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Visto da Londra, ecco perché prima o poi l’Eurozona cadrà in pezzi
Samuel Brittan ha 80 anni, è uno dei commentatori-economisti più longevi e rispettati del Financial Times.
Suo fratello Leon è stato ministro nel governo Thatcher e commissario Ue.A 80 anni ci si può permettere di vedere le cose con un’altra dimensione, quella della storia. E Brittan ha scritto un commento sull’FT dal titolo “Ecco perché, prima o poi, l’eurozona cadrà in pezzi”.
Brittan parte con un’immagine, quella di un negozio che non sta andando bene. Nella migliore dei casi, non offre al suo proprietario un livello minimo di sussistenza. Nel peggiore, non può nemmeno coprire i suoi costi ed obbliga il proprietario a chiedere prestiti o donazioni in continuazione da parenti, amici e sostenitori. Uno di questi ha anche detto che avrebbe fatto tutto ciò che era necessario per mantenere il negozio in corso, aggiungendo: "Credetemi, sarà sufficiente".
Per Brittan sono analogie imperfette, ma non poi tanto con la situazione attuale del’area Euro. Dal 1999, quando l’area fu introdotta, i costi unitari del lavoro tedeschi sono aumentati di meno del 13% cumulativo, mentre quelli greci, spagnoli e portoghesi sono saliti dal 20% al 30% per cento, e quelli italiani da ancora di più. Non c'è da stupirsi che la Germania abbia un avanzo delle partite correnti pari al 6% del Pil, mentre Grecia, Italia, Portogallo e Spagna siano a malapena in equilibrio. Le stime devono essere prese cum grano salis, ma il loro messaggio generale è chiaro. Nessuna cosiddetta unione bancaria o armonizzazione fiscale sarà sufficiente mentre questi squilibri rimangono.
Brittan ricorda che la teoria economica dietro la creazione dell'euro era che la moneta unica, e la conseguente impossibilità di svalutazione da parte dei membri, avrebbe agito come forza armonizzante. Ma questo non è successo, e le relazioni attuali sono diventate insostenibili. Secondo Herbert Stein, economista americano della fine del secolo scorso, se una politica o una situazione è insostenibile, non sarà sostenuta. Ma non ha indicato quanto tempo ci sarebbe voluto perché tali situazioni si disfino.
Nel frattempo, aggiunge Brittan, è nell'interesse degli eurocrati rendere i problemi più complicati possibile, in modo che solo un piccolo numero di cosiddetti esperti finanziari possa discuterne: e così c’è stato il susseguirsi di un fiscal package (un pacchetto di misure di politica economica e fiscale) dopo l'altro e la richiesta di una garanzia dopo l'altra per mantenere la struttura in piedi. Ma prestiti e garanzie non rendono sostenibile l’insostenibile. C’è solo un numero limitato di soluzioni.
La prima è che la politica di austerità dei paesi periferici abbia successo. La compressione della domanda interna a loro imposta si tradurrebbe in un calo dei costi e dei prezzi rispetto ai concorrenti della zona euro, portando a una maggiore competitività, un successivo recupero del tenore di vita e un forte calo della disoccupazione. Una variante di questo sarebbe il miglioramento della competitività non di prezzo: più fantasiosi viaggi turistici nell’ Egeo o alberghi più attraenti in Algarve. La domanda chiave è: quanti anni , o decenni, ci vorrebbero per questa correzione.
Il secondo esito e che le economie periferiche continuino a ristagnare. La disoccupazione è ora al 22% in Grecia, il 24% in Spagna, il 18% in Portogallo, il 15% in Irlanda e il 10% in Italia. A titolo di confronto, è all'8% negli Stati Uniti e nel Regno Unito. Una variante sarebbe un ulteriore peggioramento della situazione e una forte ondata di emigrazione.
La terza opzione è improbabile, ma inclusa per completezza. La Germania e gli altri membri settentrionali dell'euro potrebbero perseguire politiche più espansive (inflazionistiche), riducendo così l'agonia del sud. In alternativa potrebbero sovvenzionare le periferiche a tempo indeterminato.
La quarta opzione è che una o più delle economie periferiche abbandonino la zona euro. Si scatenerebbe subito l’inferno, non solo tra i partenti, ma anche nei paesi euro rimanenti, le cui banche hanno sui libri forti e potenzialmente svalutate posizioni in titoli dell'area dell'euro. Alla fine però i membri ex-euro rimetterebbero insieme i cocci ed emergerebbero con performance più tollerabili, come avvenne con l'Argentina quando recise un legame apparentemente indissolubile con il dollaro Usa. Alcuni economisti vorrebbero l’approccio contrario, e preferirebbero che la Germania e suoi vicini prendessero l'iniziativa e apprezzassero le loro monete fuori dall'euro, ma questo per Brittan non accadrà, a prescindere dai risultati delle prossime elezioni tedesche.
Naturalmente, aggiunge l’economista, si può immaginare un qualsiasi numero di permutazioni e compromessi tra i quattro esiti di cui sopra, ma le possibilità sono limitate. E il decano dei commentatori dell’FT dice che se dovesse scommettere, punterebbe sulla quarta soluzione ma non lo fa perché di mezzo c’è la Storia.
Il Sacro Romano Impero, che era proverbialmente né romano, né impero, fu fondato da Carlo Magno nel’800 e durò fino a quando non fu sciolto da Napoleone nel 1806. La Confederazione tedesca fu fondata dopo le guerre napoleoniche e non ebbe mai veri poteri sugli stati membri: venne rafforzata da una unione doganale (Zollverein) nel 1834 e tutta la struttura traballante durò fino a quando non fu sciolta nel Reich tedesco da Bismarck nel 1871.
Oggi la storia va più veloce, conclude Brittan, ma non sappiamo di quanto, e il calendario dell’euro-disintegrazione è pura congettura. C'è un limite a quanto distante si possano prevedere le cose.
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