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Autore Discussione: NELLO AJELLO storica firma di Repubblica e dell'Espresso.  (Letto 3916 volte)
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« inserito:: Agosto 11, 2013, 04:50:33 pm »


Addio a Nello Ajello: morto a Roma 83 anni.
Con lucidità e ironia ha raccontato il '900

Il giornalista e scrittore si è spento a Roma a 83 anni dopo una lunga malattia. La moglie era morta il mese scorso.

di SIMONETTA FIORI

Addio a Nello Ajello: morto a Roma 83 anni. Con lucidità e ironia ha raccontato il '900 Nello Ajello

È MORTO a Roma il giornalista e scrittore Nello Ajello, storica firma di Repubblica e dell'Espresso. Avrebbe compiuto 83 anni il 20 novembre. Era da tempo malato di tumore, ma l'ha scoperto solo di recente perché concentrato su un dolore più grande: la malattia della moglie Giulia, scomparsa lo scorso 25 luglio. Una storia d'amore d'altri tempi, un legame che non poteva essere reciso.

Elegante, ironico, una leggera somiglianza con l'attore David Niven, Nello Ajello incarnava esemplarmente la stirpe degli "anglonapoletani", una specie antropologica e intellettuale che Beniamino Placido faceva risalire alla fine del Settecento, l'epoca di Emma Hamilton, moglie dell'ambasciatore britannico nel Regno di Napoli. Inconfondibili nel rigore. Inconfondibili nel modo di vestire. Inconfondibili nell'amare la loro imbarazzante città  -  imbarazzante per "l'eccesso" e "l'incoscienza"  -  opponendole uno stile che non conosce approssimazione. Né in termini etici né in quelli estetici.

Anche il percorso intellettuale di Nello Ajello non conobbe approssimazioni, essendosi definito sin dagli anni Cinquanta attraverso alcuni santuari della cultura democratica e progressista. I primi passi a Nord e Sud, la rivista di Francesco Compagna che coniugava meridionalismo ed europeismo ("il capitolo più appassionante della mia giovinezza"). Il lavoro a Torino all'Olivetti, al fianco del mitico mecenate Adriano ("Mio padre si mostrò stupefatto: 'Che vai a fare a Torino? È 'nu paisiello! 'Vado a Torino, risposi, perché la amo molto e perché non posso andare a Helsinki non conoscendone la lingua").

La collaborazione al Mondo di Pannunzio e la successiva attività nelle stanze dell'Espresso, di cui per tanti anni fu condirettore al fianco di Livio Zanetti ("Mi occupavo di qualsiasi cosa, dal salotto di Croce alla vallata vietnamita di Da-Nang, dalla legge Merlin alla Guerra dei sei giorni"). Infine l'approdo nelle pagine di Repubblica, dove dall'89 al '91 diresse il supplemento culturale Mercurio e poi restò firma d'eccellenza, sempre nel segno della levità e della destrezza. Un itinerario politico e culturale coerente, che egli amava restituire con il consueto understatement: "Mi pare di aver provato simpatia per una liberaldemocrazia a sfondo laico che fosse davvero tale, senza sconfinamenti verso utopie di segno diverso o verso cangianti settarismi. E senza aderire  -  per farla breve  -  ai più acrobatici revisionismi a' la page. Ciò non toglie che nella classica distinzione a firma di Norberto Bobbio tra destra e sinistra, io mi riconosca nel secondo corno del dilemma, pur non rinunziando allo sgomento cui mi induce l'oltranzismo anche in veste progressista".

Maestro di antiretorica, ha saputo raccontare il Novecento  -  ma anche gli esordi del nuovo secolo  -  senza tracce di sussiego, nella lucida consapevolezza delle mine nascoste in un mestiere che ha contribuito a reinventare. Nelle migliaia di articoli e profili critici  -  che compongono una sorta di enciclopedia dell'intellighenzia contemporanea  -  non ci si imbatte mai né nell'accademia né nell'astrattezza. Considerava il giornalismo culturale una specialità a sé, che richiede a chi vi si cimenta un'ardua quadratura del cerchio. "La figura del redattore culturale", diceva Nello, "è esposta a un pericolo: sta in bilico tra il professore che non sa scrivere e il dilettante che magari sa scrivere ma non sa. Professionalmente parlando, egli può o deve essere un centauro. Ossia deve sapere, e deve sapere scrivere". E se non sa, aggiungeva, deve sapere dove mettere le mani.

Lettore colto e raffinatissimo, Ajello apparteneva alla specie di chi sapeva. E sapeva scrivere con rara capacità narrativa. Ma non è rintracciabile negli innumerevoli interventi un sospetto di supponenza. Rigore storiografico, cura del dettaglio sapido e il cannocchiale rovesciato dell'ironia: nel territorio assai vasto del dibattito delle idee, il suo approccio è sempre rimasto giornalistico, capace di nutrire l'intelligenza senza mai renderla stanca od opaca. Anche nel fare i titoli  -  genere in cui esercitava un indiscusso magistero  -  scuoteva gerarchie e monumenti. E in redazione non erano ammessi musi lunghi: se in questo mestiere non ci si diverte  -  era il suo monito  -  forse è meglio sceglierne un altro.

Nelle sue istantanee poco ossequiose, intere schiere di maîtres a' penser sono scese dal piedistallo per acquistare abitudini, ossessioni, nevrosi, fragilità proprie di uomini comuni. Romanzieri, poeti, critici, editori, umoristi, attori, filosofi, statisti, sociologi, politologi. Maggiori e minori. La sua galleria di Illustrissimi (un libro del 2006) mostra "un alternarsi di pensoso e ilare" che era anche una metodologia di lavoro. "Un giornale è per definizione quanto di più pragmatico e di meno protocollare esista quando ospita temi culturali. Incenso e gloria: ecco due ingredienti che mi piacerebbe non figurassero in queste pagine". E divenuto egli stesso "illustrissimo", evitò fino alla fine di impancarsi a venerato maestro. Una tentazione, diceva, che nella vecchiaia è assolutamente da evitare.

I suoi due saggi sui rapporti tra intellettuali e Pci, che coprono mezzo secolo di vicende nazionali, resteranno un caposaldo della bibliografia storica contemporanea (Intellettuali e Pci e Il Lungo addio, entrambi di Laterza). Il consueto stile mercuriale, accompagnato da una sterminata documentazione anche inedita su episodi e personaggi, ne fanno dei classici destinati nel tempo a essere letti, riletti e consultati. "Una paziente e modesta monografia", li definiva l'autore rubando il termine a Francesco De Sanctis, il quale inclinava a credere che "accertare un fatto desta più interesse che stabilire una legge". Il libro-intervista con Alberto Moravia, suo grande amico, fu adottato nei corsi universitari di Lettere. E nella stessa collana laterziana avrebbe firmato più di recente L'editore fortunato, una partecipe conversazione con Carlo Caracciolo, insieme a Eugenio Scalfari suo compagno di viaggio nell'avventura dell'Espresso e di Repubblica.

Erede dei Flaiano e dei Maccari, i cui acquerelli affollavano le pareti di casa, Ajello era anche un formidabile autore di corsivi. Tra il 1992 e il 1993, sulle pagine politiche del quotidiano, ritrasse il naufragio della prima Repubblica. Per Bettino Craxi coniò il motto "l'irritation au pouvoir", a ricalco dello slogan del Sessantotto francese. Con De Mita intonava "Fratelli d'Irpinia". E Formigoni era la "prova ontologica dell'inesistenza di Dio". Quello del corsivo era un genere che gli somigliava. "Confina con l'aforisma e l'epigramma", lo definì una volta. "Nasconde l'animosità dietro l'ironia. Chiude la cattiveria dietro la gabbia del distacco. La sua perfidia, quando c'è, va servita fredda. È un tipo di prestazione che, con la sua brevità, fulmina l'autore per primo. Non sopporta il sussiego. Somiglia all'articolo di fondo come una lucertola a un coccodrillo: o è agile o non è".

Agile Nello lo era anche nella vita. Ogni parola fiammeggiava di ironia. "Per una battuta si mangerebbe una casa", scrisse una volta Valerio Riva curandone un'antologia di scritti. Epigrafe che non gli dispiaceva. Un'arguzia affidata al rovesciamento parodistico, in cui lui scivolava agli ultimi gradini e gli altri erano pericolosamente promossi a sovrani pro tempore. Niente gli era più estraneo di quello che definiva il "soufflé dell'ego", quanto mai contagioso nella varia umanità che rallegra il nostro mestiere. Ma se nella professione e nello stile intellettuale esercitava e predicava distanza, nella convivenza con amici e colleghi non c'era lutto o anche solo dispiacere che non lo vedesse coinvolto. Umanissimo e sensibile. Impeccabile e generoso. Attento e a tratti malinconico. Distratto da sé fino all'ultimo, tanto da non accorgersi del male che lo minava.

Anche nei giorni del dolore per l'agonia di Giulia, non ha mancato di inviare a Repubblica una serie di articoli per l'anniversario del crollo del fascismo. Puntuale, come sempre. Documentato, come nessun altro. Il mestiere non contempla lacrime, in pubblico. Ciao, Nello. E grazie.

Ai figli Elvira e Mario l'abbraccio affettuoso della redazione di Repubblica.


da - http://www.repubblica.it/cultura/2013/08/11/news/addio_morte_nello_ajello-64610968/?ref=HRER2-1
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« Risposta #1 inserito:: Agosto 11, 2013, 05:00:02 pm »


Luglio ' 43

di NELLO AJELLO

Ventitré luglio 1943. Si vocifera su un'imminente convocazione del Gran Consiglio del Fascismo. Ma pochi italiani sanno di che cosa si tratti. Quell'organo del Regime, che mai ha avuto vita prospera, è ormai un fantasma. Non si riunisce dal dicembre 1939, sei mesi prima dell'entrata in guerra. Tempi migliori degli attuali. Su questi ultimi, la gente è invece avida di notizie e di voci ("Voci littorie" le chiama Paolo Monelli per dimostrarne la rituale provenienza). Ma questa violenta avidità di conoscere i nostri destini è più che giustificata dal fatti recenti, tutti catastrofici. È di ieri appena il bombardamento degli Alleati sulla Capitale. Risale al 10 luglio, due settimane fa, il loro sbarco in Sicilia.

Ma la crisi viene più da lontano. Nel novembre scorso l'irruzione degli Alleati in Algeria ha offerto l'immagine plastica dello strapotere americano. Nel giro di pochi mesi, tre armate italiane sono state distrutte. Ad El Alamein. Sul fronte russo. In Tunisia. Intanto Mussolini tace o parla di rado. "Mutolini" così Tullio Kezich, giornalista e cronista, ribattezzerà "quel" Duce, che gli appare un dittatore esangue. Più vitale e meno decorativo del consueto appare invece, ai meglio informati, Vittorio Emanuele III. La sua esigua corte sa che, fin dal 15 maggio, egli confida ai propri diari il proposito di separare l'avvenire dell'Italia da quelli della Germania che "nel suo quinto anno di guerra è stanca e sfiancata"

E loro, i tedeschi, che cosa pensano di noi? Lo rivela un dossier proveniente dalla segreteria particolare del Capo del governo. Si può leggerlo al centro d' un saggio sulle "carte segrete di Mussolini" a firma di Fabio Andriola, pubblicata nella rivista "Nuova storia contemporanea", giugno 2003. La caduta della Sicilia - vi si osserva - ha scosso nel profondo l'asse Roma-Berlino. Mussolini e Hitler si scambiano lettere astiose. In una di queste, il Führer offre della situazione italiana un quadro molto aspro. Che cosa, si domanda, "rappresenta la perdita della Sicilia" se non "una base per l'ulteriore attacco contro il continente italiano"? Segue un secco rilievo sul deficiente impegno delle nostre truppe: "Le forze della difesa costiera non hanno nemmeno accettato il combattimento". Non resta che provvedere, "con la massima energia", al "potenziamento delle forze germaniche in Italia", Di fatto, uno "scarso aiuto" da parte delle autorità di Roma ha impedito "di sfruttare integralmente il potenziale dell'aviazione di Berlino".

In conclusione, Hitler prega il Duce di adoperarsi affinché "anche le vostre forze dislocate in Sicilia diano tutto, fino all'ultimo, per la difesa dell'isola". Quell'"anche" sottintende che gli effettivi tedeschi hanno fatto il proprio dovere. Gli italiani, no. Rispondendogli il 18 luglio, Mussolini ha puntato su un concetto che gli è abituale: la "preponderanza" delle forze nemiche. Ad essa va attribuito "il rapido successo degli sbarchi in taluni settori della Sicilia". Gli aiuti offerti dalla Germania, "anche se generosi, sono stati insufficienti". Le autorità italiane, invece, "hanno fatto tutto quanto era possibile per i camerati germanici" Ormai, per gli anglo-americani, la guerra si avvia a un obiettivo preciso. "Il sacrificio del mio paese", chiarisce Mussolini, "non può avere per scopo principale che quello di ritardare l'attacco diretto alla Germania".

L'Italia, "entrata in guerra tre anni prima del previsto", ha bruciato "le sue risorse in Africa, in Russia e Balcania". In definitiva, un contrattacco puntiglioso ma inconsistente, com' è lo stato d' animo del despota in questa fase di declino. Sempre in relazione alla Sicilia spicca - accuratamente registrato - un colloquio fra Mussolini e il generale Alfredo Guzzoni, comandante delle forze di stanza nell'isola. Il generale osserva che la mancanza di rifornimenti, di cui soffre quel fronte, è dovuta anche al fattore-uomo. "I marinai che conducevano i traghetti" hanno abbandonato i posti di lavoro. Se si individuasse il colpevole, andrebbe "fucilato sul posto. La questione è che non sempre si trova. Se la svigna subito". Spesso il soldato italiano "si veste in borghesee va a casa". Ma la notizia principale è che i siciliani accolgono con calore gli invasori. A Licata - sintetizza Guzzoni - "fiori e applausi". A Canicattì, "prima ancora che le nostre truppe sgombrassero, vi erano già delle lenzuola bianche alle finestre". Molte lenzuola, pochi cannoni.

Il 12 luglio, il Feldmaresciallo von Richthofen ha informato l'autorevolissimo Hermann Goering che, nella zona di Augusta, "i militari italiani si sono ritirati dopo aver fatto saltare i loro pezzi". Un'altra registrazione telefonica. Si parlano due alti ufficiali: il tenente colonnello Klintsh e il colonnello Engelhorn, quest' ultimo al comando di reparti tedeschi nella nostra penisola. Klintsch: "Qual è lo stato d' animo degli italiani?" Engelhorn: "Assai basso". Klintsch: "Ma questi italiani fanno almeno qualche cosa...?". Engelhorn: "Cose da far vomitare". Brutale ma espressivo. Altra scena. Al telefono sono ancora una volta due nostri connazionali, il capomanipolo Buratti della milizia portuale di Livorno e il suo superiore al ministero della Marina, il maggiore Conforti. "Quando c' è l'allarme - racconta Buratti - parte dei militi se ne va in campagna".

Dopo il 20 luglio, una richiesta arriva da Napoli (difesa costiera) a "Supermarina", Roma: "Qui abbiamo bisogno di filo spinato. Le nostre opere di difesa non sono circondate da niente. Abbiamo messo i cani da guardia, ma i cani che possono fare?". Nella capitale, piazza Venezia appare insolitamente deserta, come in attesa. C' è perfino chi arrischia qualche sorriso. Leo Longanesi ascolta una conversazione fra due personaggi. Il primo: domanda: "Credete che a Roma verranno a bombardarci"? Ecco la risposta: "A Roma no, a Roma c' è il Papa e poi Roma è troppo bella. Meglio che bombardino Milano". Conclusione: "L'unità del Paese poggia su questui ideali". Alla vigilia d' una prova cruciale, l'Italia del tardo fascismo è anche questo.

(23 luglio 2013) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2013/07/23/news/luglio_43-64612757/
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« Risposta #2 inserito:: Agosto 11, 2013, 05:01:05 pm »


La notte del duce

di NELLO AJELLO


Iniziata alle cinque del pomeriggio finì alle due e quaranta del mattino. A destra, il duce e Dino Grandi autore dell' ordine del giorno che esautorò il dittatore Sabato 24 luglio, pomeriggio. «Entriamo nella trappola?» Sono le parole che Benito Mussolini bisbiglia varcando il portone di palazzo Venezia. Non è una domanda, è l' unica certezza che occupi il suo animo incline al peggio.

Sono le 17,15. Il Duce indossa la divisa della milizia. I gesia ascoltato nei raduni di partito in ventun anni di Era fascista. Certe sue affermazioni appaiono scultoree, e molti tratti del discorso sembrano l' esordio al potere d'un successore. Di fatto, secondo Grandi, la Corona è stata menomata delle sue prerogative. Per contro, la figura del dittatore soggiace a rarchi del Gran Consiglio si trovano lì già da un quarto d' ora. Quasi tutti nascondono una pistola. Dino Grandi - del contenuto del cui ordine del giorno "consiliare" si parla già da settimane fra "chi conosce le cose" - ha in tasca due bombe: non è sicuro di uscire incolume dal Palazzo.

La mattina si è confessato e ha preso la comunione. Un saluto di rito del segretario del partito, Carlo Scorza. Subito dopo prende la parola il dittatore. Non sta bene per via dell' ulcera, antico malanno. Un esordio breve, il suo, centrato su due temi: la polemica contro Sua Maestà, coinvolto in ogni intrigo militare, e un attacco a Pietro Badoglio, complice di qualsiasi trama. Qualche accenno ai rovesci militari, con l' aria di sfatare luoghi comuni. La sconfitta di El Alamein va in realtà addebitata al maresciallo Rommel, comunque «mirabile combattente».

Quanto all' ordine di resa, decretato dopo la rotta di Pantelleria, non si poteva fare nulla di diverso: solo Stalin e il Mikado possono imporre ai soldati di resistere fino alla morte. Ora il dilemma è: arrendersi a discrezione o combattere ad oltranza. L' Inghilterra è lì che vuole assicurarsi per sempre i suoi cinque pasti. E i tedeschi? A loro ci lega un patto, e «pacta sunt servanda». In breve si arriva al culmine dell' incontro. Per Giuseppe Bottai, ciò che ha appena detto il Duce poggia su una sola constatazione: «La dittatura ha perso la guerra. Così crolla ogni nostra illusione». Mussolini è immobile, quasi in disparte. Resta così anche mentre Dino Grandi parla dell' ordine del giorno che ha preparato per sottoporlo all' assemblea. Si tratta, in assoluto, di quanto di più duro e reciso si un penoso stereotipo immaginato da Achille Starace. Mussolini perciò deve togliersi dal berretto «quella "doppia greca" che si è goffamente attribuita, deve tornare il Duce d' una volta». Intanto, occorre sollecitare la Maestà del Re ad assumere il comando delle forze armate. «Decisamente la fortuna mi ha voltato le spalle».

Ecco - secondo il Paolo Monelli di Roma 1943 - il mormorio con il quale Mussolini commenta questa requisitoria. Tutto in sudore, ha la camicia sbottonata sotto la divisa. L' intervento di Galeazzo Ciano, il "genero di Stato", è tutto un attacco alla Germania, alla sua slealtà, alla sua abitudine a informarci delle sue iniziative soltanto a cose fatte. Non parlino ora di tradimento da parte nostra. Sono loro, Hitler e Ribbentrop, a tradirci. Per sistema. Vale a stento la pena di notate come il successivo intervento, dovuto a Roberto Farinacci - che molti ormai chiamano "Herr Gauleiter Farinacci" - sia di segno opposto: un inno alla Germania, cui è doveroso confermare la nostra alleanza.

Il dittatore - o quasi ex tale - non ne può proprio più. Suggerisce a Carlo Scorza di rinviare la seduta all' indomani. Si sente male: non può affaticarsi. «Se in momenti gravi per la mia salute, il mio bravo medico non mi avesse curato a dovere, forse adesso voi non stareste tutti qui a discutere su di me», è una sua amara confidenza. La proposta di sospensione viene bocciata. Grandi, protagonista ormai di un' ora storica, decreta: si esce da qui solo dopo che il mio ordine del giorno sia stato messo ai voti. Alla fine ci si limita a concedersi in rinfresco in una sala adiacente. «C' è puzza di tradimento»: è l' osservazione che viene attribuita a Guido Buffarini Guidi. A molti pare pleonastica. Il tradimento, o quel che sia, è in pieno corso . Grandi è in un altro locale a raccogliere le firme per il suo ordine del giorno. Lo sottoscrivono in tanti, più d' uno perché non ne prevede le conseguenze.

A volte, specie nei frangenti cruciali, la stupidità non conosce limiti. All' appello - un lampante invito rivolto a Mussolini di lasciare l' esecutivo e rimettere il mandato al Re - rispondono sì, oltre allo stesso Grandi, Federzoni, De Vecchi, Ciano, Bottai. Gottardi, Bignardi, De Stefani, Alfieri, Rossoni, Marinelli, Albini, e qualche altro. A bocciare l' o.d.g. sono Scorza, Bigini, (ministro dell' Educazione), Tringali Casanova, (presidente del Tribunale Speciale), Frattari, Buffarini Guidi e il comandante della milizia, Enzo Galbiati, si astengono Suardo (presidente del Senato) e il teutonico Farinacci. La seduta è durata una decina di ore. Fino alle 2 e quaranta, notte inoltrata. Ma già a prima sera, il finale si dà per scontato in certi luoghi di ritrovo, con un lieve oscillare di versioni: Mussolini è stato messo in minoranza. È già partito per il suo rifugio di vacanze, la Rocca delle Caminate. È in seria difficoltà, ma vedrete che ritorna. In questo clima, qualche osservatore cultural-mondano ambienta una scena destinata a diventare proverbiale. Si svolge in un luogo raffinato, al romano caffè Aragno, covo di intellettuali quasi sempre oppressi dalla noia.

A un certo punto, scoppia un piccolo tumulto. Un "seniore" della milizia, in divisa e armato, apostrofa duramente uno dei presenti che, rivolto a un proprio conoscente - il poeta Vincenzo Cardarelli - gli ha chiesto: «E lei che ne pensa?». «È vietato darsi del lei», grida il Seniore. Voi non lo sapete?». L' episodio degenera. C' è chi difende il graduato del regime, chi spalleggia l' inesperto di pronomi. Mario Pannunzio, giornalista anche lui, e già prestigioso, finisce per rompere una sedia sulla testa del Seniore. Il tafferuglio s' allarga, fra poltrone rovesciate e bicchieri che volano. In quel momento entra da Aragno il redattore d' un quotidiano, il siculo Corrado Sofia. Grida a perdifiato: «Hanno deposto Mussolini, comanda di nuovo il Re». In un angolo, un signore dall' aria blasé commenta (sotto il fascismo il latino, per tacito decreto, è molto in auge): «Sic transit gloria mundi».

(24 luglio 2013) © Riproduzione riservata

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« Risposta #3 inserito:: Agosto 11, 2013, 05:01:58 pm »


La caduta "Il comando a Badoglio: è fatta".

E a villa Savoia il Re si libera del duce

di NELLO AJELLO


Venticinque luglio 1943. Nonostante la tremenda nottata, il Duce arriva a Palazzo Venezia alle 9, ora consueta. Ordina di cercargli al telefono Dino Grandi. Invano. Chiama Buffarini Guidi che è già seduto davanti alla propria scrivania, in un locale vicino alla sala del Mappamondo. Egli accorre un po' trafelato, così ricorda Paolo Monelli, "con la faccia ansiosa del servitore che vuol farsi gradire".

L'accoglienza rituale è un piccolo balsamo per il dittatore, che appare alquanto rinfrancato. Da altri colloqui mattutini ha tratto la conclusione che l'ordine del giorno che ha trionfato al Gran Consiglio si rivelerà una sorta di suggerimento, rivolto alla Corona, di riprendere un ruolo nella condotta della guerra: fra lui e il sovrano potrà dunque trovarsi un accordo su come gestire questa duplicità di comando.

Neppure una visita che fa, alle due del pomeriggio, al quartiere Tiburtino, duramente bombardato dagli Alleati il 19 luglio, lo rattristaoltre misura. Tornato a villa Torlonia, dove abita, gli riferiscono che la sua richiesta di un'udienza è stata accolta da Vittorio Emanuele III. L'ora fissata è alle 17, villa Savoia. Mussolini si veste da borghese, in blu. La villa reale è a un passo.

Appena è sceso dalla macchina, l'autista riceve l'ordine di parcheggiare in un angolo esterno della residenza; dopo qualche minuto lo vanno ad arrestare. Il duce lo ignora. Ricevendolo, Sua Maestà gli ha già domandato "Come va?". Tutto al pari di sempre.

A villa Savoia, invece, tutto è cambiato. Nessun particolare della notte del Gran Consiglio èignoto in quelle stanze. Il loro plenipotenziario, abilissimo intrattenitore dell'algido sovrano, il duca Pietro d'Acquarone, ministro della Real Casa, ne è perfettamente al corrente.

A informarlo, fin dall'alba, è stato Dino Grandi in persona. Gli eventi di quella seduta si inscrivono, come una profezia, in un progetto messo a punto in maniera a suo modo encomiabile. Acquarone ha avvertito il maresciallo Badoglio, il "successore ": il re vuole disfarsi di Mussolini e procedere al suo arresto. Tripudio in casa dell'anziano generale (così sostengono testimonianze ufficiose).

L'antefatto dell'incontro fra Mussolini e il Re è stato scandito da un ordine minuzioso. Già prima di mezzogiorno è pronto il decreto con il quale si nomina capo del governo il vincitore di Addis Abeba. Vi sono già state apposte le firme del Re e del Maresciallo. Tutto  -  direbbe un osservatore malizioso  -  costituzionalmente in ordine.

Altri particolari di ordine pratico sono stati predisposti con premura: quella di un'autoambulanza per caricarvi il Duce al termine del colloquio, è apparsa una buona idea. Si fa strada un solo dubbio, espresso da Cerica, il comandante generale dei Carabinieri: arrestare Mussolini va benissimo, resta da decidere dove. Fuori i cancelli della villa? Il parere del super-carabiniere è che sarebbe opportuno, e certo più sicuro, farlo all'interno dell'amena residenza.

Cerica aspetta comunque un ordine preciso: lo sollecita ad Acquarone, che ne parla al Re. Il quale, dopo qualche indugio venato da nervosismo, decide: l'arresto avrà luogo "dentro".

Non è stata, quest'ultima, una controversia da nulla, e risulta perciò lampante il turbamento del Sovrano nel risolverla. Si colloca al di fuori di ogni regola codificata, di ogni norma decente, di ogni protocollo politico- istituzionale l'ipotesi cheun Capo di Stato faccia arrestare in casa propria il suo primo ministro. Come vedremo, questa circostanza susciterà aspri dissensi nella stessa famiglia del sovrano.

Ma torniamo all'arrivo diMussolini a Villa Savoia. Dopo il saluto rituale, il re gli dice, alla piemontese: "L'Italia va in tocchi, caro duce". Non lo aveva mai chiamato "duce", sempre "eccellenza". Altra variante alla consuetudine: il re ha perso lestaffe e si è messo a urlare contro Mussolini: così asserisce qualcuno che ha avuto il privilegio di poter origliare, e lo dice alla regina Elena. Infine Sua Maestà comunica al despota che ha deciso di sostituirlo e di mettereal suo posto Badoglio.

Qui la regina riferisce in un'intervista quanto ha potuto osservare di persona, dalla finestra d'una sala, sul finale dell'incontro. "Mio marito ormai tranquillo e sereno accompagna l'ospitesulla scalinata della villa". "Il colloquio è durato meno di venti minuti". "Mussolini appare invecchiato di vent'anni". Infine, il re gli stringe la mano, l'altro muove qualche passo nel giardino, ma viene fermato da un ufficiale dei carabinieri seguito da soldati, che lo accompagnano all'autoambulanza.

La regina, subito dopo aver seguito, almeno in parte, lo spettacolo, è assai irritata, soprattutto per un particolare cui accennavo poc'anzi. "Mi sentivo ribollire", così riassume il proprio stato d'animo. "Per poco non sbatto contro mio marito che rientra. "È fatta", dice piano lui. "Se dovevate farlo arrestare", gli grido, "questo doveva avvenire fuori di casa nostra. Ciò che avete fatto non è un gesto da sovrano". Lui ripete: "È fatta", e cerca di prendermi sottobraccio, ma io mi allontano da lui. "Non posso accettare una cosa del genere", protesta. "Mio padre non l'avrebbe mai fatto". Poi vado a richiuderminella mia cameretta".


Un particolare della vicenda ricostruito a suo modo, e chissà con quanta attendibilità, deriva dalle dichiarazione di un personaggio che non si può immaginare più diverso da una testa coronata. Parlo d'uno scrittore sublime a nome Carlo Emilio Gadda.

Nella sua biografia firmata da Giulio Cattaneo e intitolata Il Gran Lombardo, egli dichiara testualmente: "Mussolini, quando sale nell'autoambulanza, se la fa addosso ". E aggiunge. "Questo me l'ha detto anche Mario Luzi, che è persona seria".

Non si saprà mai su quali fonti questi due letterati di gran nome fondino le loro affermazioni in merito a una circostanza storica così decisiva.

(25 luglio 2013) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2013/07/25/news/la_caduta_il_comando_a_badoglio_fatta_e_a_villa_savoia_il_re_si_libera_del_duce-64612796/
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