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Autore Discussione: ENZO BETTIZA  (Letto 56818 volte)
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« inserito:: Ottobre 02, 2007, 05:54:54 pm »

2/10/2007
 
Le mani sull’Ucraina
 
ENZO BETTIZA

 
Il macigno che rotola proprio oggi da Mosca, con il presidente Putin che annuncia la sua candidatura a primo ministro nelle imminenti elezioni legislative del 2 dicembre, sembra non a caso diretto verso l'Ucraina che fu, dopo la Russia, la seconda più importante repubblica dell'Unione Sovietica. Putin, che così lascia intendere di volersi mantenere al potere anche dopo le presidenziali di primavera, sembra dire all'ucraino filorusso Viktor Yanukovich: tieni duro, io non mollo, insieme ce la faremo. La pressione putiniana sul filo di lana elettorale che si va strinando a Kiev non poteva essere psicologicamente più plateale. Ma, dati i conteggi elettorali ancora in corso, tutt'altro che catastrofici per gli amici di Mosca, avrebbe potuto farne anche a meno.

Per il Cremlino, soprattutto questo Cremlino alla ricerca dei pezzi perduti dell'impero, l'Ucraina spaccata a metà dalla riaggiornata contesa tra «occidentalisti» e «slavofili» resta un terreno di scontro comunque decisivo nell'opposizione alla Nato, agli scudi stellari, agli allargamenti a Est dell'Unione Europea. L'Ucraina, oltreché mezza russa per parentela etnica e linguistica, è inoltre la principale piattaforma di passaggio del gas e del petrolio russi verso l'Occidente europeo: l'80% del gas inviato dalla Russia all'Europa, Italia compresa, filtra per le tubature ucraine. Non si dimentichi l'ansia per i rifornimenti italiani di due anni fa; il disagio derivava dal fatto che Mosca teneva e tiene in mano il lucchetto degli oleodotti di Kiev.

Ecco perché Putin, in persona, ha sempre tenuto d'occhio i sondaggi, i protagonisti politici, gli oligarchi facoltosi, il funzionamento degli oleodotti, le tinte dell'arcobaleno elettorale nella vicina repubblica slava. Sa, perdipiù, che gli accadimenti ucraini possono riverberarsi per positivo o per negativo sulla Moldavia, la Bielorussia, la Georgia e l'intero frammentato mosaico del Caucaso. Nel 2004, quando stava montando la «rivoluzione arancione», egli piombò su Kiev per sostenere il pericolante Yanukovich, mentre i servizi segreti del Cremlino venivano sospettati di aver tentato di uccidere il filoccidentale Yushchenko con un veleno deturpante. Ma l'avversario, sfigurato nel volto, venne eletto presidente e Putin, per ripicca, ricorse al deterrente del gas aumentando il prezzo delle forniture destinate all'Ucraina. Una sequela di errori madornali che allora gli mise contro l'Europa dell'Ovest e, più ancora, quella dell'Est che aveva provato sulla pelle le tecniche micidiali del Kgb.

La rinnovata pressione del Cremlino su Kiev è questa volta d'ordine più politico e più psicologico. Lo stesso Viktor Yanukovich, in rimonta nelle ultime ore che lo vedono sopravanzare di qualche punto il robusto risultato arancione di Yulia Tymoshenko, ha accentuato da qualche tempo una certa cauta distanza dall'«aiuto fraterno» di Mosca: ha preferito circondarsi di consulenti americani e attingere alla generosa cornucopia del ricchissimo oligarca indigeno Rinat Ahmetov. Insomma, filorusso sì, ma con misura e metodi d'immagine e propaganda occidentalizzanti. La prudenza finora lo ha premiato. L'affermazione degli «occidentalisti», che nei primi scrutini appariva schiacciante, è poi diminuita attestandosi sotto il 50%. «Vittoria di Pirro», così avrebbe definito Yanukovich, in recupero di voti, il trionfo della pasionaria Yulia Tymoshenko che fino a ieri appariva assoluto e che nelle ultime ore è andato via via assottigliandosi. Si profila ora un'insidiosa situazione di stallo e di prolunga dell'ingovernabilità che già da marzo affligge il Paese. Il Partito delle Regioni del premier Yanukovich sta ormai sorpassando il 31,74 del Blocco Tymoshenko rendendo incerta la possibilità che esso, coalizzandosi con il 14,83 della Nostra Ucraina del presidente Yushchenko, possa formare una maggioranza chiara e invulnerabile: una maggioranza cioè capace di far uscire dalle secche della crisi, che è anche storica oltreché politica, una nazione promiscua, divisa, bilingue, priva di una tradizione statale autonoma e autentica.

L'esito delle urne è adesso contestato dalle due parti. Il Viktor delle regioni del Sud-Est russofono e russofilo, che vorrebbe restare alla guida del governo, sostiene che le urne manipolate non rispecchiano la verità del voto e minaccia, ricorrendo alla piazza, di perdere pazienza e prudenza. L'altro Viktor, lo sfregiato, parla già di brogli e minaccia di appellarsi all'Europa e alle Nazioni Unite. Più composta e forse più calcolatrice la dama con l'arcaica treccia slava che, per il momento, non alza la voce; si compiace fra gli intimi dell'ottimo incasso ottenuto sia contro l'avversario blu, sia contro l'alleato arancione. Al quale, in fondo in fondo, vorrebbe succedere ai vertici di uno Stato che di fatto ancora non c'è e che Putin farà del suo peggio perché non ci sia mai.

 
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« Ultima modifica: Novembre 07, 2008, 06:23:55 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #1 inserito:: Ottobre 12, 2007, 04:56:44 pm »

12/10/2007
 
Gli armeni fra Bush e Turchia
 
ENZO BETTIZA
 

I due tormentoni che continuano a insidiare l’immagine e la stabilità della Turchia moderna, post-ottomana, nata 84 anni fa dalla rivoluzione kemalista, sono un passato che non passa e un presente che incombe e incalza. Il passato che ciclicamente ritorna, gettando la sua ombra sinistra su Ankara, è il massacro subito dalle nutrite minoranze armene durante la prima guerra mondiale. L’incalzante presente è legato invece alla ribelle e combattiva minoranza curda: da quando nel contiguo Iraq è sorto un Kurdistan pressoché autonomo, essa, rifornita di mezzi e protetta da santuari, ha alzato la cresta costituendo una minaccia diuturna ai confini meridionali turchi.

Quel truce passato e questo minaccioso presente tendono, come vedremo, a congiungersi, formando un focolaio di crisi tale da mettere a repentaglio anzitutto il tradizionale legame strategico della Turchia con l’America e la Nato. In linea subordinata, lo screzio in atto di Ankara con Washington, sommandosi ai contrasti con la Francia di Sarkozy, potrebbe interrompere disastrosamente il già difficoltoso cammino di Ankara verso l’Unione Europea.

Breve: tra l’Occidente e l’occidentalizzante Turchia, lambita dopo le recenti elezioni parlamentari e presidenziali da tentazioni islamiche e pulsioni nazionaliste, si va formando ormai un’esplosiva massa critica. A monte troviamo una parola, una sola parola, secondo i turchi impronunciabile e calunniosa. Genocidio. La tremenda parola è riecheggiata in questi giorni tal quale, per la prima volta, come un’irredimibile condanna storica, nel Parlamento americano a maggioranza democratica.

Ufficializzata in una proposta di legge dalla commissione Esteri della Camera dei deputati, essa si riferisce alle lugubri «marce della morte», dal Nordest anatolico ai deserti siriani, inflitte a centinaia di migliaia di armeni tra il 1915 e il 1918. Non vennero risparmiati bambini, donne, vecchi. Coronarono e spiegarono l’immane sterminio documenti storiografici, referti statistici, testimonianze di sopravvissuti, romanzi come quello famoso di Franz Werfel, film recentissimi come quello dei fratelli Taviani.

Per molti storici fu il primo genocidio di massa del Novecento. Ma di che natura era lo Stato turco che aveva programmato a freddo quella prima implacabile «pulizia etnica» novecentesca? Formalmente era uno Stato ottomano seppure in agonia, uno Stato ancora islamico, diverso e opposto alla cristianità delle vittime; però, nella sostanza, era già dominato dalla casta militare laica, ultranazionalista, dei «giovani turchi» dai quali, dopo la guerra perduta al fianco della Germania, sarebbe emerso Kemal Pascià, l’Ataturk «padre della patria».

Ecco forse perché uno sterminio che aveva coinvolto i «giovani turchi», riformatori radicali e patrioti, non è stato in seguito mai riconosciuto dai loro potenti eredi in grigioverde e dai governi secolari da essi controllati. Hanno sempre negato sia l’orrenda parola che l’agghiacciante cifra dei morti, circa un milione e ottocentomila secondo calcoli internazionali, soffermandosi tuttalpiù su una cifra minima di duecentomila attribuita ai disagi e alle confusioni del marasma bellico del tempo. A partire da allora il negazionismo di Stato è stato sempre applicato al calvario armeno da tutte le laicissime autorità turche. Non fanno differenza quelle islamiche attuali, che con Erdogan hanno in pugno il governo e con Gul la presidenza della repubblica.

Non a caso Abdullah Gul ha definito «inaccettabile» la risoluzione parlamentare americana sul «genocidio», e non a caso Tayyip Erdogan ha tempestato di telefonate bollenti il presidente George Bush. È insomma scoppiata fra la Turchia e la sua più stretta alleata occidentale una crisi che potrà ripercuotersi a breve, non solo in seno alla Nato, dove i turchi occupano una posizione di punta, ma anche sui vulnerabili confini iracheni. È qui che il passato armeno si salda al presente curdo, giacché Ankara indignata, ferita dall’accusa di «genocidio», minaccia «ritorsioni» serie contro Washington se le aule del Congresso dovessero approvare l’offesa che essa respinge con forza come sleale e ignominiosa. Il rischio per gli americani, soprattutto per Bush, che cerca di bloccare il percorso della proposta di legge verso l’aula, è che i turchi aprano per ripicca e pressione politica un nuovo fronte in Iraq attaccando la limitrofa regione autonoma dei curdi. Qui potrebbe verificarsi altresì la più pericolosa delle saldature immaginabili: una rappacificazione patriottarda, nel nome della dignità e dell’interesse nazionale, tra i militari laici e i governanti islamici.

In caso di una nuova guerra, che vedrebbe i turchi invadere il Kurdistan iracheno e chiudere basi e spazi aerei di cui finora si servono gli americani, il quadro mediorientale e mondiale cambierebbe di brutto. Assisteremmo alla deriva antioccidentale, dentro l’Iraq già in preda al terrorismo endemico, di quello che per numero e per forza era il secondo esercito dell’Alleanza atlantica.

 
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« Risposta #2 inserito:: Novembre 02, 2007, 03:04:19 pm »

2/11/2007
 
Il Partito senza tessera
 
ENZO BETTIZA

 
E’ certo difficile prevedere quello che il Partito democratico riuscirà a essere nella sua veste ambiziosa e ancora virtuale di elemento portante della terza repubblica. Ma l’idea che dal convegno costituente di Milano, volutamente algido, privo di simboli liturgici, hanno lanciato i principali ostetrici del nascituro, è degna di essere valutata su uno sfondo non solo nazionale: l’idea cioè della decostruzione del classico Partito italiano con la maiuscola.

Il modello emerso dalle parole di Veltroni a Milano, quasi un antipartito di democrazia diretta, affidato all'impulso e allo slancio creativo di liberi elettori non catechizzati né timbrati dalla tessera, ha suscitato vari pareri da posizioni diverse. Giuliano Ferrara vi ha visto una trasfusione vitale degli umori antipolitici berlusconiani nell’organismo deperito dell’avversario. Eugenio Scalfari vi ha intravisto la definitiva sepoltura del Partito novecentesco. Andrea Romano, invece, ha constatato clinicamente in queste colonne che il vero guaio dell’Italia non sono stati i tradizionali partiti novecenteschi per se stessi, ma il loro stato di perenne cattiva salute e di «brutale agonia» negli ultimi vent’anni. Il che è anche vero. Quello che è venuto dopo Tangentopoli ha acuito in tanti casi, soprattutto negli eredi del comunismo e della Democrazia cristiana, vecchi mali e vizi originari che ora l’ex comunista Veltroni e l’ex democristiano Franceschini, congiunti, vorrebbero estirpare prim’ancora della nascita in carne e ossa del loro «partito americano».

A questo punto oserei tentare una domanda e una risposta audaci.

All’origine del Partito italiano, non solo comunista, ma di tutti i Partiti dell’arco costituzionale d’una volta, qual era la deformazione che li ha ammorbati fin dall’inizio e li ha fatti poi sopravvivere a lungo come valetudinari contagianti l’un l’altro? L’enzima, il baco se volete, era in Russia. Era nel Partito, maiuscolissimo, fondato da Lenin, originale quanto ambiguo apporto russo alla storia politica del Novecento. L’Italia, più d’ogni altra democrazia occidentale, ci ha offerto in merito un campionario completo e direi anzi inflazionato. Non solo grandi Partiti di massa come Pci e Dc e Psi, ma perfino quelli più esili come il socialdemocratico, il repubblicano e perfino liberale, si ispiravano per la cosiddetta «forma partito» al modello leninista, attenuandolo qua e là nel lessico. La gabbia gerarchica e organizzativa della Dc ricalcava quella del Pcus e del Pci. Al vertice il segretario generale prendeva il nome di «segretario politico nazionale», il polibjuro o ufficio politico si mutava in «ufficio esecutivo» o «giunta esecutiva», il comitato centrale diventava «consiglio nazionale», poi seguivano federazioni regionali, provinciali, sezioni, eccetera. La liturgia del Congresso filiava minicongressi a livello di regione e di provincia. La similitudine infine si ampliava e completava sul piano extra-nazionale, avendo la Dc alle spalle il Vaticano e il Pci il Cremlino. Il Psi fino a Craxi, che si faceva chiamare «segretario politico», aveva però conservato al comitato centrale il nome originario caro a Nenni. Il «segretario politico» e il «consiglio nazionale» rispuntavano fra socialdemocratici e repubblicani, riapparivano anche fra i liberali i quali fino a Zanone, pur considerato più aperto e meno confindustriale di Malagodi, continuarono, se ricordo bene, a conferire al loro leader il titolo di segretario generale. Il resto si riproduceva per genesi quasi spontanea in tutti i Partiti italici; congressi grandi e piccoli, tessere a pagamento, feste e diffusioni e abbonamenti in sostegno del quotidiano di partito.

Questa curiosa ricopiatura a catena, derivata, nonostante le differenze ideologiche, dal calco strutturale leninista, finiva per conferire fin da allora al panorama politico italiano l’omogeneità castale di una vera e propria nomenklatura sul piano dell’esercizio e dell’abuso materiale del potere. Tangentopoli, la catastrofe giudiziaria della prima repubblica, le starnazzanti anitre zoppe della seconda, avevano in quelle omogeneità e complicità corporative le loro profonde radici. Perché gli scandali, pur molti, perché le insurrezioni di banlieue, pur moltissime e temibili, non hanno mai travolto la Quinta Repubblica francese? Forse perché, in Francia, l’unico partito ad assimilare i modelli sovietici è stato quello comunista, ucciso da una lenta e poi galoppante anoressia elettorale. Frattanto la conflittuale frantumazione del gollismo in decine di sigle e di rivoli, le federalizzazioni tra socialisti e radicalsocialisti fino alla «gauche plurielle» e alla Confédération paysanne di Bové, impedivano alle diverse forze politiche di omogeneizzarsi in simbiosi epidemiche e paralizzanti. A Parigi ha prevalso nettamente e fisiologicamente il modello della grande rivoluzione nazionale: il fervoroso sminuzzamento dell’arena in club rivali, l’orgogliosa tradizione dei club giacobini, foglianti, girondini, montagnardi, ha messo sempre la Francia al riparo dal mito del Partito di mestiere novecentesco cui sono soggiaciuti invece la Russia ex leninista, la Germania ex hitleriana e, sia pure in tono minore, l’Italia ex mussoliniana. I francesi votavano e votano i grandi leader mediatici, ignorando i nomi dei «segretari» nascosti dietro le quinte di «unioni» o partiti mutanti.

Il pre-modello rivoluzionario era stata per Lenin la populista Narodnaja Volja. Nata per impulso estremistico nel 1879, essa presentava già, col suo «comitato esecutivo» e il suo spirito di corpo, quei connotati gesuitici ammodernati che poi Lenin travaserà nell’organizzazione bolscevica, perfezionandoli attraverso contatti con la socialdemocrazia tedesca di Kautsky e quella russa dominata dai menscevichi di Plechanov e Martov. A un certo punto, nel 1903, spinto dal dèmone scissionistico, ripudierà le esitazioni morali e gli scrupoli dottrinali dei menscevichi. Lenin diventerà Lenin opponendo, con ferocia mentale inaudita, il suo emergente manipolo di rivoluzionari ai vecchi gentiluomini socialdemocratici che gli erano stati alquanto affini, e vicini, per diversi anni. Nascerà allora il Partito: un’entità metapolitica intimamente diversa da tutto ciò che, fino a quel momento, era stato visto sulla scena pur variegata dei movimenti socialisti europei. Sarà un Partito tagliato a immagine e somiglianza del suo ideatore, e tre saranno le pietre basilari alle sue fondamenta: Organizzazione, Disciplina, Dottrina. «La vostra famosa disciplina - dirà un giorno un menscevico a Lenin - è simile a quella del reggimento della guardia di Sua Maestà, il Preobraženskij».

Ecco. È per così dire il fallito reggimento della guardia della prima e seconda repubblica, il Partito, che sembra soccombere, almeno nelle parole di Veltroni, il quale peraltro proviene dalla formazione più autenticamente leninista d’Italia. Peccato ch’egli si sia fatto nominare «segretario» invece che «speaker» come gli suggeriva Prodi. Peccato che si sia fatto circondare prematuramente da un gruppo dirigente ristretto, dinastico, evocante una solida sovrastruttura leninista al di sopra di una struttura partitica liquida e definita, per ora, enfaticamente, dai veltroniani come libera comunità di cittadini elettori. L’idea di un partito che non c’è essendoci è paradossale e interessante in un Paese avvezzo al sovrappeso di partiti che c’erano troppo e incombevano troppo. Ma basterà?
 
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« Risposta #3 inserito:: Maggio 17, 2008, 11:19:34 am »

17/5/2008
 
Terremoto, Pechino alla prova
 
 
 
 
 
ENZO BETTIZA
 
Più giorni passano più i numeri della tragedia aumentano. Migliaia di soccorritori continuano a frugare dentro le macerie dell'ecatombe e il registro delle vittime denunciate, 14 mila all'inizio della prima terribile scossa, continua a crescere d'ora in ora: la cifra ha già superato i 50 mila morti, mentre i senzatetto sarebbero 5 milioni. Ma se mettiamo nel conto la dichiarazione del capo del governo Wen Jiabao, presente nei luoghi più colpiti, secondo il quale il terremoto «è il più distruttivo che la Cina ha subìto dal 1949», allora il registro della catastrofe resta aperto alle peggiori previsioni. A partire dall'anno di fondazione della Cina comunista, il più devastante cataclisma tellurico, prima del sisma nel Sichuan, era considerato quello che nell'immaginario popolare preannunciò la scomparsa dell'ultimo imperatore: Mao morì in un anonimo edificio antisismico, alla fine di luglio del 1976, qualche settimana dopo il terremoto che aveva raso al suolo la città industriale di Tangshan e devastato alcuni quartieri di Pechino. Il grado della scala Richter fu esattamente lo stesso registrato lunedì 12 maggio nella regione del Sichuan: 7,8. Anche allora milioni di sopravvissuti dovettero dormire all'aperto. La cifra ufficiale delle vittime fu 240 mila, la stima non ufficiale salì a 600 mila. A quanto salirà la stima reale dei morti della recente calamità che, nella franca ammissione del premier Wen Jiabao, appare la più grave dal 1949?

La vastità apocalittica del disastro, che si proietta sull'anno delle Olimpiadi e del Tibet e degli ansiti di un miracolo economico sobbalzante a «salti di rana», non potrà non costituire un banco di prova per la tenuta e l'immagine del discusso regime capitalcomunista cinese.

Cominciamo dalla scala Richter del Sichuan, che nell'intensità tellurica risulta uguale a quella che precedette la fine di Mao nel 1976. Ma, al tempo stesso, è assai diversa nella sua ripercussione politica e psicologica. Nel '76, secondo la tradizione maoista, il regime occultò l'entità dello sconquasso, rifiutò gli aiuti stranieri, esortò i soccorritori a ergersi assurdamente sulle rovine dei crolli per denunciare le malefatte di Deng Xiaoping allora in disgrazia. Oggi, invece, i comportamenti del regime appaiono nettamente mutati. Sia il presidente Hu Jin-tao che il premier Wen Jiabao hanno deciso di dare, e stanno dando, un massimo di trasparenza alle visioni del disastro e alla sua gravità. Wen dopo le scosse iniziali è sceso in persona fra i disastrati, gli aiuti internazionali non sono rifiutati, i giornalisti stranieri non vengono ostacolati, la stampa e la televisione cinesi annunciano via via il numero dei deceduti e dei feriti, non si nasconde il pericolo che la colossale diga delle Tre Gole possa cedere e scatenare sullo Hubei le acque del Fiume Azzurro, si lanciano sferzanti allusioni contro i dirigenti locali del partito, sani e salvi nelle loro case intatte, mentre scuole e ospedali mal costruiti crollavano come cartapesta ai primi urti sismici.

Sarà forse, anche questo, un genere di propaganda alla rovescia, volta a sedare la diffidenza degli osservatori non cinesi e a placare l'irritazione dei cinesi spaventati e offesi dalle abborracciature delle imprese edili. Sarà un riflesso di prudenza e di apertura informativa nei confronti della comunità internazionale, in particolare occidentale, che ha sottoposto la Cina a critiche severe, talora eccessive, nelle giornate più incandescenti della crisi tibetana. Sarà per dare una spazzolata democratica e liberale all'immagine della Cina del miracolo in procinto di offrire al mondo, in agosto, lo spettacolo delle Olimpiadi di Pechino, in parte già minacciato da segnali di boicottaggio e di ripulsa. Eppure non si possono chiudere completamente gli occhi davanti a due fatti evidenti. Uno storico: la diversità d'approccio alla calamità del Sichuan e province limitrofe degli attuali governanti, approccio molto più nitido, nazionalmente e internazionalmente corretto, di quello tenebroso e assurdo impiegato a suo tempo dai maoisti per nascondere, nelle ultime ore di Mao, le piaghe del terremoto di Tangshan. Uno cronistico: la visibile differenza tra l'aperto comportamento dei dirigenti cinesi, che hanno reso trasparente il disastro e accettato il soccorso esterno, e il repellente atteggiamento xenofobo dei generali birmani che, rifiutando quasi ogni forma di aiuto, stanno portando al deperimento per fame e malattia centinaia di migliaia di sopravvissuti al ciclone del 2 maggio.

La Cina postmaoista, malgrado i suoi difetti autoritari, il nazionalismo ottocentesco, la modernizzazione aggressiva e spregiudicata, ha saputo dare una risposta comunque credibile e fulminea al più travolgente disastro della sua storia contemporanea. La Cina, nel momento dell'emergenza estrema, ha funzionato. Teniamone conto anche quando, dimenticando le atrocità tibetane della «rivoluzione culturale» di Mao, la critichiamo per gli oltraggi da mercato e da consumo imposti ai monasteri buddisti di Lhasa.

da lastampa.it
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« Risposta #4 inserito:: Giugno 26, 2008, 03:55:10 pm »

26/6/2008
 
La via francese all'Europa
 
 
ENZO BETTIZA
 
Lo sparo echeggiato nell'aeroporto di Tel Aviv, che per alcuni minuti di panico ha interrotto la cerimonia di commiato di Nicolas Sarkozy dal capo di Stato Shimon Peres e dal premier Ehud Olmer, è costato la vita a un agente israeliano di frontiera colpito alla testa da un proiettile del suo stesso fucile. Scartata nella maniera più drastica l'ipotesi dell'attentato, le autorità hanno ripiegato su quella dell'incidente letale o del suicidio. L'episodio singolare, avvenuto in una regione purtroppo assuefatta a convivere con atti di violenza quotidiana, ha conferito comunque alla visita del presidente francese in Israele una cornice finale in sintonia allusiva con i drammatici argomenti da lui trattati: la sicurezza dello Stato ebraico, la nascita di una Palestina democratica tra le insidie di Hamas a Gaza e di Hezbollah in Libano, il tutto sovrastato dalle ambiguità siriane e dalla minaccia atomica di Teheran.

Il discorso pronunciato alla Knesset da Sarkozy, alla vigilia della presidenza francese dell'UE, ha dato alle sue parole anche una forte incisività europea suffragata, nel contempo, non a caso, dal nuovo pacchetto di sanzioni adottato da Bruxelles contro l'Iran. «Chi lancia appelli in modo scandaloso alla distruzione di Israele troverà sempre la Francia a sbarrargli la strada». E' stato questo non solo il primo intervento di peso davanti al parlamento israeliano di un capo di Stato francese, dai tempi di François Mitterrand nel 1982; è stato, anche, un chiaro segnale di discontinuità e anzi di rottura con la diplomazia francese dell'ultimo decennio chiracchiano. Al tempo stesso, in duplice concomitanza con la presidenza UE e con gli ultimi mesi dell'amministrazione Bush, Sarkozy sta cercando di ritagliarsi un ruolo di pacificatore mediorientale e di protagonista di un rilancio diplomatico della Francia e dell'Europa nell'area mediterranea. La strategia con cui egli sta varando l'idea, che a molti appare ancora nebulosa, di una Unione per il Mediterraneo, sembra mirata a smussare gli spigoli degli «scontri di civiltà»: indurre cioè gli israeliani a recedere dalla colonizzazione della Cisgiordania, accettare Gerusalemme come capitale di due Stati, avviare negoziati indiretti con la Siria e consolidare una possibilità di tregua durevole con Hamas. L'obiettivo finale dovrebbe essere quello di isolare l'Iran dai suoi alleati. Gli spazi che Sarkozy intende occupare, o meglio, i vuoti che intende riempire dopo un'eventuale riduzione dell'attivismo americano in Medio Oriente dopo Bush, egli sa che potrebbe farlo meglio parlando a nome non solo della Francia ma di un'Europa che purtroppo ancora non c'è: un'Europa con una costituzione accettata, un presidente non semestrale e un vero ministro degli esteri al posto di un diplomatico dimezzato tipo Solana. E magari, perché no, con un suo dispositivo militare autonomo dalla Nato.

La presidenza che Sarkozy si prepara ora ad assumere ai vertice di un'Unione Europea scontenta, diffidente di se stessa, sotto choc dopo il ripudio irlandese del trattato di Lisbona, sarà certo temporalmente semestrale secondo la tradizione intergovernativa sempre di rigore formale; ma, nello spirito se non nel tempo e nella lettera, potrebbe essere o diventare qualcosa di più che «semestrale» se il capo della più prestigiosa nazione continentale riuscirà a iniettarvi con successo l'umore delle sue ambizioni e il ritmo della sua dinamica vitalità. Senza una base istituzionale solida, dopo i referendum negativi della Francia e dell'Olanda nel 2005 e quello recentissimo dell'Irlanda, l'Europa non può darsi né un presidente quinquennale né un autentico ministro degli esteri. Ma un Semestre maiuscolo, forte, incisivo, come potenzialmente si presenta quello francese di Sarkozy, così ricco d'intenti internazionali e di buona volontà comunitaria, potrebbe spianare la strada al risanamento di quest'Europa azzoppata la cui storia peraltro, ormai cinquantennale, è stata da sempre un salto agli ostacoli e contro gli ostacoli.

La terza fase europea, dopo quella della fondazione storica e di Maastricht, dovrebbe privilegiare con maggiore nettezza l'approfondimento politico e istituzionale dell'Unione mettendo più rigorosi paletti al suo allargamento geografico. Sarkozy, col viaggio in Medio Oriente, si è mosso per tanti aspetti come un promotore della terza fase. Il fatto che abbia dato l'impressione di voler collegare, in una regione così delicata e rischiosa, il rilancio realistico della Francia col peso virtuale dell'Europa, è stato un segnale degno di nota e soprattutto d'attesa. Lui conosce e vede benissimo il traguardo tutt'altro che facile: vedremo se saprà muovere i primi passi indispensabili per raggiugerlo.
 
da lastampa.it
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« Risposta #5 inserito:: Luglio 13, 2008, 12:19:27 pm »

13/7/2008 (8:52) - UN CLASSICO IN CENTO RIGHE

Solženicyn il tuono su Mosca
 
1962, Kruscev autorizza il primo racconto dal Gulag

ENZO BETTIZA


Con il libro rivelazione di Aleksandr Solženicyn raccontato da Enzo Bettiza comincia la serie «un classico in cento righe». Gli editorialisti de La Stampa raccontano il «loro» classico: il contenuto,la storia, il senso e la loro personalissima lettura di un grande libro della letteratura mondiale.

Nel novembre del 1962, i cieli delle steppe furono d’improvviso attraversati da un tuono che si ripercosse, simile al preannuncio di una calamità travolgente ma positiva, sui recinti letterari, politici, psicologici, ideologici di Mosca. Lo stesso Kruscev, che aveva già dato in pasto ai cerberi l’inerme Pasternak, decise stavolta di non sprangare il Cremlino all’impatto del tuono Solženicyn. Autorizzando di persona la pubblicazione sulla rivista Novyj Mir di un racconto crudo e nudo, scritto da un ignoto redivivo dei gulag, Kruscev portava così a compimento su un terreno trasversale il terzo trauma antistalinista dopo le denunce del XX e XXII congresso.

La pubblicazione di Una giornata di Ivan Denisovic, opera basata in gran parte sulla dolorosa esperienza personale di Aleksandr Solženicyn, venne considerato un evento eccezionale e, da molti comunisti conservatori, addirittura scandaloso. Il testo in sé, meno sconvolgente del successivo Arcipelago Gulag e dei Racconti della Kolyma di Varlam Šalamov, non era una novità assoluta per gli occidentali: lo era invece l’inaudito imprimatur concessogli dal segretario generale del Pcus, che lo legittimò come un reportage fondamentale degli anni bui dell’Urss. Si trattava infatti del primo documento, autenticato dalla massima autorità sovietica, sulle disumane condizioni di vita nei campi di lavoro sovietici che, molto spesso, erano campi di sterminio omeopatico. Prima di allora non era mai giunta dalla Russia la conferma ufficiale dello schiavismo di Stato praticato fra taigà siberiane e tundre artiche.

Due parole, più che sulla trama (in genere scarsa nei gulag d’epoca), sulla scansione della giornata dell’alter ego contadino di Solženicyn che si presenta col nome di Ivan Denisovic Šuchov. La grigia poesia della narrazione scaturisce dalla ripetitività tediosa delle ore, dei gesti, delle fatiche, delle miserie, delle punizioni, delle brodaglie di un universo concentrazionario consegnato a uno squallore eterno. Quella descritta nel libro è una giornata come le altre, una delle 3653 giornate di prigionia cui Šuchov, come lo stesso Solženicyn, era stato ingiustamente condannato per alto tradimento durante la guerra. Della sua esistenza nel lager seguiamo, puntualmente, ossessivamente, tutti i «riti» quotidiani. Sveglia urlata alle cinque; punizione immediata per chi tarda ad alzarsi; repulsiva poltiglia d’orzo per colazione; perquisizione in cortile, durante l’appello dei detenuti paralizzati dal gelo; marcia nella steppa ghiacciata, coi piedi avvolti in corteccia d’albero, dove li attende il duro e spesso inutile lavoro al cantiere; breve parentesi al caldo della mensa anoressica; ancora freddo, lavoro forzato, stenti, insulti, percosse; poi il ritorno al campo, un altro appello, un’altra brodaglia per cena e, finalmente, il sonno liberatorio.

Ivan vive la sua giornata rassegnato, condensando tutte le sue anemiche energie nella lotta per sopravvivere, per difendersi dal freddo, conquistarsi una porzione in più di zuppa, una crosta di pane o un po’ di tabacco. Il fatto che nulla d’importante sia accaduto, che nulla accada, tranne la diuturna resistenza alla morte che plana innominata nell’aria algida, è la chiave di fondo esistenziale, la chiave antitrama, che apre qua e là nel racconto perfino intermezzi di triste comicità. Alla fin fine, a Ivan oggi gli è andata bene: non l’hanno sbattuto in cella, non si è ammalato, è anche riuscito a nascondere del pane sotto il materasso cencioso. Insomma, «una giornata quasi felice». Tristezza, fatalismo primordiale, accanita volontà di sopravvivenza: tutto ciò conferisce al breve racconto il tono elegiaco di una speranza non del tutto perduta e che sarà, un giorno, recuperata in senso patriottico nella Russia di Putin dallo stesso Solženicyn come lo fu da Dostoevskij nella Russia degli zar. Da deportati dissidenti a conservatori slavofili il passo per ambedue, sotto diversi aspetti, è stato quasi consimile. Ma è un discorso intricato che per ragioni di spazio non si può approfondire qui.

Mi resta qualche riga per ricordare, di passata, qualcosa del mio rapporto con quella lontana testimonianza narrativa che sanzionò la fama internazionale di un oscuro autore russo. Fra i diversi riconoscimenti, alcuni anche inutili o sbagliati, che ho ricevuto nel corso della mia attività, ce n’è uno a cui tengo in modo particolare: quello di Alberto Ronchey, conoscitore minuzioso di cose russe, che in un suo recente libro-intervista con Pierluigi Battista mi cita come il primo traduttore che ha rivelato il nome e l’opera di Solženicyn al pubblico italiano. Sono stato difatti il primo divulgatore in assoluto, in una lingua occidentale, della Giornata di Ivan Denisovic. Quando, in un frangente in cui la destalinizzazione sembrava in calo, apparve sulla prestigiosa rivista di Tvardovskij il referto di un ex ufficiale deportato dell’esercito sovietico, lo lessi d’un fiato e ne rimasi profondamente impressionato. Mi parve d’intuire che quel racconto chiaro, rivelatore, ancorché misurato, fosse l’avvisaglia antesignana dell’alluvione di verità che doveva poi dilagare, dall’«interno degli inferi», nelle opere maggiori dello stesso Solženicyn, di Šalamov, di Vasilij Grossman.

A quel tempo, oltre a coprire il servizio quotidiano di corrispondente della Stampa, collaboravo da Mosca con lo pseudonimo di Sarmatius anche all’Espresso. I grandi spazi dell’ebdomadario romano d’allora mi sembavano i più idonei ad ospitare, a puntate settimanali, i capitoli di un’operetta che aveva comunque dimensioni di un romanzo breve. Ne proposi una versione italiana alla direzione, sottolineando l’importanza dell’evento che, grazie alle caratteristiche del narratore e all’assenso di Kruscev, andava assai al dilà di un puro fatto letterario. Tuttavia il direttore dell’Espresso, il mitico Arrigo Benedetti, romanziere oltreché giornalista, lesse la prima puntata senza percepirne l’esplosivo significato politico e concentrando la sua attenzione soltanto sulla forma linguistica della traduzione. Io avevo cercato di restituire in un italiano rotto, sincopato, semplificato, un po’ plebeo ma comprensibile, le cadenze e sentenze popolari russe messe da Solženicyn nella bocca di un ruvido mugico rinchiuso in un gulag siberiano. Non potevo certo far parlare quell’Ivan remoto, perdipiù abbrutito in un campo gestito dagli sbirri dell’Nkvd, allo stesso modo di un borghese pariolino di Moravia. Benedetti evidentemente non la pensava così. Lo sentii sbuffare spazientito all’altro capo del filo: «Ma che mai è questa roba, chi è mai questo Soggizin o Ivan o come diavolo si chiami? Uno scrittore vernacolare? Un romanziere della domenica? Un goffo imitatore russo di Pavese?»

Di parere diverso fu invece il condirettore Eugenio Scalfari. Egli mostrò di fidarsi senza riserve non solo delle tonalità rustiche della mia traduzione ma, in particolare, della mia intuizione giornalistica. Al contrario di Benedetti, inchiodato alla valutazione estetica, Scalfari aveva afferrato appieno il senso politico, extraletterario, del primissimo colpo d’ariete sferrato in Russia, da un deportato russo, al muro di silenzio sugli arcipelaghi della schiavitù. M’incitò quindi a portare sino in fondo la mia fatica di traduttore e commentatore del racconto. Così, gli amari ricordi dello «zek» Ivan Denisovic, portavoce rude e attendibile del medesimo Solženicyn, comparvero per la prima volta in Occidente nella loro completa versione italiana sulle ampie pagine bianconere del vecchio Espresso. Fu la segnalazione dell’onda iniziale di una marea destinata a montare e a non fermarsi più.

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« Ultima modifica: Luglio 14, 2008, 11:10:50 am da Admin » Registrato
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« Risposta #6 inserito:: Luglio 14, 2008, 11:11:29 am »

14/7/2008
 
Opposizione, ricorda la sinistra
 
 
 
 
 
ENZO BETTIZA
 
Forse non si è messa bene a fuoco la novità del significato, di quanto è avvenuto martedì scorso nella palestra pubblica di Piazza Navona. Il palleggio delle responsabilità, delle ipocrisie, delle coperture, dei pentimenti, dei giustificazionismi non è servito ad altro che a offuscare e a confondere il vero significato di una manifestazione di teppismo organizzato che non aveva e niente ha a che vedere con lo stile protestatario, le argomentazioni sociali e il linguaggio spesso sferzante ma controllato di sinistra e anche di estrema sinistra. L’antiberlusconismo, sia pur drastico, di un Bertinotti o di un Diliberto non si era mai mescolato a volgarità da talamo e anche quando essi abbordavano temi scottanti come il conflitto di interessi, i rapporti con la giustizia, lo strapotere mediatico del Cavaliere, mantenevano la critica nell’ambito di un contesto politico e antagonistico basato su ragionamenti e dati, talora opinabili, però mai offensivi o calunniosi sul piano personale.

Facevano politica, la loro politica, con la grinta di combattenti duri, irremovibili, ma capaci sempre di distinguere tra l'insulto gratuito e l’accusa circostanziata. Non facevano d'ogni erba un fascio grillesco. Sapevano separare le colpe vere o presunte di Berlusconi dagli interventi teologici del Papa, dalle cautele istituzionali del Presidente della Repubblica, perfino dalle mosse diplomatiche di certi alleati o collaboratori berlusconiani.

Dire perciò che la brutta e pericolosa manifestazione di Piazza Navona sia stata di sinistra, o di estrema sinistra, o soltanto di emergenza democratica, è un falso che non regge alla prova dei fatti consumati e delle parole scagliate indiscriminatamente contro tutti e tutto: dai membri del governo al capo dell'opposizione, dal Pontefice al Capo dello Stato. C'è stata, sì, un'emergenza democratica, ma nel senso che il sistema democratico in quanto tale, senza distinzione, in tutte le sue emergenti componenti esecutive e legislative, è stato pesantemente attaccato, svillaneggiato e di fatto ripudiato come un complesso di istituzioni sorde e grigie. Non a caso adopero due storici aggettivi mussoliniani. Chi ci ricordava, in forma caricaturale, il comico che non fa più ridere mentre lanciava il noto grido «italiani!» rivolgendosi da un video orwelliano alla folla consenziente? Quale balcone fatale evocavano le urla del comico che il demagogo principe del raduno, Antonio Di Pietro, ha nella sostanza ammesso di preferire al pavido Veltroni?

Altri partecipanti di prima fila del raduno, fingendosi pentiti, ma in realtà approvando in cuor loro i cabarettisti che gridavano chiaro quello che loro pensano e non hanno il coraggio di dire in pubblico, hanno tentato poi di cavarsela con qualche distinguo e qualche battuta scarsa. La satira non andrebbe confusa con la politica. Certe uscite improvvisate, certe allusioni oscene, certe deviazioni dal buon galateo di sinistra andrebbero attribuite tutt'al più a un'innocua e artistica trasgressione qualunquistica o populistica. La piazza ignara, innocente, sarebbe stata in qualche modo aggirata e colta di sorpresa dalle battute meno rispettose o più sconvenienti. Ma tali espedienti, soprattutto quelli della satira distinta dalla politica e della brava piazza presa di contropiede, sono stati subito smentiti da una confessione lucida, degna di lettura, tutt'altro che comica, firmata sul Corriere della Sera da Sabina Guzzanti. Eccone fra virgolette il passo essenziale: «Quello che hanno visto i presenti è una piazza ricolma di gente, rimasta in piedi per tre ore ad ascoltare e ad applaudire entusiasta. Gli interventi più criticati dai media sono quelli che hanno avuto indiscutibilmente più successo. Nel mio intervento, al contrario di quanto tanti bugiardoni hanno scritto, gli applausi più forti sono stati sulle critiche alla politica del Vaticano e le frasi più forti sono state applaudite ancora di più». Altro che satira da una parte e politica dall'altra. La Guzzanti, giustamente dal suo punto di vista, rivendica il ruolo eminentemente politico che gli organizzatori le hanno concesso di svolgere in quanto cittadina in piazza e non attrice in cabaret. Niente più nani e ballerine che ai tempi di Craxi sedevano ossequiosi e muti nelle platee dei congressi. Oggi i ruoli si sono rovesciati. Nani e ballerine sono saliti sul podio, dicendo ad alta voce la loro nell'ambito di un raduno organizzato da una parte dell'opposizione contro il governo e, più in particolare, contro la legittima opposizione parlamentare al governo. Galvanizzata dal successo di comici e pubblicisti forcaioli, la classe politica, o una fetta militante di essa, ha finito per arruolarli e dare loro in appalto tribune e spazi che di regola spettano ai rappresentanti dei partiti. Qualcosa che in definitiva sa di harakiri, di usurpazione astuta promossa nello stesso momento a proprio danno e vantaggio. Però, a guardar bene, il danno è maggiore del vantaggio. Il monologante Grillo, la scatenata Guzzanti hanno caratterizzato e dominato, con le loro invettive, lo spazio plaudente di Piazza Navona rendendo un pessimo servizio ai promotori politici e intellettuali dell'evento degenerato in disastro.

L’antiberlusconismo boccaccesco è stato un alibi, una foglia di fico, un velo, al cui riparo dare sfogo a un giustizialismo rapsodico che reca più male che bene alla stessa magistratura. I dipietristi hanno voluto occupare il vuoto lasciato dalle severe ma composte schiere del massimalismo postcomunista, e l'hanno occupato con una retorica anarcoide che, in definitiva, nel linguaggio e nel portamento, ricorda più le destre piazzaiole del secolo scorso che le sfortunate sinistre odierne. Berlusconi è passato in secondo ordine rispetto alla globale furia antisistema dell'evento, anche se in parte ne ha favorito l'innesco dando la precedenza, nelle prime manovre di governo, ai fatti giudiziari che lo riguardano anziché a quelli più urgenti che preoccupano i due uomini chiave dell'esecutivo: Bossi, che persegue l'idea di stipulare un patto federalistico con l'opposizione, e Tremonti che cerca di riparare i guasti e il declino di un'economia disastrata. Il seguito della storia non sarà allegro per nessuno degli attori in campo e soprattutto non lo sarà per gli italiani che, da quindici anni, non sanno più a che santo votarsi.
 
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« Risposta #7 inserito:: Luglio 23, 2008, 10:45:00 pm »

23/7/2008
 
La mente del male
 
 
 
 
 
ENZO BETTIZA
 
La più lunga, la più ambigua, la più protetta latitanza in contumacia dell’ultimo dopoguerra jugoslavo è giunta alla fine. Sarebbe infatti esagerato dire che Radovan Karadzic sia stato all’improvviso scoperto e arrestato dalla polizia di Belgrado. Il Nerone di Pale, il poeta e psichiatra per l’infanzia Radovan Karadzic, che declamando versi si godeva l’intermittente sparatoria dei cecchini sui bersagli umani di Sarajevo, è stato abbandonato al suo destino.

Lo hanno abbandonato i governanti serbi ormai logorati sul piano internazionale da una finzione durata al di là del sostenibile: lo hanno quindi semplicemente spogliato dell’immunità, assicuratagli per tredici anni dall’ex capo dello Stato Kostunica, in attesa di estradarlo come merce di baratto al tribunale per i crimini di guerra dell’Aja.

Il nuovo presidente occidentalista, Boris Tadic, dai cui uffici sarebbe partita la notizia dell’«arresto», ne ha ritmato la comunicazione sui passi che il ministro degli Esteri di Belgrado espletava intanto nelle principali capitali europee. Insomma, la testa del maggiore dei criminali serbi, il vero responsabile del genocidio di Srebrenica e dell’urbicidio di Sarajevo, in cambio di un'imminente apertura alla nuova Serbia da parte dell’Unione Europea. Non a caso siamo alla vigilia di un importante vertice intergovernativo a Bruxelles e non caso, in questi stessi giorni, gli ambasciatori serbi stanno rientrando nelle sedi occidentali abbandonate per protesta dopo la proclamazione d'indipendenza del Kosovo. L’isolamento internazionale cominciava a incidere troppo sulla già lacera borsa politica ed economica di Belgrado.

Però non tutta l’Europa sembra accingersi ad accettare a tempi unanimi e concordi le pratiche dell’estradizione. Il responsabile della diplomazia europea, Solana, pare incline a dare cauto ascolto alle eccezioni sollevate in merito dal gruppo dei Paesi nordici, schierati alle spalle dell’Olanda gravemente macchiata, all’epoca di Srebrenica, dall’indegna e quasi complice inerzia dei suoi caschi blu che prima dell’eccidio brindavano in divisa Onu col generale Ratko Mladic. C'è chi ricorda ancora la foto, scattata il 12 luglio 1995, in cui si vede il capo del corpo olandese, Ton Karremans, in procinto di avvicinare il bicchiere di sljivovica a quello del massacratore in tuta mimetica che agiva agli ordini del presidente Karadzic. Scandalo morale e crisi politica provocarono poi le 500 medaglie elargite dal governo dell’Aja ai soldati del contingente che non impedirono la strage di ottomila musulmani bosniaci. Ora molti temono che nuovo scandalo e nuova crisi, ai danni dell’Olanda, possano emergere proprio al tribunale dell’Aja dalla testimonianza di un personaggio pericoloso, incontrollato e ricattatorio come Karadzic. Sembra di capire che i nordici, perciò, cerchino di guadagnare tempo, sostenendo che non basta trascinare alla sbarra internazionale un solo responsabile, il solo mandante Karadzic, non accompagnato dall’esecutore militare e manuale del genocidio. Secondo taluni sarebbe addirittura Mladic il principale colpevole dell’orrore.

Ma si tratta di sofismi di lana caprina, che hanno poco valore storico e poca probabilità di realizzarsi subito nei fatti. Sarebbe come dire, con le dovute proporzioni s’intende, che era quasi più importante colpire Himmler prima di Hitler o Beria prima di Stalin. Nello specifico caso balcanico era Karadzic la mente e Mladic il braccio del male. Era il poetico e superlativo montenegrino Karadzic, interlocuore privilegiato di Mitterrand, del mediatore di Dayton Holbrooke, del ministro britannico Owen, perfino del Nobel Wiesel sopravvissuto ai lager nazisti, era lui lo stratega della morte sul viale dei cecchini nei 43 mesi d’assedio di Sarajevo. Era lui l’ideatore della mattanza di Srebrenica. Era lui che confidava agli amici che un «Turco», un islamico di Bosnia, vale assai più da morto che da vivo. Era insomma Radovan Karadzic, sostenuto dal defunto Milosevic e servito dal forse defunto Mladic, il promotore delle ecatombi più spietate che l’Europa ricordi dalla fine della seconda guerra mondiale.

L’uomo che oggi vediamo in sandali, con la lunga barba bianca da monaco ortodosso, non era comunque un criminale comune: citava a memoria i sonetti di Shakespeare, affascinava le donne, incantava i negoziatori occidentali col suo inglese fluente e impeccabile. Un mostro mellifluo, un attore sanguinario, un folle machiavellico mascherato di volta in volta da politico realista e da profeta? Addirittura un santo, se dobbiamo credere all’opinione di una certa Chiesa oltranzista serba. Diversi servizi occidentali hanno raccolto prove sufficienti per sostenere che, dal 2003, la Chiesa ortodossa avrebbe assunto l’onere di sostenerne la latitanza. La gerarchia religiosa avrebbe inviato a suo tempo questo messaggio alle docili autorità di Belgrado: «D’ora in poi dimenticatevi che esiste. Lo proteggeremo noi, nei nostri monasteri, fino all’estinzione dei suoi giorni. Allora gli costruiremo un mausoleo dove la gente potrà venire a venerarlo come eroe del popolo serbo». Nessuno ricorda più che il vero Karadzic degno di venerazione, al quale l’Encyclopaedia Britannica dedica mezza pagina, si chiamava Vuk: visse nella prima metà dell’Ottocento, fu filologo romantico, padre della letteratura serba, unificatore e semplificatore degli alfabeti serbi e croati, spirito d’unità culturale e non d'odio razziale fra i popoli jugoslavi.

Invece, il falso Karadzic, non si sa bene se da medico o da paziente, è finito sotto altro nome in una clinica secondaria per malati mentali, fino a ieri dimenticata dalle autorità serbe e ignota al mondo intero. Non è da escludere che potremo rivederlo presto alla sbarra dell’Aja, perfettamente sbarbato, in doppiopetto scuro, al posto del prigioniero Milosevic che lo temeva e lo nominava il meno possibile. Si capisce perché nell’attesa tanti olandesi tremino.
 
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« Risposta #8 inserito:: Agosto 02, 2008, 03:24:58 pm »

2/8/2008
 
Se la Cina supera gli Usa
 
 
 
 
 
ENZO BETTIZA
 
Lo sport come scontro disarmato, come competizione cavalleresca tra grandi nazioni, in definitiva come metafora di una guerra mimetica, guerreggiata solo con muscoli, guantoni, palloni, canestri e attrezzi ginnici. Appariranno più che mai così le Olimpiadi che s'inizieranno l'8 agosto e che avranno, per massimi protagonisti e rivali, la Cina e gli Stati Uniti d'America. Due continenti, l'uno avviato alla riconquista della potenza perduta, l'altro potente e ricco fin dal primo giorno della sua indipendenza nazionale. Ridotto all'osso, il senso simbolico, epocale, delle imminenti gare di Pechino è tutto qui: nella singolar tenzone tra un colosso asiatico in crescita esplosiva e il supercolosso occidentale sempre più dubbioso di una supremazia arenata e minacciata dal declino. L'economia americana da qualche tempo ansima, i venerdì di Wall Street sono sempre più opachi, mentre sul futuro politico di Washington gravano le incognite di una svolta di potere affidata non si sa bene a quali mani e quale testa presidenziale.

L'Asia invece, in particolare l'Asia cinese, scalpita, corre ai grandi traguardi del secolo, non vede l'ora di primeggiare, dilà dai mercati, anche nelle Olimpiadi trasformandone cerchi e medaglie in un trofeo di riscossa storica degno di un millenario passato imperiale. Il contraccolpo d'immagine, non solo sportivo ma politico, sarebbe quindi enorme per l'America se i suoi atleti, abituati a stravincere, venissero battuti dai cinesi già definiti dal giovane Mao «flaccidi» e fisicamente inetti. Alcuni commentatori, dimenticando gli abissi di disumanità da cui è emersa la Cina postmaoista, hanno addirittura paragonato le Olimpiadi di Pechino 2008 a quelle naziste di Berlino 1936. Quei lontani giochi berlinesi andrebbero evocati, semmai, non per mortificare i governanti semicomunisti della Cina odierna, che nei loro limiti si sforzano di compilare nuovi codici di tolleranza, bensì per onorare la memoria dell'atleta Jesse Owens, figlio nero della democrazia americana, che con quattro titoli olimpionici seppe umiliare la prosopopea razzista di Hitler e di Rosenberg. L'atletica americana, a torto o a ragione, soprattutto negli anni fra le due guerre, è stata spesso nobilitata da un alone militante, democratizzante, d'avanguardia antitotalitaria; già nel 1933 aveva fatto crollare, sotto i pugni di Max Baer, il mito carnale dell'Italia fascista Primo Carnera. Poi, ci fu una guerra fredda sportiva. Molti trofei americani sono stati strappati all'epoca negli scontri con atleti russi, bulgari, ungheresi, o tedeschi orientali allevati come automi da torneo in laboratori d'ingegneria genetica con somministrazioni di sostanze chimiche alteranti. Il doping di Stato era pratica di routine nelle scuderie superomistiche dei Paesi ex comunisti. Ora non mancano dubbi e sospetti di chi, sottolineando l'origine comunista dei dirigenti cinesi, allude alla possibilità che i loro atleti vengano preparati ad affrontare fisicamente le gare con metodi artificiali e sleali. Certo non è facile penetrare fino in fondo i convolvoli dei cervelli asiatici. Tuttavia non credo che la Cina, già sotto tiro e monitoraggio permanente a causa dei costi oceanici delle Olimpiadi, dei deturpamenti urbani e ambientali legati alle costruzioni olimpiche, oserà mai esporsi al rischio di uno scandalo da doping che ne farebbe a pezzi la rispettabilità di Paese ospite e garante del grande evento. Alla Cina, seppure percorsa da orgogli e fremiti nazionalisti, non interessa forse neppure stravincere nelle Olimpiadi: le interessa soprattutto che esse si tengano per la prima volta a Pechino, che ne legittimino l'entrata a pieno titolo nell'universo globalizzato, che la pongano quasi allo stesso livello planetario dell'America e, magari, un poco più in alto del Giappone e dell'India. Il senso della sfida cinese è in massima parte concentrato sulla straordinaria potenza d'attrazione emblematica e magnetica dello spettacolo in se stesso, lo spettacolo in quanto tale. Il trionfo politico è già qui e vedremo se ad esso seguiranno pure i trionfi sportivi. Non a caso il presidente Hu Jintao ha voluto annunciare, proprio ieri, che la politica non s'arresterà ma completerà la vicenda olimpica con ulteriori schiusure e riforme. Intanto si registrano nuovi sblocchi su Internet e si garantisce ai giornalisti stranieri l'accesso ai siti di Amnesty International, sempre all'erta sulla repressione vera o virtuale dei diritti umani. Per gli americani il problema sportivo si salda invece più intimamente a quello politico. Essi ricordano benissimo il servizio già reso, dal 1972 al '73, dai tavoli di ping pong al successivo tavolo diplomatico su cui Nixon e Kissinger avviarono con Mao e Ciu Enlai la primissima e timida fase d'apertura. Ma oggi, per tanti americani, il gioco si è paradossalmente capovolto: non si tratta più di favorire l'apertura di una Cina veterocomunista ma, al contrario, di frenare e contenere l'eccessiva apertura al mondo di una Cina neocapitalista. Washington ne teme l'invadenza nei mercati, nelle finanze, nelle industrie statunitensi.

Teme, in maniera esagerata, un venerdì nerissimo provocato da un incontenibile espansionismo economico cinese. E' su tale sfondo di panico latente che gli americani si augurano di non uscire, dalle Olimpiadi, con un numero di medaglie inferiore a quello dei cinesi. Paventano soprattutto l'incidente nelle partite di basket in cui gli americani, anzi, in particolare gli afroamericani sono o erano per antica tradizione sempre i più forti. Come raccontarla al mondo se, nel momento in cui un nero si accinge a dare la scalata alla Casa Bianca, i famosi afroamericani del basket dovessero subire una cocente disfatta da parte dei «flaccidi» giocatori cinesi?

da lastampa.it
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« Risposta #9 inserito:: Agosto 10, 2008, 04:38:58 pm »

10/8/2008
 
L'impero colpisce ancora
 
 
 
 
 
ENZO BETTIZA
 
Dei tre coacervi regionali in permanente stato d’infiammabilità e d’insidia agli equilibri mondiali, il Medio Oriente, i Balcani e il Caucaso, quest’ultimo è precipitato nel gorgo della catastrofe proprio nel giorno in cui il tripudio olimpico, celebrato a Pechino, avrebbe voluto lanciare all’umanità un invito simbolico alla pace universale. Altro che «one world one dream». Di colpo, alle grandiose visioni in technicolor confuciano osannanti l’armonia fra le nazioni e l’avvento di un mondo irenico, abbiamo visto sovrapporsi e contrapporsi, in un contrasto insieme beffardo e crudele, immagini di una guerra a tutto campo quali non si vedevano dai tempi malefici del Vietnam. Una guerra dura, completa, con razzi, aerei, carri armati, lanciafiamme, carneficine spaventose di cui non avevamo più memoria. Una guerra diretta, in carni ed ossa martoriate, non diluita e mimetizzata nei bagliori elettronici di un videogame televisivo. I militari georgiani hanno inflitto morte e distruzione alle popolazioni di una città ignota che si chiama Tskhinvali, mentre i bombardieri russi hanno decimato i civili di un’altra città molto più nota, l’antica e storica Tiflis, dal 1917 Tbilisi, capitale dello Stato caucasico più importante e drammatico e da ieri in dichiarato conflitto bellico con la Federazione di Putin-Medvedev. Le bombe russe non hanno risparmiato neppure la cittaduzza di Gori dove nel 1878, nella stamberga di un ciabattino violento e alcolizzato, nacque il futuro seminarista ortodosso e poi rivoluzionario Josip Stalin.

Già quella nascita d’eccezione ci dice che della Georgia gloriosa e duplice, colta e guerriera, cristiana e marxista, russa soltanto dal 1801, è molto più facile parlare che non dell'enclave capillarmente russificata Ossezia del Sud, casus belli dello scontro armato in corso. La mitica Colchide, patria di Medea e degli Argonauti, detentrice sacrale del vello d’oro, era presente fin dai tempi greci nella leggendaria storia europea. In seguito, dal principe Bagration, morto come generale russo nella Borodino di Guerra e Pace, ai grandi menscevichi del Febbraio 1917 e ai bolscevichi dell’Ottobre, fino al faraonico Stalin, all’industrializzatore Ordžonikidze, al feroce Beria, al riformatore Shevardnadze, la storia della Russia moderna sarà segnata in profondità, nel male e nel bene, da ogni sorta di personaggi emersi dalla Transcaucasia georgiana. Lenin vedrà in Stalin addirittura un «grande russo», ostile alla propria patria, nel momento in cui i socialdemocratici menscevichi e i leninisti nazionali di Tbilisi si opporranno con le armi alla bolscevizzazione di stampo russo della loro terra. Il georgiano Stalin, a cui taluni storici attribuiscono perfino un’oscura origine osseta o abkhaza, sarà lui a spezzare la spina dorsale ai rappresentanti del socialismo aperto ed europeizzante della combattiva repubblica caucasica fra il 1917 e il ‘21.

Molto più difficile è invece descrivere la minima repubblichetta autonoma di centomila anime chiamata Ossezia. Essa dal 1992 è divisa in due entità che aspirano a riunificarsi. L’appendice meridionale è incorporata nel territorio georgiano, quindi è formalmente georgiana; l’altra metà è integrata nel corpo federale della Russia la quale, al tempo stesso, è presente in forme subdole anche nell’entità Sud con rubli, passaporti, personale politico, servizi segreti e presidi militari camuffati da forze d’interposizione. Il piano di Putin, volto a riportare alla Russia molte componenti perdute dell’impero sovietico, è da anni determinato e lineare: staccare definitivamente l’Ossezia del Sud dalla Repubblica georgiana e agganciarla all’Ossezia del Nord completamente russificata. Pure la più cospicua repubblichetta d’Abkhazia è di fatto uncinata dalla Russia e in parte già staccata dalla Georgia. Non si contano le guerre civili poco note in Occidente, più o meno striscianti, più o meno per procura, ma continue, che dal 1991 hanno seguitato a opporre i russi ai georgiani nella tenzone, spesso violenta, per il possesso di questi sperduti territori eurasiatici. L’ultima tigre cavalcata da Putin è stato il Kosovo. Nell’impossibilità di bloccare la dichiarazione di sovranità kosovara sostenuta dagli occidentali, e di soccorrere una Belgrado delusa che si sta riorientando sull’Europa, egli ha messo in questi giorni in atto il ricatto preannunciato: all’indipendenza di Pristina ha risposto inviando in un blitz a sorpresa i blindati russi nell’Ossezia meridionale e scatenando i cacciabombardieri sulla capitale della Georgia.

Il pretesto gli è stato offerto dalle mosse sconsiderate e autolesioniste dell’ultimo presidente filoamericano di Tbilisi, Mikhail Saakashvili, che nel tentativo di forzare la mano all’amministrazione Bush ha lanciato la truppa all’attacco dei secessionisti di Tskhinvali. Contemporaneamente ha ribadito la volontà di Tbilisi di entrare nella Nato, ha invitato gli americani a riportare coi loro elicotteri dall’Iraq in Georgia il corpo di spedizione georgiano, duemila soldati ben addestrati da schierare contro l’assalto delle divisioni russe. Se ciò avvenisse si profilerebbe, addirittura, la possibilità di un nefasto contatto diretto tra mezzi aerei statunitensi e caccia russi. Oggi Saakashvili, che è stato uno dei responsabili della cacciata del moderato Shevardnadze dal potere e non gode più dell’appoggio incondizionato dei compatrioti, è scomparso in un bunker alla periferia della capitale. Fino a ieri si presentava alla televisione con alle spalle la bandiera stellata dell’Unione Europea di cui la Georgia, come tutti sanno, a cominciare da Putin, non fa parte.

Il discorso sul gas e sul petrolio, discorso che col famoso progetto «Nabucco» farebbe della Georgia un ponte di scavalcamento delle forniture energetiche russe destinate all’Europa, lo lasciamo agli specialisti della materia. La questione economica, comunque, non può che aggravare la già gravissima crisi politica e militare che sta mettendo in imbarazzo gli americani, in difficoltà gli europei, in disperazione cinque milioni di georgiani e in posizione di vantaggio soprattutto la strategia del recupero imperiale di Putin. È stato l'intemperante e sovreccitato Saakashvili a offrirgli il trampolino di lancio su sfondo olimpionico. Ora rieccolo, lo zar indefesso, col cannocchiale e la spada in pugno al centro di uno scenario selvaggio che evoca Lermotov e Tolstoj: a Vladikavkaz, capitale e avamposto di guerra della russificatissima Ossezia del Nord.

da lastampa.it
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« Risposta #10 inserito:: Agosto 10, 2008, 05:01:24 pm »

Storia e politica - Il dramma degli osseti

Dal gioco delle etnie di Stalin alla sfida della Georgia filo-Usa

Il dittatore usò l’odio tra i popoli come strumento di governo



I bollettini della guerra caucasica annunciano che una bomba osseta avrebbe colpito la piccola casa di Gori dove nacque nel 1879 il «meraviglioso georgiano» (così lo chiamò Lenin quando lo conobbe a Vienna nei primi anni del Novecento) che passò alla storia con il nome di Stalin. Mai bomba è stata altrettanto mirata e «intelligente». Nella guerra scoppiata in questi giorni fra Mosca e Tbilisi, l’ombra di Jozif Vissarionovic Dzhugashvili domina, come quella di Banquo nel Macbeth di Shakespeare, il tavolo dei negoziati e il campo di battaglia. La geografia politica delle etnie sovietiche fu il suo capolavoro. Quando Lenin, dopo la fine della guerra civile, lo incaricò di sciogliere l’imbrogliato nodo delle cento nazionalità che vivevano nell’impero degli zar, Stalin si dedicò anzitutto al Caucaso meridionale e mise fine con una spedizione militare all’indipendenza del Paese in cui era nato.

Era il 1921. Un anno dopo sottopose a Lenin il progetto di uno Stato federale bolscevico di cui avrebbero fatto parte quattro repubbliche: Russia, Ucraina, Bielorussia e una entità nuova, chiamata Transcaucasia, in cui vennero riunite l’Armenia, la Georgia e l’Azerbaigian. Quattordici anni dopo, nel 1936, una nuova costituzione staliniana rimaneggiò la carta geografica. La Repubblica Transcaucasica fu divisa nelle sue tre componenti e vennero istituite undici repubbliche (Russia, Ucraina, Bielorussia, Georgia, Armenia, Azerbaigian, Uzbekistan, Turkmenistan, Tagikistan, Kazakistan e Kirghizistan) a cui furono aggiunti, dopo il patto tedesco- sovietico dell’agosto 1939, i tre gioielli del Baltico (Estonia, Lettonia, Lituania) e, con il nome di Moldavia, la Bessarabia romena.

Cambiavano i nomi e i confini, ma la strategia di Stalin era sempre la stessa. Per realizzare il «socialismo in un solo Paese» occorreva creare uno Stato pseudo-federale in cui tutte le repubbliche fossero eguali (ma una, la Russia, più eguale delle altre) e in cui i poteri fossero apparentemente decentrati, ma sostanzialmente concentrati nelle mani del partito comunista e del suo segretario generale. Per prevenire ciò che era accaduto dopo la rivoluzione bolscevica, quando molte regioni avevano proclamato la loro indipendenza, Stalin disegnò le repubbliche in modo da evitare che fossero etnicamente omogenee. Non bastava che il vero potere fosse soltanto a Mosca. Occorreva creare all’interno di ogni repubblica potenziali conflitti che avrebbero conferito al segretario generale del partito la funzione di arbitro supremo.

Il caso della Georgia è esemplare. La maggioranza del Paese è georgiana, ma entro i confini dello Stato esistono tre repubbliche autonome, create dal potere sovietico: Abkhazia, Agiaristan, Ossezia. E per evitare che le popolazioni musulmane sulla frontiera nord-orientale della Georgia divenissero troppo potenti, l’Ossezia fu divisa in due tronconi: quello meridionale fu «domiciliato » in Georgia e quello settentrionale assegnato alla Repubblica autonoma dei ceceni- ingusceti. Da allora le due Ossezie hanno svolto a nord e a sud della frontiera repubblicana lo stesso ruolo. Sono una quinta colonna fedele alla Russia in terre potenzialmente animate da spirito secessionista.

Il mio primo incontro con gli osseti fu a Mosca, nel settembre del 1991, dopo il fallimento del putsch con cui il «gruppo degli 8» cercò di estromettere Boris Eltsin dalla presidenza della Repubblica russa.

Attraversavo piazza Pushkin quando vidi, di fronte al monumento dello scrittore, un semicerchio di donne vestite di nero che mostravano ai passanti i ritratti dei figli, dei padri, dei fratelli e dei mariti. Qualche settimana prima, mentre il generale Dudaev s’impadroniva del potere a Grozny, capitale della Cecenia, i «cugini» ingusceti erano insorti per riprendersi le case che il potere sovietico aveva assegnato agli osseti del nord dopo la fine della Seconda guerra mondiale. Punite dal potere sovietico per avere collaborato con gli occupanti tedeschi, le popolazioni musulmane dei ceceni e degli ingusceti approfittavano della disgregazione dell’impero per saldare il conto. Gli uomini ritratti in quelle fotografie erano le vittime dei massacri che avevano avuto luogo nell’Ossezia del nord. I russi intervennero e gli ingusceti vennero duramente cacciati dalle terre di cui erano riusciti a impadronirsi. Se il lettore vuole conoscere la storia romanzata di quegli avvenimenti può leggere un romanzo di John Le Carré (La passione del suo tempo) apparso presso Mondadori qualche anno fa.

Mentre gli osseti del nord ritornavano nelle loro case, gli osseti del sud insorgevano contro la Georgia. Non volevano far parte di uno Stato che aveva proclamato qualche mese prima la propria indipendenza e invocavano l’aiuto di Mosca. Lo ottennero, naturalmente, e godono da allora di una autonomia di fatto, garantita dalle truppe russe che vennero stanziate nella regione sotto l’egida dell’Osce (Organizzazione per la cooperazione e la sicurezza in Europa) dopo la fine delle guerre (una stessa crisi scoppiò in Abkhazia) combattute durante gli anni Novanta.

Nonostante tensioni ricorrenti, la situazione rimase relativamente stabile sino a quando il presidente della Georgia fu Eduard Shevardnadze, ministro degli Esteri dell’Unione Sovietica all’epoca di Gorbaciov.

Shevardnadze era georgiano e patriota, ma aveva una vecchia familiarità con il potere russo e conosceva i limiti che la Georgia non poteva oltrepassare senza gravi rischi. La situazione cambiò nel 2004 quando un giovane georgiano si mise alla testa di una insurrezione popolare e cacciò ignominiosamente il vecchio Shevardnadze dall’aula tumultuante del parlamento di Tbilisi. Mikhail Saakashvili ha quarantuno anni, ha studiato alla Columbia University di New York, ha sposato una simpatica signora olandese, parla con l’accento americano il linguaggio della democrazia e ha lanciato segnali che gli Stati Uniti hanno prontamente raccolto. Dopo avere ricevuto trionfalmente Bush a Tbilisi nel maggio 2005, ha chiesto e ottenuto l’assistenza militare dell’America (un migliaio di istruttori), ha presentato la candidatura del suo Paese alla Nato, sa di essere appoggiato da Washington e quattro mesi fa ha restituito la visita del suo protettore mettendo piede nello studio ovale della Casa Bianca. Dopo essere tornato in patria ha innestato la pericolosa partita delle provocazioni reciproche. Non è necessario dire molto di più per capire la crisi che è scoppiata in questi giorni. È facile comprendere perché un ambizioso e spericolato giocatore d’azzardo georgiano abbia deciso, per meglio sottrarsi alla tutela moscovita, di buttare sul tavolo la carta dell’amicizia americana. È più difficile comprendere perché gli Stati Uniti gli abbiano permesso di farlo così rumorosamente.


10 agosto 2008

da corriere.it
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« Risposta #11 inserito:: Settembre 17, 2008, 08:38:04 am »

17/9/2008
 
Zar Putin, la Crimea nel mirino
 
 
ENZO BETTIZA
 
Ma chi te lo ha fatto fare?». Con questa battuta, tra seria e stupefatta, terminava una telefonata del presidente Bush al neopresidente Medvedev nelle ore i cui gli irruenti blindati russi, sbaragliato il blitz georgiano in Ossezia, puntavano già i loro cingoli e cannoni verso Tbilisi. I primi cento giorni del «liberale» Dmitry Medvedev si concludevano così con un battesimo del fuoco che potremmo definire insieme avventuroso e storico. Avventuroso perché gli stati maggiori russi avevano teso una trappola all’imprevidente Saakashvili, sorprendendo le sue truppe con un contrattacco da tempo preparato e ben organizzato nella metà settentrionale dell’Ossezia; storico perché, dopo il crollo dell’Unione Sovietica, è stata questa la prima sortita aggressiva dell’esercito della Federazione russa contro uno Stato, il più importante del Caucaso, riconosciuto a pieno titolo sovrano dalla comunità internazionale.

Non sappiamo quello che Medvedev abbia risposto alla provocatoria domanda del suo omologo americano.

Ma non si reca grande offesa alla realtà immaginando che avrebbe potuto replicargli: «La spinta all’intervento armato mi è stata suggerita da tre fattori concomitanti. Anzitutto il calcolo militare sbagliato del tuo servo di Tbilisi, poi lo scatto infallibile del mio capo di governo Putin, infine la paralisi della tua stessa presidenza, declinante in un’America che non ha saputo vincere fino in fondo le guerre in Iraq e Afghanistan e ora rischia di perderla perfino a Wall Street».

La Grande Russia, quella invocata e ricostruita dal 2000 in poi da un oscuro ufficiale del Kgb, ha mostrato insomma per la prima volta i denti all’Occidente ed esibito i suoi muscoli, non solo petroliferi, nel momento di maggiore precarietà e immobilità dell’amministrazione degli Stati Uniti. Non si possono fare paragoni tra il debole impatto internazionale della pur lunga crisi cecena, feroce guerriglia di polizia all’interno dei confini russi, e l’allarmante connotato di svolta e di ricaduta al di là dei confini russi della breve guerra d’agosto in Georgia. La sua brevità è stata inversamente proporzionale ai danni già prodotti e che potranno ripetersi a dimensioni più vaste e pericolose. Ne potranno infatti risentire, inasprendosi, i rapporti già tesi tra l’imperiale Russia putiniana e altre repubbliche ex sovietiche, come i Paesi baltici membri dell’Unione Europea, o un importante ex satellite come la Polonia oggi testa di ponte dell’Unione e della Nato verso l’Est.

Non a caso perfino la semindipendente Bielorussia, una volta saldamente integrata nell’Urss, tuttora legata per mille canali energetici e politici a Mosca, ha fatto giungere con imbarazzo un tardivo borbottio d’assenso al Cremlino per i colpi inflitti all’integrità delle esplosive frontiere caucasiche. In tal senso, la rapida guerra contro Tbilisi, culminata in due amputazioni di sovranità con l’Ossezia e l’Abkhazia militarmente occupate e annesse, è stata qualcosa di più d’un semplice conflitto armato: è stata anche una sorta di metafora segnaletica, una prefigurazione simbolica di quello che, un domani forse non lontano, potrebbe accadere all’Ucraina e poi, via via, con la tattica del salame, alla Bielorussia, alla Moldavia, all’Azerbaigian, all’Armenia, a una cinquina di repubbliche centroasiatiche. Pure qui le nutrite minoranze russe potrebbero giocare, in un analogo caso di Anschluss strisciante, un ruolo di quinte colonne come i collaborazionisti osseti o abkhazi russificati. Sarebbe la riconquista dei vecchi territori zaristi, ai quali Putin essenzialmente mira, e anche la fine della farsa di copertura, surrogata nel 1991 al posto dell’Urss, che venne rubricata come «Comunità degli Stati Indipendenti» di cui non si conobbe mai né il funzionamento istituzionale né l’utilità pratica.

Ma la preda più concupita, che da un momento all’altro potrebbe scatenare la caccia grossa da parte dei diarchi del Cremlino, resta l’Ucraina spaccata quasi a metà tra una fortissima minoranza di russi o russofoni orientali, e l’ondivaga maggioranza europeista degli ucraini occidentali. I georgiani per esempio non appartengono all’etnia slava, anzi oggi come ieri le si oppongono. Ma basta un solo cenno per centrare la vulnerabile storia di questo Stato d’antichissima e gloriosa slavità. La Russia le deve se stessa poiché nacque dalla medievale Rus’ di Kiev. L’Unione Sovietica, che ne sterminò la «razza contadina», tuttavia le deve l’alto contributo che essa diede alla nomenklatura dei diplomatici, dei militari, dei capi della Ghepeù, dei pianificatori dell’industria pesante, fino ai rilevanti nomi storici di un Kruscev o un Breznev. Ecco perché l’indipendenza ucraina non è mai stata accettata psicologicamente dai russi sul piano etnico e culturale. Il «moscovita» qui non è «di casa»: è in casa. Su 45 milioni di abitanti circa 10 sono di etnia russa, molti con passaporto russo. Da qualche tempo la pietra dello scandalo, la scintilla di una crisi non più occulta, è la penisola di Crimea, blasone letterario e bellico della Russia; ucraina dal 1954, la Crimea è non solo popolata in gran parte da russi, ma ospita a Sebastopoli la flotta russa del Mar Nero che dovrebbe restarvi «in affitto» sino al 2017.

Qui è il punto più caldo di un contenzioso in parvenza contrattuale, in realtà politico, che coinvolge in prima persona il presidente ucraino Jushchenko. Egli, non osando per ora imporre brutalmente lo sfratto alla flotta, esige però da Mosca un aumento decuplicato in petrodollari dei costi d’affitto. E da Mosca gli hanno già risposto per le rime, nella maniera più dura e più sorniona, mettendogli contro un’alleata tradizionale: la famosa signora dalla treccia arrotolata, Julia Tymoshenko, la pasionaria della rivoluzione arancione, che dalla sua carica di primo ministro ha continuato, durante il dramma georgiano, a gettare sull’ex compagno di barricata l’accusa di corruzione e d’irresponsabilità populista. Ha addirittura bloccato una mozione parlamentare di condanna dell’aggressione russa alla Georgia; Jushchenko l’ha accusata a sua volta di «alto tradimento» quale agente al soldo del Cremlino.

La Crimea, combinata con la deviazione russofila della Tymoschenko, costituisce indubbiamente nelle mani di Putin un combustibile ad alto potenziale. L’ennesima crisi di governo, già in atto con probabili elezioni parlamentari, è al tempo stesso una cocente crisi dell’identità nazionale. La cosa peggiore, che poteva toccare ai patrioti ucraini, era quella di vedere l’eroina della rivoluzione indipendentista dare la mano, sotto o sopra il banco, agli irredentisti russi mobilitati dall’uomo di Mosca Viktor Janukovich. Il presidente Jushchenko in difficoltà, dopo essere andato a Tbilisi a sostenere l’amico Saakashvili, ha quasi implorato i ministri degli esteri europei di concedere all’Ucraina lo status di candidata all’Unione; ma gli europei lo hanno scoraggiato concedendogli soltanto, come al presidente serbo Tadic, la promessa di un vago associazionismo tecnico.

Tirando le somme, vediamo che mentre la crisi caucasica provocava da parte europea interventi notarili più che politici, inducendoli a calare sulla latente crisi ucraina una coltre d’attendismo, la Russia già covava, dopo il castigo inferto a Tbilisi, il pretesto o i pretesti per infliggerne uno forse più duro all’Ucraina. L’escalation alla riconquista dell’impero è adesso in pieno moto, e la forzata assenza elettorale dalla scena degli Stati Uniti non fa che accelerarne i tempi e affinarne i modi. Con ogni probabilità, non dovremo neppure aspettare il prossimo presidente americano per vedere su chi, dopo Saakashvili, piomberà il secondo colpo della diarchia moscovita ormai lanciata all’attacco con fiumi di perolio, orde di blindati e acquisti di alleati nuovi e spregiudicati all’Est come all’Ovest.
 
da lastampa.it
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« Risposta #12 inserito:: Ottobre 18, 2008, 11:43:01 am »

18/10/2008
 
Vuoto a sinistra
 
 
ENZO BETTIZA
 
Uno dei riflessi politici più interessanti, non solo sul piano pragmatico in questo momento di crisi, è la reviviscenza delle idee e dei metodi socialdemocratici in Germania, in Gran Bretagna e, parzialmente, anche nella Francia di Sarkozy che nella sua équipe di governo contiene diversi socialisti di stampo liberale. Più che mai invece, in Italia, si avverte l’assenza a sinistra di una grande formazione socialdemocratica, proprio nelle ore in cui le capitali del mondo avanzato stanno passando dalla teoria del libero mercato alla pratica dell’intervento pubblico.

La situazione italiana esibisce il paradosso che vede un ministro economico del centrodestra, il quasi colbertiano Giulio Tremonti, riempire quel vuoto appropriandosi di proposte e ricette che furono tipiche della socialdemocrazia classica e del keynesiano New Deal di Roosevelt. Sarà infatti Tremonti ad appoggiare in novembre, al vertice allargato del G8, una seconda Bretton Woods, quella che dal 1944 al 1971 stabilizzò un nuovo ordine monetario mondiale e accompagnò i «miracoli» dell’Europa distrutta dopo la fine della guerra; ed è sempre Tremonti il difensore impegnato da tempo nella difesa di un capitalismo etico.

Un capitalismo più vicino alla società e al mondo del lavoro, depurato delle giocate d’azzardo speculative e rovinose per le banche e per le Borse. Al tempo stesso, nel pieno della crisi che sconvolge l’Europa dopo l’America, vediamo salire quasi al 70% l’indice di gradimento del governo Berlusconi. Ma tutto questo non va attribuito unicamente ai meriti, alcuni autentici e altri esagerati, di una maggioranza che sarebbe più capace dell’opposizione nell’affrontare la bufera in corso. Va attribuito soprattutto al vuoto dietro le affastellate barricate dell’opposizione. In altre parole, alla paralisi, alla non credibilità di una sinistra monomaniaca la quale, oltre a polemizzare contro ogni misura dell’esecutivo, dal ridimensionamento dell’Alitalia al maestro unico nelle scuole, non sa proporre nulla di più concreto e più responsabile che possa dare al Paese il senso di una sua partecipazione costruttiva al contenimento dei tracolli. Sembrano più utili e tempestivi i fondi sovrani e ambigui di Gheddafi che le manifestazioni e le tirate di Rifondazione, di Italia dei valori e dei ministri ombra del Pd.

L’assenza, direi storica dopo le metamorfosi del 1989, di un vero e unico partito socialdemocratico italiano, collegato ai socialismi democratici europei, è stato il regalo più gratuito che la sinistra frastagliata, divisa, anacronistica, così spesso arrabbiata con se stessa, abbia potuto fare alla coalizione di destra. Mi collego qui agli ottimi articoli che sull’argomento hanno già scritto su queste colonne Emanuele Macaluso e Lucia Annunziata. Se ci fosse un’opposizione credibile, dice Macaluso, la destra potrebbe essere meglio ridimensionata dai fatti anziché dalle chiacchiere televisive.

E, criticando i rifondatori con falce e martello, giudicando lo stesso partito di Veltroni anomalo rispetto alla sinistra europea, conclude: «Fuori dai partiti socialisti europei non c’è altro, a sinistra, che possa dare voce ai lavoratori e al tempo stesso guardare l’interesse generale della collettività nazionale e internazionale». A Macaluso fa da sponda Annunziata: «Un corteo contro il governo (quello del 25 ottobre prossimo) è stato convocato proprio mentre la situazione di disastro è divenuta così grave da obbligare tutti a collaborare per fronteggiarla. Da dentro il Pd si chiede ora di cancellare il corteo o almeno di cambiarne le parole d’ordine. Se non la debolezza, la crisi ha certo accentuato la confusione del centrosinistra». Corollario: «Una sinistra, così presa dal dipanare torti e ragioni del proprio recente passato, avrà mai la capacità di divenire, come la nuova fase richiede, una parte delle istituzioni?».

La domanda implicita è secondo me: la sinistra italiana sarà mai capace di divenire, fra le macerie e le minacce di tracolli bancari e imprenditoriali, una parte responsabile e attiva della socialdemocrazia europea? Si potrebbe raccomandare alle sinistre massimaliste e in particolare all’équipe di Veltroni di osservare con attenzione le manovre d’urto anticrisi del leader laburista Gordon Brown che, intervenendo con energia nel caos finanziario londinese, ha saputo togliersi di dosso l’immagine sbiadita dello sconfitto. Si potrebbe inoltre invitarle a leggere un’intervista appena rilasciata allo Spiegel dal ministro degli Esteri tedesco Frank-Walter Steinmeier. Il numero due del governo Merkel, candidato del partito socialdemocratico alle elezioni del prossimo anno, addirittura vede nel crollo dei mercati finanziari il più traumatico evento politico dopo la caduta del Muro berlinese.

Dall’autunno nero 2008, dice, il mondo non sarà più quello di prima. Il dominio di Wall Street sui mercati e del dollaro come valuta di riferimento verrà relativizzato mentre diverranno sempre più importanti i centri finanziari di Dubai, Singapore, Shanghai, Pechino. Assistiamo alla fine di un’epoca, quella del thatcherismo e della reaganomics, in cui la rapidità e l’accumulo delle rendite avevano la massima priorità, e da allora l’economia finanziaria ha dispiegato arbitrî e saccheggi rispetto all’economia reale. Non s’era mai vista dal 1990, incalza Steinmeier, affiorare «tanta socialdemocrazia» dai dibattiti al Bundestag. Perfino i liberali e i conservatori si sono messi a suonare la stessa musica di Lasalle, sostenitore fin dall’800 dell’intervento statale in economia. I tempi, così critici per i mercati, lo sono assai meno per i socialdemocratici che vedono rinascere le loro idee in Germania e si preparano a farle trionfare nelle elezioni del 2009. Essi si sono sempre battuti per assicurare alla Germania un’industria forte, una mano d’opera professionale, un ceto medio garantito. Devono al tempo stesso riconoscere che mai, come ora, si rendono conto di fare finalmente parte di una Grande Coalizione, che apre, nell’emergenza, tanti spazi di manovra per soluzioni rapide ed efficienti.

Si dirà che per Steinmeier è facile parlare così poiché è il deuteragonista dell’esecutivo di coalizione guidato con cautela da Angela Merkel. Ma non si potrà evitare di riconoscere che, a prescindere dall’alto incarico governativo, non trapeli dalle sue parole la tradizione culturale della socialdemocrazia tedesca che già nel 1959, a Bad Godesberg, «mise in soffitta» Karl Marx. È proprio quello che in fondo non hanno mai fatto con chiarezza in Italia i comunisti di Togliatti e nemmeno i postcomunisti da Occhetto in poi, confluiti nell’odierno partito democratico di cui la metà postdemocristiana detesta apertamente di essere confusa con i socialisti o la socialdemocrazia. L’altra metà, postcomunista, non lo dice ma lo pensa.

Tutti i movimenti politici e le culture della sinistra italiana, a parte il minore e non decisivo partito di Saragat, hanno sempre ostentato la loro ostilità nei confronti dei socialdemocratici che un tempo venivano bollati come «socialtraditori». Lo stesso Giorgio Amendola che, criticato dai suoi compagni, auspicava l’avvento di un «partito unico» della sinistra, non ha mai osato varcare con passo fermo la scissione di Livorno per dire che quel «partito unico» poteva essere soltanto un partito socialdemocratico. Ancora nel 1989, come ricorda Ugo Finetti nel recente libro Togliatti & Amendola (ed. Ares), il veterocomunista Tortorella lo ricordava così: «Appena eletto Luigi Longo segretario, Amendola gli mise davanti, in un articolo che fece scalpore, la proposta del superamento dell’esperienza socialdemocratica e di quella comunista in una formazione politica unificata». Si badi: superare i socialdemocratici, non raggiungerli, in una formazione unitaria. Era già il progetto del futuro partito democratico, soltanto democratico, ed erano parole che lo stesso Veltroni continua forse a pensare ancora oggi.
 
da lastampa.it
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« Risposta #13 inserito:: Dicembre 03, 2008, 08:36:33 am »

3/12/2008
 
Violenza e sviluppo, l'enigma indiano
 
ENZO BETTIZA
 

Dopo l’assalto a Bombay, oggi Mumbai, l’elementare idea gandhiana della «non violenza», alla quale comunemente si associa l’immagine dell’India, è stata smentita un’ennesima volta con inaudita e spettacolare ferocia. Non occorre riandare al 1947, anno della sanguinosa spartizione tra il Pakistan islamico e l’Unione Indiana a maggioranza indù, per ricordarci che il subcontinente sorto con due Stati nemici dallo smembramento dell’impero britannico era ed è in realtà uno dei luoghi più violenti del pianeta. Non occorre nemmeno rammentare che l’assassinio, mistico e politico insieme, ha distanziato sempre di più indiani e pachistani dall’irenica capretta del Mahatma Gandhi sacrificandola addirittura al letale possesso di due bombe atomiche contrapposte. Lo stesso Gandhi, predicatore di un pacifismo integrale perché consapevole della violenza che si sarebbe decuplicata con l’approdo caotico all’indipendenza, verrà assassinato nel 1948 da un fanatico indù. Indira Gandhi, figlia dell’orgoglioso e tollerante Pandit Nehru, bramino laburista educato a Cambridge, sarà uccisa da estremisti sikh nel 1984. A sua volta il figlio di Indira Rajiv, ex primo ministro e leader del partito laicizzante del Congresso, verrà trucidato nel 1991 da un terrorista tamil.

Ma la cronologia del terrore, già prima della grande operazione in stile militare di novembre, s’era fatta via via massiccia nel Kashmir e sempre più incalzante nella stessa Mumbai, simbolo e vivaio del «miracolo economico» della più popolosa democrazia asiatica. 1993: muoiono 250 persone in una serie di attacchi con bombe, interpretati quale rappresaglia per la demolizione di una moschea da parte di integralisti indù. 2003: producono più di 50 morti due autobombe, collocate all’esterno dell’hotel Taj Mahal, non lontano dall’arco monumentale chiamato «Gateway of India». 2006: causa oltre 180 vittime una sequela di esplosioni alla stazione centrale ed altre minori destinate al traffico dei pendolari.

Come si vede, la Bombay di allora aveva già vissuto e nell’insieme superato, per quantità di cadaveri, il massacro che ha appena colpito la Mumbai odierna.

L’elemento che però differenzia di netto il recente massacro da quelli precedenti è nella qualità strategica e politica dell’operazione attribuita, per la prima volta con insistenza, ad un gruppo non meglio identificato di «mujahideen indiani». L’assalto dei terroristi, convergenti per terra e per mare verso i grandi alberghi della metropoli, indirizzati precipuamente alla cattura e allo sterminio di ospiti americani, britannici ed ebrei, ha fatto sorgere il legittimo sospetto che dietro gli assalitori ci fosse la mano di due potenti organizzazioni: gli ambigui servizi segreti di Islamabad che notoriamente, nelle frange più militanti e antiamericane, collaborano sottobanco con Al Quaeda che a sua volta foraggia e aiuta i guerriglieri talebani nelle incontrollate zone di confine tra Pakistan e Afghanistan. Insomma una riedizione in chiave moderna e fondamentalista del «Grande Gioco», già descritto da Kipling, che fin dai tempi della regina Vittoria regolava scontri e intrighi fra potenze rivali in quelle regioni in perenne turbolenza.

Si aggiunge poi al tutto un’ulteriore e allarmante novità. Si è appurato che quasi tutti i terroristi, compreso l’ultimo sopravvissuto, parlavano hindi e urdu, lingue usate da molti musulmani indiani del Nord e dai vicini pachistani. In tali idiomi essi, nelle brevi pause dell’attacco, rivolgendosi alle televisioni locali chiedevano alle autorità di rimettere immediatamente in libertà i musulmani detenuti nelle carceri indiane, in particolare quelli del Kashmir. Finora i 150 milioni di islamici indiani erano ritenuti, perfino dal presidente Bush oltreché dal premier di Nuova Delhi Manmohan Singh, immuni al contagio terroristico. Dopo l’aggressione bellica al centro commerciale di Mumbai quell’opinione positiva è calata e i dubbi sono aumentati. L’«Economist», descrivendo lo stato di frustrazione sociale in cui versano gli islamici rispetto alla privilegiata maggioranza indù, conclude con un monito il suo principale editoriale: «Gli attacchi in corso (che si svolgono all’egida fondamentalista) potrebbero tornare utili ad Al Qaeda per alimentare e sfruttare il panico dell’assedio che cresce fra i musulmani isolati. Se ciò dovesse accadere in India, dove vive la più grande minoranza musulmana del mondo, le conseguenze per la lotta globale al terrorismo potrebbero rivelarsi catastrofiche». Le implicazioni potrebbero aggravarsi, anche di più, se ad un neoterrorismo islamista dovesse rispondere l’antagonismo armato di un neoterrorismo induista.

La nuova violenza, in tal caso, s’innesterebbe e trarrebbe detonatori scatenanti dalle violenze più ancestrali che covano da millenni fra l’Indo e il Gange funereo. Ritrovo nel recente libro memorialistico di Alberto Ronchey, Viaggi e paesaggi in terre lontane, la conferma di ricordi e impressioni che io stesso conservo dei miei viaggi nel subcontinente asiatico. Egli, attirato dagli orrori umani riemergenti dal Gange come da una «storia prechirurgica», rammenta la visione sotto il sole cocente di monaci «dal manto color ocra» intenti alla farneticazione ascetica: «E’ un disfacimento santificato che sa di violenza, sotto forma di passività inerme. Dovunque un delirio pietistico e superbo insieme, che celebra l’immolazione della persona all’assoluto cosmico». Ricordo anch’io la falsa «non violenza» di digiunatori estremi, suicidi mistici, santoni ignudi che fissavano il sole per accecarsi e rivolgevano così contro se stessi un’autoviolenza muta quanto implacata. Ricordo la strana sensazione che mi davano le folle inerti che, indifferenti al male fisico degli uomini, rispettavano invece la vita di milioni di scimmie, di vacche sacre, serpenti e ragni, nei quali sembravano vedere reincarnati i propri defunti. Ricordo il mondo dantesco e torbido di Calcutta, abbandonata durante la guerra con Pechino del 1962 dalla comunità cinese che ne curava l’igiene e l’assetto urbano: ne risento il caldo sui quaranta gradi, ne rifiuto l’afrore dolciastro di serra in decomposizione, ne rivedo le vaganti nubi di vapore bianco attraverso le quali apparivano e scomparivano, come in un incubo fissato dal bulino di Doré, mostri amputati rotolanti nella polvere, lebbrosi saltellanti, malati incurabili giunti a elemosinare e a morire nell’obitorio calcuttiano. In mezzo a tanta agonia svettavano le torri immacolate della seconda famiglia miliardaria dell’India, la dinastia Tata, racchiusa in un compound somigliante a un castello feudale circondato da guardie sikh in turbante armate fino ai denti. Ma il paradosso era che la vita si riproduceva con intensità anch’essa violenta fra le violenze mortali e, per modo di dire, non dava tregua alla morte. Le schiere urbane dilagavano a velocità sconvolgente in una vitalità d’acquitrino: oggi la sovrappopolazione indiana, malgrado le sterilizzazioni raccomandate e pianificate anni orsono dal governo, ha già superato la soglia di un miliardo e 100 milioni, su una superficie che è circa un terzo rispetto a quella della Cina.

Fino a che punto violenza e sviluppo, analfabetismo e software, preistoria e modernità, staticità castale e dinamismo pragmatico riusciranno a convivere nell’enigma indiano del terzo millennio? Quando il «karma capitalism» dei nuovi imprenditori Mittal, Mahindra, Ambani, non più feudali come i Tata e i Birla, riuscirà a raggiungere se non a superare i successi del «capitalismo confuciano» dei giganti del Pacifico? Benché considerata ormai una superpotenza economica, gli ostacoli che l’India di Manmohan Singh deve ancora aggirare o abbattere sono tanti: deficit di bilancio, debito estero, infrastrutture vulnerabili, turbolenze locali, penurie d’energia elettrica e di risorse idriche, analfabeti adulti oltre il 60 per cento, denutrizione di 400 milioni di cittadini sotto la soglia di povertà. Infine, il problema atavico di sempre. La violenza interetnica e interconfessionale su cui, dopo il lampo di guerra a Mumbai, aleggia l’ombra vicinissima di un Pakistan nucleare infiltrato dagli specialisti della jihad e del terrore.
 
da lastampa.it
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« Risposta #14 inserito:: Dicembre 22, 2008, 10:42:32 am »

22/12/2008 - PECHINO E LA RECESSIONE GLOBALE
 
Il drago cinese ha i piedi d'argilla
 
ENZO BETTIZA
 
Il colosso americano e il drago cinese, sui quali i maggiori esperti tendono a focalizzare l’attenzione in questa disastrosa fine d’anno, sarebbero secondo loro i due bersagli più esposti ai virus della grande crisi innescata dai crolli finanziari del 2008. I termini di paragone, le prognosi analitiche, nonché le drastiche ipotesi terapeutiche sono allarmanti e inquietanti. Quale dei due giganti riuscirà a resistere meglio ai contraccolpi e ad affrontare con più inventiva il fosco futuro?

Fino a che punto la vitalità produttiva dell’America si sia inabissata, dopo il secondo venerdì nero della sua storia, si è ben visto nel momento in cui il presidente Bush, contrariando il Congresso, ha deciso di salvare dalla bancarotta totale la General Motors e la Chrysler con un’iniezione straordinaria di 17 miliardi e 400 milioni di dollari. Di fatto si tratta di un prestito ponte, una flebo di sopravvivenza, concessa in extremis e a tempo breve ai due maggiori simboli storici e d’immagine della potenza industriale americana. I due dinosauri dell’auto, che danno lavoro a milioni di persone, otterranno così il volatile carburante di una bancarotta protetta; se entro tre mesi non riusciranno a rimettersi in piedi, riducendo le loro dimensioni e accettando schemi contrattuali di tipo giapponese, dovranno restituire i soldi del prestito e trapassare dal coma assistito alla morte secca. Toccherà all’amministrazione Obama il compito, parimenti ingrato, di certificare il decesso o di puntellare la fragile convalescenza dei due grandi malati di Detroit il cui management, fallimentare, non è stato mai particolarmente vicino al cuore dei democratici. La crisi dell’auto non è che una delle punte più visibili, ancorché più impressionanti, di una generale situazione d’incertezza economica e disagio sociale che, nei prossimi anni, in America e di riflesso in Occidente potrebbe aggravarsi con ricadute incontrollabili.

Come si presentano, al confronto, le economie emergenti dell’Asia? Qui il discorso comparativo, più che sui chiaroscuri dell’India, deve in particolare incentrarsi sulle formidabili vampate e zampate del drago cinese.

Almeno fino al costosissimo spettacolo delle Olimpiadi d’agosto, che fu anche una dimostrazione tangibile di miracolo economico, la Cina neocapitalista, seconda potenza militare del pianeta, pareva avviata alla conquista anche del secondo posto nella gerarchia dei mercati. Appariva come l’astro guida della globalizzazione confuciana. Non a caso, proprio in questi giorni di crisi, dopo lo sfarzo e lo sforzo delle Olimpiadi il partito comunista ha voluto celebrare alla grande, con esibizioni artistiche, concerti, discorsi fluviali, il trentesimo anniversario delle «quattro modernizzazioni»: la famosissima svolta pragmatica e riformatrice con cui nel 1978 Deng Xiaoping liberò la Cina dal maoismo e aprì al mondo e al benessere un quinto recluso e misero dell’umanità.

Oggi l’economia cinese è quasi nove volte più cospicua di quella del 1978. Il reddito medio pro capite è cresciuto di otto volte. Migliaia di «comuni del popolo», di orwelliana matrice maoista, sono state smantellate e centinaia di milioni di contadini hanno ottenuto in concessione demaniale, con contratti di lungo periodo, la terra degli avi. Al tempo stesso 150 milioni di cinesi si sono trasferiti dalla campagna nelle prosperose città del Pacifico e già nel 2001, secondo stime attendibili, 400 milioni sono usciti dalla povertà. Di materia celebrativa, degna di paragone ai massimi livelli dopo tre decenni di riforme e di successi, ce n’era e ce n’è in verità ancora tanta. Basterà ricordare un eccezionale dato di confronto e di compenetrazione finanziaria con l’America. Le enormi eccedenze di bilancio della Cina, rispetto al massiccio deficit di Washington, sono tali da far dire al politologo Will Hutton che la Cina è il sostegno su cui si appoggia l’edificio della finanza americana: «Gli Usa non potrebbero sostenere un deficit di 800 miliardi l’anno se l’acquisto di obbligazioni e buoni del Tesoro americano da parte cinese non fosse così ingente».

Le ombre comunque non mancano. Proprio l’intreccio di forza e di debolezza è il contrassegno, tipico della Cina nel XXI secolo, che spinge gli osservatori obiettivi come Hutton a definirla «drago dai piedi d’argilla». Nonostante le feste celebranti le «quattro modernizzazioni» (cui manca ancora la quinta, democratica), i pericoli sempre più insidiosi e ravvicinati della crisi finanziaria, ormai intercontinentale, non potevano non occupare la mente dei dirigenti del partito unico già impegnati, d’altronde, a contenerne i primi guasti. Il colpo inferto dalla crisi alle esportazioni cinesi, circa il 70% del Pil, è rimbalzato su migliaia di piccole e medie imprese che costituiscono l’ossatura della più impressionante trasformazione economica della storia. Esse hanno dovuto ridurre l’enorme produzione per l’estero incrementando, con i licenziamenti, una disoccupazione che già ai tempi aurei del boom (10% di crescita l’anno) saliva a 170 milioni di lavoratori privi di protezione sindacale. La Banca Mondiale teme che la crescita per il 2009 potrà scendere al 7,5%: livello paventato dai superstiziosi controllori politici delle statistiche perché, sotto l’8%, potrebbe ingrossare ancor più l’esercito dei disoccupati, degli scontenti, dei derelitti arrabbiati, provocando frustrazioni e pregiudicando la pace sociale.

Scioperi, jacqueries contadine, proteste di piazza contro dirigenti regionali corrotti e arricchiti, frequenti fin dal 1994, potrebbero farsi più selvaggi nel 2009 che pure alla Cina promette non pochi disagi e difficoltà. Frattanto molte industrie, statali e private, cercano di sostituire il prosciugamento dei mercati esteri con il mercato interno, e le opzioni merceologiche si vanno adattando nella scelta e nella qualità alla domanda dei consumatori indigeni. Se, dopo il calo delle esportazioni, questa valvola di sfogo e di compensazione funzionerà in un mercato ad alto potenziale demografico, il più vasto del mondo, la Cina potrà contare su una cintura di sicurezza anticrisi di cui altri Paesi, in Occidente e in Asia, sono sprovvisti. Ma, da un altro lato, la cura di un gigantesco mercato interno rischia di trovare, proprio nel protezionismo, il nemico di quella politica d’apertura al mondo e alla globalizzazione su cui l’esplosiva Cina post-maoista ha costruito, in un crescente divario tra ricchi e poveri, tutte le sue fortune e il suo sviluppo nella modernità. Il protezionismo degenera spesso e fatalmente nel nazionalismo, nella chiusura, nell’ostilità xenofoba. La Grande Muraglia, che circonda Pechino, potrebbe acquistare al di là del valore archeologico un rinnovato e negativo significato ideologico.

La recessione, con le sue ripercussioni anche sulle aspettative democratiche della Cina, porterà facilmente l’acqua al molino delle fazioni più reazionarie e statolatriche del partito comunista. Fino a ieri esse si vantavano di aver favorito, controllando gli eccessi della libertà economica, un innesto ordinato di stimoli capitalisti nel corpo «socialista» del Paese. Domani potrebbero vantarsi di aver rafforzato le virtù endogene del mercato interno all’ombra di un sano nazionalismo. Si apre così davanti ai rischi d’arresto della crescita, con l’instabilità sociale e politica che ciò comporta, un ulteriore terreno di dissidio e di scontro tra conservatori e innovatori all’interno di un partito bicefalo e più che mai incerto sulla via da imboccare. Sarà insomma da vedere se i riformisti, che hanno ancora molte frecce al loro arco, saranno in grado di dare alla Cina nel vortice della crisi un’uscita di sicurezza tale da stupire un po’ tutti: gli americani, gli indiani, i giapponesi, gli europei e, in particolare, i colleghi veterocomunisti del loro stesso partito. Mai dimenticare che Pechino resta sempre la capitale più imprevedibile del pianeta.
 
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