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Autore Discussione: Mariantonietta Colimberti. PARISI: “IL TEMPO E’ PASSATO, MA I CAPIPARTITO NON...  (Letto 2027 volte)
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« inserito:: Luglio 24, 2013, 10:55:38 am »

15 giugno 2013

PARISI: “IL TEMPO E’ PASSATO, MA I CAPIPARTITO NON SE NE SONO ACCORTI”

Mariantonietta Colimberti.

Europaquotidiano 

In questa intervista che comparirà sul prossimo numero della rivista dell’Arel dedicata al Caos, uno dei fondatori dell’Ulivo ragiona a tutto campo sulla crisi della politica e delle sue organizzazioni, incapaci di comprendere e rappresentare la società che è già cambiata. “Milioni di persone si incontrano in Rete e prendono parola”
 
Partiamo dal caos, analizzando soprattutto il caos politico, laframmentazione, il “chi rappresenta chi”.
A stare alle parole dovremmo dire che all’inizio sta il khaos e avremmo detto molto, se non addirittura tutto. Sta all’inizio di ogni ordine come rottura dell’ordine precedente. Sta all’inizio e alla fine come domanda di un nuovo inizio. Pur senza chiedere alle parole più di quel che esse possono dare, se la parola è per noi il primo modello della realtà che evoca, il concetto che la governa, che la descrive e nel contempo la prescrive, conviene per un momento tornare ad essa.
Disordine ha infatti oggi per noi solo una connotazione negativa. Rivisitato all’inseguimento del suo significato primo di fessura e fenditura khaos può invece mostrare una connotazione positiva. Se fessura infatti può significare voragine, un abisso che minaccioso ci chiama e ci insidia, fessura può essere anche spazio che si apre alla nostra ricerca. Non una assenza e una fine, ma innanzitutto una presenza e un inizio. Non una disgrazia ma una opportunità. Dipende da dove guardiamo a questa fessura.
La fenditura che dall’esterno può apparire come frammentazione e distruzione di una forma ordinata, appare dall’interno a chi di quell’ordine si sente ed è prigioniero come una fessura che apre un varco alla liberazione.
La crisi della politica
Passando alla politica e alla crisi attuale, è su questo crinale che va a mio parere indagata la relazione tra rappresentanza e rappresentato. È infatti indiscutibile che la frammentazione della rappresentanza è da più di un trentennio la spia e l’indice più visibile della trasformazione e della crisi del nostro sistema. Nonostante gli indicatori empirici siano a questo proposito come sempre arbitrari e perciò discutibili, mi sembra infatti difficile negare la tendenza, almeno sul piano dell’offerta politica, alla moltiplicazione delle proposte politiche come esito della frammentazione delle proposte preesistenti. È, questo, un processo da tempo inarrestato anche se non automaticamente un processo lineare. Se la moltiplicazione delle proposte di rappresentanza non si traduce in una equivalente frammentazione della rappresentanza questo è infatti dovuto agli effetti che la normativa elettorale produce sia sulla capacità della proposta di rappresentanza nel raggiungere i rappresentati, sia nella capacità della loro risposta di intercettare la proposta.
Nonostante la normativa diretta a contrastare la moltiplicazione delle proposte e la traduzione delle risposte in rappresentanza istituzionale, la frammentazione resta il dato che meglio descrive lo stato presente del nostro panorama politico.
E tuttavia, per quanto si cerchi di incanalare la domanda frammentata e di articolare l’offerta in modo da facilitare l’incontro tra di esse, la sfasatura tra la rappresentanza e il rappresentato resta rilevante. Una quota crescente di cittadini finisce infatti per fuoriuscire dai canali della rappresentanza, non trovando nelle proposte di rappresentanza una offerta capace di motivare la propria risposta e giustificare la propria partecipazione.
Per far riferimento all’esempio più recente valga per tutti la scheda sottoposta ai cittadini al primo turno delle ultime elezioni al Comune di Roma, a cominciare dalla sua stessa lunghezza: 1 metro e 20 centimetri. Una misura mai raggiunta in passato. E tuttavia una misura necessaria a dar conto delle proposte di rappresentanza scese in campo: 19 candidati sindaco (residuati dai 22 che si erano offerti in prima istanza), 40 liste (delle 62 che si erano presentate al primo vaglio), quasi 1800 candidati (nonostante il migliaio perso per strada) per i 48 posti di consiglieri capitolini. E nonostante un numero così ampio di proposte solo il 51% degli elettori che riconosce tra esse una propria. E solo l’11% è tra gli elettori l’aggregato più numeroso di quelli che hanno condiviso la stessa scelta partitica, in questo caso quella per il Pd, che tra i frammenti è di certo il più grande.
È più la società italiana ad essere nel caos o la politica?
Tutti e due. Il disordine, la destrutturazione dell’ordine esistente, quello che abbiamo convenuto di chiamare khaos, lo stesso che prima misuravamo a partire dalla frammentazione, va infatti sviluppandosi su ambedue i versanti: quello della proposta e quello della risposta, quello della domanda e quello dell’offerta, quello che proviene dalla rappresentanza politica e quello che viene dai rappresentati. Ma si sviluppa sui due versanti con modalità, tempi e intensità diverse. È a causa di questa sfasatura che il magma che proviene dalla società e fuoriesce dalle fenditure che si vanno aprendo nel vecchio guscio della rappresentanza tradizionale non si incontra con le proposte di rappresentanza che vengono dalla cosiddetta “politica”. E questo capita nonostante la frammentazione della “politica” non sia minore di quella della società.
È per questo, mi si consenta l’immagine, che, il magma sociale dilaga fuori dal sistema della rappresentanza e non raggiunge quindi le istituzioni. Un dilagare che si esprime innanzitutto nella crescita costante delle astensioni che continua inarrestata ormai da decenni. È così accaduto che l’Italia che in passato occupava tra i paesi democratici le prime posizioni nella graduatoria della partecipazione ha ormai raggiunto e superato i livelli di paesi come gli Stati Uniti che un tempo denunciavamo a noi inferiori solo grazie alla nostra ignoranza. Chi ha studiato il comportamento elettorale sa infatti da sempre quanto diverso sia il costo del votare nei due paesi, favorito oltre ogni misura in Italia e scoraggiato negli Usa, e quanto fuorvianti siano perciò i confronti al riguardo.
E tuttavia, come è durato il mito della nostra Costituzione come “la più bella del mondo”, così troppo a lungo la favola della superiorità democratica italiana ha resistito nel tempo certo, come dicevo, per ignoranza ma soprattutto per l’interesse a indicare l’esperienza nord-americana come a noi inferiore e contrastare allo stesso tempo l’appeal di quell’ordinamento politico ed elettorale imputandolo come causa di quella inferiorità. Il risultato di questa lunga ignoranza ha così coperto questo dissanguamento crescente e ininterrotto della nostra democrazia. Ad ogni elezione l’attenzione al fenomeno dura per poche ore della mattina del lunedì fino a quando nel pomeriggio i dati dell’affluenza sono messi a tacere da quelli sul dato partitico.
A cinque punti alla volta, con balzi un tempo considerati ognuno in sé straordinario stiamo smarrendo di vista l’enorme perdita che si è accumulata nel tempo allontanandoci dalle vette del mitico passato. Come nel campo della demografia rischiamo così che un giorno ci volteremo indietro e d’improvviso ci scopriremo definitivamente invecchiati oltre ogni misura.
Da che cosa dipende la sfasatura, il disallineamento tra il disordine, diciamo pure il khaos, che è cresciuto nella proposta politica e in quello cresciuto della risposta della società?
Dal fatto che la politica e l’infrastruttura dei partiti, con le strutture ad essa coordinate come i sindacati, continuano ad essere segnate dalle fratture del Novecento, quelle descritte magistralmente una volta per tutte dal politologo norvegese Stein Rokkan, a cominciare dalla frattura di classe e da quella religiosa. Mentre lo stesso non è capitato nella società, dove le fratture tra le vecchie appartenenze, pur non del tutto svanite, hanno perso la salienza che avevano in passato scomponendosi e ridefinendosi col mutare della struttura di classe e delle credenze religiose. A causa di fattori interni che vanno disarticolando le strutture partitiche e ridefinendo i legami con le organizzazioni ad esse un tempo collaterali, il ceto politico cerca di intercettare i cambiamenti della società ma ci riesce sempre meno. Questo è in gran parte a causa della separatezza e della autoreferenzialità prodotta e consentita dai privilegi e dal potere assicurato a chi è insediato nel sistema istituzionale preesistente. L’incapacità nell’assolvere alla funzione di rappresentanza priva così di giustificazione e legittimazione il ceto politico e rende quindi sempre più insopportabile il costo della intermediazione partitica.
Da qui l’avviarsi di un giro vizioso che vede la “politica” prima contestata per il suo potere di troppo superiore a quello ritenuto legittimo, e per recuperare la legittimità perduta costretta poi a riconoscere questa delegittimazione e a cederne ogni volta una parte. Il fatto che questi riconoscimenti e questi cedimenti siano nelle parole di troppo superiori che nelle azioni, alimenta tuttavia la contestazione che voleva placare.
Soprattutto in un contesto come quello della crisi economica attuale, che accentua ulteriormente il costo relativo della intermediazione politica. Minacciata dai latrati dei cani che non riconoscono l’antico padrone, la classe politica allunga prima il passo, e poi terrorizzata comincia a correre, con il rischio di eccitare quelli che voleva placare e finire azzannata se non proprio sbranata.
Le primarie non creano caos ulteriore?
Certamente. Sia sul fronte della proposta che su quello della risposta. Ma come potrebbe essere altrimenti? Ecco un esempio puntuale di quanto andavamo dicendo. A causa della contestazione della legittimità ad esercitare il tradizionale potere di cooptazione dei titolari alle cariche pubbliche, l’oligarchia politica ha nelle forme subito l’introduzione di questo istituto riconoscendo a parole in esso la capacità di colmare il gap di legittimazione che si era prodotto. Nei fatti ha invece fin dall’inizio cercato di piegarlo all’interesse a conservare nelle sue mani il massimo del potere di cooptazione preesistente, riducendo le primarie a un voto confermativo di decisioni già adottate e contemporaneamente ad una occasione di celebrazione della forza del partito e di propaganda di partito.
Dei modi e degli strumenti di questa manipolazione mi limito a citare i titoli. Innanzitutto, le ripetute discussioni sul se, sul modo e sul quando delle primarie, su chi abbia titolo a votare e chi a candidarsi. Le polemiche, poi, sulle procedure che riguardano le cariche pubbliche e quelle per le cariche di partito. Infine, lo svolgimento dei processi reali di selezione dei candidati, e tra essi di quello predestinato alla vittoria.
Il risultato è comunque che in ognuno di questi passaggi è più facilmente riconoscibile il khaos e il disordine che il loro contrario. All’interno della classe politica che ha fatto finora delle primarie una occasione privilegiata delle contese interne. Tra i cittadini che dopo aver riconosciuto per un giorno questo strumento come una espansione della democrazia, si ritraggono poi delusi nella protesta e nella astensione di fronte al tradimento del loro voto. E tuttavia dentro questo khaos, attraverso queste fessure, queste fenditure vediamo uscire il magma della vita che da fuori appare solo come distruzione, ed è invece da dentro una liberazione.
È infatti evidente come le primarie vadano affermandosi, assieme alla elezione diretta dei sindaci, come l’istituto che più di tutti ha contribuito a rinnovare la nostra democrazia. Questo è avvenuto in particolare proprio nelle elezioni locali dove appunto primarie ed elezione diretta si sono chiamate e rafforzate l’un l’altra. Muovendo dal gennaio 2005, quando con la scelta di Vendola a candidato del centrosinistra in Puglia fu anticipata l’applicazione della normativa pensata per le prime primarie strappate ai capipartito per dare alla candidatura di Romano Prodi una legittimazione fondata su un voto popolare, il processo di istituzionalizzazione del nuovo istituto non si è mai interrotto.
Certo, fino a quando le primarie non si saranno stabilmente affermate al livello centrale e diffuse in tutti i contesti, e fino a quando non si saranno estese dal centrosinistra anche al centrodestra, il processo non potrà dirsi concluso. E inevitabilmente la lotta e la resistenza al riguardo continueranno ad aggiungere khaos al khaos, ma un khaos, ripeto, creativo, che annuncia in modo sempre più evidente un nomos nuovo.
L’illusione della sovranità dei cittadini
Da Ruffilli, “cittadino arbitro” ai “portavoce” di Cinquestelle, che modello di democrazia sta venendo avanti?
Una democrazia fondata sulla illusione che i cittadini, che ogni cittadino, sia in condizione di esercitare la sua sovranità. Certo, una illusione e una utopia, ma una illusione e una utopia senza le quali la democrazia sarebbe un nome vano. Non una democrazia diretta dei cittadini, come sostiene chi corre troppo con la fantasia o troppo facilmente precipita nel terrore, ma una democrazia nella quale lo spazio per l’espansione della democrazia come delega ai partiti, cioè a dire, alla oligarchia dei capipartito, sia non dico ridotto ma almeno contenuto. Una democrazia dove l’art.49 della Costituzione sia letto per quello che dice alla lettera. Che “i cittadini hanno il diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”. Non come se nella Costituzione ci fosse scritto che la “democrazia coincide con l’insieme dei partiti” e il cittadino può solo scegliere a quale tra essi delegare l’esercizio della sua sovranità. Una democrazia nella quale, esattamente come nella lettera dell’art.49 della Costituzione, il soggetto sia il cittadino e il partito uno strumento in più a sua disposizione, e non invece una democrazia nella quale il soggetto sia il partito, punto di partenza e di arrivo di ogni processo politico.
Se il modello che ha in mente, quel modello della “Repubblica dei cittadini” che spesso cita nelle sue interviste, è quindi in qualche modo opposto a quella “Repubblica dei partiti” descritto da Pietro Scoppola, come risponde a quanti obiettano che se i partiti sono in crisi neppure i cittadini godono di buona salute?
Rispondo che le apparenze sono dalla loro parte. Certo chi guarda alla piazza urlante dei giorni della elezione del Presidente della Repubblica, o chi sulla rete legge ogni giorno farneticazioni di 140 caratteri, non ha difficoltà a trovare argomenti. Ma questa è a mio parere solo la superficie. Chi guarda con occhio limpido e più a fondo non può non riconoscere un paese cresciuto che chiede di essere riconosciuto. Mai come ora si è dato che in tanti ogni giorno leggessero, scrivessero e discutessero della cosa pubblica, come capita oggi sulla rete e dintorni. È un processo, questo, che affonda le sue antiche radici innanzitutto nell’associazionismo politico e trova certo il suo principale terreno di coltura nei partiti dell’Ottocento.
Sarebbe una grave perdita se proprio chi in questo esito dovrebbe più di ogni altro riconoscersi lo sentisse nemico. Ad esso hanno dato un contributo decisivo la scolarizzazione di massa e la libertà di opinione e l’espansione dei nuovi media che l’hanno resa concreta, tutte conquiste dei movimenti democratici dall’inizio pensate e dall’inizio cercate per far crescere la democrazia. All’origine della nuova stagione non è quindi il fallimento degli strumenti antichi, ma il compimento della loro missione.
La cecità dei partiti, il grillismo e la rete
Non so se gli attuali capipartito siano della casa degli antichi partiti gli eredi o soltanto gli ultimi inquilini, se siano affettivamente legati al lascito dei padri o solo interessati a lucrarne gli affitti. Quello che so è che i figli, naturali e adottivi o semplicemente affiliati, prima o poi lasciano le case dei padri, e quel tempo di norma coincide con la maturità e l’autonomia.
Quel tempo è arrivato, anzi, è passato. È passato da tempo. Ma i partiti sembra che non se ne siano accorti, e non se ne sono accorti perché i capipartito hanno interesse a che questo fatto sia ignorato, affinché possa sopravvivere ad esso il più a lungo possibile, intestata ad un potere sempre meno giustificato, una tutela e una rappresentanza legale ormai priva dei suoi presupposti.
A questo proposito credo che dovremmo essere grati a Grillo, perché con la sua provocazione ha portato d’improvviso alla superficie una vitalità troppo a lungo ignorata e repressa dentro il guscio della vecchia rappresentanza, liberandola attraverso le fenditure che nel tempo su quel guscio si erano aperte e moltiplicate.
Quel 25,5% è per me un’assenza che si fa d’improvviso presenza, come un pulcino che esce d’improvviso da un uovo, annunciato dallo sgretolarsi del guscio, dal moltiplicarsi appunto delle fessure nel tempo. È a questo che pensavo quando, all’inizio di questa conversazione, abbiamo evocato il khaos. All’inizio sta il khaos, abbiamo detto. All’inizio stanno appunto una serie di screpolature che si fanno fessure e fenditure. Poi, d’improvviso in mezzo ai calcinacci, tra rumori e umori, ecco di nuovo la vita, ecco una nuova vita, che tra le fenditure si libera e ci interpella.
È per questo che, per quanto possa apparire paradossale, dobbiamo essere grati a Grillo che con la sua provocazione ha dato la parola a quelle che sarebbero e potrebbero tornare ad essere voci di nuovo ammutolite e confuse nel silenzio della astensione, e tuttavia dobbiamo allo stesso tempo difenderci e direi difendere lo stesso Grillo dalla sua scompostezza. Guai se a causa delle parolacce che insozzano le sue piume noi riuscissimo ad ignorare la novità della nuova vita e l’origine della sua vitalità. Dietro quello che vorrebbe essere già riconosciuto come un movimento con una sua compiuta soggettività e che è ancora invece descrivibile oggettivamente solo come un fenomeno, sta infatti una domanda anche se non ancora una proposta. Una domanda forte che attraversa il paese e attende da decenni ancora una risposta. Una domanda che interpella tutti e tra tutti il Pd che, sulla scia dell’Ulivo, è sceso in campo con l’ambizione, una ambizione finora delusa, di essere quel partito nuovo capace di rappresentare e raccogliere la nuova domanda.
È la domanda posta per la prima volta dalla generazione del “baby boom” alla fine degli anni Sessanta attraverso quella che fu definita da Ronald Inglehart la “rivoluzione silenziosa”. Una domanda ispirata a quei valori che abbiamo definito “post- materialistici” e innanzitutto a quelli della libertà e della partecipazione. Una domanda democratica e antiautoritaria che, rappresentata negli anni Settanta da elites e gruppi minoritari, anche in forme eversive, è diventata poi nella generazione successiva sentimento e orientamento di massa.
Questi sentimenti e questi orientamenti si sono per decenni diffusi e radicati attraverso la crescita di quella che possiamo definire una mera competenza passiva: la capacità di capire e interiorizzare conoscenze e atteggiamenti politici all’interno dell’individuo e della sua interazione con circuiti limitati e privati informali. La rete ha fatto fare d’improvviso un balzo a questo processo, sviluppando a livello di massa tra milioni di persone e in particolare nella nuova generazione quella che potremmo chiamare una competenza attiva. Milioni di persone che per decenni si erano limitate a seguire le vicende pubbliche dal proprio privato o abituate a partecipare a riunioni politiche sempre più rare ascoltando in silenzio gli interventi dei pochi considerati fino ad allora accreditati hanno improvvisamente preso la parola e attorno alla parola e al pensiero oggettivato per la prima volta nella scrittura si sono improvvisamente incontrati. Incontrati come si incontrano e si parlano i viaggiatori in un paese straniero, scoprendosi vicini e amici mentre nella terra d’origine erano lontani se non addirittura nemici.
Potremmo dire che quella rivoluzione che negli anni Settanta fu per la maggior parte dei padri silenziosa, prende dopo trent’anni la parola sulla bocca dei figli.
Dopo aver subito, dopo aver-ci subito per decenni, in silenzio nelle aule scolastiche, in silenzio nelle assemblee, e in silenzio nelle sezioni di partito, dopo essersi limitati a commentare con i familiari in cucina i nostri talk show televisivi, dopo aver subito giornalisti e politici, intellettuali e professori, accreditati dai loro studi classici o dalla carriera di partito, ora, grazie alla rete, milioni di cittadini, e soprattutto di cittadine, che magari hanno fatto solo studi tecnici e professionali, e che non hanno mai prima parlato in una riunione politica, hanno scoperto di poter prendere la parola. Hanno scoperto di poterla prendere e riuscire a tenerla proprio grazie agli strumenti che tutti assieme abbiamo conquistato: alla deprecata scuola di massa, all’associazionismo, e ai mass media. E la parola hanno preso, senza chiedere permesso.
Una parola che spesso, ora per i contenuti ora per le forme, non possiamo fare nostra, ma con la quale dobbiamo comunque fare i conti. Sarebbe un peccato se le parolacce insistite e le scelte mancate di Grillo che l’hanno prima mobilitata e poi respinta, coprissero ancora una volta il suo suono ai nostri orecchi ritornati sordi e la spingessero di nuovo ai margini della polis, ogni volta costretta tra una minacciosa astensione e l’esplosione della protesta.

da - http://www.arturoparisi.it/interventi/parisi-il-tempo-e-passa-ma-i-capipartito-non-se-ne-sono-accorti-mariantonietta-colimberti-europaquotidiano/
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