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Autore Discussione: GIUSEPPE D'AVANZO  (Letto 105363 volte)
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« Risposta #135 inserito:: Gennaio 06, 2010, 10:49:21 am »

Dal 2001 al 2006 intelligence militare, security Telecom e agenzie private in team era un "nemico" chi si opponeva al governo.

Un maxi dossier dedicato ai Ds

Inutile indagare sul Sismi è segreto di Stato

di GIUSEPPE D'AVANZO


ROMA - Agenti della Cia sequestrano Abu Omar, un cittadino egiziano, a Milano. L'intelligence italiana ha collaborato all'extraordinary rendition? Segreto di Stato, dice Berlusconi. L'archivio di dossier raccolto da Nicolò Pollari, direttore del Sismi, in un "ufficio riservato" in via Nazionale a Roma era legale o illegale? Quali potevano essere le finalità istituzionali per spiare, a partire dal 2001 e intensamente fino al 2003 e saltuariamente fino al 2006, quattro procure della Repubblica (Milano, Torino, Roma, Palermo), 203 giudici (47 italiani) di 12 paesi europei e giornalisti e leader dell'opposizione del centrosinistra? Qual era l'"interesse nazionale" che consigliava di sorvegliarne le iniziative; di intimidirli con operazioni di disinformazione; di screditarli con manovre "anche traumatiche"? Segreto di Stato, dice Berlusconi. Quali "motivi istituzionali" imponevano al capo del controspionaggio del Sismi, Marco Mancini, un lavoro comune con la Telecom di Marco Tronchetti Provera, la security di Giuliano Tavaroli, l'intelligence privata di Emanuele Cipriani? Segreto di Stato, dice oggi Berlusconi.

Le tre decisioni del governo, che liquidano anni di indagini, processi in corso e cancellano, con le pratiche oscure di una burocrazia dello Stato, ogni trasparenza e i diritti delle "vittime" spiate, screditate, violate nella loro privacy, inaugurano un nuovo, pericoloso corso del "segreto" nella vicenda pubblica italiana.

Le tre decisioni del governo, che liquidano anni di indagini, processi in corso e cancellano, con le pratiche oscure di una burocrazia dello Stato, ogni trasparenza e i diritti delle "vittime" spiate, screditate, violate nella loro privacy, inaugurano un nuovo, pericoloso corso del "segreto" nella vicenda pubblica italiana. L'attività dei servizi di informazione, dal punto di vista operativo, mira alla raccolta di notizie utili alla salvaguardia non solo dell'indipendenza e dell'integrità dello Stato (riconducibili alla politica estera e di difesa), ma anche (sul piano interno) alla tutela dello Stato democratico e delle istituzioni che lo sorreggono.

Per usare le formule del decreto del presidente del Consiglio (pubblicato in Gazzetta Ufficiale 16 aprile 2008) gli "interessi supremi da difendere con il segreto di Stato" sono "l'integrità della Repubblica, anche in relazione ad accordi internazionali; la difesa delle Istituzioni poste dalla Costituzione a suo fondamento; l'indipendenza dello Stato rispetto agli altri Stati e le relazioni con essi; la preparazione e la difesa militare dello Stato". A vista d'occhio, non c'è alcuna connessione tra questi "interessi supremi" e il lavoro sporco del Sismi di Nicolò Pollari. Come si può credere che il dibattito culturale di un'associazione europea di magistrati minacci l'integrità della Repubblica italiana? Come si può pensare che un'inchiesta giornalistica pregiudichi l'indipendenza dello Stato?
Come si può immaginare che la pubblica riflessione di un'opposizione parlamentare, le sue iniziative possano rappresentare una minaccia per la difesa dello Stato?

Nel caso dell'archivio riservato di via Nazionale, nell'affaire Telecom, nel sequestro Abu Omar, l'interpretazione delle regole del generale Nicolò Pollari e ora i provvedimenti di Berlusconi hanno creato un sillogismo deforme. Lo Stato, la Repubblica, le Istituzioni sono il governo, qualunque siano le sue decisioni, mosse, progetti e responsabilità. Ogni opposizione al governo - controllo giurisdizionale o informazione o convinzione culturale o dissenso politico - diviene immediatamente nell'azzardata dottrina del generale, ora confermata dal presidente del Consiglio, "una minaccia alla sicurezza nazionale", quindi un'eversione che giustifica ogni mezzo, ogni attività di spionaggio, finanche una "pianificazione traumatica". Per anni, si è voluto rappresentare questo sentiero stortissimo con una tautologia.
Si è detto, l'intelligence è l'intelligence: si sa, lavora con metodi sporchi, spesso oltre i confini della legalità. Ma la questione che dovrebbe interrogarci non si nasconde nel metodo, ma nel fine. Non è nell'illegalità possibile del lavoro di intelligence, ma nella legittimità di quel lavoro che trova ragioni soddisfacenti e adeguate soltanto "nella difesa dello Stato" e non può trovarle, come è accaduto al Sismi di Pollari, nella protezione di un equilibrio politico; nello scudo per un governo (quale che sia); nell'aggressione ad altre indipendenti funzioni dello Stato (la magistratura), della politica (l'opposizione), della società (la stampa), dell'economia e, infine, nella creazione di un potere "autonomo", extraistituzionale che si offre al miglior offerente politico.

Questa mutazione genetica di una burocrazia dello Stato, del suo lavoro con licenza di delinquere e l'asimmetria tra compiti istituzionali e pratiche quotidiane ha oggi la firma, il timbro, la convalida del presidente del Consiglio. E' una decisione che fa leva su una sentenza della Corte Costituzionale definita da molti costituzionalisti "scandalosa". Con la pronunzia n.106/2009, la Consulta sostiene che "l'individuazione degli atti, dei fatti, delle notizie che possono compromettere la sicurezza dello Stato e che devono rimanere segreti" costituisce il risultato di una valutazione "ampiamente discrezionale". E' un giudizio che esclude ogni sindacato giurisdizionale perché, sostiene la Corte, ne sarebbero capovolti "i criteri essenziali del nostro ordinamento" a cominciare da quello secondo cui "è inibito al potere giurisdizionale di sostituirsi al potere esecutivo e alla pubblica amministrazione e di operare il sindacato di merito sui loro atti". A giudizio della Corte costituzionale, l'esercizio del potere di segretazione è assoggettato soltanto al Parlamento, "la sede normale di controllo nel merito delle più alte e più gravi decisioni dell'Esecutivo".

Dovrebbe essere dunque il Parlamento, con il suo comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica (Copasir), a decidere se è coerente e corretta la copertura del segreto di Stato alle attività di un "apparato" legale/clandestino del tutto "visibile" tra il 2001 e il 2006, come ha provato a documentare Repubblica nel corso del tempo. Una piattaforma spionistica, nata con la connessione dello spionaggio militare con diverse branche dell'investigazione, a partire dall'intelligence business della Guardia di Finanza; con agenzie di investigazione che lavorano in outsourcing; con la Security privata di grandi aziende come Telecom, dove è esistita una "control room" e una "struttura S2OC" "capace di fare qualsiasi cosa, anche intercettazioni vocali: poteva entrare in tutti i sistemi, gestirli, eventualmente dirottare le conversazioni su utenze in uso, con la possibilità di cancellarne la traccia senza essere specificatamente autorizzato".

E' proprio qui il punto dolente e minaccioso dell'affare Telecom che il segreto di Stato ora cancella. Quante sono le informazioni, i dossier - per dirla tutta, i ricatti - che possono condizionare il lavoro del parlamento, dei parlamentari, dei partiti, delle loro leadership? E' stato sempre e soltanto questo il nodo avvistato dentro i traffici di quella "piattaforma spionistica" che le indagini di una timida (o intimidita) magistratura e un processo avrebbero dovuto sciogliere e che ora la decisione di Berlusconi taglia di netto.
Per dirne una, durante la legislatura 2001/2006, quell'"agglomerato oscuro fatto di agenzie di investigazione e polizie private in combutta con infedeli servitori dello Stato che si muove in una logica di ricatto" - "uno spettacolo spaventoso" lo definì Marco Minniti, viceministro agli Interni del governo Prodi - ha raccolto, "con cadenza semestrale", informazioni in Europa su presunti finanziamenti dei Democratici di Sinistra. E' il "dossier Oak" (Quercia), alto una spanna, denso di conti correnti, bonifici, addirittura con i nomi e i cognomi di presunti "riciclatori" e "teste di legno" dei finanziamenti occulti dei Ds che fanno capo ai leader del partito.

Sono informazioni (vere o false, non importa) che possono pesare sul controllo parlamentare degli atti dell'Esecutivo? Ora che il segreto di Stato impedirà di portare alla luce anche soltanto lacerti delle sue attività, quanto peserà sul "mercato della politica" la presenza di quel network spionistico e gli archivi che ha messo insieme?

Se il "potere democratico" è, come scriveva Norberto Bobbio, il "governo del potere pubblico in pubblico", oggi va registrato il minaccioso ritorno del regno del segreto, degli arcana (imperii e dominationis), della "ragion di Stato", della mai morta Italia dei ricatti.

La qualità della nostra democrazia non ne può guadagnare.

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« Risposta #136 inserito:: Gennaio 12, 2010, 09:54:26 pm »

IL COMMENTO

L'amore per se stesso

di GIUSEPPE D'AVANZO


È stata breve la stagione dell'amore di Silvio Berlusconi. Distratto o confuso dalle sue stesse dolci parole, il presidente del Consiglio non si è accorto dell'esplosione di odio assassino che ha attraversato Rosarno (non ha detto una sola parola su quella tragedia, forse perché in fondo quelli erano negri e gli altri terroni, per dirla con il Brighella che gli dirige il giornale di famiglia). Ora al rientro dalla convalescenza, concentratissimo, il capo di governo discute di libertà. Le leggi ad personam, dice, non sono altro che "leggi ad libertatem". Amore, libertà. Le parole suonano bene e hanno un buon odore, ma non bisogna farsi ingannare. Le formule non accennano mai a un noi, sempre a un Io e dunque va meglio precisato l'orizzonte politico e istituzionale che si scorge: Berlusconi inaugura oggi la stagione dell'amore per se stesso, della libertà per se stesso. Novità? Nessuna, naturalmente. Diciannove leggi ad personam ci hanno abituati, nel tempo, ai trucchi nascosti dietro una quinta scorrevole che qualche malaccorto definisce la volontà riformatrice di un governo, una sfida "costituente" da non lasciar cadere, l'opportunità di un confronto nel merito.

Il "merito", come si dice, è sempre lo stesso. Ha un nome, un cognome, una faccia, un passato da imprenditore creativo e spregiudicatissimo; un presente da capo di governo in conflitto d'interessi invasivo e perenne che disprezza la sovranità della Costituzione; un futuro da Primus, da Eletto che pretende un'immunità speciale dalla Legge. È musica che conosciamo e Berlusconi, che non delude mai, non ce ne priverà nei prossimi mesi. Dice che ha lavorato intensamente alle tappe di una riforma fiscale. È una manovra di distrazione di massa, anche questa non nuova alla vigilia di ogni elezione. In realtà, ha riproposto un'iniziativa già fallimentare tre lustri fa (due aliquote) e irrealizzabile oggi, come tutti sanno e dicono a bocca storta. Il meglio delle sue energie, come si scopre adesso, Berlusconi lo ha riservato al programma di libertà per se stesso dai processi, dalla giustizia per il presente e per il futuro. Appena rientrato sulla tolda del comando unico, è salito al Quirinale per informare il capo dello Stato delle sue trovate, dopo aver rassicurato i suoi che "Napolitano deve dargli una mano". La prima trovata è un decreto legge (quindi, immediatamente esecutivo) che imporrebbe una sospensione di tre mesi ai processi in cui il pubblico ministero ha chiesto e ottenuto "contestazioni suppletive". È accaduto durante il dibattimento contro David Mills, testimone corrotto e condannato in primo e secondo grado (Berlusconi è accusato di averlo corrotto, il processo paralizzato dai lodi immunitari deve ora ricominciare). Contestazioni suppletive anche nel processo per la compravendita dei diritti televisivi Mediaset, ancora in corso (Berlusconi è imputato di frode fiscale).

Se il decreto legge dovesse essere firmato perché "urgente" dal capo dello Stato, Berlusconi con quest'abito cucito a sua misura guadagnerebbe, senza patemi, il tempo necessario per condurre in porto il "processo breve" che prevede la durata complessiva di sei anni. Una correzione che, se approvata, fulminerebbe  -  perché "estinti" - i processi che lo vedono imputato, ma - si sa - Berlusconi non si accontenta mai. Ecco allora la seconda idea originale progettata durante la convalescenza: perché non rendere liberi - e quindi immuni dalla legge, dal processo e dal giudizio - anche le società, dopo le persone? Di qui, la proposta contenuta nell'emendamento, che oggi sarà presentato al Senato, di un'estensione del "processo breve" anche alle persone giuridiche, quindi alle società che devono rispondere di reati contabili, danni erariali, di responsabilità amministrative per reati commessi da figure apicali nell'interesse aziendale. Mediaset ne ricaverebbe qualche sollievo nei suoi contenziosi giudiziari come la Pirelli-Telecom di Marco Tronchetti Provera, l'Eni e l'Italgas che devono rispondere di truffa ai danni dei consumatori, ma soprattutto Impregilo di Benetton, Ligresti e Gavio, per dire alla rinfusa di qualche processo già in corso.

È un'iniziativa non soltanto auto protettiva, allora. Elimina, con la separazione dei poteri pubblici (si crea un'area di immunità protetta dalla legge), anche ogni separazione tra la sfera pubblica e la sfera privata, tra poteri politici e poteri economici, una separazione essenziale che fa parte del costituzionalismo dello Stato moderno, "ancor prima della democrazia" aggiunge Luigi Ferrajoli. Il ritorno all'attività di Berlusconi ha un pregio indiscutibile. Con una sola mossa e in poche ore, lascia cadere ogni maschera. Si libera dell'alibi della "riforma della giustizia". Rende chiara la sua volontà e offre un saggio di quel che intende per "riforma costituzionale" agli incauti che hanno voluto credere nel suo "spirito costituente" condito dalla primitiva teologia politica del bene e del male, dell'amore e dell'odio. Egli, che è il bene, e addirittura l'organo monocratico che rappresenta la volontà dell'intero popolo sovrano, vuole soltanto costituzionalizzare se stesso, la sua anomalia, la concentrazione del suo potere, il suo conflitto di interesse.

Vuole riscrivere le regole comuni a partire dalla personalizzazione del suo potere che immagina e pretende separato da un Parlamento umiliato, immune dalla legge, confuso fino all'indistinzione con gli interessi economici che lo sostengono nella sua volontà di potenza. Berlusconi sa di sacrificare con la nuova tornata di leggi ad personam ogni possibilità di confronto con le opposizioni, ma ci ha davvero mai creduto in una discussione dagli esiti condivisi? È difficile crederlo. Lo strappo di Berlusconi dimostra come al fondo del suo "spirito costituente" ci sia soltanto una vecchia idea che Gianfranco Miglio già nel 1994, con la prima vittoria della destra, espresse in modo brutale. La Costituzione non è un accordo tra tutti sulle regole del gioco, ma è un "patto che i vincitori impongono ai vinti. Metà degli italiani fanno la Costituzione anche per l'altra metà. Poi si tratta di mantenere l'ordine nelle piazze".
 

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« Risposta #137 inserito:: Gennaio 14, 2010, 02:25:44 pm »

IL RETROSCENA.

Preparato da Alfano per risolvere una disputa interpretativa da cui dipende il caso Mills

Emendamento sul reato di corruzione
 
Ecco l'asso segreto per salvare Silvio

Il 25 febbraio la Cassazione deve confermare o no la condanna del teste pagato dal premier

Il denaro fu versato dopo la testimonianza: dettaglio da cui dipende la gravità del reato

di GIUSEPPE D'AVANZO

PER  comprendere le mosse di Berlusconi bisogna chiedersi qual è la via più diretta che può salvarlo subito dai processi in attesa che, dopo le elezioni, ritorni la quiete politica indispensabile per la riforma delle immunità parlamentari, il salvacondotto per il futuro. Berlusconi, si sa, "ha riflessi costanti, non tollera le vie mediate, sceglie d'istinto la più corta, come il caimano quando punta la preda".
 
La diagnosi di Franco Cordero torna utile per raccapezzarci in queste ore che vedono accumularsi e sovrapporsi iniziative legislative, disegni di legge, decreti con forza di legge, progetti di riforma costituzionale con "la sospensione per la durata del mandato del procedimento" per tutti i parlamentari. Il presidente del Consiglio ha in mano molte carte da giocare: il processo breve al Senato (cancella i suoi processi); il legittimo impedimento alla Camera (introduce una norma temporanea che consente il rinvio del processo del Cavaliere, in vista dell'approvazione della riforma costituzionale); tre decreti passepartout (milleproroghe, trasferimenti d'ufficio dei magistrati, piano carceri) che possono ospitare, last minute, l'asso (o gli assi) che nasconde nella manica. La strategia del Cavaliere è sempre camaleontica. Vive di nebbia, svolte, diversivi, doppie intenzioni, falsi bersagli. Era forse una mossa deviante il decreto legge che avrebbe bloccato i processi per novanta giorni. È certo una frottola che quel decreto fosse utile per affrontare in serenità la campagna elettorale delle Regionali (figurarsi, il Cavaliere dà il meglio di sé nel ruolo della vittima di complotti inesistenti). Bisogna dunque guardare altrove e porsi sempre la stessa domanda: qual è la trovata che "disarma il nemico" e chiude ora e in modo definitivo la partita più vicina, rognosa e segnata, cioè il processo Mills? (Il capo del governo è accusato di aver pagato il testimone David Mills, già condannato in primo e secondo grado; è un processo segnato perché, come dice l'avvocato inglese, è "assurdo e illogico che uno sia condannato e l'altro assolto". È vero, perché la corruzione si consuma in due: se c'è un corrotto, Mills, ci deve essere anche un corruttore, Berlusconi).

Il "riflesso costante" di Berlusconi è di muoversi con modi spicci modificando le regole del gioco a partita in corso, andando al sodo senza tante storie. In difficoltà, nel passato, ha abolito reati (falso il bilancio), cancellato prove (rogatorie), sostituito giudici (legittimo sospetto). C'è chi consiglia di verificare se sia in cottura oggi la stessa minestra, con uno degli stessi ingredienti. C'è chi suggerisce (anche nella maggioranza) di non guardare alle aule del parlamento, ma alle aule di giustizia: "Quel che può accadere nelle aule di giustizia troverà una corrispondenza nelle decisioni delle Camere". Vale la pena di seguire il suggerimento e dunque di spostarsi da Palazzo Madama e Montecitorio al Palazzaccio della Cassazione. Qui, il 25 febbraio, le Sezioni Unite decideranno se confermare, cancellare o rinviare a nuovo giudizio la sentenza di condanna di David Mills (con effetti vincolanti per il destino di Berlusconi).

In Cassazione si respira una brutta aria. Equivoca, di imbarazzo, di sospetto. Un emendamento del governo in milleproroghe, sponsorizzato dal primo presidente della Cassazione Vincenzo Carbone e approvato dal ministro di Giustizia, promette di elevare a 76 anni (da 75) l'età pensionabile. "Con l'innalzamento dell'età pensionabile  -  ha già scritto il Sole 24 ore  -  Carbone resterà primo presidente fino all'estate 2011, il che gli consentirà, tra l'altro, di candidarsi alla Consulta quando, a ottobre 2010, scadrà il mandato di Francesco Amirante magistrato di Cassazione, attualmente presidente della Corte Costituzionale". Un ipotetico scambio di favori, un pasticcio che già si è avvistato in passato quando, nel 2002, alla vigilia della decisione della Cassazione sul "legittimo sospetto" sollevato sul capo dei giudici dei processi Sme e Imi-Sir, Berlusconi ha allungato di tre anni, correggendo la Finanziaria, la vita professionale delle toghe portandola da 72 a 75 anni. Quella volta gli andò male, ma ora il terreno  -  spiegano gli addetti  -  è più felice, il concime decisamente più fertile. Ecco perché.

La corte d'appello di Milano, che ha condannato Mills a 4 anni e sei mesi di carcere, ha stabilito che il prezzo della falsa testimonianza  -  salvifica per Berlusconi  -  fu pagata dal corruttore dopo e non prima della sua testimonianza. Si chiama "corruzione susseguente". Il quesito, che il 25 febbraio deve trovare la risposta delle Sezioni Unite, è se la "corruzione susseguente" può integrare il reato di "corruzione in atti giudiziari" o soltanto la "corruzione semplice". Il fatto è che la Corte di Cassazione ha una giurisprudenza controversa. Con la sentenza n. 1065, il 25 maggio 2009, ha stabilito che "il delitto di corruzione in atti giudiziari può essere realizzato anche nella forma della corruzione cosiddetta susseguente" confermando una decisione del 20 giugno 2007 (sentenza n. 1358), ma in contrasto con un'altra sentenza (n. 33435) del 4 maggio 2006. Qui si legge: "La corruzione in atti giudiziari si caratterizza per essere diretta a un risultato e non è compatibile con l'interesse già soddisfatto su cui è modulato lo schema della corruzione susseguente". La "corruzione susseguente", pagata dopo l'imbroglio, come è avvenuto per David Mills, è dunque "corruzione in atti giudiziari" o "corruzione semplice"? Se la Cassazione dovesse decidere che è "semplice", Berlusconi sarebbe fuori pericolo perché il reato sarebbe già prescritto. Se stabilisse che è "in atti giudiziari", il Cavaliere sarebbe fritto perché, accertato che Mills incassa il prezzo della sua falsa testimonianza nel febbraio del 2000, la prescrizione cade soltanto a metà del 2012. La materia è così dubbia e discutibile però che nessuno tra gli addetti azzarda una previsione a meno che "la volontà del legislatore" non faccia pendere la bilancia decisamente a favore della corruzione semplice e quindi per la prescrizione (salvo Mills, ma salvo definitivamente anche Berlusconi, per l'altro processo  -  la frode fiscale sui diritti Mediaset  -  si vedrà, c'è tempo).
 
È, a questo punto della ricognizione, che i suggeritori sapienti consigliano di verificare quali emendamenti sono stati messi a punto in autunno dal governo, o meglio dal ministro Angelino Alfano, proprio (pare) su suggerimento del primo presidente della Cassazione, Vincenzo Carbone. "Se ne è già parlato", dicono.
 
Se n'era parlato, ma se n'era perso il ricordo, tuttavia è vero: in novembre, Alfano ha preparato un emendamento al "processo breve" per "perfezionare" il reato di corruzione in atti giudiziari. La modifica dell'art. 319 ter (reato di corruzione in atti giudiziari) chiarisce in modo inequivocabile che "è da ritenersi non punibile la corruzione "susseguente"". Scrive il Tempo, il 24 novembre 2009: "Legge o emendamento al processo breve. Sarebbe questa, secondo quanto si è appreso in ambienti della maggioranza di governo, una delle ipotesi tecniche al vaglio del Pdl. In questo modo uscirebbero dai rispettivi processi il premier Silvio Berlusconi e l'avvocato inglese David Mills". Ecco dunque uno dei jolly nascosti nella manica del Cavaliere: la non punibilità della "corruzione susseguente" come corruzione in atti giudiziari. La mossa avrebbe una sua legittimazione nei contrasti della giurisprudenza, nella necessità di fare luce di un'ambiguità. Il "delitto perfetto" avrebbe l'indubbio vantaggio di obbligare i giudici delle Sezioni Unite a tenere conto della "volontà del legislatore" magari espressa soltanto al Senato in extremis, in coda all'approvazione del "processo breve". Anche se non sarebbe l'unica possibilità per i commessi obbedienti del Cavaliere. L'emendamento salvifico potrebbe essere inserito nei decreti milleproroghe o trasferimenti d'ufficio dei magistrati nelle sedi disagiate, che vanno approvati entro il 17 febbraio. E dunque otto giorni prima della decisione della Cassazione, 25 febbraio. "Come il caimano quando punta la preda".
 
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« Risposta #138 inserito:: Gennaio 21, 2010, 06:10:13 pm »

IL COMMENTO

La pretesa immunitaria

di GIUSEPPE D'AVANZO


IL "processo breve" è la ventesima legge approvata nell'interesse di Silvio Berlusconi dai commessi nominati in Parlamento dalla Lega e dal Partito della libertà. È una legge che salva l'Egoarca (morirà il rognosissimo processo Mills, dove è accusato di corruzione). Qualche effetto immediato. La legge sfascia la già malmessa macchina giudiziaria. Non c'è, infatti, nessun contemporaneo provvedimento che asciughi le procedure, depenalizzi i reati, renda più efficiente l'organizzazione giudiziaria, qualifichi le risorse umane e incrementi gli strumenti materiali.
Il "processo breve" impoverisce le casse dello Stato perché si creano condizioni favorevoli alla "casta" (ministri, sindaci, amministratori pubblici) per non risarcire il danno di sperperi e distrazioni. Allontana dalla condanna le società che hanno la responsabilità amministrativa dei reati commessi dal management nell'interesse dell'azienda. Prepara soprattutto un processo ingiusto e diseguale. Lasciate immutati, oltre ogni ragionevolezza, i reati, le procedure e le garanzie processuali, il processo non potrà che avere tempi lunghi. Effetti a lungo termine. Un processo - da un lato, nato per essere dilatato nei tempi e, dall'altro, strozzato nella durata - è uno strumento destinato a diventare superfluo, inutilizzabile, inutile. Soprattutto è un arnese che non potrà essere mai "giusto", nonostante le filastrocche a uso televisivo delle ugole obbedienti. Perché danna i poveri cristi senza risorse e premia chi ha il denaro per pagarsi legulei competenti nell'esplorare i labirinti della procedura. In conclusione, il paese sarà più fragile, insicuro e criminofilo con giubilo dei delinquenti con e senza colletto bianco: c'è finalmente il modo legale per arraffare, arricchirsi, farsi prepotente senza danno, malvivere senza pagare dazio né allo Stato né agli innocenti diventate vittime.

Il "processo breve", frutto avvelenato di un'arrogante pretesa immunitaria, è soltanto l'intimidatoria ipoteca che, per ora, Berlusconi lascia sul tavolo. È già accaduto appena ieri, nel 2008. Con un emendamento al decreto sicurezza, il capo del governo si fa approvare la sospensione di un anno dei processi per fatti commessi prima del 1 luglio 2002, la cui pena non ecceda i dieci anni (è il suo caso). La norma manda all'aria centomila processi. Berlusconi l'agita per rendere accettabile come "danno minore" un provvedimento che lo rende immune fino a fine mandato (il "lodo Alfano" sarà approvato l'11 luglio 2008 e bocciato dalla Consulta, perché incostituzionale, il 7 ottobre 2009).

Il quadro tattico, in apparenza, non pare diverso in quest'anno di grazia 2010. Distruttivo dell'intero sistema giudiziario, il "processo breve" è il mostruoso sgorbio che dovrebbe convincerci ad accogliere, come riduttivo di un rovinoso danno, un altro provvedimento che, senza umiliare l'interesse collettivo, può ottenere lo stesso risultato: il congelamento dei processi del Cavaliere. E soltanto apparenza. In realtà, in quest'occasione la strategia che si intravede dietro mosse rituali guarda più lontano, è più pericolosa perché vuole essere definitiva.

Il "male minore" (per i cittadini, per lo Stato), che dovrebbe salvare l'Egoarca dalle sue rogne giudiziarie, è il disegno di legge sul "legittimo impedimento" (da lunedì alla Camera). È la riformulazione, ancora per via ordinaria e quindi incostituzionale, del "lodo Alfano". La definiscono "disposizione temporanea in materia di legittimo impedimento del presidente del consiglio a comparire nelle udienze penali". Prevede che "costituiscano motivo di rinvio delle udienze gli impegni istituzionali del capo del governo". La norma sarà valida, per "tutti i processi in corso in ogni fase, stato o grado", solo per 12 mesi in attesa di una riforma costituzionale che reintroduca l'immunità parlamentare (già pronta la proposta bi-partisan Chiaromonte-Compagna). Naturale che Berlusconi non si fidi dell'escamotage o della solidità di quel "ponte". Perché dovrebbe vedere garantita la sua salvezza in una legge (il "legittimo impedimento") che oltraggia la Costituzione in attesa che la Costituzione venga poi riscritta per cicatrizzare la ferita? Un pasticcio, come nemmeno un Ghedini potrebbe organizzare. È ovvio che il capo del governo vorrà raddoppiare la sua pressione sull'opposizione, sul capo dello Stato, sulla magistratura, sull'opinione pubblica con l'uno e l'altro dei provvedimenti ("processo breve" e "legittimo impedimento") per ottenere il consenso ad aprire subito (e al diavolo il governo e le difficoltà del Paese) una "stagione costituente" che assegni alle Camere il potere di "disporre, a garanzia della funzione parlamentare, la sospensione del procedimento per la durata del mandato" (così si legge nel disegno di legge Chiaromonte-Compagna).

Ora si ascoltano molti pareri favorevoli al ritorno irrobustito dell'immunità parlamentare. Poco male. Allarma che l'opposizione - e anche segmenti di una magistratura stressata e "stanca di guerra" - non si accorgano che la revisione dell'immunità (il Cavaliere deve farsela approvare anche dall'opposizione perché, impopolarissima, non supererebbe il referendum) è nelle manifeste intenzioni di Berlusconi la cruna attraverso cui infilare il cammello della "costituzionalizzazione" di se stesso, dell'anomalia dei suoi interessi confusi e sovrapposti, il congegno per potenziare un potere che immagina limitato da troppi contrappesi (parlamento, ordine giudiziario, capo dello Stato, Corte costituzionale). A Bonn è stato fin troppo chiaro, a questo proposito. È dunque la riforma della Costituzione l'ancoraggio finale di una strategia cominciata oggi con l'approvazione al Senato del "processo breve". L'agenda politica può essere favorevole per il progetto. Dopo le elezioni regionali (marzo), non si voterà per tre anni. Lontano dagli elettori, il sistema politico potrà ritornare sordo e autoreferenziale. Le carte sono già in tavola, se le si vuole vedere. L'Egoarca chiede che la Costituzione diventi strumento di chi governa, Instrument of Government, dispositivo per esercitare il potere. Ci si sarebbe aspettato che, nella sinistra nouveau style, qualche autorevole oracolo ricordasse che la Carta fondamentale della Repubblica è figlia di un costituzionalismo che non l'ha immaginata strumento di governo ma di garanzia contro gli abusi del potere. Al contrario, evocando la "bozza Violante" (fine del bicameralismo perfetto, riduzione del numero dei deputati, Senato federale), le menti soi-disant "realiste" dell'opposizione sembrano convolare verso la linea tracciata dall'Egoarca. Enfatizzano la modernità della "bozza", ne occultano in pubblico il più autentico obiettivo: il rafforzamento dei poteri del premier. Che, una volta immunizzato per sempre, è appunto l'obiettivo dell'Egoarca.

Bisogna prendere atto oggi che non si odono voci responsabili che denuncino quanto possa essere pericoloso imboccare questa strada. "Chi ci salverà da Berlusconi, "padre costituente"?", si chiedeva nel 2004 lo storico Sergio Luzzatto. La risposta provvisoria è oggi questa: a livello politico, nessuno sembra aver voglia di salvarci. Chi potrebbe farlo o tace o dissimula le sue intenzioni. Soffiano arie bicamerali e, dopo il voto regionale, infurieranno impetuose, aggressive e libere.

© Riproduzione riservata (21 gennaio 2010)
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« Risposta #139 inserito:: Gennaio 23, 2010, 06:02:37 pm »

IL COMMENTO

La filastrocca del complotto

di GIUSEPPE D'AVANZO


È "una persecuzione e, come sempre, prima delle elezioni", dice Berlusconi come da copione. C'è qualcuno che ancora può credere che i tempi di un'indagine possano essere regolati sull'agenda politica? Niccolò Ghedini, il chierico per eccellenza, finge di crederlo e lo suggerisce. È il primo a uscire allo scoperto. Ghedini indossa molte maschere nel teatro di Silvio Berlusconi. È l'avvocato delle difese corsare che proteggono il presidente del consiglio negli affari milanesi.

È il soprintendente, controllore e coordinatore, di un multiforme sistema legale - nazionale e internazionale - che si preoccupa di rappresentare trasversalmente gli interessi di imputati e testimoni che potrebbero mettere nei guai, da Bari a Los Angeles, il capo del governo. È il parlamentare che ispira, sulle questioni di giustizia, i lavori della Camere. È il ministro di giustizia effettivo, anche se in via Arenula non ci mette mai piede: Angelino Alfano è solo l'attor giovane in scena e si può essere Guardasigilli anche da Palazzo Grazioli o Villa San Martino. Di Ghedini sono le sofisticherie, le furberie, i mostri disseminati - senza risultato, finora - nei codici e nelle procedure per evitare al Cavaliere processi e sentenze. L'avvocato di Padova ha imparato da Berlusconi un'arte affabulatoria, con il tempo diventata monotona. Ricordate? Al Cavaliere capitò di negare - e con sdegno - di aver riformato a uso proprio il falso il bilancio e le rogatorie. Me lo imponevano le norme europee, disse.

La pretesa di negare quel che tutti sanno e ricordano è la strategia abituale di Berlusconi e Ghedini. La si può rappresentare così: in pubblico, respingere ogni evidenza con un assalto istrionesco e idrofobo appena una toga si avvicina al Cavaliere (seguirà tempesta mediatica dei giornali della casa e la claque dei Tg obbedienti). In tribunale, in assenza di giudici pieghevoli, difesa a istrice, asfissia ostruzionistica, infiniti cavilli perditempo. In parlamento, leggi ad personam. Dinanzi all'opinione pubblica, denuncia dell'aggressione giudiziaria.

Lo spettacolo va in scena anche ieri sera quando diventa ufficiale che il pubblico ministero di Milano ha concluso le indagini sui metodi di Mediatrade ipotizzando per Silvio Berlusconi l'appropriazione indebita delle risorse di Mediaset (quotata in Borsa).
Il fabulario di Berlusconi e Ghedini prevede a questo punto l'evocazione (noiosissima) di un complotto politico: i pubblici ministeri colpiscono ora "perché si sta riformando la giustizia e a marzo si vota per le regionali". Dimentica, l'avvocato mille maschere, che addirittura da ottobre 2009 si sa che quell'indagine è di fatto chiusa. Ghedini ne conosce il merito, le fonti di prova, gli atti, i documenti, le testimonianze, i tempi e l'impianto organizzato dall'accusa, ma gridare all'accanimento investigativo è sempre una buona medicina per non affrontare i fatti.

I fatti? Dove sono i fatti? Quali sono? È il secondo passo, rituale come una filastrocca precostituita. Dice Ghedini: "Le contestazioni mosse hanno dell'incredibile sia per il contenuto sia per gli anni a cui si riferiscono, periodo in cui Silvio Berlusconi non aveva la benché minima possibilità di incidere sull'azienda". Anche una superficiale verifica smaschera il gioco. L'affarismo societario nascosto in Mediatrade affiora con una domanda: perché un gigante come Mediaset rinuncia a trattare i diritti televisivi direttamente con le majors per affidare la faccenda a un egiziano diventato cittadino americano, Frank Agrama? Il pubblico ministero ritiene di avere dimostrato che Agrama acquistava i diritti e poi li rivendeva alle società di Berlusconi "a prezzi enormemente gonfiati". A Los Angeles li comprava a cento. A Milano li rivendeva a mille. E la differenza tra cento e mille restava all'estero e Agrama si preoccupava, molto curiosamente, di "restituire" i profitti su conti nella disponibilità di manager Mediaset, in Svizzera, nel Principato di Monaco, alle Bahamas.

Possibile che Berlusconi si facesse truffare come un sempliciotto da quell'americano? O non è il caso di pensare che quell'Agrama sia un socio occulto di Berlusconi? Purtroppo per Ghedini, come per la corruzione di David Mills, nell'inchiesta oggi conclusa appaiono testimoni che, cittadini di un altro mondo dove mentire è pericoloso e indecente, la raccontano tutta. Come Bruce Gordon, responsabile della vendite della Paramount. Dice Gordon: "In Paramount le società di Agrama sono indistintamente indicate come Berlusconi companies e l'esposizione creditoria come Berlusconi receivables". Gordon dice che l'ascesa al governo di Berlusconi non ha mutato di una virgola quella situazione. "Agrama - ricorda Bruce Gordon - ci diceva che continuava a riferire a Silvio Berlusconi sulle negoziazioni per l'acquisto dei film anche dopo la sua nomina a presidenza del consiglio". Dunque, non esistevano gli affari di Agrama, ma soltanto quelli di Berlusconi. Che poi il Cavaliere governasse un paese, che importa?
Questo il quadro (ipotetico, beninteso). Questi i fatti che - certo - possono essere controversi ed è per questo che si fanno i processi: in un processo leale (quindi, giusto), "la difesa è una forza che resiste all'accusa e non che sfugge all'accusa". Ma nonostante sia il suo mestiere, Ghedini disprezza la discussione del merito. Provoca, protesta, deplora, inventa paesaggi sublunari preferendo lavorare alla malfamata immunità ora che il "processo breve" è stato approvato al Senato e il legittimo impedimento lo sarà alla Camera. È una fenomenologia (o una commedia?) che non ha nulla di nuovo. Come nulla di nuovo s'annuncia nel "discorso agli italiani" che Berlusconi minaccia nella notte.

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« Risposta #140 inserito:: Febbraio 01, 2010, 10:33:20 am »

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Le campagne del Cavaliere contro la stampa

di GIUSEPPE D'AVANZO

Indifferente al significato dell'impegno internazionale che lo attende da oggi in Israele, Berlusconi riesce a parlare, in un colloquio con Haaretz, delle sue personali contrarietà domestiche ficcandole senza imbarazzo tra la politica di colonizzazione dei territori arabi, le relazioni diplomatiche tra Tel Aviv e Damasco, il minaccioso programma nucleare di Teheran. Prigioniero di se stesso, l'Eletto non può concepire agenda nazionale e internazionale che non preveda la glorificazione della sua azione di governo, l'autoelogio, un'incontrollata quantità di menzogna politica. Come un bambino capriccioso che sorride, piagnucola e ringhia se non lo si coccola come desidera, Berlusconi chiede all'appuntamento internazionale l'applauso che gli assicuri un qualche restyling della sua compromessa credibilità di "uomo di Stato". Vaste programme, che lo costringe a parlare di se stesso anche in quest'occasione.

Lo fa nel solito modo: "Sono stato vittima per molti mesi di una campagna di stampa che è stata probabilmente la più aggressiva e calunniosa di quante ne siano mai state condotte contro un capo di governo. Ho subito aggressioni politiche, mediatiche, giudiziarie, patrimoniali e anche fisiche".
Sono parole sventurate per più ragioni. È inopportuna l'occasione, soprattutto. I problemi aperti in Medio Oriente dovrebbero apparire al presidente del Consiglio più rilevanti delle sue personali difficoltà. È sbagliato il luogo in cui mette in scena il suo piagnisteo contro l'informazione e la giustizia. Israele è una democrazia che sa essere severa contro gli errori e le debolezze di chi governa. Nel corso del tempo, ne hanno fatto le spese anche "padri della patria" come Yitzhak Rabin e Ariel Sharon. Un capo di Stato, Moshe Katzav (Likud), ha dovuto lasciare l'incarico e affrontare un processo per molestie sessuali. Dopo insistenti inchieste giornalistiche   -  anche della tv pubblica  -  due ministri, Avraham Hirschson (Kadima) e Shlomo Benizri (Shas), sono stati condannati a cinque e quattro anni di carcere per corruzione e riciclaggio. L'anno scorso, con un anno di anticipo sulla fine del mandato, il premier Ehud Olmert (Kadima), accusato di corruzione, si è dimesso pur dichiarandosi innocente con parole che non ascolteremo mai dalla voce di Berlusconi: "Sono orgoglioso di essere il primo ministro di un Paese che indaga i suoi primi ministri, in cui nessuno è al riparo dalla legge".

Sono parole che avrebbero dovuto consigliare a Berlusconi una maggiore discrezione tanto più che la metà dei cittadini del nostro Paese, come Olmert, pensa che nessuno  -  tanto meno chi governa protetto da un micidiale conflitto d'interessi  -  possa essere messo "al riparo della legge". Soprattutto se deve dar conto di condotte che lo hanno visto corrompere giudici e testimoni e truffare il fisco, e lo vedono manipolare la produzione legislativa a suo vantaggio anche al prezzo di sfasciare l'amministrazione della giustizia, cancellare la certezza della pena, trasformare l'Italia nel Paese più criminofilo d'Occidente.

Il vittimismo consegnato a Haaretz è infine il clamoroso smascheramento di una congiuntura politica nazionale. Ripropone il canone di un "regime della menzogna" che inganna l'opinione pubblica intenzionalmente e consapevolmente, ben sapendo che cosa si sta deliberatamente nascondendo. Berlusconi avrebbe potuto far tesoro della solidarietà umana e politica ricevuta dopo l'aggressione di piazza Duomo per inaugurare una nuova stagione. Al contrario, egli svela come ogni auspicio di dialogo sia soltanto una strategia di comunicazione vuota. Ancora una volta soltanto finzione, menzogna. L'Egoarca assimila il gesto di un pazzo a una catena di eventi politici, che egli stesso ha provocato, ancora tutti aperti. Oggi come ieri, attuali. Il ritorno alla ribalta delle candidature di "veline" ripresenta la commistione pubblico/privato, l'umiliazione di una rappresentanza politica degradata a fatto privato, quel disprezzo delle donne che ha convinto Veronica Lario a parlare, in primavera, di "ciarpame politico". L'accusa, lanciata dall'house organ di famiglia di un "complotto" ordito da un network di "magistrati, politici e giornalisti" attraverso Patrizia D'Addario per screditare il capo di governo, riscrive nell'agenda politica la questione della "vulnerabilità" di Silvio Berlusconi. Perché delle due, l'una. O Panorama, nonostante le smentite della Procura di Bari, dispone di riscontri a quell'ipotesi di cospirazione e si ha la dimostrazione che le domande, eluse dal presidente del Consiglio per mesi, hanno ancora oggi un fondamento di grande interesse perché è in gioco la sicurezza nazionale (quali sono oggi i comportamenti del capo del governo? Le condotte di ieri lo hanno reso prigioniero di pressioni che non conosciamo?). O Panorama non ha riscontri coerenti con le sue accuse e affiora di nuovo una questione già intravista in autunno: la "macchina del fango" che un potere politico, mediatico ed economico, concentrato in una sola mano, può muovere contro tutti coloro che, per ragioni diverse, sono considerati "nemici". Come è accaduto, nel corso del tempo, a una moglie "ribelle"; al direttore dell'Avvenire troppo critico; al presidente della Camera troppo perplesso; all'editore, al direttore, ai giornalisti di un gruppo editoriale troppo interrogativo.

Se saltasse fuori che il complotto di Panorama non è altro che un bluff, diventerebbe necessario e attuale verificare come alcune testate della casa editrice del capo del governo abbiano trasformato scientificamente lo scandalo in uno strumento di lotta per il potere politico minacciando per l'oggi e il domani la reputazione dei non conformi, dei dissenzienti o semplicemente dei neutrali. Nel caleidoscopio delle verità rovesciate che organizza, Berlusconi si rappresenta  -  anche in occasioni molto inopportune  -  come vittima di "campagne di stampa e aggressioni", ma càpita che i fatti siano ostinati e potrebbero dimostrare presto come sia proprio il presidente del Consiglio l'accorto regista della black propaganda che avvelena il Paese, l'architetto di una menzogna pubblica che compromette la res publica, lo spazio democratico e la possibilità di gettarci alle spalle l'odio che Berlusconi alimenta con sapienza comunicativa. Anche quando è all'estero.

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« Risposta #141 inserito:: Febbraio 02, 2010, 02:19:16 pm »

IL COMMENTO

L'impunità assoluta

di GIUSEPPE D'AVANZO


Senza alcun dibattito pubblico, le immunità per le oligarchie politiche e le burocrazie dello Stato, che si rendono obbedienti, appaiono il canone che ispira le mosse del governo e la produzione legislativa della maggioranza.

Si fa largo l'idea di "un primato della politica" che vuole rendere indiscutibile, per chi ha il potere, una protezione assoluta nei confronti del controllo di legalità. Ovunque si guardi, si può afferrare la tendenza della politica a costruire schermi, muri, privilegi, autoesenzioni. In una sola giornata, si possono cogliere due segni della pericolosa asimmetria che incuba, nascosta, nel Palazzo.

Un disegno di legge, in discussione al Senato (relatore Piero Longo, avvocato di Berlusconi), prescrive ai giudici come valutare le fonti di prova offerte dai "disertori" delle mafie. Se il progetto diventasse legge, le dichiarazioni rese dal coimputato (e da imputati di procedimento connesso) avrebbero valore probatorio "solo in presenza di specifici riscontri esterni". Anche se il dibattimento riuscisse a raccogliere "riscontri meramente parziali", quelle dichiarazioni sarebbero "inutilizzabili". Sono norme che possono disarticolare annientandole, dal punto di vista giudiziario, le dichiarazioni di quei testimoni dei processi di mafia che impropriamente diciamo "pentiti". Quanti saranno i processi che "moriranno" per infarto legislativo? E che ne sarà della lotta alle mafie, glorificata appena qualche giorno fa dall'intero governo a Reggio Calabria?

Non è una novità che i ricordi, le accuse dei "collaboratori di giustizia" debbano avere verifiche "interne" ed "esterne", conferme "intrinseche e estrinseche", come si dice nel gergo dei legulei. Si sa che non sono sufficienti le dichiarazioni incrociate. Lo ha stabilito, e da tempo, la Corte suprema di Cassazione, chiarendo però che se due "disertori" concordano con una ricostruzione dei fatti, il lavoro del giudice deve accertare "in modo scrupoloso e meditato, l'autonomia di ogni singola collaborazione. In caso di positiva verifica di attendibilità, dalla convergenza delle dichiarazioni devono trarsi tutte implicazioni del caso. Si deve in particolare dedurre l'efficacia di riscontro reciproco delle dichiarazioni convergenti e il consolidamento del quadro di accusa". (Corte Suprema di Cassazione, Sezione VI Penale, Sentenza n. 542/2008, sul cosiddetto caso Contrada).

Ora, è fin troppo facile farsi venire cattivi pensieri, in tempi di leggi ad personam. E' fin troppo semplice intuire che la norma contro i testimoni di mafia nasca, d'improvviso e segreta, quando all'orizzonte del processo contro Marcello Dell'Utri appare Gaspare Spatuzza, che non esita a chiamare in causa anche il presidente del Consiglio. Con la nuova legge, anche se Filippo e Giuseppe Graviano avessero confermato in aula il racconto del loro compare, l'intera ricostruzione sarebbe stata inutilizzabile.

Qui però preme rilevare altro, la volontà del legislatore di creare argini così ferrei da impedire e restringere i "naturali" margini di autonomia interpretativa del giudice. Si vieta ogni interpretazione della legge. Si afferma l'idea di un giudice che si conformi rigidamente alla volontà del legislatore anche a costo di accantonare principi costituzionali, ragionevolezza, buon senso, convincimento logico. Affiora una concezione "assolutistica" del "primato della politica" sulla giurisdizione.

La tendenza è ancora più evidente nelle conclusioni del caso Abu Omar. L'uomo, Osama Nasr Moustafà (Abu Omar è il nome religioso), è l'imam nella moschea di viale Jenner a Milano. Ha 39 anni, è egiziano, in Italia è protetto dal diritto di asilo. La Cia lo accusa di essere un "terrorista" di Al Qaeda. E' una cinica astuzia, abituale nella stagione della "guerra al terrore". L'accusa è un modo per dare pressione al povero disgraziato, metterlo con le spalle al muro schiacciato da un'alternativa del diavolo: o collabora con l'intelligence americana e italiana e si fa spia tra i suoi o Cia e Sismi (l'intelligence italiana diretta da Niccolò Pollari) lo incappucciano, lo sequestrano, lo spediscono nella sala di tortura di un carcere nordafricano dove la sua ostinazione a conservarsi "integro" verrà messa alla prova. E' quel che accade all'egiziano. Chi rapisce Abu Omar il 17 febbraio 2002? Un processo a Milano accerta che sono stati agenti della Cia. Che ruolo hanno avuto le barbe finte di casa nostra? Il giudice Oscar Magi ha le idee molto chiare. Scrive, nelle motivazioni, che Niccolò Pollari, il suo staff, i suoi agenti erano a conoscenza dell'azione degli "americani", si sono voltati dall'altra parte e, quando è scoppiata la grana, hanno ostacolo e inquinato le indagini della magistratura. Pollari e i suoi si salvano da una condanna protetti da un segreto di Stato, opposto dai governi Prodi e Berlusconi con un "paradosso logico e giuridico": sul sequestro di Abu Omar non c'è segreto, ma il segreto impedisce di accertare le responsabilità di chi ci ha messo le mani. Il giudice di Milano osserva che l'iniziativa del governo estende "l'area del segreto in modo assolutamente abnorme" trasformando il segreto di Stato "in un'eccezione assoluta e incontrollabile allo stato di diritto".

Un'interpretazione "pericolosa" che, anche in presenza di reati gravissimi (il sequestro di persona lo è), offre alle barbe finte "un'immunità di tipo assoluto non consentita da nessuna legge di questa Repubblica" e affidata all'arbitrio dell'autorità.

Qui è l'arbitrarietà dell'opposizione del segreto di Stato a mostrarci come la giurisdizione sia umiliata da una politica che impone la sua sovranità e con il suo "primato" offre un'impunità di dubbia legittimità costituzionale a burocrati sottomessi e docili.

Il lavoro dei servizi di informazione deve salvaguardare l'indipendenza e l'integrità dello Stato, tutelare lo Stato democratico e le istituzioni che lo sorreggono. Il segreto è lo strumento che consente all'intelligence di difendere gli "interessi supremi". Che sono "l'integrità della Repubblica; la difesa delle Istituzioni; l'indipendenza dello Stato rispetto agli altri Stati; la preparazione e la difesa militare dello Stato". Nessuno di questi interessi può essere minacciato dall'accertamento di che cosa è accaduto - e con la responsabilità di chi - quella mattina del 17 febbraio del 2003, a meno di non pensare che diventi legale un sequestro di persona e legittima la violazione della Costituzione e della Dichiarazione dei diritti dell'uomo. Il governo ritiene, dunque, che sia nelle sue prerogative anche la tutela di un interesse non "supremo" ma politico disegnando quindi, ancora una volta, una scena che attribuisce una signoria della politica sulla legge. Se ne scorge l'esito. La regola non è più la pubblicità e il segreto, l'eccezione. Al contrario, il segreto diviene (può divenire da oggi) pratica d'uso quotidiano di un presidente del Consiglio che decide, alla luce di un interesse tutto politico, che cosa si può conoscere e che cosa deve restare pubblicamente nascosto.

Il legislatore che, rivendicando un "primato", si cucina per sé e per la sua oligarchia una protezione dalla legalità e un governo che rifiuta di governare in pubblico pretendendo per sé un potere sovrano e segreto non separano soltanto la legittimità dalla legalità, ma anche la democrazia dalla Costituzione. Sembra questo il più autentico focus della stagione che ci attende. 

(02 febbraio 2010)
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« Risposta #142 inserito:: Febbraio 03, 2010, 09:23:34 am »

IL COMMENTO

Il Cavaliere, il Vaticano e la congiura contro Boffo

di GIUSEPPE D'AVANZO

C'E' STATO, dunque, dentro le gerarchie di Santa Romana Chiesa una cospirazione. Il segretario di Stato, Tarcisio Bertone, muove contro la Conferenza Episcopale Italiana di Angelo Bagnasco. Francesco Cossiga - con l'occhio lungo di chi è abituato a vedere nel sottofondo dei poteri - rivela le ragioni per tempo. Il presidente emerito della Repubblica, adeguatamente informato, anticipa tutti, quasi disegna nel minuto ciò che accadrà presto, le teste che cadranno, le forze in campo, la posta politica in gioco. Berlusconi è sotto tiro. Ci si è cacciato da solo, in un angolo, festeggiando una minorenne. La sua vita sconveniente piace poco o punto alle parrocchie e ai parroci, che non tacciono imbarazzo e amarezza in lettere all'Avvenire. Il monsignor Mariano Crociata, segretario generale della Cei, ascolta quelle voci e lamenta: "Assistiamo a un disprezzo esibito nei confronti di tutto ciò che dice pudore, sobrietà, autocontrollo e allo sfoggio di un libertinaggio gaio e irresponsabile che invera la parola lussuria. Nessuno deve pensare che in questo campo non ci sia gravità di comportamenti o che si tratti di affari privati; soprattutto quando sono implicati minori, cosa la cui gravità grida vendetta al cospetto di Dio" (6 luglio, Ferriera di Latina).

Cossiga prende di petto il segretario della Cei: "Si è passato il segno. Altro che "festini e libertinaggio": sarebbe bastata una dichiarazione sull'etica, riferita alla situazione generale, come si è sempre fatto". Insistere su questi temi, ragiona Cossiga, svela "una spaccatura che riguarda la politica, non l'etica". Ecco la scena che egli vede: "Vogliono tenersi buona una parte dell'episcopato e del movimento ecclesiale, vicino al centro-sinistra. Hanno puntato sul Pd di Franceschini, tirano la volata all'unico leader post-dc rimasto.
Se il direttore dell'Avvenire vanta che, all'interno del suo giornale, ognuno decide liberamente a chi devolvere l'8 per mille, siamo in presenza di un gruppo in dissidenza non con il centro-destra, ma potenzialmente con la parte della Chiesa che fa capo al Papa". Cossiga è brutale con il direttore dell'Avvenire: "Non riesco a dare nessuna spiegazione agli scritti del non reverendo Boffo che, posto inopportunamente alla direzione del giornale pur sempre organo ufficiale della Cei, dovrebbe astenersi da questi continui attacchi, dovuti in parte alle sue note preferenze politiche, ammantate da scelte religiose" (il Giornale, 24 agosto).


* * *

Le parole di Francesco Cossiga raccontano a chi ha orecchie per intendere

(1) perché il giornale del capo del governo colpisce qualche giorno dopo Dino Boffo;

(2) per chi suona la campana della sua character assassination;

(3) chi deve trarre vantaggio dallo scandalo che è già in cottura. Berlusconi è in bilico, pericolosamente fragile. Lo rendono vulnerabile le sue abitudini. Lo indeboliscono i comportamenti privati. Ancor più lo debilitano le reazioni paralizzate che oscillano dalla menzogna pubblica a un silenzio impotente, screditandolo sulla scena internazionale e tra il suo elettorato. Lo segnalano i sondaggi. I consiglieri politici che gli sono accanto comprendono che, se anche i vescovi italiani gli muoveranno pubblicamente contro - come lascia credere l'intervento del segretario della Cei - il capo del governo sarà fritto, la sua stagione politica arriverà a un triste capolinea.

In questo campo di tensioni politiche, religiose e linee di forza, più schiettamente, di potere, il direttore dell'Avvenire Dino Boffo diventa il magnete che attrae l'intero spettro delle reazioni alla situazione critica; l'obiettivo contro cui si scarica il desiderio della Curia romana di regolare i conti con un episcopato reso troppo autonomo dalle politiche di Camillo Ruini; la volontà del segretario di Stato Tarcisio Bertone di sostenere il periclitante Silvio Berlusconi e di riprendere nelle sue mani la guida della Chiesa italiana; la determinazione del Cavaliere ad aggredire "colpo su colpo", chiunque - familiare, alleato, oppositore, editore, giornalista - gli si pari davanti, critico. Scannare Dino Boffo, come sempre accade al capro espiatorio, è una lucidissima necessità terapeutica. È un esercizio che aggira le contraddizioni che non si riescono a risolvere (può una Chiesa che chiede "pudore, sobrietà, autocontrollo" affidarsi a un "libertino irresponsabile"?). È la manovra che consente di rinviare la soluzione del problema (possono i cattolici italiani guardare con fiducia e rispetto a Berlusconi?). È la mossa che può liquidare dal proscenio un "uomo-istituzione", per di più laico, cui i gerarchi ecclesiali, con il rancore di molti, hanno affidato il governo dell'intero media-system cattolico, l'Avvenire, Sat 2000, la televisione sulla quale la Cei riversa importanti risorse, InBlu, il network radiofonico di ben 200 radio. Sul capo di Dino Boffo si precipitano un odio e un risentimento assoluti. Si intravedono molte mani al lavoro e sempre le loro mosse sono intenzionali.

* * *

Sulla scena appaiono ora i congiurati. Sono stati chiamati in causa, in questi giorni. Bisogna dirne il nome e il cognome. Sono il segretario di Stato, Tarcisio Bertone. Il direttore dell'Osservatore romano, Gian Maria Vian. Le informazioni distruttive si possono raccogliere, fabbricare o distorcere isolando un fatto vero dal suo contesto e manipolandolo con cura. È la politica dello scandalo. Ha i suoi protocolli. Vengono rispettati anche in questo caso. Per distruggere Dino Boffo, i congiurati hanno a disposizione una muffa. La si conosce da cinque anni: una condanna penale per molestie che il direttore dell'Avvenire, per proteggere un suo assistente, ha accettato rifiutando il giudizio e l'appello. Può non bastare (è roba già vista, è aria fritta) e, dunque, grazie ai buoni uffici di un qualche spione (secondo fonti vicine a Boffo, un professore dell'Università Cattolica di Milano), "Sua Eccellenza" chiede informazioni. Le riceve. Trenta righe, precedute dalla dicitura "Riscontro a richiesta di informativa di Sua Eccellenza". Nel testo si legge la calunnia che taglierà la testa al capro espiatorio ricomponendo l'ordine compromesso: "Il Boffo è un noto omosessuale già attenzionato dalla Polizia di Stato per questo genere di frequentazioni e gode indubbiamente di alte protezioni, correità e coperture in sede ecclesiastica". Il veleno assassino è pronto. Ora bisogna provocare una "fuga di notizie" rimanendo fuori della mischia e lasciando che il lavoro sporco sia completato dai giornali.

* * *

L'azione intenzionale di chi, "primo ministro" (Bertone), pretende un riequilibrio di poteri che ridimensioni l'autonomia della "Chiesa nazionale italiana", perché "non ci possono essere "piccoli vaticani" sparsi nei cinque continenti" (Vittorio Messori), incrocia il disegno del presidente del Consiglio che, in estate, ha riorganizzato la sua "mischia mediatica", ha deciso di muovere contro i suoi avversari, autentici e presunti. Ha stilato una lista di nemici e vuole demolirli. Licenzia quelli tra i suoi che gli appaiono incerti. Vuole sicari pronti a sporcarsi le mani. Che il piano sia questo, lo svela Mario Giordano, costretto a lasciare la direzione del Giornale: "Nelle battaglie politiche non ci siamo certi tirati indietro (...) Ma quello che fanno le persone dentro le loro camere da letto (siano essi premier, direttori di giornali, editori, ingegneri, first lady, body guard o avvocati) riteniamo siano solo fatti loro. E siamo convinti che i lettori del Giornale non apprezzerebbero una battaglia politica che non riuscisse a fermare la barbarie e si trasformasse nel gioco dello sputtanamento sulle rispettive alcove" (il Giornale, 21 agosto). Giordano non poteva essere più chiaro: l'editore e premier mi ha chiesto di fare del mio quotidiano una bottega di miasmi, per decenza non me la sono sentita e lascio l'incarico a chi quel lavoro sporco è disposto a farlo.

Vittorio Feltri, il nuovo arrivato, è disposto, altro che. Scrive che "il suo fucile è carico". Gian Maria Vian lo avvicina. Gli fa consegnare il dossier manipolato, "autenticandolo". Lo rassicura: è un'iniziativa voluta dal cardinale Bertone. A delitto consumato, il segretario di Stato telefonerà a Feltri (secondo una confidenza sfuggita a Boffo con i suoi collaboratori) ringraziandolo per "aver reso un servizio alla Chiesa e al Papa". Ma non è la Chiesa che il direttore del Giornale vuole servire. Egli è al servizio del suo editore e di una nuova strategia politica che altera il giornalismo in calunnia. Una tecnica di minacciosa disinformazione che vuole terrorizzare gli avversari politici, intimorire tutti affinché chiunque smarrisca "la serenità di lavorare" e i giornalisti "la possibilità di raccontare senza doversi aspettare ritorsioni" (Roberto Saviano). Quando ascolta Vian, il nuovo direttore sa bene qual è la sua missione. Non si prende nemmeno la briga di dare un'occhiata a quelle carte false (falsa è la "nota informativa" che offrirà al suo pubblico come documento giudiziario). Le pubblica. È il 28 agosto del 2009.

Dopo cinque mesi la menzogna che, nel mondo meraviglioso di Silvio Berlusconi, nasconde la realtà vuole farci credere che l'"assassinio" di Dino Boffo è stato ideato e consumato soltanto nelle stanze vaticane. Dovremmo dimenticare oggi che sulla scena di quel delitto ci sono anche le impronte del Cavaliere. La character assassination del direttore di Avvenire (mai illuminata nei mandanti e nei moventi da alcun giornale) è l'esito di due azioni intenzionali che, come Cossiga ci ha spiegato in anticipo, sono state organizzate per dare "a ciascuno, il suo". A Tarcisio Bertone il governo (anche politico) dell'episcopato italiano. A Silvio Berlusconi, una via d'uscita da guai che, con l'abbandono della Chiesa, potevano travolgerne il destino. Una eccellente occasione di rappresentarsi come un potere che, nelle difficoltà, non avrebbe rinunciato a mostrare - con i dossier, l'intimidazione, di lì a poco colpiranno Napolitano, Fini, la Corte Costituzionale - la violenza pura che custodisce.

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« Risposta #143 inserito:: Febbraio 09, 2010, 09:30:50 am »

IL COMMENTO /

Le rivelazioni di Massimo Ciancimino

Se fondate, sono accuse catastrofiche per la nostra democrazia

L'obbligo di chiarire quella leggenda nera

di GIUSEPPE D'AVANZO


I MORTI non si possono smentire e i vivi hanno difficoltà a difendersi dalle parole di morti. È una condizione che crea inestricabili ambiguità. Si ascoltano con disagio le rivelazioni di Massimo Ciancimino. Le ragioni sono due. La prima può avere come titolo: il morto che parla. Perché a parlare con la voce di Massimo, il figlio, è Vito Ciancimino, il padre, il mafioso corleonese, il confidente di uno Stato debole e compromesso, il consigliere politico di Bernardo Provenzano. Anche se Massimo Ciancimino mostra di tanto in tanto una lettera o un pizzino, sono soprattutto i ricordi delle sue conversazioni con il padre la fonte delle accuse contro Silvio Berlusconi e Marcello Dell'Utri.

Ricordiamole perché, se fondate, quelle accuse sono catastrofiche per la nostra democrazia (un uomo, che si è fatto imprenditore con il denaro della mafia e politico con la sua protezione, governa il Paese). Se menzognere e maligne, indicano che contro il capo del governo è in atto un'aggressione ricattatoria che fa leva su alcune oscurità della sua avventura umana e professionale. La mafia, dice Ciancimino, finanziò le iniziative imprenditoriali del "primo Berlusconi" (Milano2). Marcello Dell'Utri sostituì Vito Ciancimino nella trattativa tra lo Stato e Cosa Nostra innescata dopo la morte di Giovanni Falcone (23 maggio 1992) e la nascita di Forza Italia, nel 1993, è stata il frutto di quel pactum sceleris.

I ricordi del giovane Ciancimino inverano, con la concretezza di una testimonianza "diretta", la cattiva leggenda che accompagna da decenni il racconto mitologico della parabola imprenditoriale del presidente del Consiglio. Si può dire così: quelle dichiarazioni riordinano in un resoconto esaustivo e "chiuso" l'intera gamma delle incoerenze che Berlusconi e i suoi collaboratori nella fondazione dell'impero hanno lasciato nel tempo incancrenire per non volerle mai affrontare. Come già è accaduto
quando in un'aula giudiziaria è apparso Gaspare Spatuzza, si deve ricordare che Cosa Nostra è tra gli anni settanta e ottanta molto vicina alle "cose" di Silvio Berlusconi e ricompare ancora nel 1994 quando il ministro dell'Interno dell'epoca, Nicola Mancino, dice chiaro che "Cosa Nostra garantirà il suo appoggio a Forza Italia".

I legami tra Marcello Dell'Utri e i mafiosi di Palermo non sono una novità. Come non sono sconosciuti gli incontri tra Silvio Berlusconi e la crème de la crème di Cosa Nostra (Stefano Bontate, Mimmo Teresi, Tanino Cinà, Francesco Di Carlo). Né sono inedite le rivelazioni sulla latitanza di Gaetano e Antonino Grado nella tenuta di Villa San Martino ad Arcore, protetta dalla presenza di Vittorio Mangano, capo del mandamento di Porta Nuova. Con quali capitali Berlusconi abbia preso il volo, a metà degli settanta, ancora oggi è mistero inglorioso.

Molto si è ragionato sulle fidejussioni concessegli da una boutique del credito come la Banca Rasini; sul flusso di denaro che gli consente di tenere a battesimo Edilnord e i primi ambiziosi progetti immobiliari, quando ancora Berlusconi non si dice proprietario dell'impresa, ma soltanto "socio d'opera" o "consulente". Quei capitali erano "neri" soltanto perché sottratti al fisco, espatriati e rientrati in condizioni più favorevoli o erano "sporchi" perché patrimonio riciclato delle ricchezze mafiose, come ha suggerito qualche mese fa Gaspare Spatuzza quando disse: "La Fininvest era un terreno di pertinenza di Filippo Graviano, come se fosse un suo investimento, come se fossero soldi messi di tasca sua"? Le parole di Massimo Ciancimino riportano alla luce anche un'ultima e antica contraddizione di Berlusconi e dei suoi cronisti disciplinati, la più bizzarra: la datazione della nascita di Forza Italia nel 1994 e l'ostinato rifiuto a ricordare che le doglie di quel parto cominciarono nella primavera del 1993 da un'idea covata da Marcello Dell'Utri fin dal 1992.

È una rosa di "vuoti" e antinomie che apre spazi al ricatto mafioso. E' uno stato che dovrebbe preoccupare tutti. Cosa Nostra minaccia in un regolamento di conti il presidente del Consiglio. Ne conosce qualche segreto. Ha con lui delle cointeressenze antiche e inconfessabili. Le agita per condizionarne le scelte, ottenerne utili legislativi, regole carcerarie più favorevoli, minore pressione poliziesca e soprattutto la disponibilità di ricchezze che (lascia intuire) le sono state trafugate. Lo ripetiamo. In questo conflitto - da un lato, una banda di assassini; dall'altro un capo di governo liberamente eletto dal popolo, nonostante le sue opacità - non c'è dubbio con chi bisogna stare. E tuttavia il capo del governo (per sottrarre se stesso a quel ricatto rovinoso) e la magistratura (per evitare che un governo legittimo sia schiacciato da una coercizione criminale che ne condiziona le decisioni) sono chiamati a fare finalmente luce sull'inizio di una storia imprenditoriale e sull'incipit di un romanzo politico.

È la seconda ragione di disagio, l'assenza di iniziative politiche e giudiziarie a fronte di denunzie così gravi. Ogni cosa sembra risolversi in una "tempesta mediatica", in una rumorosa e breve baruffa che scatena per qualche giorno sospetti, furori e controsospetti e controfurori senza che si intraveda non un'evidenza in più che scacci i cattivi pensieri o li renda più fondati, ma addirittura non si scorge alcuna attività in grado di spiegare finalmente come stanno le cose. Il risultato è che ce ne stiamo qui stretti tra la possibilità di avere al governo un paramafioso, un riciclatore di soldi che puzzano di morte e la probabilità che l'uomo che ci governa sia ricattato da Cosa Nostra per qualche passo storto del passato. È un circuito che va interrotto nell'interesse di Berlusconi, del suo governo e del Paese, della sua credibilità internazionale.

I modi per chiudere questa storia sono certo laboriosi, forse dolorosi, ma agevoli. La magistratura (per quel che se ne sa, ancora non è stata aperta un'istruttoria) accerti la fondatezza delle testimonianze di Massimo Ciancimino e Gaspare Spatuzza - magari evitando di rovesciarle in un'aula di tribunale, prima di una loro verifica. Berlusconi rinunci a scatenare, come d'abitudine, i suoi cani da guardia e faccia finalmente i conti con il suo passato. Non in un'aula di giustizia, ma dinanzi all'opinione pubblica. Prima che sia Cosa Nostra a intrappolarlo e, con lui, il legittimo governo del Paese. È giunto il tempo che questo conflitto sia affrontato all'aperto e non risolto nel segreto con un gioco manipolato e incomprensibile che nasconde alla vista il ricatto, i ricattatori, la punizione minacciata, ciò che si può compromettere, un nuovo accordo salvifico.

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« Risposta #144 inserito:: Febbraio 11, 2010, 10:31:56 am »

L'EDITORIALE

I burocrati del Cavaliere

di GIUSEPPE D'AVANZO


Berlusconi ricomincia là dove s'era interrotto. Riprende il suo lavoro da Bonn, dallo spirito populista, bonapartista e anticostituzionale che ha accaldato il suo intervento al congresso del Partito Popolare Europeo.

In quell'occasione, il premier denuncia due organi supremi di garanzia: la presidenza della Repubblica e la Corte costituzionale.
Li accusa di essere strumenti politici di parte, al servizio di un "partito dei giudici della sinistra" che avrebbe "scatenato la caccia" contro il premier. Schernisce la Costituzione. Annuncia di volerla, di "doverla" cambiare. In nome del popolo sovrano. Quel giorno, 10 dicembre 2009, diviene chiaro "il sentimento da abusivo con cui il primo ministro italiano abita le istituzioni, mentre le guida".
Egli si sente un estraneo nell'architettura istituzionale che dovrebbe rappresentare. Un estraneo e un prigioniero, perché quell'architettura egli l'avverte come un'armatura che lo soffoca e deprime, mentre pretende di dominarla e maneggiarla come fosse morbida pelle. Quel giorno a Bonn, come osservò Repubblica, è nitida la sfida che Berlusconi lancia: non vuole essere, tra gli altri, garante di un ordinamento. Vuole creare, sotto il segno dello stato d'eccezione, un nuovo ordine che riconosca il suo potere distinto e sovraordinato rispetto a tutti gli altri poteri repubblicani che si bilanciano tra di loro: "il leader del popolo che lo sceglie nel voto", quindi liberato di ogni contrappeso dall'unzione suprema di una sovranità inviolabile.

Venne poi il 13 dicembre, piazza Duomo, quel matto di Massimo Tartaglia, l'aggressione e la violenza, il volto insanguinato del premier e, per settimane, l'estremo grado di intensità di un discorso pubblico declinato intorno alla distinzione di amico/nemico apparve una strada senza uscita a molta parte del Paese. Sfratta ogni illusione di una nuova temperie la sortita che dà avvio, dopo quella crisi, al nuovo anno politico. Come d'abitudine, si consuma in un ambiente "compatibile", protetto dal suo "notaio" televisivo, nelle forme del flusso verbale ininterrotto che eclissa fatti (come la vulnerabilità cui lo espone una vita capricciosa); nasconde le proprie responsabilità (come per la character assassination di Dino Boffo, schiacciato con un documento falso dal suo giornale). Il premier ritorna su un suo chiodo fisso. Rivendica il diritto di decidere quali sono, dove sono i "nemici", quei gruppi professionali che minacciandolo aggrediscono  -  sostiene  -  l'esistenza dello Stato stesso che egli, per volontà popolare, incarna. Naturalmente, a Roma come a Bonn, comincia dai magistrati.
Dice: "Non si può governare attaccati da pubblici dipendenti quali sono i giudici. Rispondere all'uso politico della giustizia con un uso democratico del voto popolare è legittimo e assolutamente doveroso". Lasciamo perdere la solita polemica sull'"uso politico della giustizia". Pare più essenziale osservare che ancora una volta Berlusconi interpreta, con coerenza  -  ieri come oggi e come accadrà domani  -  il quadro politico-istituzionale intorno al divisivo concetto di amico/nemico. I magistrati sono "nemici" perché (come ogni altro organo di garanzia e di controllo) impediscono al sovrano di governare, perché sorvegliano le sue decisioni e quella vigilanza è un ostacolo che crea uno status necessitatis, l'urgenza di provvedimenti legislativi che ne riducano i poteri (con una riforma della giustizia) proteggendo al tempo stesso chi governa dalla loro azione (con le leggi immunitarie). A rendere ancora più chiaro qual è lo spirito "costituente" che agita il premier è il fatto del giorno: l'indagine penale che coinvolge Guido Bertolaso. La coincidenza aiuta a capire.

Il "padrone" della Protezione civile rappresenta alla luce del sole, nel modo più vivido, il nuovo "ordine" che Berlusconi esige.
Bertolaso interpreta il paradigma della "militarizzazione della decisione politica" che il premier immagina debba essere lo strumento d'uso quotidiano del governo, il dispositivo che consente di sospendere le norme, di trasformare il diritto in una decisione che va liberata dal perimetro in cui la costringe la legge. La Protezione civile di Guido Bertolaso ha rappresentato e rappresenta appunto questo: il sostanziale svuotamento della partecipazione politica a vantaggio della verticalizzazione della decisione politica. E' accaduto in alcune occasioni  -  e va detto  -  per evidenti necessità, come per i rifiuti di Napoli e il terremoto dell'Aquila. Ma intorno a queste indiscutibili urgenze, la Protezione civile è cresciuta su se stessa per volontà di Berlusconi, in un vuoto di diritto, con emergenze raccontate e immaginate come estreme o improrogabili. Tutto si è trasformato in stato di necessità. Il G8 della Maddalena; i Mondiali di nuoto; l'Expo di Milano; il quattrocentesimo anniversario della nascita di San Giuseppe da Copertino a Lecce; il congresso eucaristico nazionale, previsto ad Ancona nel settembre del 2011. Conta qui osservare il metodo che la fortuna politica e istituzionale di Bertolaso ci propone, o meglio ci conferma.

In uno "Stato legislativo", dove quel che conta è la legalità e chi esercita il potere agisce "in nome della legge", le burocrazie sono "neutrali", uno strumento puramente tecnico che serve orientamenti politici diversi e anche opposti. Berlusconi non vuole essere l'anonimo esecutore di leggi e norme (lo si sa, lo si è già detto). Egli non intende governare in nome della legge, ma in nome della "necessità concreta". Pretende che lo Stato si muova dietro le "emergenze" (autentiche o artefatte che siano, non importa), vuole che il governo decida delle "situazioni" che ritiene prioritarie. Berlusconi s'immagina alla guida di uno "Stato governativo" che si definisce per la qualità decisiva che riconosce al comando concreto, applicabile subito, assolutamente necessario e virtualmente temporaneo, sempre conflittuale perché esclude e differenzia. Pretende che le burocrazie condividano la capacità di assumersi il suo stesso rischio politico, come fossero un'élite politica e non istituzionale. Ecco come Berlusconi immagina debbano essere i magistrati, "pubblici dipendenti".

È dunque in queste ragioni  -  tutte politiche  -  che va afferrato il più autentico significato della simbiosi tra Berlusconi e Bertolaso: l'uno, l'uomo che decide al di là e oltre le norme; l'altro, l'uomo che lavora nel "vuoto di diritto" che quella decisione crea. Berlusconi forse potrebbe fare a meno dell'intero suo gabinetto, ma non di Bertolaso perché il sottosegretario e direttore della Protezione civile materializza molte condizioni che il premier ritiene costitutive del suo potere: la creazione volontaria di uno stato d'eccezione permanente; una prassi di governo che vive di decreti con immediata forza di legge e trasforma il comando in un ininterrotto "caso d'eccezione"; l'immunità da ogni controllo. Si può concludere chiedendosi come sia possibile in questo clima discutere di riforme costituzionali. Di quale Costituzione si vuole parlare? Di quella che abbiamo o del nuovo "ordine" berlusconiano annunciato a Bonn ieri e a Roma oggi?


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« Risposta #145 inserito:: Febbraio 13, 2010, 04:48:10 pm »

IL COMMENTO / Bertolaso ammette di non aver "controllato tutto"

Ma che qualcosa non andasse per il verso giusto doveva averlo capito da tempo

La difesa fragile del Grande Capo che sapeva tutto

di GIUSEPPE D'AVANZO


I SEVERI - e spesso assai mediocri -  censori del "circo mediatico-giudiziario" dovrebbero prenderne atto. Nello scandalo che umilia la Protezione civile, non è il giornalismo a doppiare, sovrapporsi (o incrudelire) la conduzione giudiziaria di un processo. Accade esattamente il contrario: è stata la magistratura ad accertare, nelle forme dell'indagine penale, le "storie di ordinaria corruzione" che un dignitoso giornalismo aveva già offerto all'attenzione dell'opinione pubblica, del ceto politico, del governo. Non stupisce che, nell'epoca della "crisi del reale", i funzionari della menzogna vogliano convertire questo imbroglio di corruzione pubblica - e umana desolazione - in un episodio di patta e spada con l'usuale appendice di donne deprezzate a benefit e "bustarella". Gli addetti alla adulterazione del discorso pubblico vogliono ridurre l'intera trama alla replica di uno slogan ideologico: il privato non è pubblico, quindi non può essere giudicato. Il segno di questo affaire non è nella segretezza dei comportamenti privati dei protagonisti, ma - al contrario - nella scandalosa pubblicità dei loro traffici pubblici. Chi, senza perdere la faccia, può dire di non aver saputo? Da più di un anno, l'agglomerato "gelatinoso" che accompagna le azioni - extra ordinem - della Protezione civile è stato raccontato nel minuto. Nomi, cognomi, incroci familiari, società, fatturato, bilanci, cointeressenze, partecipazioni, sprechi e inefficienze si sono lette nelle inchieste di Repubblica, l'Espresso, Report, Annozero, il Fatto. La "Premiata ditta Balducci & co."; le relazioni tra i "soggetti attuatori" dei progetti della Protezione civile e imprenditori come Diego Anemone; i poteri senza controllo e le risorse senza fondo di Guido Bertolaso, "l'uomo dalle mani d'oro", costituiscono da oltre un anno il quadro opaco e risaputo cui un governo responsabile e una politica attenta all'interesse pubblico avrebbero dovuto metter mano con prontezza.


* *  *

Ora scrutare all'indietro, e in quel buio, ci consente di valutare, in prima approssimazione, e senza tener conto degli esiti dell'istruttoria penale, l'accountability di Guido Bertolaso. Si può e deve cominciare dalle sue parole. Gli argomenti con cui il sottosegretario e capo della Protezione civile si salvaguarda da accuse e critiche sono tre, in sostanza. Dice: (1) "Qualcuno può aver tradito la mia fiducia, ma non ho elementi per sostenerlo"; (2) "Io non ho seguito direttamente e personalmente la vicenda degli appalti"; (3) "Ha gestito tutto Angelo Balducci (ora è in galera), uno che è diventato presidente del Consiglio superiore dei lavori pubblici, cioè la massima autorità in Italia: non mi pare di aver affidato l'incarico al primo che passava per strada. Dopo di lui, c'è stato un altro "soggetto attuatore" (Fabio De Santis, anch'egli in carcere) ma c'era qualcosa che non mi convinceva e l'ho sostituito con Gian Michele Calvi, un professore di fama internazionale".

Dunque, Bertolaso "si chiama fuori" così: non ha mai visto ombre nella sua Protezione civile; gli uomini che ha scelto erano al di sopra di ogni sospetto; in ogni caso, egli non ha mai messo becco negli appalti. Sono argomenti molto fragili. Che qualcosa non andasse per il verso giusto, Bertolaso lo capisce e lo concede: quel De Santis non gli piace. Lo rimuove dopo cinque mesi. Perché? Con quali "elementi"? A chi comunica i suoi dubbi? Quali verifiche decide per chiudere i "buchi" dei protocolli e delle procedure? Come non è attendibile sostenere che una buona reputazione abbia sempre accompagnato i "soggetti attuatori" prescelti. Il credito degli "attuatori" (il soggetto deputato alla realizzazione del progetto) è al lumicino da tempo. Di Balducci si conoscono gli affari di famiglia che incrociano gli oneri del suo incarico. Angelo, il padre di famiglia, coopta l'Anemone Costruzioni nel risanamento della Maddalena (appalti per 100 milioni). La moglie di Angelo (Rosanna Thau) è in società ("Erretifilm") con la moglie di Diego Anemone (Vanessa Pascucci). Il figlio di Angelo (Filippo) compra con Diego Anemone il centro sportivo della Banca di Roma a Settebagni. Nasce il "Salaria Sport Village".

Anche Gian Michele Calvi è prigioniero di un temperamento familistico (insegna al dipartimento di Meccanica strutturale dell'Università di Pavia; dopo essere stato "attuatore" alla Maddalena, oggi è il direttore del progetto C. A. S. E., la ricostruzione all'Aquila di 183 edifici, 4.600 appartamenti per 17mila persone con appalti per 695 milioni di euro). La "Myrmex" di suo fratello (Gian Luca) rileva chi lo sa perché la malandata "Tecno Hospital" di Giampaolo Tarantini che, per le sue prestazioni di prosseneta, è stato molto caro a Silvio Berlusconi prima che scoppiasse il rumore per le feste in Villa e a Palazzo. Così caro da riuscire a ottenere - grazie a buoni uffici del premier - un incontro privato con Bertolaso per via di un desiderato ingresso del ruffiano nella rosa delle società al lavoro nel post-terremoto aquilano. Nell'affollato intreccio di interessi pubblici, privati e familiari si intravedono ambiguità - se misfatti penali, lo si accerterà - , ma senza dubbio Bertolaso avrebbe dovuto trarne già da tempo "elementi" sufficienti per una qualche diffidenza. Che, invece, contro ogni evidenza, nega ancora oggi. Bisogna chiedersi perché.

La ragione può essere questa: anche Bertolaso partecipa al disinvolto coinvolgimento della sua famiglia nelle "emergenze" affrontate dalla Protezione civile. Suo cognato (Francesco Piermarini) "è stato impiegato nei cantieri della Maddalena ed è in rapporti con Diego Anemone", l'imprenditore in affari (ora è in carcere) con il figlio e (attraverso la moglie) con la moglie di Angelo Balducci. Cadono così due degli argomenti difensivi di Guido Bertolaso. Inchieste giornalistiche gli hanno offerto "elementi" per mettersi in sospetto, per ridimensionare la reputazione dei tecnici che ha scelto, ma il capo della Protezione civile non può denunciare - nemmeno oggi che quelle pratiche sono diventate scandalo - il fondo "gelatinoso" del suo dipartimento perché anche le sue pratiche sono collose quanto le condotte di chi dovrebbe contestare. Le parole di Bertolaso, che possono apparire soltanto un'imprudenza, sono allora il frutto di un deliberato proposito di tacere perché egli è vulnerabile come gli altri. I passi storti di quelli sono equivalenti alle sue mosse molto dubbie.

* * *

Già potrebbe bastare, e invece l'argomento più debole della difesa di Guido Bertolaso lo si rintraccia in un'affermazione che non ha ricevuto finora l'adeguata attenzione. Il capo della Protezione civile dice: "Io non ho seguito direttamente e personalmente la vicenda degli appalti".

Sono parole che decidono in modo definitivo l'accountability di Guido Bertolaso. Egli trattiene nelle sue mani un potere inconsueto. Si muove oltre le norme, in un "vuoto di diritto". Lo "stato di necessità", che lo attiva, gli rende possibile e concreta qualsiasi decisione, anche contro la legge. È un potere eccezionale rinvigorito, come mai è accaduto, anche da privilegio aggiuntivo. Come ha rilevato il senatore Luigi Zanda in Senato, in Bertolaso "sono concentrati i poteri politici del governo (è sottosegretario) e quelli amministrativi di un ufficio pubblico (è il capo del dipartimento)". Egli è dunque il responsabile per eccellenza, l'indiscusso accountable, colui che non solo dirige un progetto, un programma, una misura d'intervento, ma decide anche politiche, priorità, urgenze.

Bertolaso è allora doppiamente "accountable", responsabile: nei confronti del Parlamento come membro del governo, nei confronti del governo come capo del dipartimento. In qualsiasi momento dovrebbe essere pronto a dichiarare in che modo viene eseguito l'incarico, come viene impiegato il denaro, in quale misura sono stati raggiunti gli obiettivi e quali aspettative sono state soddisfatte. Accountability è l'esatto contrario di arbitrio. Presuppone trasparenza, garanzie, assunzione di responsabilità e rendiconto sulle attività svolte, soprattutto sempre l'impegno a dichiararsi. Bertolaso, che non ha esitato a prendere su di sé doppi poteri, con quelle parole ("Nulla so di appalti") rifiuta curiosamente di assumersi le responsabilità che quei poteri gli hanno attribuito. È troppo anche per l'Italietta di oggi. Perché delle due, l'una: o Bertolaso si è occupato degli appalti come il suo incarico gli comanda e oggi non la racconta tutta. O non se n'è occupato, come dice, ed è venuto meno ai suoi obblighi. È un contesto che non può essere liquidato con qualche cronaca, le solite grida rabbiose di Berlusconi contro la magistratura in attesa che i giudici sciolgano tutti i nodi. Ci sono altri e buoni modi per mettere a fuoco quel che è accaduto e accade nella Protezione civile. Il più lineare - anzi necessario perché è in discussione la privatizzazione della Protezione civile - è che Bertolaso faccia in Parlamento il resoconto del suo lavoro e che le Camere ne discutano con rigore, mentre il governo fermi e corregga il suo decreto legislativo.

Sarebbe l'esito più coerente per quel che si scorge in questa storia: una democrazia è viva ed equilibrata se ai pesi (poteri) corrispondono contrappesi (controlli) in grado di vigilare e, nel caso, segnalare il funzionario corrotto o incapace. In quest'occasione, s'è vista l'efficienza di alcuni controlli (una stampa intraprendente, una magistratura lesta e non intimidita). Manca ora l'esame del Parlamento che non dovrebbe farsi paralizzare dal "vergognatevi" di chi crede all'unicità del suo potere e alla "sacra" intoccabilità degli uomini scrutinati per esercitarlo.

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« Risposta #146 inserito:: Febbraio 13, 2010, 05:27:32 pm »

IL COMMENTO / Le rivelazioni di Massimo Ciancimino

Se fondate, sono accuse catastrofiche per la nostra democrazia

L'obbligo di chiarire quella leggenda nera

di GIUSEPPE D'AVANZO


I MORTI non si possono smentire e i vivi hanno difficoltà a difendersi dalle parole di morti. È una condizione che crea inestricabili ambiguità. Si ascoltano con disagio le rivelazioni di Massimo Ciancimino. Le ragioni sono due. La prima può avere come titolo: il morto che parla. Perché a parlare con la voce di Massimo, il figlio, è Vito Ciancimino, il padre, il mafioso corleonese, il confidente di uno Stato debole e compromesso, il consigliere politico di Bernardo Provenzano. Anche se Massimo Ciancimino mostra di tanto in tanto una lettera o un pizzino, sono soprattutto i ricordi delle sue conversazioni con il padre la fonte delle accuse contro Silvio Berlusconi e Marcello Dell'Utri.

Ricordiamole perché, se fondate, quelle accuse sono catastrofiche per la nostra democrazia (un uomo, che si è fatto imprenditore con il denaro della mafia e politico con la sua protezione, governa il Paese). Se menzognere e maligne, indicano che contro il capo del governo è in atto un'aggressione ricattatoria che fa leva su alcune oscurità della sua avventura umana e professionale. La mafia, dice Ciancimino, finanziò le iniziative imprenditoriali del "primo Berlusconi" (Milano2). Marcello Dell'Utri sostituì Vito Ciancimino nella trattativa tra lo Stato e Cosa Nostra innescata dopo la morte di Giovanni Falcone (23 maggio 1992) e la nascita di Forza Italia, nel 1993, è stata il frutto di quel pactum sceleris.

I ricordi del giovane Ciancimino inverano, con la concretezza di una testimonianza "diretta", la cattiva leggenda che accompagna da decenni il racconto mitologico della parabola imprenditoriale del presidente del Consiglio. Si può dire così: quelle dichiarazioni riordinano in un resoconto esaustivo e "chiuso" l'intera gamma delle incoerenze che Berlusconi e i suoi collaboratori nella fondazione dell'impero hanno lasciato nel tempo incancrenire per non volerle mai affrontare. Come già è accaduto
quando in un'aula giudiziaria è apparso Gaspare Spatuzza, si deve ricordare che Cosa Nostra è tra gli anni settanta e ottanta molto vicina alle "cose" di Silvio Berlusconi e ricompare ancora nel 1994 quando il ministro dell'Interno dell'epoca, Nicola Mancino, dice chiaro che "Cosa Nostra garantirà il suo appoggio a Forza Italia".

I legami tra Marcello Dell'Utri e i mafiosi di Palermo non sono una novità. Come non sono sconosciuti gli incontri tra Silvio Berlusconi e la crème de la crème di Cosa Nostra (Stefano Bontate, Mimmo Teresi, Tanino Cinà, Francesco Di Carlo). Né sono inedite le rivelazioni sulla latitanza di Gaetano e Antonino Grado nella tenuta di Villa San Martino ad Arcore, protetta dalla presenza di Vittorio Mangano, capo del mandamento di Porta Nuova. Con quali capitali Berlusconi abbia preso il volo, a metà degli settanta, ancora oggi è mistero inglorioso.

Molto si è ragionato sulle fidejussioni concessegli da una boutique del credito come la Banca Rasini; sul flusso di denaro che gli consente di tenere a battesimo Edilnord e i primi ambiziosi progetti immobiliari, quando ancora Berlusconi non si dice proprietario dell'impresa, ma soltanto "socio d'opera" o "consulente". Quei capitali erano "neri" soltanto perché sottratti al fisco, espatriati e rientrati in condizioni più favorevoli o erano "sporchi" perché patrimonio riciclato delle ricchezze mafiose, come ha suggerito qualche mese fa Gaspare Spatuzza quando disse: "La Fininvest era un terreno di pertinenza di Filippo Graviano, come se fosse un suo investimento, come se fossero soldi messi di tasca sua"? Le parole di Massimo Ciancimino riportano alla luce anche un'ultima e antica contraddizione di Berlusconi e dei suoi cronisti disciplinati, la più bizzarra: la datazione della nascita di Forza Italia nel 1994 e l'ostinato rifiuto a ricordare che le doglie di quel parto cominciarono nella primavera del 1993 da un'idea covata da Marcello Dell'Utri fin dal 1992.

È una rosa di "vuoti" e antinomie che apre spazi al ricatto mafioso. E' uno stato che dovrebbe preoccupare tutti. Cosa Nostra minaccia in un regolamento di conti il presidente del Consiglio. Ne conosce qualche segreto. Ha con lui delle cointeressenze antiche e inconfessabili. Le agita per condizionarne le scelte, ottenerne utili legislativi, regole carcerarie più favorevoli, minore pressione poliziesca e soprattutto la disponibilità di ricchezze che (lascia intuire) le sono state trafugate. Lo ripetiamo. In questo conflitto - da un lato, una banda di assassini; dall'altro un capo di governo liberamente eletto dal popolo, nonostante le sue opacità - non c'è dubbio con chi bisogna stare. E tuttavia il capo del governo (per sottrarre se stesso a quel ricatto rovinoso) e la magistratura (per evitare che un governo legittimo sia schiacciato da una coercizione criminale che ne condiziona le decisioni) sono chiamati a fare finalmente luce sull'inizio di una storia imprenditoriale e sull'incipit di un romanzo politico.

È la seconda ragione di disagio, l'assenza di iniziative politiche e giudiziarie a fronte di denunzie così gravi. Ogni cosa sembra risolversi in una "tempesta mediatica", in una rumorosa e breve baruffa che scatena per qualche giorno sospetti, furori e controsospetti e controfurori senza che si intraveda non un'evidenza in più che scacci i cattivi pensieri o li renda più fondati, ma addirittura non si scorge alcuna attività in grado di spiegare finalmente come stanno le cose. Il risultato è che ce ne stiamo qui stretti tra la possibilità di avere al governo un paramafioso, un riciclatore di soldi che puzzano di morte e la probabilità che l'uomo che ci governa sia ricattato da Cosa Nostra per qualche passo storto del passato. È un circuito che va interrotto nell'interesse di Berlusconi, del suo governo e del Paese, della sua credibilità internazionale.

I modi per chiudere questa storia sono certo laboriosi, forse dolorosi, ma agevoli. La magistratura (per quel che se ne sa, ancora non è stata aperta un'istruttoria) accerti la fondatezza delle testimonianze di Massimo Ciancimino e Gaspare Spatuzza - magari evitando di rovesciarle in un'aula di tribunale, prima di una loro verifica. Berlusconi rinunci a scatenare, come d'abitudine, i suoi cani da guardia e faccia finalmente i conti con il suo passato. Non in un'aula di giustizia, ma dinanzi all'opinione pubblica. Prima che sia Cosa Nostra a intrappolarlo e, con lui, il legittimo governo del Paese. È giunto il tempo che questo conflitto sia affrontato all'aperto e non risolto nel segreto con un gioco manipolato e incomprensibile che nasconde alla vista il ricatto, i ricattatori, la punizione minacciata, ciò che si può compromettere, un nuovo accordo salvifico.

© Riproduzione riservata (09 febbraio 2010)
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« Risposta #147 inserito:: Febbraio 20, 2010, 11:26:34 am »

L'ANALISI

Giustizia, il codice della volpe così il Cavaliere cambia le regole


di GIUSEPPE D'AVANZO

IL disegno di legge contro la corruzione, annunciato da Silvio Berlusconi, non c'è perché non poteva esserci. Nel mondo meraviglioso di mister B., i fatti sono immaginari e la comunicazione sostituisce l'azione. Chi si ricorda del "piano casa"? Berlusconi: "Venerdì, faremo il provvedimento sul piano casa che avrà effetti straordinari sull'edilizia" (7 marzo 2009). Non se n'è avuta più traccia. E tuttavia, anche nel mondo fiabesco del Cavaliere, emerge con molta coerenza il principio di non contraddizione tutte le volte che sono in ballo gli affari, la storia e il destino del presidente del consiglio. Berlusconi che annuncia di voler inasprire le pene per i corrotti, di voler liberare il suo partito e quindi il Parlamento e il governo da "chi sbaglia o commette dei reati" è la volpe che pretende di essere custode del pollaio. E' una scena non disponibile in natura, a meno di voler credere che il bianco possa essere uguale e contrario al nero. A meno di non immaginare  -  ma chi è così ingenuo o stupido?  -  che il presidente del consiglio voglia allontanare dalle sue stanze gli uomini che lo hanno accompagnato nella sua avventura, pagando al successo dell'"uomo del fare" un alto conto giudiziario.

Qualche nome soltanto, estratto dal "cerchio stretto" che lo circonda. Marcello Dell'Utri, condannato in primo grado per mafia; Massimo Maria Berruti, condannato per favoreggiamento nella storia delle tangenti alla Guardia di Finanza; Aldo Brancher condannato per falso in bilancio; Romano Comincioli impicciato in bancarotte fraudolente e false fatture. Birbantelli, birbaccioni, direbbe il Capo, che per suo conto si è scritto un curriculum da gran briccone. Ora che "chi sbaglia" dovrebbe pagare, vale la pena ricordare rapidamente gli "sbagli" del Cavaliere, discussi in sedici processi, quattro sono ancora in corso: corruzione in atti giudiziari per l'affare Mills; istigazione alla corruzione di un paio di senatori; fondi neri per i diritti tv Mediaset; appropriazione indebita nell'affare Mediatrade.


Nei dodici processi già conclusi, in soltanto tre casi le sentenze sono state di assoluzione. In un'occasione con formula piena per l'affare "Sme-Ariosto/1" (la corruzione dei giudici di Roma). Due volte con la formula dubitativa e nel secondo caso - le tangenti alla Guardia di Finanza - il Cavaliere è stato condannato in primo grado per corruzione; dichiarato colpevole ma prescritto in appello grazie alle attenuanti generiche; assolto in Cassazione per "insufficienza probatoria".

Riformato e depenalizzato il falso in bilancio dal governo Berlusconi, l'imputato Berlusconi viene assolto in due processi (All Iberian/2 e Sme-Ariosto/2) perché "il fatto non è più previsto dalla legge come reato". Due amnistie estinguono il reato e cancellano la condanna inflittagli per falsa testimonianza (aveva truccato le date della sua iscrizione alla P2) e per falso in bilancio (i terreni di Macherio). Per cinque volte è salvo con le "attenuanti generiche" che si attribuiscono a chi è ritenuto responsabile del reato. Per di più le "attenuanti generiche" gli consentono di beneficiare, in tre casi, della prescrizione dimezzata che si era fabbricato come capo del governo: "All Iberian/1" (finanziamento illecito a Craxi); "caso Lentini"; "bilanci Fininvest 1988-'92"; "fondi neri nel consolidato Fininvest" (1.500 miliardi); Mondadori (l'avvocato di Berlusconi, Cesare Previti, "compra" il giudice Metta, entrambi sono condannati).

Si può dire che buona parte della storia politica del Cavaliere sia stata consumata nel manipolare la legge per tenersi lontano da condanne probabili. Senza le amnistie, le riforme del codice (falso in bilancio) e della procedura (prescrizione) preparate dal suo governo, Berlusconi sarebbe considerato oggi un "delinquente abituale" e non un "birbantello". Difficile immaginare che il Cavaliere voglia espellere se stesso dal partito che ha creato, dalla maggioranza parlamentare che ha nominato, dal governo che presiede.

Che il "giro di vite sulla corruzione" fosse soltanto un espediente per rassicurare un elettorato disilluso dal malcostume che affiora nello scandalo della Protezione civile, lo si era capito ieri. Non deve stupire - oggi - che la trovata da marketing politico non sia nemmeno riuscita a mostrarsi come il simulacro che sostituisce l'evento. Quando discute di sorvegliare e punire, il Cavaliere diventa terribilmente serio, gli cade l'umore, non ha voglia di barzellette. Vuole che il sorvegliare sia problematico e il punire improbabile. Lungo questa strada corre da anni e, sveltissimo, in questa legislatura. Un provvedimento di maggiore inibizione della corruzione avrebbe contraddetto, in modo radicale, tutte le sue politiche. Soprattutto due capisaldi: il processo breve e gli interventi sulle condizioni che consentono le intercettazioni telefoniche, unico modo per venire a capo dei crimini dei "colletti bianchi".

Il "processo breve", si sa, non è altro che una prescrizione rapida. Solitamente, a fronte dei reati più gravi, uno Stato responsabile si concede un tempo adeguato per accertare il reato e punire i responsabili (la prescrizione non è altro). Più grave è il reato, più laborioso il suo accertamento, maggiore è il tempo che lo Stato si riconosce prima di considerare estinto il delitto. Dovrebbe essere così per la corruzione se non fosse che Berlusconi, dettando le regole del "processo breve" (gli servono per venir fuori dalla condanna nel processo Mills), considera quel reato non grave, una pratica penalmente lieve, socialmente risibile, così inoffensiva da meritare una depenalizzazione o una permanente amnistia.

"Corrotto" e "corruttore" sono considerati attori sociali infinitamente meno pericolosi di "scippatore", "immigrato clandestino", "automobilista distratto". Interessa poco a Berlusconi, "uomo del fare", se i mercati dominati da distorsioni e "tasse immorali" (60 miliardi di euro ogni anno per la Corte dei Conti, un balzello occulto che equivale a una tassa di mille euro l'anno per ogni italiano, neonati inclusi) garantiscono benefici soltanto agli insiders della combriccola corruttiva. Come dimostra con vivacità lo scandalo della Protezione civile.
Il governo dovrebbe intervenire contro la corruzione per rafforzare competitività perché i mercati corrotti sono segnati sempre da una bassa crescita (troppe barriere all'entrata, troppi rischi di investimento). Dovrebbe essere consapevole che è dimostrata la relazione tra il grado di corruzione di un "sistema" e la sua crescita economica. Dovrebbe, in altri termini, considerare il contrasto alla corruzione una priorità per rimettere in sesto in Paese. Ce lo chiedono peraltro anche gli organismi internazionali.

Un rapporto del Consiglio d'Europa sulla corruzione in Italia, recentemente, ha rilevato che dalle nostre parti i casi di malversazione sono in aumento; le condanne sono diminuite; i processi non si concludono per le tattiche dilatorie che ritardano i dibattimenti e favoriscono la prescrizione; la normativa è disorganica; la pubblica amministrazione ha una discrezionalità che confina con l'arbitrarietà. Il gruppo di Stati contro la corruzione del Consiglio d'Europa ha inviato all'Italia 22 raccomandazioni di stampo amministrativo (introduzione di standard etici, per dire), procedurali (per evitare l'interruzione dei processi), normative (nuove figure di reato). Le sollecitazioni sono rimaste lettera morta e si può dubitare che il presidente del consiglio abbia voglia di leggerle.

Lo slogan "più severità contro la corruzione" è quel che è, soltanto un vivamaria elettorale, comunicazione politica per correre ai ripari dinanzi a pessimi sondaggi che segnalano il disincanto degli italiani in blu che hanno creduto in Berlusconi antipolitico e lo ritrovano identico a un leader politico della Prima Repubblica, "commissario ideologico" di un "sistema" che assicura affari e prebende ad amici, familiari, clientes. Alla fine, non fosse altro per salvare la faccia e affrontare la campagna delle Regionali, qualcosa verrà fuori, magari l'annuncio di regole per una maggiore trasparenza nella pubblica amministrazione, come chiede Renato Brunetta, per far sì che almeno lì "i fenomeni corruttivi si marginalizzino e diventino fisiologici". E' un'intenzione che difficilmente potrà farsi strada lungo gli accidentati percorsi parlamentari ostruiti dalle leggi ad personam (processo breve, legittimo impedimento, nuova legge immunitaria). Le parole di Berlusconi contro la corruzione resteranno quel che sono, la stravaganza di un imbonitore che vuole far credere che la volpe possa badare al pollaio.
 

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« Risposta #148 inserito:: Febbraio 22, 2010, 09:24:46 am »

Nuovo filone di indagine nell'inchiesta sulle grandi opere

Ecco la ragnatela di Bertolaso. La fuga di notizie provoca un'accelerazione

"Tangenti pulite e fatturate" il business consulenze d'oro

di GIUSEPPE D'AVANZO


LA FIGURA, le mosse abusive, la fiacchezza morale di Achille Toro sono decisivi per comprendere che cosa è accaduto; perché; che cosa accadrà ora; in quale budello è finito Bertolaso; la "tangente pulita" che oggi definisce la corruzione italiana. Achille Toro è l'influente procuratore aggiunto di Roma. Sovraintende le inchieste contro la pubblica amministrazione marcia. Si sente in pectore il nuovo procuratore della Capitale (ahinoi, se non fosse stato costretto a dimettersi, non avrebbe avuto torto a crederlo).

Quando le sue parole si manifestano nell'universo sonoro dell'inchiesta che esamina gli affari extra ordinem della Protezione civile, i pubblici ministeri di Firenze hanno già pronto il calendario delle loro iniziative. Due blocchi di arresti da eseguire nello stesso giorno dentro il sistema, direbbe Denis Verdini, cresciuto come una metastasi lungo il corpaccione ipertrofico della Protezione civile e nelle strutture di governo dei Lavori pubblici. L'uno e le altre sottomesse all'urgenza della politica di creare un cerchio chiuso e oligarchico di consenso e obbedienza. I prosecutors hanno sistemato una stabile ragnatela intorno agli attori che decidono e beneficiano degli appalti del Dipartimento di Guido Bertolaso. Comunicazioni, dati, informazioni, immagini, documenti confermano, senza ambiguità, la scena e il delitto. All'ombra del "vuoto di diritto", creato dall'emergenza, si è formata una consorteria affaristica. Vi fanno parte imprenditori, spesso scadenti per capacità industriale, alti funzionari dello Stato delle opere pubbliche, influenti giudici amministrativi  -  regionali e della Corte dei conti  -  addetti ai controlli che, al contrario, sono cointeressati, in proprio, agli affari dei controllati. In cima alla piramide, Guido Bertolaso, onnipotente per la mano libera che gli consente la legislazione straordinaria, dominante per il rapporto diretto, protetto, esclusivo con il sottosegretario Gianni Letta e il presidente del consiglio, Silvio Berlusconi. Bertolaso è al corrente di quel fondo fangoso? O, come dice oggi, è "parte lesa" perché non sa, non comprende, s'occupa di altro?


Nell'inchiesta nata a Firenze, la mappa degli illegalismi, che ha il suo centro nella Protezione civile, è divisa in tre grandi aree: gli appalti "in deroga" del Dipartimento di Bertolaso (G8, Mondiali di nuoto, intervento nell'area terremotata dell'Aquila, celebrazione dei 150 anni dell'Unità d'Italia...); il quadro milionario che aiuta la distribuzione arbitraria delle consulenze per quelle opere ("tangenti pulite e fatturate", si sente dire); le manovre organizzate con gli "arbitrati", la decisione privata che risolve le controversie che oppongono le società appaltatrici di lavori pubblici alle amministrazioni che glieli hanno affidati (lo Stato è sempre perdente, soccombe nel 95 per cento dei casi).

 * * *
Ogni inchiesta implica una strategia, un'economia, un modello. I pubblici ministeri di Firenze, nel loro lavoro, evitano fantasmi e forzature (modello). Si scoprono soltanto quando il terreno processuale appare solido, il reato documentato, le responsabilità ragionevolmente definite (strategia). Non infieriscono con atti di accusa e carcere, se non è indispensabile (economia). Si può dire che, in altri luoghi, Bertolaso forse sarebbe stato arrestato. Di sicuro sarebbe stato arrestato Mario Sancetta, consigliere delle Corte dei conti e presidente di sezione. Doveva essere "controllore", dalle carte emerge come un intrigante mediatore di affari. Suggerisce agli imprenditori dove giocare le loro chances, negli appalti del porto di Civitavecchia, della Fiera Spa di Milano, all'Aquila distrutta in aprile. Favorisce incontri (l'amico e imprenditore Rocco Lamino con Luisa Todini, parlamentare della maggioranza, alla guida di un'impresa vincitrice d'appalti per il terremoto abruzzese). Sancetta dice di avere "buoni argomenti per avvicinare Bertolaso" che ha procedimenti aperti alla Corte dei conti. Dice di poter condizionare ("influire") l'ex ministro Pietro Lunardi (è stato al ministero il capo del suo ufficio legislativo). Non si sa perché e come.

Il presidente Mario Sancetta non viene arrestato perché a Firenze avvertono la loro competenza incerta. Accade anche per Angelo Balducci, presidente del Consiglio superiore dei Lavori Pubblici, interfaccia diretto di Bertolaso. L'intervento della procura di Roma appare il più coerente e corretto per legge. Qui cominciano imprevisti incidenti. In quella procura c'è una toga infedele. È Achille Toro, il procuratore addetto ai reati della pubblica amministrazione. Offre servizi spionistici alla combriccola affaristica. Quando da Firenze avvertono Roma che presto saranno inviati i risultati di un'istruttoria che richiede, "per competenza", l'intervento della Capitale, Toro allerta la consorteria. Tra il 28 e il 30 gennaio, come ha raccontato ieri la Repubblica, i movimenti del network diventano indiavolati. Incontri di buon mattino "senza telefoni" anticipano che "pioverà molto". I discorsi, dinanzi al peggio, si fanno depressi. "Mi sembri un morto", dice la moglie ad Angelo Balducci. È vero, Balducci è molto sconfortato. Il procuratore gli ha fatto sapere che sarà arrestato. Il grand commis corre ai ripari. Chiama lo studio dell'avvocato Coppi prima di raggiungere Palazzo Chigi e incontrare Guido Bertolaso e "quell'altro", con ogni probabilità Gianni Letta. Toro, per suo conto, vuole essere più avveduto. Lavora subito per coprirsi le spalle. Convoca una cronista e gli "soffia" che "il telefono di Angelo Balducci è intercettato dai Ros per conto della procura di Firenze". La notizia sarà pubblicata il 9 febbraio. Tornerà utile se le cose si mettono male, pensa il magistrato. Si precostituisce un alibi. Potrebbe dire Toro a chi lo interroga: come potete pensare che abbia fatto la spia, la notizia dell'indagine e delle intercettazioni di Balducci era nota, pubblica, scritta nera su bianco nelle cronache. Non sanno - né Balducci né Toro - che i guai sono più vicini di quanto immaginano. Balducci sarà arrestato il giorno dopo. Toro saprà di essere indagato per violazione del segreto istruttorio e, una volta trasferita a Perugia l'indagine, per corruzione. Si dimetterà il 17 febbraio per scrollarsi così di dosso la probabilità di essere arrestato (ancora con la toga sulle spalle, avrebbe potuto inquinare le indagini).

 * * *
Il "servizio" offerto dal procuratore alla consorteria di imbroglioni mette sottosopra il calendario dei pubblici ministeri di Firenze. Sono costretti ora a muoversi in fretta. Volevano agire con due diversi iniziative (arresti a Roma e a Firenze). Ne devono privilegiare una, quella nella Capitale, per distruggere subito e in fretta la trama che tesse Achille Toro, per evitare fughe all'estero (un paio già in preparazione), l'inquinamento delle prove, la scomparsa dei documenti, le pressioni inevitabili del potere sulle burocrazie della sicurezza. L'urgenza non è priva di conseguenze. Lascia in secondo piano l'esame del gran circo degli "arbitrati" che costa allo Stato, più o meno, 350 milioni di euro l'anno e arricchisce di, più o meno, 25 milioni l'anno gli "arbitri": un ristretto club di avvocati  -  non più di una decina  - , giudici amministrativi, avvocati generali dello Stato, giudici contabili. Il "tradimento" di Achille Toro provoca un secondo danno. Rallenta l'intervento sulla rete delle "tangenti pulite e fatturate", come ormai hanno imparato a chiamarle anche fonti vicine all'inchiesta.

Si tratta di questo. La Protezione civile ha centinaia di consulenti. Ci sono consulenze di "area politica ed economica", di "ricerche e di indagine". Se ne rintracciano alcune stravaganti. "Consulenti di comunicazione politica e pubblica nel settore", consulenti di "accessibilità immediata agli specialisti del settore per la risoluzione di problematiche improvvise", "consulenti in strategie e tecniche dell'informazione, di immagine e divulgazione della cultura di protezione civile", consulenti per "coadiuvare il Capo del Dipartimento nelle attività collegate all'iter parlamentare dei provvedimenti legislativi", "consulente per le attività di comunicazione visiva". Ogni progetto o intervento della Protezione civile può rendere necessario, per un brevissimo, breve o lungo periodo, un'"assistenza tecnica", di "sperimentazione e analisi", dall'emergenza piogge in Friuli Venezia Giulia all'emergenza Pantelleria, dalla "Commissione generale di indirizzo Campionati del mondo di ciclismo su strada 2008" alle celebrazioni per il 150 anni dell'Unità d'Italia. I consulenti possono tirar su centinaia di migliaia di euro o anche trentamila euro per pochi giorni di lavoro e senza alcuna fatica o competenza. Le fumisterie degli incarichi corrispondono all'assoluta arbitrarietà degli ingaggi e delle selezioni, spesso direttamente decise da Guido Bertolaso. Tuttavia, se si guarda con attenzione ai nomi dei consulenti, alle loro famiglie e relazioni e ruoli pubblici, si intravede una razionalità e un disegno. Nelle liste dei consulenti delle più bizzarre e ben pagate consulenze, ci sono coloro che direttamente possono proteggere il sistema che si è creato negli interstizi operativi della Protezione civile. La consulenza non è altro che "una tangente pulita e fatturata" per tener buono il giudice amministrativo, l'assessore riluttante, il giudice contabile, il pargolo scapestrato del parlamentare, il genero del capo corrente, il procuratore cui si chiede di farsi quietista e guardare da un'altra parte. È il modo di creare intorno al sistema un muro di supporters e un anello di complicità.

Terzo e ultimo danno per l'inchiesta di Firenze. L'infedeltà di Toro ha costretto a una discovery anticipata. La premura ha frenato l'accertamento di che cosa sapesse davvero Guido Bertolaso di quel che si muoveva dentro e intorno alle traboccanti responsabilità. È l'ultima questione da affrontare.

 * * *
Sembra di poter dire: Bertolaso crede che convincere sia ingannare. Ancora ieri ha ripetuto: "Vogliono distruggere la mia credibilità". Il fatto è che la sua affidabilità è in calare per quel che non ha fatto, quando sarebbe stato necessario, e per quel che oggi dice e dissimula risistemando gli avvenimenti del passato come meglio gli conviene. Dice: nessuno mi ha avvertito, mentre è stato avvertito dell'indagine e proprio dal maggiore indagato, Angelo Balducci. È una prognosi con un forte rilievo induttivo che il presidente del Consiglio superiore dei Lavori Pubblici, messo sul chi vive dalle informazioni che abusivamente gli offre Achille Toro, si precipiti a Palazzo Chigi e riveli al capo del Dipartimento della Protezione civile le rogne che sono vicine. È una suggestione, è vero, anche se molto ragionevole. Con chi volete che ne parli, quel pover'uomo di Balducci? È vicino alla rovina. Lo è, non soltanto per le sue voglie, ma anche per le azioni che hanno mosso e assestato tasselli già pronti, integrato con la sua influenza e potere e docilità il sistema che ha, nel suo vertice operativo, Guido Bertolaso. Oggi Bertolaso disconosce Balducci. Nelle sue parole Balducci appare un tipo che si è ritrovato tra i piedi, non ha potuto evitare, anche se l'avrebbe fatto volentieri. Non sapeva che fosse quel fior di manigoldo ("Sono stato ingannato", dice).

Nella storia dell'indagine di Firenze, invece, ci sono i segni della loro antica relazione, a volte complice. Quando il 30 gennaio, il presidente del Consiglio superiore dei Lavori Pubblici si precipita a Palazzo Chigi per incontrare "Bertolaso e quell'altro" non è la prima volta che invoca l'aiuto dell'onnipotente leader tecnocratico del governo. Accade anche alla fine del 2008. Succede questo. L'Espresso racconta (23 dicembre) come in una casa di produzioni cinematografica, la Erretifilm srl, si incrocino i destini di Rosanna Thau, 62 anni, moglie di Angelo Balducci, e di Vanessa Pascucci, 37 anni, moglie di quel Diego Anemone che, pur dichiarando 26 dipendenti, si taglia la fetta più grossa dei 300 milioni di euro necessari per costruire il centro congressi per il G8 della Maddalena. In quell'occasione, Balducci concorda con Bertolaso una lettera per denunciare "la evidente natura scandalistica dell'articolo [che] introduce, ad arte, le attività hobbistiche della signora Thau, ventilando commistioni del tutto inesistenti". Bertolaso prende subito, e pubblicamente, per buona la replica. Nelle stesse ore diffonde un comunicato: "Il capo del Dipartimento della Protezione Civile e commissario delegato per il G8, dott. Guido Bertolaso, ha ricevuto dall'ingegner Balducci una relazione che ribadisce la regolarità delle procedure seguite ed esclude qualsiasi legame familiare con imprese impegnate nella realizzazione delle opere". Pur promettendo la massima trasparenza sul caso, la Protezione civile toglie in quelle ore dal suo sito le ordinanze di Palazzo Chigi con cui Balducci era stato nominato "soggetto attuatore" e il provvedimento con cui Silvio Berlusconi ha chiesto a Bertolaso di "assicurare un'adeguata attività di verifica degli interventi infrastrutturali posti in essere dai soggetti attuatori".

È una buona occasione per tagliare i ponti con Balducci. Non accade. È il momento giusto per liquidare quel Anemone. Non accade neanche questo. Al contrario, le carte fiorentine raccontano come il capo della Protezione civile accetti di incontrare l'imprenditore, non in ufficio né al circolo della Salaria. Si incontrano in strada, in piazza Ungheria ai Parioli. Parlano di appalti. Di lievitazione e adeguamento di prezzi. Con la soddisfazione di Anemone che, salutato Bertolaso, dice ai suoi compari: "L'ho convinto". I modi per difendersi e di persuadere sono molti. Quelli scelti da Guido Bertolaso, finora, devono far dimenticare troppi ricordi e indizi e prove per poter essere efficaci e convincerci che egli ignorasse i segreti della sua bottega.

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« Risposta #149 inserito:: Febbraio 23, 2010, 02:56:09 pm »

IL COMMENTO

Il giorno dell'ipocrisia nel porto delle nebbie

di GIUSEPPE D'AVANZO


SOLITAMENTE discreto, il procuratore di Roma Giovanni Ferrara decide di prendere la parola in pubblico. È già un errore. Conviene sempre che per i magistrati parlino i fatti. Nella carne viva di un'istruttoria o di un processo, poi è doveroso che quei fatti siano offerti soltanto nei luoghi deputati: l'udienza, l'aula. Gli argomenti che il Procuratore adopera peggiorano il quadro. Ferrara non trova il coraggio o l'umiltà di dirsi almeno addolorato per quanto è accaduto nel suo ufficio e a se stesso. Ha scelto incautamente per il governo del dipartimento dei reati contro la pubblica amministrazione una toga rivelatasi infedele, Achille Toro.

Achille Toro, si scopre, sopisce, tronca le indagini e - si scopre - addirittura spiffera agli indagati gli esiti che incuba lo scandalo della Protezione civile. Un buon motivo per rammaricarsi in pubblico della sua infelice preferenza; rassicurare della incorruttibilità degli altri pubblici ministeri; impegnarsi a comprendere che cosa e perché non è andato per verso giusto, come cambiare pagina. Ferrara non si cura di questo. A Toro, alla criticità che il suo comportamento apre nella sua procura, Ferrara non sembra interessato. Prende la parola per un altro sorprendente lavoro da sbrigare: biasimare le mosse della procura di Firenze, demolire la correttezza di un'inchiesta che scuote il mondo politico e il governo mentre svela le abitudini combriccolari che si nascondono dietro la "politica dell'emergenza".

Il suo argomento è diabolico: quei pubblici ministeri non erano "competenti". Dovevano astenersi da fare alcun passo perché i reati ipotetici sono stati commessi a Roma e la procura della Capitale è la sola abilitata a procedere. È una denuncia radicale: quell'inchiesta è illegittima e forse addirittura illegale. Ferrara sa che, sopravvissuto alla caduta della dittatura e confusamente accomodato dal legislatore, il nostro codice fornisce "un terreno di cultura ideale ai contrasti ideologici degli operatori". C'è un luogo delegato per risolvere queste controversie ed è la Corte di cassazione. È la strada che, sollevando una polemica pubblica e alquanto artefatta anche nel merito, Ferrara non imbocca. Vuole una polemica politica. La sollecita. Preme per gettare discredito su Firenze annientando un lavoro politicamente sensibile. La sortita dell'alto magistrato, con quel silenzio sulle malefatte di Achille Toro e con lo strepito contro l'altra procura, ravviva in un colpo solo il dubbio e la confusione che circondano da molto tempo la procura di Roma. Ufficio spesso quietista, qualche volta affetto dal morbo del conformismo, quasi intimidito dalla propria indipendenza.

Quel "morbo", annotava Piero Calamandrei, non è altro che un'ossessione, che non attende le raccomandazioni esterne, ma le previene; che non si piega alla pressione del potere, ma se l'immagina e la soddisfa in anticipo. Spesso i meccanismi intellettuali, le atmosfere emotive, le solidarietà corporative che si scorgono nell'ufficio di Ferrara appaiono affette da quella malattia e le parole arroganti sembrano rivendicare quella antica, bizzarra, discutibile pretesa - quasi castale - della procura di Roma di essere il foro penale precostituito per i Potenti: dovunque delinquano, Roma loquitur. Come accadeva - ricorda Franco Cordero - nella Francia ancien régime dove "si chiamavano Committimus le lettere grazie a cui date persone, schivando le solite giurisdizioni, adivano una corte sovrana".

C'erano dunque, al mattino, già buone ragioni per preoccuparsi e chiedersi se non sia giunto il tempo che anche la procura di Roma coltivi meglio la sua autonomia e indipendenza dal potere politico, ma quel che accade nel pomeriggio finisce per rendere grottesco, o "italiano" (fate voi), il caso. Ottanta sostituti si ribellano alla mossa del loro capo. Si convoca un'assemblea. Toni accessi, valutazioni severe. Si chiede a Ferrara di smentire quel che gli viene attribuito o di accettare il rimprovero di una nota collettiva e pubblica dei suoi collaboratori. Ne nasce un comunicato tartufesco, incredibilmente firmato anche da Ferrara, dove si legge che con la procura di Firenze "non c'è alcuno scontro" perché "la professionalità di quei colleghi non è in discussione"; che a Roma c'è "disagio" per quel che ha combinato Achille Toro, ma la sua infedeltà non può macchiare le toghe degli altri in un ufficio che "è coeso" e dunque non sfiducia il capo.

La nota è un capolavoro di ipocrisia, il fragile tentativo di dare una parvenza di solidità e coerenza a un'aria fritta che lascia irrisolta la sobria diffidenza che si nutre per la procura di Roma. È un'apprensione che non si può cambiare in un giorno né in una stagione. Si possono almeno cambiare subito le abitudini di quell'ufficio e aprire spazi ai molti pubblici ministeri che chiedono di fare soltanto il lavoro che la Costituzione assegna loro. Tocca a questi sostituti battere un colpo per diradare le nebbie che ancora si vedono intorno a quel Palazzo. Si deve avere fiducia che questo accadrà presto.

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