudiziario per colpire a tradimento, libera stampa e informazione complice della terribile congiura. Quindi, resistenza, resistenza. Ad ogni costo.

Ma non sarà, allora, che al di là dell’indiscutibile conflitto di interesse personale del presidente del Consiglio, si sta profilando, a questo punto, un conflitto di interesse famigliare?

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« Risposta #58 inserito:: Novembre 21, 2011, 05:32:48 pm »

21/11/2011

Le riforme a costo zero da fare subito

CARLO FEDERICO GROSSO

Nel giorno dell’insediamento, il nuovo ministro della Giustizia si è lasciato scappare una sola battuta: in materia di giustizia penale la questione carcere è per me questione assolutamente prioritaria. In questo modo il neo Guardasigilli ha dimostrato sensibilità ed intelligenza.

In effetti il problema carcerario è, fra i tanti, il problema dei problemi. Le carceri, con i loro 67.000 detenuti a fronte di 45.000 posti «regolamentari» disponibili (numeri esorbitanti rispetto a quelli della media europea), sono tornate ad essere terreno d’ingestibilità: celle stipate, promiscuità, impossibilità di realizzare qualsiasi programma di rieducazione, difficoltà, addirittura, di gestire il quotidiano. Spia eloquente, e terribile, del disagio è il numero (crescente) dei suicidi e dei tentati suicidi.

Encomiabile è, pertanto, avere posto, almeno a parole, il nodo carcere al primo posto nell’attenzione. Tuttavia, che fare? Soprattutto, che fare nei pochi mesi che separano dalle elezioni? Dare una risposta non sarà facile. La costruzione di nuovi istituti penitenziari non potrà che seguire le cadenze già programmate; si potranno, forse, impostare politiche di depenalizzazione e di sostituzione delle sanzioni detentive con pene alternative, ma si tratta di misure che, anche se adottate, potranno tutt’al più produrre effetti fra qualche anno. L’urgenza è, invece, attuale.

Ed allora, al di là dell’eventuale impostazione di un programma serio di riforma del sistema sanzionatorio penale, il nuovo Guardasigilli dovrà affrontare un nodo di fondo: se, per realizzare l’indispensabile, urgente, sfoltimento della popolazione carceraria non sia giocoforza fare, ancora una volta, ricorso ai vecchi ed abusati istituti dell’amnistia e dell'indulto.

Noi penalisti sappiamo che si tratta d’istituti che sarebbe opportuno utilizzare con parsimonia, in quanto la rinuncia indiscriminata alla punizione dovrebbe costituire evenienza assolutamente eccezionale. Sappiamo pure, tuttavia, che il permanere dell’attuale condizione delle nostre prigioni viola diritti fondamentali della persona e costituisce un attentato al principio di umanità del trattamento carcerario. A questo punto, nel bilanciamento fra esigenze contrapposte, non avrei comunque dubbi nel privilegiare il rispetto dei diritti. Con un auspicio, tuttavia: che l’eventuale adozione dei benefici si accompagni, finalmente, ad un’impostazione riformatrice in grado di evitare che, come è sempre accaduto nel passato, dopo qualche anno ci si ritrovi in identiche situazioni di necessità.

Al di là degli interventi urgenti sul carcere, che cosa potrà d’altronde fare un ministro della Giustizia che ha di fronte a sé, al massimo, una quindicina di mesi (e pochi denari) per gestire il ministero? Paola Severino è tecnico preparato ed ha sicuramente le idee chiare. Mi limito quindi, semplicemente, a prospettare, a me stesso ed ai lettori, un quadro possibile di piccole o medie riforme «a costo zero» o «quasi zero» realizzabili velocemente che, tutte insieme, potrebbero portare qualche giovamento all’ordinato, e più rapido, esercizio della giustizia penale quotidiana. In realtà, ne ho già parlato più volte sulle pagine di questo giornale.

Sul terreno dell’organizzazione giudiziaria, veloce realizzazione dell’informatizzazione dei processi penali, revisione delle circoscrizioni giudiziarie, misure in grado di assicurare la copertura delle sedi disagiate, concorsi in grado di tappare i buchi aperti fra il personale ausiliario.

Sul terreno del sistema processuale penale, quantomeno, l’eliminazione di tutte le storture che costituiscono, di fatto, le maggiori cause dei rinvii delle udienze o dell’annullamento dei processi (dalla semplificazione del sistema delle notifiche e da un nuova disciplina degli irreperibili alla riduzione delle nullità processuali, da una nuova disciplina degli impedimenti «legittimi» alla regolamentazione delle udienze, alla rivisitazione degli effetti dell’incompetenza territoriale).

Sul terreno del diritto penale sostanziale, come dicevo, l’impostazione di una riforma del sistema sanzionatorio ed un piano di drastica eliminazione dei reati bagatellari.

A queste opzioni, altre potrebbero essere preferite. Non c’è che l’imbarazzo della scelta. L’importante è che il ministro, individuate rapidamente le sue preferenze, cominci ad operare con iniziative utili ed appropriate, compatibili con i tempi ed i denari di cui dispone.

C’è infine, comunque, un importante nodo politico che il Guardasigilli difficilmente sarà in grado di eludere. Come è noto, pendono in Parlamento riforme quali il disegno di legge sulle intercettazioni, la prescrizione breve, l’introduzione del principio secondo cui il giudice non può ridurre la lista dei testimoni richiesti dalle parti. Ciascuna di esse ha suscitato polemiche e controversie. Nessuna di esse potrà essere d’altronde affrontata a cuor leggero, sia per l’impatto che l’eventuale loro adozione potrà avere sull’efficacia delle indagini e sul diritto ad informare (disegno di legge sulle intercettazioni), ovvero sugli interessi processuali dell’ex premier e, corrispondentemente, sulla (mancata) tenuta o (eccessiva) durata della generalità dei processi penali (prescrizione breve e irriducibilità dei testimoni).

Che cosa farà il ministro, nel caso in cui vi sia richiesta di una loro trattazione da parte di taluno dei partiti che oggi sostengono il governo? Appoggerà, non appoggerà, cercherà di defilarsi dichiarando che si tratta di competenze ormai esclusive del Parlamento?

L’interrogativo non è di poco conto. Non si vorrebbe infatti che, nel gioco dei possibili veti incrociati e delle reciproche concessioni, il governo fosse costretto a contrattare taluni dei provvedimenti utili per il Paese scambiandolo con l’appoggio a misure che per la generalità dei cittadini sono dannose e utili soltanto per qualcuno. Sarebbe un brusco risveglio nel passato.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9462
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« Risposta #59 inserito:: Dicembre 15, 2011, 06:01:15 pm »

15/12/2011

Carceri l'inevitabile clemenza

CARLO FEDERICO GROSSO

Paola Severino ha annunciato che cercherà di fare approvare, già al Consiglio dei Ministri di domani, un decreto-legge destinato a ridurre il sovraffollamento carcerario: dovrebbe trattarsi dell’allungamento a 18 mesi del periodo residuo di pena che, con alcune limitazioni, un detenuto può scontare agli arresti domiciliari anziché in carcere. Tale provvedimento, secondo i calcoli, dovrebbe determinare la scarcerazione immediata di 3000-3500 detenuti.

A tale decreto dovrebbe seguire un disegno di legge che, sempre nell’ottica di una riduzione del numero dei detenuti, dovrebbe allargare l’ambito delle pene alternative, estendere l’utilizzo dell’affidamento in prova, procedere alla depenalizzazione di alcuni reati.

Tra le misure immediate non vi sarà tuttavia il «braccialetto elettronico», poiché, ha soggiunto il ministro, non è stata ancora acquisita la certezza del suo funzionamento e la ragionevolezza dei suoi costi.

In linea di principio questo programma è condivisibile. Appare giusto utilizzare, quando non vi siano controindicazioni, gli arresti domiciliari quale alternativa al carcere nel periodo finale dell’esecuzione penale; è condivisibile pensare ad uno sfoltimento dei reati con la depenalizzazione degli illeciti di minore allarme sociale; è sacrosanto ipotizzare una vasta gamma di pene alternative (gli stessi arresti domiciliari utilizzati quale pena irrogabile in luogo della reclusione, il lavoro a favore della collettività, le interdizioni da un’attività o da una professione, un complesso articolato di pene pecuniarie proporzionate alla capacità economica del reo).

Appare, d’altronde, altrettanto ragionevole una pausa di riflessione nei confronti del cosiddetto «braccialetto». Esso, introdotto da tempo fra gli strumenti ai quali affidare l’esecuzione della pena, non ha, fino ad ora, dato i frutti sperati. Il suo impiego è risultato costoso e soprattutto poco affidabile (diversi milioni pagati per circa 400/450 braccialetti di tecnologia obsoleta e quindi poco efficienti). Di qui, pertanto, l’opportunità di valutare se e come proseguire nell’esperienza, tanto più che la convenzione stipulata a suo tempo fra ministero dell’Interno e Telecom per la gestione di tale partita è in scadenza, e si presenta, di conseguenza, una rilevante opportunità per risparmiare.

In linea di principio, pertanto, nulla da obbiettare al ministro: la linea imboccata va, sicuramente, nella direzione giusta. Ho, soltanto, un dubbio. La popolazione carceraria assomma, oggi, a 67.000 detenuti a fronte di 45.000 posti/carcere regolamentari.
L’affollamento è, di conseguenza, assolutamente inaccettabile. Non a caso nelle carceri si è verificato, negli ultimi anni, un numero impressionante di suicidi e di tentativi di suicidio; di recente vi sono state violenze e sommosse destinate verosimilmente ad aumentare. Un intervento forte, in grado di rimediare ad una situazione non più sostenibile, sembrerebbe quindi indispensabile e urgente.

Ed allora mi domando: che effetto avrà assicurare, con il previsto decreto-legge, la scarcerazione di 3000/3500 detenuti? Sarà un bene per i poco più di tremila fortunati che lasceranno il carcere. Ma per i restanti 63.000/64.000 che resteranno reclusi cambierà qualcosa? Mi domando, ancora: quale incidenza potranno avere, sulla sopra menzionata situazione d’insostenibile affollamento, gli ulteriori provvedimenti che il ministro pensa d’inserire nel successivo disegno di legge programmato?

Come ho già detto, sul terreno della politica-criminale in materia di pena e di esecuzione penale le misure complessivamente ipotizzate vanno sicuramente nella direzione giusta. Con il tempo l’insieme di tali misure, unitamente alla costruzione di nuovi istituti carcerari predisposta dai precedenti Guardasigilli, potrà determinare una situazione caratterizzata da un rapporto più ragionevole fra numero di detenuti e numero di posti/carcere disponibili. Ma l’urgenza, oggi, è un’altra. Per ristabilire un minimo di umanità e di decenza nelle prigioni occorrerebbe ridurre entro pochi mesi, forse poche settimane, di quantomeno ulteriori 15.000 unità la popolazione carceraria.

Ho letto che il ministro, nel tracciare il quadro delle cose fattibili in materia di giustizia da un governo tecnico destinato a durare poco più di un anno ed a convivere con una situazione politica difficile, ha dichiarato che avrebbe fatto soltanto proposte in grado di unire, mentre avrebbe scartato ogni iniziativa destinata a dividere.

In questa prospettiva, facendo specifico riferimento al contesto carcerario, ha escluso che per risolvere la situazione avrebbe fatto, mai, ricorso ad istituti quali l’amnistia e l’indulto, attorno ai quali si sarebbe, a suo dire, inevitabilmente scatenata una bagarre.

E se, per caso, la situazione nelle carceri dovesse diventare ingestibile? E se l’unico modo per ristabilire in qualche modo ordine e vivibilità fosse, proprio, il ricorso agli istituti di clemenza? Continuerebbe, il ministro, a chiudere ogni prospettiva a tale, a quel punto forse inevitabile, tipo di intervento?

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