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Autore Discussione: CARLO FEDERICO GROSSO.  (Letto 47772 volte)
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« Risposta #15 inserito:: Gennaio 24, 2009, 04:54:46 pm »

24/1/2009
 
Come Eluana, nel nome della legge
 
 
FRANCESCO NUCARA* 
 

Caro direttore,
La Stampa sta facendo, anche grazie agli interventi del professor Carlo Federico Grosso, una battaglia di civiltà in difesa dei diritti della famiglia Englaro, degna della tradizione del Suo giornale. È significativo che il presidente della Regione Piemonte, Mercedes Bresso, abbia raccolto argomenti ineccepibili sotto il profilo del diritto, sollevati dal professor Grosso per dire che le strutture regionali sono pronte ad operare.

Il presidente Bresso ha più ragioni dalla sua parte. Da parte della legge, vista la sentenza della Cassazione a favore di un cittadino, ma anche da parte della Costituzione, considerando il Titolo V, per cui la tutela della salute è materia di legislazione concorrente e, «nelle materie di legislazione concorrente spetta alle Regioni la potestà legislativa, salvo che per la determinazione dei principi fondamentali riservati allo Stato» (articolo 117). La tutela della salute non lo è. Qualche collega della maggioranza si è appellato all’articolo 32 della Costituzione aggravando, a mio avviso, la posizione della circolare del ministro Sacconi, perché detto articolo recita che «nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge» e qui la legge chiede di interrompere detto trattamento.

Per questo sono convinto che il presidente della Regione Piemonte abbia ragione e meriti ogni sostegno. Al ministro Sacconi, che pure è persona competente, avevo suggerito, all’indomani della sentenza della Corte europea a favore del padre di Eluana, di ritirare la sua circolare. Un consiglio che mi sento di riproporre, ancora oggi, per chiudere un conflitto istituzionale divenuto indirimibile, che non fa onore al Paese, imbarazza il governo e calpesta il diritto.

*Segretario nazionale Pri
 
da lastampa.it
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« Risposta #16 inserito:: Febbraio 01, 2009, 03:46:34 pm »

1/2/2009
 
Ma la colpa non è soltanto degli altri
 
 
CARLO FEDERICO GROSSO
 
La lentezza dei processi e le intercettazioni sono state, com’era prevedibile, i piatti forti degli interventi alle inaugurazioni dell’anno giudiziario. Fra le affermazioni che si sono rincorse nei diversi palazzi mi hanno colpito, per il loro significato emblematico, alcune annotazioni statistiche: l’Italia in materia di tempi della giustizia sta peggio dell’Angola e del Gabon (su 181 Paesi si colloca soltanto al 156° posto, mentre tutti gli altri Paesi europei si piazzano fra i primi cinquanta); l’Italia, quanto a numero di reati per abitante, è seconda soltanto alla Bosnia Erzegovina.

L’Italia detiene, con largo margine, il primo posto in Europa per il numero di affari penali trattati, anche relativi a questioni bagatellari.

Lo hanno dichiarato il primo presidente della Cassazione, il presidente della corte di appello di Milano, quello della corte di appello di Roma. Quest’ultimo, su tutt’altro piano, ha soggiunto che di fronte al dilagare della criminalità dei colletti bianchi occorre «la riaffermazione di un’etica pubblica fondata su di una ritrovata legalità anziché sull’idea fuorviante che l’illegalità degli altri sia sufficiente a giustificare la propria».

Denunce sacrosante, alle quali la politica e la magistratura dovrebbero cercare di dare una risposta. Essendo stagione di riforme, teoricamente non dovrebbe essere difficile mettere in fila i problemi, stabilire le priorità, affrontarle, risolverle. Vediamo di accennare, sia pure brevemente, alle questioni che i numeri menzionati, relativi alla condizione della giustizia italiana rispetto a quella di altri Paesi, sollevano prioritariamente.

C’è, innanzitutto, un problema di efficienza che occorre affrontare sul terreno dell’organizzazione degli uffici giudiziari: riassetto delle circoscrizioni e dei distretti, per eliminare i rami secchi; introduzione di criteri manageriali nella gestione degli uffici; informatizzazione dei processi; semplificazione del sistema delle notifiche in modo da eliminare una parte delle cause di nullità e di conseguente rinvio delle udienze; monitoraggio dell’attività di ciascun magistrato in modo da realizzare un effettivo controllo di produttività. Per altro verso, potenziamento del personale ausiliario, maggiore durata delle udienze, migliore organizzazione del lavoro, magari ferie meno perduranti.

C’è, in secondo luogo, un problema di riforma necessaria della legislazione penale sostanziale e processuale. Al riguardo occorrerebbe iniziare da taluni dei temi da tempo sul tappeto: depenalizzazione delle incriminazioni minori allo scopo di ridurre il numero dei reati, e pertanto dei processi penali; revisione della disciplina della prescrizione, magari introducendo meccanismi differenziati, allo scopo di non scoraggiare l’accesso ai riti alternativi; spazio a dichiarazioni giudiziali di «irrilevanza penale del fatto», quando la realizzazione del reato non dà luogo ad offese di rilievo; previsione di sanzioni pecuniarie in caso di impugnazioni temerarie e riduzione dei casi nei quali è possibile ricorrere in Cassazione.

Se queste prime misure fossero adottate, probabilmente l’Italia guadagnerebbe già qualche posizione nelle classifiche internazionali sulla funzionalità del sistema giudiziario: i tempi dei processi si accorcerebbero, non sarebbero celebrati molti processi inutili, la minore pressione delle notizie di reato consentirebbe una gestione più agevole dell'azione penale da parte delle Procure della Repubblica. E si potrebbe, allora, pensare ai decisivi passi ulteriori: l’elaborazione di un codice penale nuovo di zecca, la costruzione di un processo penale nello stesso tempo garantista ed efficiente.

Questo, e non altro, si attendono gli italiani. Sicuramente non si aspettano che il potere politico, con la scusa di asseriti abusi della magistratura, metta mano ad una riforma/mordacchia: preveda forme di selezione preventiva (da parte dei politici) dei reati concretamente perseguibili, indebolisca il potere dei pubblici ministeri rafforzando quelli della polizia, consenta così al governo d’interferire in qualche modo sulla gestione dell’azione penale, introduca limitazioni abnormi all’impiego delle intercettazioni danneggiando le indagini, introduca, direttamente o indirettamente, forme d'immunità e guarentigia ulteriori rispetto a quelle di cui sono già ampiamente beneficiari parlamentari e ministri.

Se ci sono stati abusi di singoli magistrati, i colpevoli siano perseguiti sul piano disciplinare ed eventualmente penale. Con la scusa di combattere gli abusi della magistratura, non si privi tuttavia il Paese del doveroso controllo di legalità nei confronti di chiunque commetta reati meritevoli di essere perseguiti, non si indebolisca la pressione complessiva dello Stato nei confronti della criminalità. Come bene ha osservato il presidente della corte di appello di Roma, si rafforzi, piuttosto, l'etica pubblica fondata su di un ritrovato, profondo, senso di legalità.

I discorsi d’inaugurazione dell’anno giudiziario letti ieri dai capi di corte inducono ad un’ultima considerazione. In tutte le relazioni si riscontra una lunga, dettagliata, elencazione dei mali perduranti della giustizia. Le colpe sono, peraltro, quasi sempre, soltanto degli altri: dei politici che non garantiscono sufficienti risorse e non emanano le riforme necessarie, degli avvocati che sono d'intralcio nei processi. In realtà, molte volte il cattivo funzionamento dei singoli uffici è, soltanto, colpa dei magistrati che li gestiscono. Quando, finalmente, anche nelle relazioni inaugurali ascolteremo la doverosa denuncia delle proprie manchevolezze e dei propri errori?

da lastampa.it
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« Risposta #17 inserito:: Febbraio 09, 2009, 05:16:58 pm »

9/2/2009
 
 
CARLO FEDERICO GROSSO
 

Ciò che sta accadendo attorno alla vicenda Englaro suscita perplessità e tormenti. Non intendo affrontare il problema etico. Non sarei titolato a farlo. Soprattutto, sono convinto che sui temi dell’inizio e della fine della vita ciascuno deve fare, in silenzio, soltanto i conti con la propria coscienza e non imporre agli altri le proprie eventuali certezze. Intendo invece porre alcuni interrogativi concernenti le questioni di diritto.

La prima questione suscitata dalle più recenti iniziative del governo riguarda la legittimità del decreto legge approvato venerdì mattina. Su questo punto non sono possibili discussioni. Come ha valutato il Presidente della Repubblica, il decreto era costituzionalmente illegittimo per mancanza del requisito della necessità e urgenza. Allo scopo di non violare il principio secondo cui la legge è, necessariamente, generale e astratta, il governo aveva proposto un testo destinato a regolare «tutti i casi» in cui si fosse posto un problema di alimentazione e idratazione artificiale. Ma, con riferimento alla regola generale enunciata, non vi era nessuna ragione di urgenza.

Tanto è vero che il Parlamento, nonostante giacessero da tempo davanti alle sue commissioni disegni di legge che ipotizzavano lo stesso principio, aveva discusso per mesi senza giungere ad alcuna decisione. Nessun dubbio, per altro verso, che al Capo dello Stato competa una valutazione di merito in ordine alla sussistenza dei requisiti che legittimano l’adozione della decretazione d’urgenza e non una semplice funzione di avallo notarile delle valutazioni del governo. Napolitano aveva d’altronde, in passato, più volte richiamato l’attenzione sulla necessità di utilizzare con attenzione lo strumento del decreto legge. Il caso di cui si discute si è inserito, pertanto, in questa prospettiva di rigoroso rispetto presidenziale della legalità costituzionale, ampiamente rilevato da questo giornale.

Di tutt’altro segno sono le questioni giuridiche che solleva il disegno di legge, di uguale contenuto, approvato dal governo venerdì sera, e che si vorrebbe votato dal Parlamento nel giro di pochi giorni. Nei suoi confronti cadono, ovviamente, le menzionate ragioni d’illegittimità. Cionondimeno, non credo che ogni motivo di perplessità venga meno.

Per ragioni di brevità, mi limiterò ad accennare a tre profili che mi sembrano meritevoli di particolare attenzione. Il primo riguarda i tempi preventivati per l’approvazione del disegno di legge: oggi o domani al Senato, fra domani e dopodomani alla Camera. Non si è mai assistito a una simile sequenza temporale su di un tema di tanto rilievo. Se davvero il programma sarà rispettato, significherà che il dibattito in Parlamento sarà stato soffocato utilizzando, con una certa violenza, gli strumenti previsti dai regolamenti parlamentari. Gli eventuali oppositori non avranno, di fatto, avuto diritto di parola. Mi domando: è consentita, in uno Stato di diritto, una prevaricazione tanto profonda della dialettica parlamentare?

Il secondo concerne il contenuto del disegno di legge. Esso stabilisce che, in attesa dell’approvazione di una disciplina legislativa organica, «l’alimentazione e l’idratazione non possono, in alcun caso, essere sospese da chi assiste soggetti non in grado di provvedere a se stessi». E se la persona interessata, quando era ancora consapevole, avesse manifestato la sua contrarietà a trattamenti medici diretti a mantenerla artificialmente in vita? Costituisce principio di diritto pacifico, riconosciuto da numerose sentenze della Cassazione, che nessuno può essere sottoposto a trattamenti sanitari contro la sua volontà: lo stabilisce, ancora una volta, la Costituzione. Ma, allora, lo stesso contenuto del disegno di legge è fortemente sospetto d’illegittimità, poiché imporrebbe un trattamento di mantenimento artificiale in vita anche a chi ha dichiarato di rifiutarlo.

C’è d’altronde un terzo profilo sul quale, ritengo, occorre ragionare. La Cassazione, come è noto, ha «definitivamente» riconosciuto a Eluana Englaro, o a chi per lei, il diritto di staccare il sondino nasogastrico attraverso il quale si realizza il suo mantenimento artificiale in vita. Ebbene, di fronte a un diritto ormai definitivamente riconosciuto dall’autorità giudiziaria, davvero si può ritenere che una legge successiva sia, di per sé, in grado di cancellare il giudicato?

Si badi che, curiosamente, lo stesso governo, sul punto, deve avere avuto i suoi dubbi. Infatti nella relazione di accompagnamento al decreto ha scritto che è vero che, nel caso di specie, c’è stata una sentenza della Cassazione, ma essa, data la particolare natura del provvedimento assunto (di mera «volontaria giurisdizione»), non avrebbe dato vita ad alcun «accertamento di un diritto». Così facendo, lo stesso governo ha ammesso che se, invece, fosse stato riconosciuto un diritto, esso sarebbe ormai intangibile anche di fronte alla legge. Ebbene, poiché, a differenza di quanto sostenuto dal governo, la Cassazione ha, in realtà, riconosciuto un vero e proprio diritto individuale a non essere più medicalmente assistiti contro la propria volontà comunque manifestata, è lecito dubitare che il legislatore possa davvero, ormai, interferire, con una legge, su tale situazione giuridica costituita.

A maggior ragione, non potrebbero, d’altronde, essere considerati legittimi ulteriori interventi a livello amministrativo diretti a ostacolare, o eventualmente impedire, l’esercizio del diritto ormai definitivamente riconosciuto. Lo impone, ancora una volta, la salvaguardia del principio costituzionale della divisione dei poteri. Un’ultima riflessione. Il presidente del Consiglio, nella concitazione degli ultimi giorni, ha dichiarato che la Costituzione verrà presto cambiata.

Trascurando le sue considerazioni, storicamente errate, sull’asserita matrice di parte dei principi costituzionali fondamentali, è comunque utile ricordare che, fino al momento di una eventuale loro modifica, le regole attualmente scritte non dovranno essere, in ogni caso, infrante.  
da lastampa.it
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« Risposta #18 inserito:: Marzo 02, 2009, 11:33:42 am »

2/3/2009
 
L'urgenza fa male alla legge
 
 
CARLO FEDERICO GROSSO
 
L’hanno dichiarato cardinali e vescovi, l’hanno ripetuto politici e persone comuni: si tratta di omicidio. Qualcuno, zelante, ha anche presentato una denuncia.

La procura della Repubblica ha, di conseguenza, iscritto i responsabili della procedura nel registro degli indagati con l’imputazione di omicidio volontario.

È ragionevole pensare che tale vicenda giudiziaria, se i protocolli sono stati rispettati, si afflosci subito, poiché c’è stata una sentenza che ha riconosciuto a Eluana Englaro il diritto di morire, e pertanto al suo tutore e ai medici il diritto di procedere.

E se si esercita un diritto non si può, nello stesso tempo, commettere un reato.

L’ultima coda della vicenda ripropone, comunque, il tema della presenza minacciosa del codice penale in ogni caso di «morte accompagnata», si tratti di omesso accanimento terapeutico, di cura palliativa, di stacco della spina o del sondino. Si ricorderà che anche nel caso Welby, dove una persona cosciente aveva manifestato la volontà d’interrompere il trattamento che le consentiva di respirare, dopo la morte è dovuto comunque intervenire un giudice per riconoscere la liceità di quanto era accaduto.

Sul terreno della tutela della vita il codice è rigoroso. Commette omicidio chi cagiona la morte di un uomo.

Costituisce condotta omicidiaria sia l’azione che determina la morte (sparare, avvelenare), sia l’omissione di atti che avrebbero impedito di morire (omessa erogazione di cibo, di cure). Ma non solo: cagionare l’accorciamento della vita equivale, per la legge, a causare la morte.

La volontà di proteggere in maniera forte la vita emerge, altresì, dalle norme che puniscono l’omicidio del consenziente e l’istigazione o l’aiuto al suicidio. La vita è bene assolutamente indisponibile, si ragiona, e pertanto il consenso a essere uccisi non giustifica, mentre chi determina altri al suicidio, o lo agevola, è considerato, nella sostanza, un concorrente in omicidio.

Queste norme sono state, ovviamente, pensate con riferimento alla normalità della vita che viene offesa: la vita di chi sta bene o di chi, seppure malato, non si trova in una condizione estrema (malattia terminale, incoscienza persistente). Di per sé, esse parrebbero tuttavia applicabili a ogni ipotesi di privazione o accorciamento della vita. E in effetti, fino a una quarantina di anni fa, nessuno azzardava che fosse lecito interrompere le cure principali a un malato terminale o praticare interventi palliativi al costo di abbreviare i tempi naturali della vita.

Poi le cose sono cambiate. Si è giudicato, pian piano, che l’accanimento terapeutico nei confronti del malato terminale costituisse una inutile protrazione di sofferenza e che fosse preferibile interrompere le cure principali e affidare alla natura il decorso di fine vita. È emersa, nel contempo, una grande attenzione per il problema dell’eliminazione del dolore. In questa prospettiva si è cominciato a pensare, pesando vantaggi e svantaggi, che l’erogazione di sostanze idonee fosse comunque consentita.

Oggi, con la benedizione della Chiesa, entrambe tali pratiche sono diventate prassi e norme deontologiche mediche, anche se esse non sono state, fino ad ora, espressamente legittimate da una legge. La scienza giuridica, di fronte alla nuova realtà, ha spiegato che nel caso dei malati terminali non c’è ragione di sostenere con le medicine una vita ormai consunta. Non c’è, nella realtà, più vita dignitosa e viene quindi meno il dovere giuridico di impedire (o procrastinare) una morte comunque prossima, salvo che il malato abbia dichiarato di voler essere curato fino in fondo.

Rimane aperto, invece, il problema della liceità o meno dello stacco della spina o dell’interruzione dell’alimentazione artificiale di chi si trova in stato di coma persistente. Si tratta di un ulteriore caso estremo, che si differenzia dal precedente per non essere, il malato, in una condizione di vita terminale. La sua vita incosciente può durare anni. È certo, soltanto, che non dovrebbe più risvegliarsi.

Di fronte alla condizione d’incoscienza persistente, nessuno si è sentito di affermare che è lecito staccare la spina o interrompere l’alimentazione artificiale. La situazione cambia, soltanto, nel caso in cui il malato, quando era cosciente, abbia manifestato la volontà di non essere sottoposto a trattamento. In quest’ipotesi, si sostiene, le norme sulla protezione della vita dovrebbero cedere il passo al principio secondo cui nessuno può essere sottoposto a trattamento sanitario contro la sua volontà (art. 35 della Costituzione). In caso di mancanza di volontà manifestata, nessun terzo potrebbe, comunque, legittimamente intervenire.

La legge sulla fine della vita dovrebbe, ora, fare chiarezza su tutti questi punti, e in astratto sarebbe bene che ciò accadesse. In materia di accanimento terapeutico e cure palliative vi è ampio consenso. In tema di alimentazione artificiale, invece, grande divisione: c’è chi sostiene che l’alimentazione dovrebbe essere imposta anche a chi ha dichiarato di non volerla, chi ritiene che la volontà del paziente debba essere rispettata, chi propone di affidare, pure in questo caso, la decisione all’apprezzamento di medici e fiduciari.

Il rischio è che, nella concitazione del momento, la politica si lasci sopraffare da sentimenti ed emozioni e licenzi una legge pessima, prevaricatrice di diritti e libertà. E allora, perché non soprassedere, aspettando che, decantate le reciproche acrimonie, tempi più provvidi consentano l’adozione di soluzioni ragionate e condivise? Sarebbe, tutto sommato, oggi, la soluzione più prudente.

da lastampa.it
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« Risposta #19 inserito:: Marzo 09, 2009, 10:34:21 am »

9/3/2009
 
Intercettazioni, con la scusa degli abusi
 
 
CARLO FEDERICO GROSSO
 
Domani la Camera dovrebbe iniziare la discussione in aula del disegno di legge sulle intercettazioni. Dopo una travagliata incubazione, nel corso della quale la stessa maggioranza si è divisa, sembra che sia stato raggiunto un accordo. Dovrebbe essere eliminato il previsto divieto di pubblicare ogni notizia sul contenuto delle indagini, anche di quelle nei confronti delle quali sia caduto il segreto. Le intercettazioni dovrebbero diventare possibili quando siano emersi «rilevanti» o «evidenti» indizi di colpevolezza a carico di qualcuno, senza che sia più necessario che essi siano addirittura «gravi».

Tali modificazioni migliorative sono, in realtà, briciole di fronte a ciò che il Parlamento si appresta a votare nel suo complesso. Perché, se davvero la riforma dovesse diventare legge, si determinerebbe un’involuzione grave nella qualità del nostro ordinamento. Risulterebbero intaccati quantomeno due capisaldi di civiltà: l’incisività delle indagini penali e la libertà di stampa.

Vediamo di riassumere i termini della questione, concentrando l’attenzione sui profili di maggiore impatto. Da un lato, la possibilità d’intercettare soltanto quando siano già emersi indizi di colpevolezza a carico di qualcuno (sono esenti da tale limitazione soltanto i reati di mafia e terrorismo).

Dall’altro, la previsione del carcere per i giornalisti rei di pubblicazioni vietate e la configurazione di pesanti sanzioni pecuniarie a carico degli editori dei giornali.

Il primo profilo interessa l’efficienza delle indagini penali. È noto che le intercettazioni costituiscono uno strumento importante di acquisizione probatoria. Esse sono, d’altronde, soprattutto utili all’inizio delle inchieste, quando gli autori non sono ancora stati individuati, si è aperto un processo contro ignoti e ci si deve orientare fra le diverse ipotesi investigative. La riforma prescrive, invece, di rinunciare al loro utilizzo fino a quando qualcuno risulti attinto da indizi di colpevolezza. Ma se sono già stati acquisiti tali indizi, che bisogno c’è più, molte volte, d’intercettare? D’altronde, quando le intercettazioni potranno essere finalmente disposte perché sono emersi presupposti di colpevolezza, che senso ha obbligare a interromperle, salvo casi assolutamente eccezionali, dopo soli due mesi? Il rischio di vanificare gli accertamenti in corso è, anche qui, evidente.

Il paradosso è che le forze politiche che hanno progettato questa caduta nell’incisività delle indagini sono le stesse che hanno posto a livello alto, nel loro programma, ordine e sicurezza. Nessuna di esse ha pensato che, così facendo, la sicurezza dei cittadini, invece, s’indebolisce fortemente anche con riferimento a delitti che li interessano direttamente, come lo stupro, il furto, la rapina?

Ma veniamo al secondo dei menzionati profili. L’accordo di maggioranza ha eliminato, quantomeno, l’ipotesi più clamorosa di attentato alla libertà di stampa originariamente previsto. Il ripristino della possibilità d’informare i cittadini quantomeno sull’essenzialità delle inchieste in corso non garantirà, certo, una informazione sempre dettagliata, o una spiegazione sempre esauriente di ciò che sta accadendo nei Palazzi di Giustizia. Quantomeno, l’informazione non sarà, peraltro, del tutto oscurata e un minimo di controllo sociale sull’attività della magistratura in fase di indagine sarà ancora possibile.

Sono rimasti, tuttavia, sostanzialmente intatti due diversi aspetti di potenziale impatto sul libero esercizio della stampa. Da un lato l’incremento del carcere previsto per i giornalisti che pubblicano notizie non pubblicabili, dall’altro la previsione di pesanti sanzioni pecuniarie a carico degli editori. L’incremento della previsione del carcere per i giornalisti possiede un’evidente finalità intimidatoria: attento, giornalista, a ciò che scrivi, è il messaggio, perché, prima o poi, finirai in galera. Le sanzioni pecuniarie che si vogliono introdurre a carico degli editori costituiscono una novità della quale, fino ad ora, pochi hanno denunciato i rischi.

Il disegno di legge introduce la responsabilità diretta dell’impresa editrice con riferimento al reato di pubblicazione arbitraria. Questa previsione determinerà costi rilevanti di organizzazione, imponendo la predisposizione di «modelli organizzativi» idonei a prevenire le infrazioni. Ma, soprattutto, renderà gli editori molto attenti a ciò che avviene nelle redazioni. Allo scopo di evitare che il direttore si lasci prendere la mano dall’ansia di pubblicare comunque la notizia, e li costringa a pagare esose sanzioni, useranno modi forti. Ma chi ci garantisce, a questo punto, che tali modi non serviranno, nella prassi, anche a coartare direttori e giornalisti sul terreno dell’indirizzo del giornale, della selezione dei servizi, della scelta dei temi da trattare? Risulterebbe intaccato, a questo punto, un altro dei principi sui quali si fonda la libertà di stampa, cioè l’autonomia del giornalista.

Si dirà, a questo punto, che le restrizioni delle intercettazioni e della stampa sono comunque necessarie di fronte agli abusi, gravi e ricorrenti, di magistratura e giornalismo. Troppi sono stati, nel passato, i privati intercettati, le violazioni della privatezza, le intercettazioni pubblicate, i mostri sbattuti sui giornali.

La mia idea è che gli abusi commessi, non discutibili, vengano comunque oggi enfatizzati a tutt’altro scopo. Che, con la scusa degli abusi (che è possibile rimuovere, si badi, con una ragionevole disciplina di accantonamento e distruzione delle intercettazioni che non interessano le indagini e di divieto di ogni loro divulgazione), qualcuno intenda, in realtà, perseguire l’obiettivo di indebolire, con un colpo solo, potere giudiziario e libera stampa. Due fastidi talvolta insopportabili per molti politici, dell’uno e dell’altro schieramento.

da lastampa.it
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« Risposta #20 inserito:: Maggio 21, 2009, 02:51:08 pm »

21/5/2009

L'arbitro non va mai fischiato
   
CARLO FEDERICO GROSSO


Andreotti è stato, in passato, ingiustamente accusato di attività mafiosa (Palermo) e d’omicidio volontario (Perugia). Nel corso dei due giudizi, che durarono anni, mai pronunziò una parola contro i magistrati; anzi, dichiarò sempre rispetto e fiducia nei confronti della giustizia. Lo statista democristiano conosceva bene le regole del gioco. Guai se avesse messo in dubbio l’onestà del giudice chiamato a giudicarlo: sarebbe stato un attacco intollerabile allo Stato di diritto ed all’organizzazione democratica del Paese, una delegittimazione inaccettabile di uno dei poteri dello Stato.

Molto diverse sono state ieri l’altro, e nuovamente ieri, le reazioni di Berlusconi alle motivazioni della sentenza che ha condannato per corruzione l’avvocato Mills. «È una sentenza semplicemente scandalosa», ha scandito il premier, «per di più uscita prima delle elezioni in modo puntualmente programmato». Durissimo è stato, in particolare, l’attacco personale, reiterato, al presidente del collegio che ha emesso la sentenza: «L’ho ricusato perché dichiaratamente di parte e prevenuto», ha affermato il primo ministro.

«Una vergogna. Andrò in Parlamento a chiarire la verità dei fatti ed a dire ciò che penso di certa magistratura politicizzata».

Le parole del presidente del Consiglio sollevano un problema di merito e un problema di forma. Nel merito, non v’è dubbio che ciascuno di noi sia legittimato a non condividere il contenuto delle sentenze e pertanto a criticarle. Nessuno, ritenendo che una sentenza sia ingiusta, è tuttavia autorizzato a cadere automaticamente nell’aggressione e nella contumelia personale, ad accusare di comportamenti disonesti il magistrato che l’ha giudicato, a delegittimarlo ed a delegittimare insieme con lui l’intero ordine giudiziario. A maggior ragione non è autorizzato a farlo il presidente del Consiglio, che, unitamente alle altre massime cariche istituzionali, dovrebbe essere ancora più attento al rispetto delle regole e dello Stato di diritto.

Non so dire, perché non conosco gli atti processuali, se la condanna dell’avvocato Mills si fondi su solidi elementi d’accusa, come sembrerebbe arguibile dalla lettura della sentenza, o se abbia ragione chi, come Berlusconi, sostiene che la verità sia tutt’altra: che i denari percepiti da tale avvocato costituiscono la giusta retribuzione di prestazioni professionali e che non c’è stata, in due processi che interessavano Fininvest e la sua proprietà, nessuna falsa testimonianza da parte di costui. Comunque stiano le cose, c’è in ogni caso, oggi, una sentenza emessa, a conclusione di un processo regolare, da tre giudici legittimamente nominati; una sentenza che, fino a prova contraria, deve essere pertanto rispettata come ogni altra sentenza. Nei suoi confronti vi può essere critica ragionata, contumelia mai.

Un giudice d’appello potrà d’altronde rileggere le carte e giudicare i fatti in modo diverso, assolvendo Mills. Così prevede il nostro sistema di giustizia, modello di garantismo e di tutela dei diritti dell’imputato. Lo stesso Berlusconi, ieri l’altro, ha d’altronde dichiarato che quando il processo riprenderà «ci sarà comunque una assoluzione totale». Perché, dunque, tanta acrimonia contro la sentenza di primo grado? Perché tanta aggressione nei confronti del giudice che l’ha pronunciata? Perché, soprattutto, le risposte sprezzanti a chi, nella conferenza stampa, gli ha domandato per quale ragione, allora, non rinunciava all’immunità del lodo Alfano, consentendo a un eventuale magistrato non prevenuto di giudicarlo in scienza e coscienza?

So che un buon numero di lettori di questo giornale è convinto che Berlusconi sia stato vittima di persecuzioni giudiziarie e ritiene che sia ora di finirla con le accuse e i processi penali a suo carico: lo si lasci lavorare in tranquillità per il bene del Paese. È un’opinione che merita attenzione, come quella, contrapposta, di chi ritiene invece che egli, protagonista d’illiceità e prevaricazioni d’ogni genere, sia stato, e sia soprattutto oggi a causa del lodo Alfano, oggetto di odiosi privilegi giudiziari.

Al di là di tali divergenze, su di un profilo si dovrebbe, peraltro, tutti convenire. Se un Paese si dota di un sistema di regole di convivenza, e prevede che determinati arbitri garantiscano la loro osservanza, non è consentito a nessuno reagire con il vituperio e l’aggressione se un arbitro decide in modo contrario ai suoi auspici o ai suoi interessi. Se così accadesse, e diventasse norma nella reazione popolare, si dissolverebbero regole, arbitri e lo stesso Paese.

da lastampa.it
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« Risposta #21 inserito:: Giugno 07, 2009, 12:22:19 am »

3/6/2009
 
Decalogo dell'uomo pubblico
 
CARLO FEDERICO GROSSO
 
D i questi tempi sono di moda le «dieci domande». Ieri, Festa della Repubblica, e quindi delle pubbliche istituzioni, riflettendo sulla classe politica, un po’ sul serio, un po’ per gioco, mi sono domandato: quali potrebbero essere le dieci qualità morali che un uomo politico deve ancora oggi possedere, nonostante i grandi mutamenti del costume e del modo di pensare, affinché nei suoi confronti si possa dire: bravo, hai senso dello Stato. Sei pertanto, almeno sotto questo profilo, adatto a governare.

Nel procedere a questo piccolo decalogo delle pubbliche virtù, non c’è che l’imbarazzo della scelta. Al primo posto metterei il rigore nella gestione del pubblico denaro. Che di un uomo politico mai si possa dire, o anche soltanto pensare: sei un corrotto, hai peculato, concusso, abusato dei pubblici poteri. Lo afferma tuttora il codice penale, ipotizzando, quantomeno in linea di principio, pene rigorose in caso di violazione delle norme.

In seconda posizione collocherei il rispetto delle regole. Un uomo di Stato non può infrangere le leggi o cercare di aggirarle. Può proporre modifiche legislative, mutare la Costituzione nelle parti in cui essa è modificabile, cambiare, entro confini ragionevoli, i rapporti fra i poteri dello Stato. Nel perseguire i suoi obiettivi politici, egli deve tuttavia osservare rigorosamente, sempre, i principi costituzionali dello Stato di diritto.

Egli deve pertanto, innanzitutto, salvaguardare la divisione dei poteri: le prerogative sovrane del Parlamento, l’autonomia dell’ordine giudiziario, l’incisività e il prestigio degli organi di garanzia (Corte Costituzionale, Consiglio superiore della magistratura) ai quali è, rispettivamente, affidato il controllo sulla legittimità costituzionale delle leggi e la tutela dell’indipendenza della magistratura. Preservare, in altre parole, il sistema di pesi e contrappesi.

In ulteriore posizione collocherei lo stile di vita. Penso che, se non viola la legge, ciascuno di noi, nella sfera privata, sia libero di praticare vizi o virtù come gli pare. Un uomo pubblico deve tuttavia, quantomeno, apparire rigoroso: non deve dare scandalo, ostentare potere, esibire privilegi. Come uomo di Stato, egli deve essere, piuttosto, modello di equilibrio, saggezza, sobrietà, moderazione. L’uomo politico che ha senso delle istituzioni non dovrebbe, d’altro canto, mai temere il controllo popolare: dato che ciò che lo concerne ha, pressoché sempre, un interesse pubblico, mai dovrebbe, dunque, cercare di nascondere le sue condotte, bloccare la pubblicazione di notizie, limitare la libertà dei giornalisti di dire e raccontare. Gli dovrebbe essere sufficiente il rispetto del diritto, sacrosanto, a non essere diffamato attraverso la pubblicazione di notizie false.

L’uomo di governo dovrebbe, soprattutto, operare, sempre e soltanto, nell’interesse della gente. Si parla, in questa prospettiva, di bene pubblico, di interesse collettivo, l’unico che nella gestione della «res pubblica» si dovrebbe perseguire. Si tratta, ovviamente, del profilo più importante, della sintesi di tutte le altre possibili virtù. In questa prospettiva, lo ha ribadito ieri l’altro il Presidente della Repubblica, la classe politica dovrebbe farsi carico, tutta insieme, dell’indispensabile ammodernamento dello Stato, per rendere le istituzioni pubbliche più snelle, efficienti, pronte nel rispondere, con i servizi, alle esigenze della gente.

Vi sono, poi, innumerevoli altri requisiti: ad esempio, l’uomo pubblico dovrebbe mostrare rispetto per le idee degli avversari, essere sempre educato e controllato nei dibattiti, non dovrebbe mentire a chi lo interroga su fatti pubblici o su fatti privati di pubblico interesse, dovrebbe rimuovere le situazioni di conflitto, per evitare che anche un solo cittadino sospetti che egli possa perseguire interessi privati nella gestione del potere.

Il decalogo potrebbe d’altronde continuare. Quanti di questi elementari pubblici doveri si riflettono peraltro sempre nel modo di fare quotidiano di ministri, sottosegretari, onorevoli di maggioranza e opposizione, presidenti regionali, sindaci e quant’altro? Lasciamo da parte il profilo dei comportamenti personali, e badiamo, piuttosto, ai programmi di legislatura: l’auspicio è che nessuna legge futura cancelli i principi cardine delle garanzie individuali e collettive, ribalti i poteri dello Stato, indebolisca il controllo sulla legalità dei comportamenti; nessuna legge crei sacche di mancata trasparenza, favorisca odiose impunità, circoscriva la libertà di stampa. Nessuno, infine, tagli le radici sulle quali si è fondata, fino ad ora, la Repubblica italiana.
 
da lastampa.it
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« Risposta #22 inserito:: Giugno 10, 2009, 04:25:40 pm »

10/6/2009
 
Giusto guardare in casa propria
 
 
 
 
 
CARLO FEDERICO GROSSO
 
Non è usuale che il Capo dello Stato, intervenendo ai lavori del Consiglio superiore della magistratura, formuli con tanta chiarezza e decisione critiche a un certo modo di pensare e di operare di una parte della magistratura. La giustizia funziona poco e male, ha rilevato il Presidente, il prestigio dell’ordine giudiziario è fortemente in crisi nell’opinione della gente.

Le cause di questa situazione sono numerose. Ma la magistratura «non può non interrogarsi sulle sue corresponsabilità dinanzi al prodursi ed all’aggravarsi dell’insufficienza del sistema di giustizia».

Parole di grandissima importanza, parole di pietra. Troppo sovente infatti i magistrati, nel denunciare i mali della giustizia, affermano che le colpe sono, tutte, dei politici che non fanno le riforme necessarie o fanno leggi inadeguate, degli avvocati che intralciano con le loro eccezioni ed i loro garbugli l’ordinato lavoro degli addetti, degli ausiliari, sovente impreparati o neghittosi.

Certo, politici, avvocati e personale ausiliario possono avere le loro colpe. Ma se i processi durano troppo a lungo, se troppe inchieste vengono portate avanti nonostante la loro palese irragionevolezza, se troppe udienze sono rinviate per difetto di notifica, se troppe sentenze appaiono discutibili, se eccessive sono le prescrizioni dei reati, se troppe volte la gente si sente presa in giro, la responsabilità è anche di coloro che le inchieste ed i processi li gestiscono, li organizzano, li conducono, li decidono. Insomma, dei magistrati.
Il Presidente della Repubblica ha ricordato, d’altro canto, aspetti specifici che nuocciono gravemente al prestigio dell’ordine giudiziario: i profili di disordine e di tensione che hanno caratterizzato di recente l’attività di alcune Procure della Repubblica, l’esasperazione delle logiche di appartenenza correntizia, le tensioni provocate inutilmente sul terreno dei complessivi equilibri istituzionali.

Quest’ultimo tema è particolarmente delicato, poiché coinvolge i rapporti fra politica e giustizia. Occorre tuttavia affrontarlo con spirito laico. Sicuramente una parte della politica vorrebbe, oggi, tagliare illegittimamente le unghie alla magistratura, circoscrivere l’indipendenza dell’ordine giudiziario, occupare arbitrariamente gli spazi riservati alla giurisdizione. E questo è inaccettabile. E’ altrettanto vero, tuttavia, che contrapposizioni frontali, prese di posizioni politiche, difese e chiusure corporative, dovrebbero essere estranee a chi ha scelto di esercitare la difficile e delicata funzione di amministrare la giustizia in nome del popolo italiano.

Che dire, infine, del gratuito, molte volte dannoso, protagonismo di certi magistrati, di regola pubblici ministeri, che non esitano a cercare notorietà e prestigio personale sfruttando le inchieste penali e le disgrazie degli inquisiti? Anche a questo riguardo le parole del Capo dello Stato sono state durissime: «Non può che risultare altamente dannoso per la figura del pubblico ministero qualunque comportamento impropriamente protagonistico o chiaramente strumentale ad altri fini». Agli eccessi si può porre rimedio «non soltanto con l’intervento disciplinare», ma anche «con tempestive iniziative di sorveglianza e coordinamento». Un chiaro monito allo stesso Consiglio superiore ad attivarsi, scrollandosi di dosso ogni incrostazione di residua tolleranza o copertura «domestica» di coloro che hanno sbagliato.

Gli ammonimenti del Capo dello Stato ai componenti dell’ordine giudiziario hanno d’altronde opportunamente trovato, nell’ultima parte dell’intervento presidenziale, il loro logico completamento nell’appello, altrettanto importante, a che le riforme che il Parlamento si appresta a discutere ed approvare fra poco non determinino strappi negli attuali equilibri costituzionali, non cancellino le conquiste di libertà e pluralismo realizzate con la Carta del 1948, non alterino i rapporti fra i poteri dello Stato. Non intacchino, in particolare, l’indipendenza della magistratura nel gestire l’azione penale e nel condurre i processi.

Ancora una volta parole assolutamente condivisibili, direi sacrosante. Se i magistrati che sbagliano devono essere puniti con il dovuto rigore, i principi che disegnano una magistratura indipendente ed una giustizia uguale per tutti devono essere difesi fino in fondo. Sono parte integrante della nostra democrazia

da lastampa.it
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« Risposta #23 inserito:: Luglio 01, 2009, 11:18:48 am »

30/6/2009
 
Ma da noi sono tutti impuniti
 
CARLO FEDERICO GROSSO
 
Bernard Madoff, il finanziere americano accusato di avere frodato i suoi clienti per un totale di oltre sessantacinque miliardi di dollari con una sorta di colossale catena di sant'Antonio, è stato condannato da un tribunale di New York a 150 anni di galera. Una condanna indubbiamente esemplare, che segue ad altre condanne altrettanto esemplari pronunciate negli anni scorsi dalla giustizia americana nei confronti di altri finanzieri malfattori (si pensi, per tutti, al caso Enron). Al di là della entità della pena irrogata, colpisce d’altronde la rapidità del giudizio: Madoff era stato arrestato nel dicembre scorso, non appena erano emerse le sue malefatte. In poco più di sei mesi si è arrivati alla sua condanna penale. Anche sotto questo profilo la sentenza americana costituisce un esempio di incisività ed efficienza.

Si potrà discutere se la decisione, a fronte del comportamento processuale dell’imputato, che aveva confessato di avere commesso tutti i delitti dei quali era stato accusato (ben undici imputazioni), ed almeno apparentemente aveva mostrato contrizione ed aveva cercato di collaborare con il giudice chiamato a giudicarlo, sia stata giusta od eccessivamente pesante. Un dato è comunque indiscutibile: che una volta di più la giustizia americana ha dimostrato di non avere difficoltà a colpire con rapidità e durezza chi, chiamato ad operare in una economia di mercato nel rispetto delle regole, tali regole ha violato e calpestato con l’obbiettivo dell'arricchimento selvaggio a danno dei cittadini truffati. Anche in Italia si sono verificati, in questi ultimi anni, scandali finanziari di grandissima entità: Parmalat, Cirio, bond argentini, per citare soltanto i casi più eclatanti. Anche in Italia, come negli Stati Uniti, si sono aperti processi penali. Quanta differenza, tuttavia, nelle giustizie dei due Paesi.

Mentre i giudici americani hanno, bene o male, fatto giustizia, e sono riusciti a farla in tempi rapidissimi, i giudici italiani, per fatti ormai risalenti a cinque o sei anni fa, stanno ancora rincorrendo gli imputati in processi lenti, complessi e faticosi, destinati, in larga misura, ad estinguersi per stanchezza e prescrizione. Si consideri, per tutte, la vicenda Parmalat. Gli autori della colossale truffa e ruberia a danno di azionisti e risparmiatori sono stati incriminati da ben due procure della Repubblica, da quella di Milano, che ha proceduto per i delitti di aggiotaggio, e da quella di Parma, che ha proceduto a sua volta per le bancarotte. Data la difficoltà di gestire, per la loro complessità, le vicende processuali, la tratta milanese si è sfrangiata a sua volta in due processi distinti, quella parmense in una decina di filoni separati. Di tutti questi processi, uno soltanto è giunto, fino ad ora, alla sentenza di primo grado: il primo processo per aggiotaggio contro Tanzi (e altri) celebrato davanti alla prima sezione del Tribunale di Milano, nel quale la maggior parte dei responsabili è riuscita a patteggiare con la Procura pene irrisorie, mentre il solo Tanzi, alla fine del dibattimento, è stato condannato ad una pena di dieci anni di reclusione.

Un risultato deludente. Tanto più deludente se si considera che, dati i tempi dei giudizi di appello e di cassazione, è ragionevole pensare che i delitti contestati risulteranno in ogni caso prescritti prima della sentenza definitiva. Se si valuta che negli Stati Uniti Madoff, raggiunto, come era naturale, da custodia cautelare, ha affrontato il processo agli arresti domiciliari, e si appresta a passare in carcere quanto gli rimane da vivere, mentre in Italia, dopo una breve custodia, lo stesso Tanzi è stato subito scarcerato ed eviterà sicuramente il carcere quand’anche taluna delle pene alle quali fosse definitivamente condannato non dovesse risultare prescritta, la differenza fra la giustizia americana e quella italiana appare, anche sotto questo profilo, enorme. Le vicende parallele della giustizia americana e di quella italiana in materia di criminalità economica dovrebbero pertanto indurre a riflettere chi ha responsabilità di governo: non è tollerabile che in Italia criminali economici e colletti bianchi, sotto la copertura di una giustizia penale complessivamente malfunzionante, siano, comunque sostanzialmente certi della loro impunità, qualunque delitto abbiano commesso. Non a caso il giudice americano che ha condannato Madoff, a commento della sua decisione, ha dichiarato che le sentenze, al di là delle conseguenze che cagionano al condannato, hanno un importante «valore simbolico», in quanto costituiscono un «monito importante» per quanti vorrebbero allo stesso modo delinquere. È ciò che noi chiamiamo «efficacia preventiva» della pena, un principio mai così negletto come di questi tempi.

da lastampa.it
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« Risposta #24 inserito:: Luglio 03, 2009, 10:13:08 am »

3/7/2009
 
Una svolta che non aiuta la giustizia
 
CARLO FEDERICO GROSSO
 
Con tre voti di fiducia, in meno di ventiquattr’ore, l’esecutivo ha conquistato il sì definitivo al disegno di legge sicurezza. Un nuovo successo per la maggioranza, una nuova sconfitta per l’opposizione. Ancora una volta, ponendo la fiducia, il governo ha soffocato ogni dialettica parlamentare.

Nonostante le critiche avanzate da ambienti qualificati del mondo del diritto e dalla Chiesa, è stato mantenuto il reato di clandestinità.

Lo straniero che fa ingresso o si trattiene nel territorio dello Stato in violazione delle disposizioni vigenti è punito con l’ammenda da 5.000 a 10.000 euro. Rispetto alla versione originaria è scomparsa la pena detentiva (che avrebbe prodotto un ulteriore, insopportabile, intasamento delle carceri). E’ stata mantenuta tuttavia la reità del fatto. Anzi, se c’è flagranza, od evidenza del reato, è previsto il rito direttissimo davanti al giudice di pace.

Immagino che numerosi lettori applaudiranno la nuova norma, ritenendo che essa costituisca un esempio di reazione forte dello Stato all’ingresso clandestino in Italia di stranieri delinquenti. In realtà il nuovo reato appare, ai tecnici del diritto, più che altro un «manifesto» privo di logica ed utilità, se non, addirittura, una novità foriera di danni per l’esercizio della giustizia.

Iniziamo da quest’ultimo profilo. La giustizia italiana è, già oggi, travolta da mille incombenze. L’effetto immediato della nuova disciplina rischierà di essere uno tsunami giudiziario di migliaia di nuove iscrizioni e di nuovi processi. Chi sarà, concretamente, in grado di gestire la tempesta? Si dirà: il giudice di pace, senza che la normale giustizia penale trattata dai magistrati togati sia sfiorata.

Nessuno pensa tuttavia che, prima di arrivare davanti al giudice di pace, a gestire la situazione si troveranno le Procure, che dovranno, bene o male, iscrivere i reati, generalizzare gli indagati, e, se del caso, esercitare l’azione penale? Delle due, pertanto, l’una: o esse saranno travolte, e pertanto impedite nello svolgere la loro stessa, usuale, attività d’indagine nei confronti dei reati dei quali già oggi si occupano, ovvero faranno finta. Iscriveranno formalmente i nuovi reati di clandestinità (e già questa sarà un’incombenza pesante), e poi terranno le pratiche nel cassetto. In entrambi i casi, com’è ovvio, qualcosa non funzionerebbe.

Ma passiamo alla logica. Quale può essere la giustificazione della previsione di un «reato» di clandestinità? Il clandestino, se scoperto, deve essere ovviamente espulso dallo Stato, questo è l’obbiettivo primario. Ed infatti anche la nuova legge prevede che lo straniero nei cui confronti si è aperto processo penale per clandestinità, o nei cui confronti c’è stata condanna penale, dovrà essere cacciato dal territorio nazionale. Anzi, se sarà espulso prima della condanna, il giudice dovrà dichiarare il non luogo a procedere.

Ma allora, per raggiungere tale obbiettivo, non sarebbe stato più ragionevole prevedere, semplicemente, lo snellimento delle pratiche amministrative di espulsione, senza scomodare la giustizia penale con la sua chiamata alle armi contro un reato comunque bagatellare? La nuova incriminazione costituisce pertanto, con evidenza, appunto un semplice «manifesto», non è una norma rispettosa dei principi che dovrebbero, ragionevolmente, sorreggere l’attività di un legislatore scrupoloso.

Né si potrà sostenere, per giustificare la novità, che il migrante irregolare è, per definizione, pericoloso: la Corte Costituzionale ha, infatti, già escluso che lo stato d’irregolarità possa essere considerato, di per sé, sintomo presuntivo di pericolosità sociale (sentenza n. 78/2007). E si badi che la Corte, trattando d’immigrazione, in un’altra occasione aveva affermato, con altrettanta chiarezza, che il legislatore deve «orientare la sua azione a canoni di razionalità» (sentenza n. 5/2004), bollando pertanto come incostituzionale ogni disciplina irragionevole della materia.

Che dire, a questo punto, delle ulteriori disposizioni approvate ieri col decreto sicurezza? In questa sede non è possibile una loro analisi dettagliata. Mi limiterò pertanto ad accennare che alcune di esse sono sicuramente apprezzabili, come quelle che prevedono giri di vite in materia di criminalità organizzata od escludono dalle gare di appalto le vittime di estorsione che non denuncino la violenza subita. Che altre suscitano invece grandi perplessità, come quella, soprattutto, che istituisce le ronde cittadine, attribuendo a privati ciò che dovrebbe essere attività riservata ai pubblici poteri.

Il «segno distintivo» della nuova legge è comunque, senza dubbio, il reato di immigrazione clandestina. Ed è su tale profilo che deve essere, pertanto, misurato il livello di civiltà, o di inciviltà, del «legislatore nuovo» che si accinge, in un modo o nell’altro, a trasformare lo Stato italiano e la sua immagine.

da lastampa.it
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« Risposta #25 inserito:: Luglio 10, 2009, 06:49:32 pm »

10/7/2009
 
In aula come sul set
 
CARLO FEDERICO GROSSO
 
Fa un certo effetto la fotografia di un pubblico ministero che nel corso della sua requisitoria, avvolto nella toga, impugna una pistola, tende il braccio e mima il gesto dell’agente.
Quell’agente che, in autostrada, un paio di anni fa, ha sparato ad un tifoso uccidendolo. Non è infatti usuale riscontrare oggi nelle aule di giustizia, soprattutto da parte dell’accusa, questa teatralità un po’ vistosa, questa ricostruzione scenica del fatto, questo tentativo di affidare anche al gesto il messaggio che dev’essere recepito da giudici e giurati.

Fino a sessanta, settant’anni fa, la scena, in Corte di Assise, era invece frequente, soprattutto da parte degli avvocati difensori. Molti di essi affidavano alle loro qualità oratorie ed alla loro abilità di mimi e di teatranti una parte consistente dell’efficacia dell’arringa. Il costume è successivamente cambiato, ed ai grandi protagonisti dell’arringa recitata sono succedute schiere di legali che hanno affidato soltanto alla logica, al raziocinio, al rigore nella ricostruzione del fatto e del diritto le sorti dei loro clienti. Freddi, razionali, distaccati, magari ironici, mai recitanti.

Semmai, in questi ultimi tempi, alla parola si sono affiancate la tecnologia e la scienza, che hanno consentito ad accusa, difesa, polizia e consulenti tecnici ricostruzioni del fatto affidate a simulazioni realizzate con il computer, a fotografie e filmati precisi nel dettaglio, a proiezioni in grado di colpire i sentimenti dei giurati, ad accostamenti di immagini idonei a dimostrare anche visivamente ciò che era accaduto. L’impiego di questi aiuti tecnologici non è tuttavia teatro. E’, ancora una volta, manifestazione di tecnica e rigore nell’usare, in udienza, l’arte dell’argomentazione.

In questi ultimissimi tempi l’affinamento e l’impiego sempre più frequente della cosiddetta «prova scientifica» nei casi di omicidio e di violenza (prova affidata alla ricerca del Dna, all’individuazione delle impronte, alla ricostruzione della scena del delitto utilizzando le tecniche della Bpa, ecc.) hanno per altro verso reso, sovente, ancora più sofisticata l’istruttoria dibattimentale oltre che la requisitoria del pubblico ministero e l’arringa del difensore. Quando si discute di prova scientifica, nulla è più concesso all’oratoria: si parla di numeri, di analisi matematiche, di riscontri chimici, di dimensione e forma delle macchie di sangue, di direzione degli schizzi, di consistenza della materia di cui sono formate le cose ritrovate sul luogo del delitto. Che c’è da dire, allora, se non contestare con gli argomenti rigorosi della scienza le argomentazioni della controparte, affidate magari ad una scienza che segue una tecnica ed una metodologia diversa?

Ecco perché, allora, fa un certo effetto osservare, oggi, la fotografia di un pubblico ministero che mima in aula, con la pistola in pugno, il gesto della persona che egli accusa di omicidio. Non credo, peraltro, che si tratti di un ritorno a vecchi modelli di intervento delle parti nel processo. Probabilmente, in questo caso, la riproduzione scenica del gesto dell’agente, data la peculiarità della vicenda (c’era stato un colpo di pistola sparato ad altezza d’uomo dall’agente di polizia, che aveva colpito e ucciso, a distanza, un giovane tifoso) era particolarmente utile per spiegare la ragione della tesi accusatoria sostenuta del pubblico ministero, che al termine della sua requisitoria ha chiesto una condanna a quattordici anni di reclusione per omicidio doloso. Di qui l’utilizzazione, da parte sua, della pur inusuale ricostruzione scenica del gesto dell’imputato.

Semmai, sull’onda di un mondo che è sempre più spettacolo e sfruttamento (senza rispetto) delle cronache quotidiane, si è dovuto negli ultimi anni registrare l’irrompere violento, sulla scena dei procedimenti penali, dei processi celebrati per finta, in parallelo a quelli veri, fuori dalle aule di giustizia: soprattutto in certi studi televisivi, dove finti magistrati, finti periti, finti psichiatri, finti avvocati (tutti finti, perché nessuno di essi faceva parte del processo vero, ed aveva pertanto studiato con la dovuta attenzione gli atti processuali), hanno discettato per ore su colpe e responsabilità di persone che non avevano mai visto e conosciuto, valutato le loro condizioni fisiche e mentali, emesso sentenze, sparato giudizi.
Un teatro, questo sì, nuovo e dannoso, perché nessuno può dire quanto la finzione che in esso veniva recitata può avere, indirettamente, influenzato comportamenti e giudizi di coloro che vivevano invece, come accusatori, difensori, consulenti tecnici, testimoni e giudici, il processo vero.

da lastampa.it
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« Risposta #26 inserito:: Agosto 04, 2009, 03:26:52 pm »

4/8/2009
 
Dura lex, sed lex
 
CARLO FEDERICO GROSSO
 
La liberazione di Valerio Fioravanti suscita, inevitabilmente, sconcerto. Condannato più volte all’ergastolo perché giudicato esecutore materiale della strage alla stazione di Bologna e per avere commesso altri numerosi omicidi politici, nonostante la pesante gravità dei reati dei quali è stato riconosciuto colpevole è stato giudicato meritevole del beneficio della liberazione condizionale.

Eppure non ci si può stupire più di tanto. Il nostro codice penale prevede, infatti, che anche il condannato all’ergastolo può essere ammesso alla liberazione condizionale quando abbia scontato almeno ventisei anni di pena (che in realtà sono ancora meno, grazie all’abbuono di tre mesi per ogni anno di detenzione, stabilito per ogni condannato che abbia tenuto una buona condotta carceraria).

La liberazione condizionale non è, ovviamente, prevista senza condizioni: essa può essere concessa soltanto se il condannato ha tenuto un comportamento tale da fare ritenere sicuro il suo ravvedimento e soltanto se ha risarcito le vittime del reato, salvo che dimostri di trovarsi nell’impossibilità di adempiere alle obbligazioni civili. Evidentemente Fioravanti è stato giudicato dal Tribunale di sorveglianza ravveduto e, poiché non mi risulta che abbia risarcito, deve avere dimostrato l’impossibilità di adempiere alle obbligazioni civili maturate.

Prendiamo atto. D'altronde la legislazione penale italiana prevede, all’art. 27 comma 3 della Costituzione, che le pene devono tendere alla rieducazione del condannato; pertanto, se non fosse previsto che anche l’ergastolano ravveduto ha titolo per essere riammesso nel consorzio degli uomini liberi, la pena dell’ergastolo sarebbe, inevitabilmente, costituzionalmente illegittima.

Ciò detto, credo che sia comunque importante, nel caso di specie, procedere ad alcune precisazioni ulteriori. Innanzitutto occorre sottolineare che la concessione della liberazione condizionale non ha nessun riflesso sulle condanne a suo tempo inflitte. Esse sono state pronunciate, sono diventate esecutive, in quanto tali hanno scolpito la «verità giudiziale». Per la giustizia italiana, ad oggi, Valerio Fioravanti, nonostante si sia dichiarato innocente, è pertanto, sempre, l’esecutore materiale, insieme a Francesca Mambro e a Luigi Ciavardini, della strage del 2 agosto 1980. E’ stato liberato, ma soltanto perché il suo comportamento carcerario, e le valutazioni sulla sua attuale personalità, hanno convinto un Tribunale che egli fosse soggetto ormai ravveduto, non perché la sua condotta sia stata valutata diversamente da allora.

In secondo luogo, occorre prendere atto che, con il trascorrere degli anni, sono emerse perplessità sulla colpevolezza dei tre (allora giovanissimi) neofascisti condannati come esecutori materiali della strage, e che tali perplessità, alimentate inizialmente soltanto dalla estrema destra (per ragioni evidenti di immagine e di interesse politico), si sono con il tempo rafforzate, fino a coinvolgere ambienti della stessa sinistra. Ciò non può tuttavia scalfire, occorre dirlo con forza, il peso e l’importanza di un processo condotto in un contesto molto difficile, intossicato da ripetuti tentativi di depistaggio, che è riuscito, comunque, a fare emergere qualche brandello di verità: i forti elementi indiziari a carico di alcuni imputati dell’esecuzione della strage, che legittimano a pieno titolo (allo stato) la loro condanna penale, e la prova dell’attività criminale dei servizi nella costruzione delle false piste sulle quali si è cercato di dirottare l’indagine penale.

Il processo di Bologna non è riuscito, è vero, ad individuare, a fianco degli esecutori materiali, i mandanti e gli organizzatori della strage. Il processo era partito con un numero elevato di imputati, nel capo di imputazione aveva individuato mandanti, istigatori e responsabili morali. Nei loro confronti non è stato tuttavia in grado di raccogliere prove o indizi sufficienti per una loro condanna. Capisco, peraltro, che i familiari delle vittime, e la città, nel Paese delle stragi impunite, pur chiedendo che tutti i veli vengano sollevati e che siano finalmente individuati mandanti ed organizzatori, difendano comunque le condanne ottenute, e ne rivendichino la legittimità contro chi vorrebbe cancellarle e, soprattutto, cancellare l’aggettivo «fascista» dalla lapide che, nella stazione, ricorda gli 85 morti del 1980.

da lastampa.it
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« Risposta #27 inserito:: Agosto 06, 2009, 03:54:42 pm »

5/8/2009
 
Siamo finiti dentro una guerra
 
VITTORIO EMANUELE PARSI
 

Era tutto fuorché un segreto, il fatto che solo l’estrema ampiezza dello spettro dei singoli caveat nazionali, e l’elasticità nell’interpretazione dello spirito e dello stesso obiettivo della missione, fosse condizione tutt’altro che accessoria tra quelle che avevano permesso di arruolare, e mantenere, nell’Isaf un numero relativamente elevato di nazioni. Finora, ognuno dei Paesi che compongono l’Isaf ha sostanzialmente impostato la propria partecipazione secondo le proprie attitudini e convenienze, talvolta modificate in seguito al cambiamento della maggioranza di governo.

Di fronte all’offensiva scatenata dai talebani per cercare di impedire la celebrazione delle prossime elezioni presidenziali, questa elasticità è divenuta un’ambiguità insostenibile. La Gran Bretagna, che ha contato una media di un morto al giorno nel solo mese di luglio, ha sollevato platealmente il problema di una coalizione in cui alcuni combattono e altri stanno a guardare, magari nel frattempo discutendo di «soluzioni politiche», profilando «exit strategy», inseguendo la chimera dei «talebani moderati».

Intendiamoci molto bene. Gli stessi Usa che oggi chiedono, con scarso successo, più mezzi, più uomini e più determinazione ai recalcitranti alleati europei (giacché canadesi e australiani fanno la loro parte da tempo), sono tra i principali responsabili della situazione che si è venuta a creare in Afghanistan: pericolosa per il futuro di quel Paese, e rischiosa per il destino della Nato. Lo sono ovviamente per aver aperto il controverso fronte iracheno prima della chiusura di quello afghano nel 2003 (con la conseguente distrazione di truppe e attenzione e con la spaccatura causata all’interno dell’Alleanza Atlantica). Lo sono per avere lungamente escluso ogni responsabilità per la ricostruzione del Paese dopo la conclusione della campagna del 2002. Lo sono per essersi colpevolmente fidati del Pakistan doppiogiochista di Musharraf e dei suoi servizi segreti. Ma lo sono soprattutto per aver rifiutato quell’appoggio che, apertamente e non senza difficoltà, gli alleati avevano offerto agli Stati Uniti, in applicazione (per nulla scontata né automatica) dell’articolo 5 del Patto Atlantico. In quel momento, se gli Usa avessero accettato la profferta di aiuto europea, la coalizione che sarebbe sorta sarebbe stata priva di ambiguità, conscia del fatto che i Paesi membri stavano adempiendo al casus foederis che li chiamava a combattere una guerra contro un nemico comune. Sulla base di considerazioni militari opinabili e di valutazioni politiche che si sono rivelate fallaci, l’amministrazione Bush rifiutò tale aiuto e diede vita a un’operazione solitaria (Enduring Freedom), salvo poi chiedere il sostegno degli alleati per una missione dal carattere più ambiguo (Isaf), quando l’Iraq reclamava più truppe di quelle ipotizzate e la campagna afghana si rivelava tutt’altro che conclusa.

La Gran Bretagna di Tony Blair fu corresponsabile delle avventate scelte dell’amministrazione Bush, accettando di partecipare singolarmente alla campagna afghana (e poi a quella irachena), invece di aiutare Washington a comprendere che il rifiuto della collaborazione offerta dagli alleati era un clamoroso errore politico e militare, oltretutto foriero di nefaste conseguenze per la sopravvivenza stessa della Nato. In un certo senso, si potrebbe dire, Londra paga anch’essa i suoi errori. Ma riconoscere errori e responsabilità non basta. Occorre prendere atto della realtà e cercare le misure adeguate al mutato scenario afghano.

In Afghanistan, e non da oggi, la situazione è tale da richiedere non più peace-keeper, ma peace-warrior. Servono cioè truppe che combattano per riportare la pace nel Paese e non per mantenerne una ormai inesistente. E’ una sfida alla quale l’Alleanza non può sottrarsi. Non è per nulla accidentale che il contingente italiano sia sempre più attivamente coinvolto nei combattimenti. Questo, inevitabilmente, comporterà più perdite di quelle fin qui subite. Gli esperti ci dicono che l’opinione pubblica non è ancora preparata a una tale eventualità. Sarebbe opportuno che il governo si dedicasse a colmare questo gap, e, almeno in questo caso, non si limitasse a leggere i sondaggi, ma li sfidasse.

da lastampa.it
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« Risposta #28 inserito:: Settembre 16, 2009, 03:42:44 pm »

16/9/2009

Sarebbe oro il silenzio dei magistrati
   
CARLO FEDERICO GROSSO


Antonio Laudati, neo Procuratore della Repubblica di Bari, ha fama di magistrato serio e preparato. Impegnato in passato in complesse indagini di mafia, è altresì autore di saggi su temi di diritto penale e criminalità organizzata. Ha stupito, pertanto, vederlo attivo, al momento dell’insediamento, in tante dichiarazioni e parole davanti a microfoni e giornalisti.

Il momento, alla Procura di Bari, non è sicuramente tranquillo. Le inchieste in corso sono scottanti, riguardando la grande corruzione pugliese nella Sanità, coinvolgendo ampi settori del mondo politico, interessando le ragazze ormai famose di Tarantini, chiamate a partecipare alle feste del presidente del Consiglio.

Per altro verso, sembra che i rapporti interni alla magistratura locale non siano idilliaci, dato che fra i sostituti procuratori impegnati nei diversi filoni dell’inchiesta vi sono state polemiche e veleni e che due giudici donne avrebbero chiesto addirittura l’esonero dai loro impegni giudiziari in quanto frequentatrici abituali di feste e serate.

Un bel vespaio, e sotto l’attenzione molesta di televisioni e giornali. Ma proprio per questo l’arrivo del nuovo Procuratore doveva essere particolarmente rassicurante: impronta di grande serietà, garanzia assoluta di conduzione imparziale e serena dell’ufficio, totale silenzio su opinioni e intenzioni.

Invece, tante parole.

Poco prima del momento in cui il Procuratore ha messo piede nel nuovo ufficio è esplosa sui giornali la pubblicazione dei verbali degli interrogatori di Tarantini. L’irritazione del nuovo capo, che ha parlato addirittura di rapporti anomali fra strutture degli inquirenti e strutture dell’informazione, è stata durissima. Troppo dura, soprattutto nei confronti dei giornalisti, che, sappiamo, cercano per mestiere con ogni mezzo le notizie, e che, se riescono a procurarsele, inevitabilmente le pubblicano.

Il giorno dopo il Procuratore ha voluto essere esplicito anche sul merito delle indagini: «È di tutta evidenza - ha dichiarato - che Berlusconi è assolutamente fuori da qualsiasi responsabilità». Di tale specifica circostanza sono assolutamente convinto anch’io, quantomeno per quanto concerne il traffico delle fanciulle. Era tuttavia prudente, o opportuno, che il nuovo capo dell’ufficio si lanciasse - proprio lui, che sarà, d’ora in avanti, la voce più importante nella conduzione delle indagini - in tale esplicita pubblica valutazione sulla posizione del presidente del Consiglio?

Poi, le più o meno velate censure ai colleghi: basta con le sovraesposizioni mediatiche che danneggiano inchieste e magistrati e determinano tensioni con il mondo della politica, ha dichiarato. Le indagini rimarranno ai loro titolari, ma sarà compito del Procuratore svolgere un’incisiva attività di coordinamento generale. Tutto corretto: ma, ancora una volta, che bisogno c’era di parlare? È stata pubblicata infine la notizia che è intenzione del Procuratore di rifiutare a Tarantini il patteggiamento. Segno che le dichiarazioni di costui non lo hanno convinto fino in fondo. Bene. Ma, di nuovo, perché dichiararlo?

Io confido che il Procuratore Laudati, forte delle sue capacità e del suo carisma personale, sappia affrontare con la fermezza e l’equilibrio necessari il difficile compito che lo attende nel complesso mondo pugliese, mettendo, se del caso, anche in riga i sostituti procuratori, la cui pregressa attività ha, talvolta, lasciato perplessi o preoccupati gli osservatori esterni.

Il suo problema è comunque rilevante. E non è soltanto un problema tecnico. Egli proviene da un’esperienza ministeriale, dove ricopriva l’importante ufficio di Direttore generale per gli affari penali. La sua frequentazione con il ministro Alfano, del quale era uno dei più stretti collaboratori, era pertanto, per necessità, costante. Il suo incarico viene quindi guardato oggi, da taluno, con sospetto: nel timore che la sua missione sia di governare la Procura di Bari cercando di «normalizzarla» in qualche modo, o di indirizzarla nell’una o nell’altra direzione.

Suo compito dovrebbe essere invece attivarsi affinché le indagini vengano chiuse il più rapidamente possibile nel totale rispetto delle regole della legalità e della serietà investigativa. Chi sulla base delle risultanze processuali deve essere colpito, chiunque esso sia, sia inflessibilmente colpito. Chi non risulta raggiunto da prove di colpevolezza, sia velocemente archiviato. Cessino strumentalizzazioni e inutili polveroni.

Ma per fare questo, e nella fiducia di tutti, è necessaria una immagine forte di magistrato incorruttibile, equilibrato e imparziale. Una immagine che il trambusto e le troppe parole dei primi giorni non hanno rafforzato, ma che, si spera, il Procuratore Laudati saprà presto garantirsi, con i fatti, nella sua quotidiana attività di capo dell’ufficio di Procura.

da lastampa.it
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« Risposta #29 inserito:: Ottobre 05, 2009, 10:59:47 am »

5/10/2009

Napolitano non aveva alternative
   
CARLO FEDERICO GROSSO


Lo scudo fiscale approvato dal Parlamento, politicamente, è molto criticabile: un regalo inaccettabile a chi ha evaso le tasse trafugando illegalmente denari all’estero e che, ora, potrà farli rientrare puliti in Italia versando pochi spiccioli.

E’ tuttavia, altresì, grave che un politico di prima fila si sia permesso di attaccare con accuse inaccettabili il Presidente della Repubblica che, promulgando la legge, non ha fatto altro che esercitare, legittimamente, il suo potere. Di fronte allo sconcerto della gente che ha assistito all’incredibile polemica, credo sia opportuno cercare di fare, sommessamente, chiarezza in punto di diritto.

Partiamo dal dato di fatto. Il Presidente, ricevuto il testo della legge, lo ha promulgato. Una decisione, a mio parere, giuridicamente corretta. La Costituzione prevede che le leggi siano promulgate dal Presidente della Repubblica (art. 73) e soggiunge che egli, prima di promulgarle, può con messaggio motivato chiedere una nuova deliberazione, ma una volta soltanto. Se le Camere approvano nuovamente la legge, essa dev’essere comunque promulgata (art. 74). È pacifico che questa disciplina non attribuisce al Presidente nessun potere di veto all’entrata in vigore di una legge.

Nella prassi costituzionale per qualche tempo si è ritenuto che i Presidenti potessero motivare anche soltanto politicamente le loro eventuali richieste di una nuova lettura parlamentare. A partire dalla Presidenza Ciampi si è cominciato a ritenere che le richieste presidenziali di una nuova deliberazione dovessero invece essere ancorate a profili ritenuti di manifesta, clamorosa illegittimità costituzionale.


Il vaglio di costituzionalità
Profili «manifesti», «clamorosi», poiché nel nostro sistema giuridico il vaglio di costituzionalità delle leggi non compete al Capo dello Stato ma alla Corte Costituzionale.
Nel caso di specie, al di là delle possibili critiche politiche, si deve comunque escludere l’esistenza di un «vistoso» profilo di illegittimità costituzionale. Vi sarebbe palese illegittimità se la prevista esclusione della responsabilità penale per determinati reati dovesse essere considerata, nella sostanza, una amnistia (le leggi di amnistia devono essere infatti approvate dai due terzi dei componenti delle Camere, cosa che nel caso di specie non è avvenuto). Ma ciò deve essere escluso. Meccanismi analoghi di condono penale collegato al rientro di capitali dall’estero sono già stati utilizzati in passato dal nostro Paese, senza che la Corte Costituzionale sia mai intervenuta per dichiarare la loro illegittimità (essa, anzi, ha più di una volta escluso che in tali casi si potesse parlare di amnistia). La non punibilità dei reati, nella legge sullo scudo fiscale, è stata circoscritta ai casi in cui non sia già iniziato un processo penale; l’amnistia, invece, ha sempre coinvolto anche reati per i quali era già in corso un processo o vi era già stata, addirittura, una condanna.


La valutazione del Capo dello Stato
Passiamo ora a valutare il contenuto della legge. Un giudizio politico negativo non può condizionare, di per sé, la valutazione di un Capo dello Stato in sede di promulgazione. Perché possa essere ragionevolmente prospettata una ipotesi di messaggio motivato alle Camere devono essere riscontrati profili che rendano il contenuto della legge del tutto irragionevole.

La legge sullo scudo fiscale prevede una «copertura» penale ampia. Se si segue il suo iter legislativo, si scopre che il suo impianto originario è stato comunque modificato. Originariamente era stato previsto che la documentazione relativa al rimpatrio del denaro non potesse essere utilizzata quale prova a carico in nessun processo penale pendente o futuro. Il che avrebbe di fatto impedito l’accertamento di reati di ogni specie, anche gravissimi, come il riciclaggio, il traffico di droga, l’associazione a delinquere, l’omicidio e via dicendo. Una vera assurdità.

L’inutilizzabilità dei documenti è stata tuttavia successivamente, anche per l’intervento del Capo dello Stato, circoscritta ai processi amministrativi, civili e tributari non ancora aperti, mentre il loro impiego come prova di reato è stato consentito in tutti i processi penali pendenti o futuri. Nello stesso tempo si è mantenuto l’obbligo degli intermediari finanziari di segnalare le operazioni sospette, neutralizzando i ripetuti tentativi del governo di eliminarlo a tutela degli evasori. L’ambito della copertura penale è stato circoscritto ai settori, sia pure estesi, dei reati tributari e di quelli strumentali all’evasione fiscale, come i falsi materiali e i falsi in bilancio. I profili più evidenti di illegittimità costituzionale sono stati, peraltro, eliminati.
Su questa base bloccare la legge in sede di promulgazione non era né semplice né, probabilmente, consentito. Piuttosto, se fra le pieghe della legge dovessero emergere, in futuro, profili di illegittimità, a pronunciarsi dovrà essere la Corte Costituzionale, come prevede la Costituzione.

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