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Autore Discussione: La «Santa» che comanda è calabrese  (Letto 3414 volte)
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« inserito:: Ottobre 05, 2007, 05:38:11 pm »

L'ULTIMO LAVORO DEI GIORNALISTI RUBEN H. OLIVA E ENRICO FIERRO

La «Santa» che comanda è calabrese

Un viaggio nella 'ndrangheta, la mafia più potente e sconosciuta


MILANO - A Lamezia Terme erano in quattrocento mercoledì, nel corso principale , giovani e meno giovani con il sindaco Gianni Speranza. In piazza per sentirsi raccontare una storia che sembra un film ma che per loro è vita quotidiana. Una storia per cercare di capire come si muove la nuova n'drangheta, «la Santa»: la mafia più forte del mondo, quella più potente e pericolosa ma anche paradossalmente la meno conosciuta. Una mafia che ormai non è più una realtà e un problema solo della Calabria, ma dell'Italia e dell'Europa. A prescindere dalla strage di ferragosto a Duisburg, in Germania, che ha prepotentemente riportato sulle prime pagine dei giornali di mezzo mondo la «Santa», la mafia che per comandare ha scelto il basso profilo.

E loro, Ruben H. Oliva ed Enrico Fierro, cronisti (e il primo anche regista) di razza, sono andati proprio li, nel cuore della Calabria, a presentare la loro nuova inchiesta a quattro mani. Un libro e un dvd- testimonianza da leggere e guardare in silenzio, stupiti su come mai per troppo tempo questa realtà malavitosa dalle dimensioni impressionanti (5 mila affiliati per un giro di affari di oltre 36 miliardi di euro l'anno pari al 3,5% del pil nazionale, dati Eurispes) sia stata così lontana dalle priorità della politica e dell'informazione.
E «La Santa. Viaggio nella 'ndrangheta sconosciuta», (libro e dvd, Rizzoli editore) inizia il suo cammino dalla «strada della speranza di Lamezia- come dice Oliva - uno dei pochi luoghi in Calabria dove sia lecito sperare che qualcosa possa cambiare. E' qui che è avvenuta la prima serrata dei negozianti contro il pizzo e il sindaco di questa città, Gianni Speranza, è l'unico che abbiamo volutamente intervistato per il nostro lavoro. L'unico che ha il coraggio di dire le cose come stanno».

Un coraggio che finora è stato dalla parte di pochi, come i magistrati della direzione nazionale antimafia di Reggio Calabria tipo Vincenzo Macrì, Nicola Gratteri o Alberto Cisterna costretti ad una vita irreale e blindata, circondati 24 ore su 24 da superprotezioni e agenti; come il prete di prima linea Don Pino De Masi della cooperativa Libera-Polistena che ha avviato un'attività nelle terre sottratte alla 'ndrangheta; come i pochi imprenditori liberi tipo Valerio Godino a cui il racket ha bruciato la fabbrica e che continua a lavorare in Calabria; come gli storici e i giornalisti che hanno ancora la forza di denunciare gli affari delle 'ndrine.

La Santa è la mafia che fa più paura - dicono Fierro e Oliva - la più potente, ricca, violenta e protetta. La più antica: sangue, onore, famiglia e codici numerici sofisticati per scambiarsi ordini. Quella i cui capi dallo sperduto San Luca nell'Aspromonte, dove c'è il santuario della Madonna dei Polsi, hanno conquistato il mondo intero. La meno combattuta, la più sottovalutata, la più sanguinosa e spietata. Quella dove non ci sono pentiti perché gli affiliati sono tutti uniti da vincoli di parentela. Quella dei santini bruciati in mano e della croce disegnata con il coltello sulla schiena. Quella che punisce in maniera più eclatante, con teste mozzate e bare disotterrate e date alle fiamme (come è successo per i corpi del sovrintendente di Polizia Salvatore Aversa e sua moglie Lucia Precenzano), quella che getta un'intera collettività nell'angoscia, che distrugge il governo dello Stato, che si sostituisce e irride allo Stato, quella che fa affari in tutto il mondo ed arriva a interessarsi alle azioni della Gazprom in Russia». «Quella che ha più legami con la massoneria, le logge deviate e il potere politico» come dice il sostituto procuratore Nicola Gratteri.

 
La Santa-Viaggio nella 'ndrangheta sconosciuta

Il viaggio nella 'ndrangheta sconosciuta porta Fierro e Oliva alla raccolta di testimonianze e di immagini da mezzo mondo che rendono bene l'idea del livello di affari e potere raggiunto dalla Santa: San Luca nell'Aspromonte, dove i cassonetti dell'immondizia in pieno centro sono crivellati dai colpi di arma da fuoco, all'impero di Salvatore Mancuso, «rappresentante della 'ndrangheta in Colombia» comandante delle truppe paramilitari dell'Auc; da Locri al porto di Buenos Aires, crocevia del traffico mondiale di cocaina gestito totalmente dalle ndrine; da Platì a Buccinasco, nel Milanese, sotto il controllo dei clan dell'Aspromonte e della Locride dove l'ex sindaco ha avuto due auto bruciate e dove nessuno parla nonostante si sia al nord; dall'omicidio di Francesco Fortugno, vicepresidente del Consiglio regionale della Calabria, morto assassinato il giorno delle primarie dell'Ulivo il 14 ottobre del 2005, a Nicola Calipari, ai musicisti di «Quartadiminuita» che mescolano ritmi antichi e suoni moderni, quelli che fanno ancora ballare i ragazzi di Locri e i tanti calabresi onesti; dalla centrale del Goa di Catanzaro dove centinaia di finanzieri ascoltano le telefonate dei narcotrafficanti calabresi sparsi per i cinque continenti (conversazioni registrate anche in fiammingo o in arrivo dal SudAfrica) fino a Filadelfia, il paese dei desaparecidos della Calabria. Quello dove dieci madri hanno visto scomparire i loro figli nel nulla. E che davanti a questo straziante dolore hanno il coraggio di pronunciare per la prima volta la parola 'ndrangheta.

Iacopo Gori
04 ottobre 2007

da corriere.it
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« Risposta #1 inserito:: Ottobre 05, 2007, 05:41:16 pm »

NEWS
5/10/2007 - INTERVISTA
 
Camilleri "Un giallo sulla mafia? Mai e poi mai"
 
"Non voglio rischiare di renderla simpatica"
 
 
MAURIZIO ASSALTO
 
Voi non sapete quello che state facendo»: sono state le prime parole mormorate da Bernardo Provenzano, l’11 aprile dell’anno scorso, all’indirizzo del vicequestore Renato Cortese che lo aveva scovato nella masseria di Montagna dei Cavalli, a Corleone, ponendo fine a una latitanza di 43 anni. Diverse le letture possibili - avvertimento, messaggio trasversale, preoccupazione per il futuro. A Andrea Camilleri l’uscita di Binnu u tratturi fa venire in mente le parole di Gesù sulla croce: «Padre, perdona loro perché non sanno quello fanno».
E (appunto) Voi non sapete si intitola la ricognizione nell’universo mafioso compiuta dallo scrittore siciliano attraverso i pizzini dello spodestato capo dei capi: una sorta di dizionario ordinato per voci, che disegna le amicizie e le inimicizie, gli affari, gli affetti, l’organizzazione mentale e le fissazioni religiose. Una novità assoluta per il giallista che nelle sue trame si è sempre tenuto lontano dalle storie di coppola.

Camilleri, tempo fa lei aveva confessato di capirci poco di mafia. Dopo questa full immersion nei pizzini si sente più ferrato?
«Diciamo che capisco un certo momento della mafia, quello legato a Provenzano, che quando diventa il numero uno propone la “linea dell’immersione”: in sostanza, come fare affari senza ricorrere alle armi. Non capisco invece la mafia stragista, quella di Riina. Ora, non che rimpianga Provenzano, sia chiaro - anche se ha indubbiamente un certo fascino che a Riina manca -, ma dopo il suo arresto non c’è più un vero capo, i due latitanti che si contendono il potere, Salvatore Lo Piccolo e Matteo Messina Denaro, non hanno la stessa capacità di controllo totale, e non è difficile ipotizzare un ritorno ai mitra e alla guerra per bande. È un momento molto pericoloso».

Ma se riconosce a Provenzano questo certo fascino, c’è caso che prima o poi ci ritroviamo un simil-Binnu in un suo romanzo, magari alle prese con Montalbano?
«Questo no, non riusciranno mai a convincermi. Resto dell’idea che i migliori scrittori di mafia debbano essere i poliziotti, i carabinieri, i giudici: e proprio perché un narratore sia pure pessimo finisce col nobilitare il fenomeno mafioso. Lo abbellisce, lo rende attraente».

Anche il suo amico Sciascia...
«Sciascia ha scritto un’opera fondamentale sulla mafia, Il giorno della civetta. Però: com’è simpatico il suo don Mariano Arena, quello che ci ha lasciato l’indimenticabile partizione dell’umanità in uomini, mezz’uomini, ominicchi, pigliainculo e quaquaraquà...».

Dunque, niente?
«Non me la sento proprio di parlare di mafia in un romanzo, provo un senso di rigetto. Certo, non potevo fingere che non ci fosse: così l’ho introdotta come un basso continuo, un fruscio di fondo. Ma farne la protagonista, mai».

E mai neppure ricavarne un profitto. Infatti, come si legge nella nota finale, «i diritti d’autore di questo libro sono interamente devoluti alla Fondazione Andrea Camilleri e Funzionari di Polizia per i figli delle vittime del dovere», appositamente istituita per l’occasione.

 
da lastampa.it
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