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Autore Discussione: ENZO BETTIZA  (Letto 56905 volte)
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« Risposta #60 inserito:: Giugno 11, 2011, 05:21:43 pm »

11/6/2011

La fragile democrazia di Ankara

ENZO BETTIZA

Cinquanta milioni di elettori turchi si preparano a consegnare per la terza volta alle urne il loro giudizio sulla situazione politica del più grande e importante Paese mediorientale, a cavallo tra Asia ed Europa, amministrato con successo dai governi monocolori dell’Akp, il Partito islamico moderato per la Giustizia e lo Sviluppo. Non v’è dubbio che anche questa volta, la terza dopo il 2002 e il 2007, il voto si risolverà con una probabile percentuale fra il 43 e il 48 a favore del premier uscente e leader dell’Akp, Erdogan. La Turchia sotto la sua guida abile, spregiudicata, sovente aggressiva e sottile al tempo stesso, si è sviluppata nel corso di un decennio a ritmi di crescita simili a quelli cinesi e indiani.

Ha evitato le crisi finanziarie, che hanno scosso l’Occidente, conquistando il sedicesimo posto fra le nazioni più avanzate del mondo. Oggi è una potenza economica, politica e anche militare, col suo storico posto d’onore nella Nato, che va ben al di là dei confini regionali del Medio Oriente e batte con insistenza alle porte dell’Unione Europea. Non è più il Paese dei disastri economici, delle banche fallite, dell’instabilità cronicizzata, tra effimeri governi di coalizione e minacce di colpi di Stato da parte dell’esercito custode della tradizione laica e kemalista. Per molti arabi evoluti Istanbul e Ankara rappresentano un simbolo di rara democrazia musulmana e di efficiente modernità.

Tuttavia l’esito di questa tornata elettorale, dopo una campagna nevrotica colma di scandali, ostacoli, pesanti imboscate, si preannuncia oberato e inquinato da sospetti che gettano molte ombre sulle intenzioni dell’Akp e del suo padrone assoluto: il sempre più autoritario e più intollerante Recep Erdogan. Il voto turco è diventato materia di una tempestosa polemica internazionale dopo che l’Economist, mandando su tutte le furie Erdogan, ha osato invitare gli elettori a voltargli le spalle e privilegiare il Partito Repubblicano del Popolo (Chp), fondato da Atatürk e oggi guidato dal sessantenne Kemal Kilicdaroglu. Questi, che si richiama insieme alla severità laica di Atatürk e alla pacatezza umana di Gandhi, è di fatto l’unico credibile capo dell’opposizione, il più pericoloso dei rivali politici di Erdogan. «One for the opposition», cioè un voto per il repubblicano Chp: l’endorsement del prestigioso settimanale britannico, contrario all’islamico conservatore Akp, non mira di certo a impedire la vittoria di Erdogan che nessuno mette in dubbio: mira, essenzialmente, a limitarne un trionfo eccessivo che potrebbe portarlo a conquistare i due terzi dei 550 seggi dell’Assemblea. La portata di un simile dilagante risultato consentirebbe a Erdogan di realizzare il suo progetto di riscrivere la Costituzione, trasformando la Turchia in una repubblica di tipo presidenziale francese e concedendo a se stesso, al momento opportuno, gli amplissimi poteri di un presidente di tipo gollista.

C’è chi dice e teme che se il piano di Erdogan andasse in porto, egli, manipolando una Costituzione riscritta sulla misura delle sue ambizioni, metterebbe in serio pericolo la già vulnerata e magra democrazia turca. Si parla di un «ottomanesimo di ritorno». L’intolleranza del partito dominante alle critiche, l’insofferenza del leader per la libertà d’opinione, il numero dei giornalisti, più di cinquanta, che da tempo languiscono senza processo nelle dure carceri anatoliche, i complotti inventati contro partiti non islamici, magistrati indipendenti, alti gradi delle forze armate: è questo purtroppo il quadro politico che la Turchia pur ricca, industrialmente e finanziariamente emancipata, ci presenta alla vigilia di un voto che Erdogan vorrebbe personalizzare al massimo. Lo sbarramento incredibile del 10 per cento mette fra l’altro a rischio la coesistenza etnica, lasciando nell’incerto la sorte dei candidati curdi, mentre nel Sud-Est del Paese i rappresentanti della cospicua minoranza curda minacciano rivolte disperate contro la recrudescenza del nazionalismo turco. Alla quasi sepoltura della tradizionale collaborazione con Israele, accusato da Erdogan di aver addirittura foraggiato l’endorsement dell’Economist, si aggiungono le ambiguità dei rapporti di Ankara con l'Iran e la Siria.

Oggi come oggi, non è tanto o soltanto il pericolo di una radicale svolta islamista quello che dovrebbe preoccupare di più Bruxelles negli impervi negoziati per la candidatura turca all’Ue. La vera urgente preoccupazione che dovrebbe allarmare l’Europa è, soprattutto, lo stato di fragilità in cui versa la salute democratica della Turchia. Kilicdaroglu ha detto bene: «Gli arabi ammirano la nostra democrazia, ma questo governo vorrebbe fare di noi un Paese arabo».

da - lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/
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« Risposta #61 inserito:: Agosto 04, 2011, 09:55:59 am »

4/8/2011 - OBAMA - LA STRATEGIA

L'errore di trasformare l'oratoria in politica reale

ENZO BETTIZA

Credo non sia mai successo negli Stati Uniti d’America quello che è capitato al presidente Barack Obama. Egli è precipitato dal tetto di un consenso elettorale travolgente, uno dei più elevati nella corsa verso la Casa Bianca, alla solitudine di un isolamento da cui non gli sarà tanto facile risalire per un’eventuale rielezione nel 2012. Quest’ultima ricucitura di un compromesso bipartisan, per evitare in extremis il disastro dell’insolvenza, non ha soddisfatto nessuno: né la destra repubblicana, incalzata dagli estremisti del Tea Party, né la sinistra liberal che a suo tempo aveva riposto speranze epocali nella seducente figura del primo presidente nero. Oramai si parla di una «leadership diminuita», mentre lo stesso Obama dava l’impressione di partecipare più da spettatore che da attore alla dolorosa soluzione congressuale della crisi di stallo tra i due partiti.

Certo non si può dire che, già prima di essere eletto, non sapesse che avrebbe dovuto affrontare la più grave situazione d’emergenza globale degli ultimi 80 anni; ma l'ha affrontata col piede sbagliato, credendo di poter trasformare in politica reale la sua oratoria carismatica. Ha soprattutto illuso e deluso i liberal più idealisti, che costituivano la sua base di lancio, rispolverando la retorica kennediana della «nuova frontiera» in tempi che già vedevano l’America massacrata dalle Borse, ricattata dai mercati, indebitata con la Cina, in difficoltà o in ritirata dai fronti della politica estera. Insomma: è l’isolamento, con relativa perdita d'autorevolezza, la torta amara che lo ha aspettato ieri a Chicago per la festa non allegrissima del suo cinquantesimo compleanno.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9059
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« Risposta #62 inserito:: Agosto 15, 2011, 06:27:16 pm »

15/8/2011

L'apparente declino dell'America

ENZO BETTIZA

Dopo gli implacabili giorni neri in Borsa e la pagina nerissima dell’estenuante trattativa sul debito pubblico tra repubblicani e democratici, aggravati dalla dura stangata inflitta da Standard&Poor’s all’amministrazione Obama, diversi osservatori hanno cominciato a parlare in termini allarmati del crepuscolo a cui starebbero avviandosi gli Stati Uniti. Hanno puntato il dito sullo spettro apocalittico del «default», che ha battuto colpi sinistri alle porte della Casa Bianca e del Congresso. Vi hanno visto una sorta di preannuncio macabro dell’abisso con partecipazione, sul fondale, di altre astrazioni opache e non meno fantomatiche: società di rating inaffidabili, hedge funds enigmatici, banche ombra misteriose e così via.

Ma ciò che impressiona, di queste analisi negative, non è solo l’indicazione delle inarrestabili conseguenze di una crisi a scadenza ignota, innescata fin dal 2008 dalle due maggiori piazze finanziarie del mondo, Wall Street e la City di Londra. Impressiona ancor più un certo pessimismo generalizzato che sembra riecheggiare, in versione aggiornata, le vecchie profezie spengleriane sul tramonto dell’Occidente. Un pessimismo autolesionista, tous azimuts. Il quale, andando al di là del dissesto economico, finisce con l’appannare l’immagine politica, militare, sociale, culturale dell’America in quanto tale: Paese guida dell’Occidente e, almeno fino all’altroieri, anche modello di riferimento paradigmatico per emergenti potenze non occidentali come Cina e India o non anglosassoni come il Brasile.

In questi giorni è facile arrivare alla frettolosa conclusione che gli Stati Uniti si trovano in un disastroso vicolo cieco e che non potranno più continuare a considerarsi e comportarsi come la prima superpotenza del mondo.

Detto questo, dovremmo però separare una concreta realtà storica, il continente nordamericano nella sua contraddittoria complessità, dall’immagine offuscata che oggi proietta di sé «la Repubblica imperiale» come la definiva Aron. Ai valori finanziari in caduta libera dagli altari di Wall Street ha corrisposto, indubbiamente, una forte caduta dei valori d’immagine, direi ideologici, della tradizione idealista cara all’America anglosassone.
I segni particolari e gli impulsi interventisti di tale anglosassonità s’erano rivelati con energia crescente, sul piano planetario, durante e dopo le due guerre mondiali. Prima con i famosi «14 punti» di Wilson, quindi con Roosevelt in stretta alleanza con l’Inghilterra assediata dai tedeschi, infine con Truman e col supporto dell’Europa occidentale, ricostruita dal Piano Marshall e integrata nella Nato, l’America era diventata portatrice e la garante globale di quel retaggio etico di fondo protestante che doveva distinguerla anche nella Guerra fredda contro l’espansionismo sovietico.

I rigori bellici e postbellici con risvolto umanitario, promossi in campo internazionale, dovevano prolungarsi per tre quarti di secolo: dalla wilsoniana autodeterminazione dei popoli al ponte aereo per il salvataggio di Berlino, fino all’intervento di Clinton contro la Serbia a favore degli albanesi del Kosovo. Perfino gli interventi armati più discussi - il Vietnam di Kennedy e Johnson, i due Iraq di Bush padre e figlio, l’eterno Afghanistan pesantemente ereditato da Barack Obama - si sono svolti bene o male, talora in maniera manichea, all’insegna comunque dei valori anglosassoni in difesa della democrazia e della liberazione degli oppressi. Ma l’America odierna, l’America neo-isolazionista di Obama, dà l’impressione di una graduale ritirata dalla grande politica estera, affidando quel che ne resta ai droni senza pilota e ad isolate e spettacolari azioni punitive come l’uccisione di Bin Laden.

Lo smalto scrostato o, peggio, il sospetto d’abbandono da parte dell’America dei suoi tradizionali valori morali non è una buona notizia per i maggiori Paesi europei in difficoltà, che stanno perdendo sempre più di vista l’altra sponda atlantica, a cominciare dalla cugina Inghilterra. Non lo è nemmeno per l’Occidente nel suo composito allargamento postcomunista, né per quella parte occidentalizzata e sofferente del globo, come il Giappone, che nella diffusa onnipresenza americana vedeva una rassicurante protezione strategica e uno stimolo emulativo per i settori avanzati della tecnica e dell’economia.

La delusione, accompagnata da una sensazione di vuoto e di smarrimento esistenziale, s’è fatta sentire con forza ovviamente più intensa e angosciata in America che altrove. Certi valori domestici più solidaristi, anch’essi a loro modo d’impronta anglosassone, rooseveltiana e keynesiana, stroncati come «socialisti» dai predicatori vetero-puritani del Tea Party, non sono stati realizzati che per un fluttuante decimo dal presidente Obama: egli ha deluso troppi americani che l’avevano votato, in tempi di grande crisi, intravedendo o stravedendo in lui un erede naturale del New Deal di Roosevelt. Il risanamento in extremis del capitalismo sfibrato, minacciato d’infarto dalla violenta depressione del 1929, risanamento operato da Roosevelt con un vasto programma di lavori pubblici e interventi di assistenza sociale, aveva finito per dimezzare la disoccupazione e produrre una sorprendente ripresa economica; era iniziata l’era moderna di un puritanesimo nuovo, più popolare, meno elitario, meno wasp: quella del Welfare anglosassone.

Con Obama purtroppo non s’è ripetuto il miracolo teorizzato da Keynes e attuato dal più grande presidente americano del secolo scorso. I cantieri per lavori pubblici si vedono qua e là, in diversi Stati, ma funzionano a rilento. La disoccupazione aumenta. La decantata assistenza sanitaria è da un pezzo bloccata. Quel che stenta malamente in piedi è soltanto un compromesso al ribasso dei parlamentari democratici, disprezzati dalla sinistra liberal, con quelli repubblicani, incalzati e ricattati dalla destra populista. Mai la classe politica americana era apparsa così lacerata, polarizzata, intossicata da simili rancori e rivalità personali; mai nelle vicende del Congresso i due partiti s’erano mostrati così incapaci di mobilitarsi, sulla nave in pericolo, attorno a un comandante che sembra vivere la tempesta più da spettatore che da combattente e pensare soprattutto alla propria rielezione nel novembre 2012.

Ma la realtà profonda del colosso a stelle e strisce, quella a cui molti osservatori costernati guardano oggi di meno, o solo superficialmente, è tuttavia diversa dall’immagine di declino che ci offrono i valori tradizionali più noti della storia e della mentalità americane. Vale la pena di citare, in proposito, un interessante articolo controcorrente che il politologo Moisés Naìm ha pubblicato sul «Sole - 24 Ore».

«La Borsa è crollata e ci saranno tagli che colpiranno il bilancio di settori importanti come le forze armate. Ma, anche così, il vantaggio di cui godono gli Stati Uniti sui propri rivali è talmente ampio da non far perdere al Paese la prima posizione. La sola flotta della guardia costiera possiede più mezzi navali di tutti quelli delle dodici marine da guerra più imponenti a livello mondiale». C’è poi l’incremento demografico, che negli Stati Uniti continua ad aumentare, mentre in quasi tutti i Paesi ricchi è in stallo o diminuisce. Inoltre la nazione di Obama seguita a essere la più potente calamita di talenti scientifici internazionali e a favorire la più rapida integrazione dei flussi migratori. Negli strati sempre mobili del ceto medio risparmiatore la vitalità e l’istinto di conservazione assumono forme spesso più incisive della disperazione.

Talora anche sorprendenti e direi perfino ossimoriche nella loro calcolata imprevedibilità: per esempio, chi avrebbe detto che, mentre dilaga il panico e le Borse crollano, la fame di titoli del Tesoro americano avrebbe superato tutti i record? Chi avrebbe immaginato che sarebbero andati a ruba, pur offrendo tassi minimi, proprio i titoli messi a disposizione da un governo la cui solvibilità viene posta in discussione dagli influenti indovini e giocolieri delle agenzie di rating? Neppure il declassamento del debito cosiddetto sovrano ha provocato una fuga di capitali. Coloro che conoscono il danaro, che sanno come maneggiarlo e dove collocarlo, non ne hanno tenuto minimamente conto. Il maggiore dei paradossi è che l’America, data da molti sull’orlo del baratro, continui nonostante tutto a rappresentare uno dei porti finanziari più sicuri e affidabili.

Luci e ombre s’intrecciano e s’accompagnano a questo apparente tramonto spengleriano della superpotenza, ferita sì nell’immagine, ma ancora resistente nelle sue più profonde radici biologiche. Non è certo la prima volta che il gigante si presenta al mondo con un volto malato e febbricitante. Ma ce ne vuole a darlo già per spacciato o soltanto degradato al secondo o terzo posto, dopo la Cina, nel gran concerto della globalizzazione.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9097
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« Risposta #63 inserito:: Agosto 28, 2011, 05:04:09 pm »

28/8/2011

Il bluff umanitario di Sarkozy

ENZO BETTIZA

Quello che più colpisce delle «primavere arabe», così chiamate soltanto dagli occidentali, è il loro autunno grigio e insondabile in Tunisia, trasformistico e immobilistico in Egitto, blindato e disperato in Siria. Infine, caotico e incerto in una Libia dove, scomparso Gheddafi, la scena che vediamo non è certo delle più rassicuranti. Tripoli, in parte liberata, ma in gran parte anche devastata e saccheggiata; l’aeroporto bombardato da gheddafiani estremi e vendicativi; fiumane di detenuti d’ogni sorta in libera uscita dalle prigioni; bande di ribelli tribali, non tutti in sintonia fra loro, spesso infiltrate dai voltagabbana dell’ultima ora; cecchini sui tetti e sacche di fedelissini lealisti in azione fra gli squarci delle rovine. Sarebbe un errore sottovalutare la popolarità di cui la figura sconfitta del Colonnello, per noi satrapica, gode tuttora fra i membri del suo clan e della sua Sirte natale. Intanto nelle gracili istituzioni di Bengasi, capitale improvvisata di un governo in cerca di se stesso, che da mesi «transita» e non coagula mai, si affollano molti ex ministri e funzionari del regime rapidamente riciclati. Del presidente di un cosiddetto «consiglio di transizione», Abdul Jalil, si sa che è legato essenzialmente a logiche tribali, sorde ad ogni richiamo democratico, mentre il premier Mahmud Jibril è persona rispettabile, però modesta e incolore. Quanto sia ancora precaria la situazione lo si è capito, nella notte tra venerdì e sabato, allorché importanti esponenti del «consiglio» si sono riuniti in un albergo di Tripoli sotto il tiro di cecchini lealisti appostati in un edificio vicino.

Se saranno questi i futuri reggitori di un governo consolidato e meno fantomatico, se diverranno essi gli interlocutori accreditati presso l’Occidente e il mondo arabo, possiamo essere sicuri che avranno un occhio di riguardo speciale per due Paesi. La Francia anzitutto, che li ha legittimati sul piano internazionale, poi l’emirato del Qatar, ispiratore anti-Gheddafi della Lega araba, il quale ha sostenuto la «rivoluzione» con denaro, invio di armi e la formidabile copertura mediatica di al Jazeera. Per l’Italia, radicata con i suoi interessi petroliferi da mezzo secolo in Libia, quindi esitante ai margini di un intervento «esterno», idealistico soprattutto a parole, il discorso proprio per quest’insieme di fattori delicati si farà più difficile. Difficile su due fronti: da un lato con l’ostile e insidioso alleato francese, dall’altro con i diffidenti neogovernanti libici che all’Italia, a prescindere dalle basi concesse alla Nato, non perdonano e non perdoneranno facilmente la prudenza e la quasi totale astinenza operativa a fianco dei bombardieri di Parigi e di Londra. La dice già lunga il comportamento riservato dal premier Jibril al capo del governo italiano, incontrato di corsa nella prefettura di Milano, dopo il prioritario e caloroso abbraccio all'Eliseo col presidente Sarkozy. Neppure lo sblocco dei fondi libici, congelati presso il sistema bancario italiano, con una prima tranche decretata da Berlusconi di 350 milioni di euro, ha suscitato eccessivo entusiasmo a Bengasi. Non si può escludere che venga al pettine anche qualche incognita sul gasdotto Greenstream, poderoso cordone metanifero che lega la Tripolitania alla Sicilia e che l’Eni giustamente, in questi giorni opachi di svolta e di ricatti, tiene a definire «strutturalmente italiano». Vale a dire intoccabile.

Il caso libico, ancora lontano da un esito chiaro, che potrebbe riservarci sorprese poco gradevoli, merita perciò da parte della diplomazia e dell’informazione italiane una disamina sobria e scrupolosa. Certo va preso in debita considerazione l’impeto vitale benché disordinato delle masse, prive di una leadership omogenea, contro la quarantennale e teatrale tirannia paranoica del raiss di Sirte: il quale, forte pure lui di un suo sostegno di massa, ha continuato fino all’ultimo a disprezzare la resa davanti ai colpi sul terreno degli insorti indigeni e sotto le bombe degli aerei francobritannici che lo inseguivano dal cielo. Ma sarebbe eccessivo far passare questa composita matassa di eventi bifidi, talora indecifrabili, spesso esaltati con devianti entusiasmi umanitaristici, come una classica lotta di liberazione. La chiave di quanto è successo e succede andrebbe cercata, piuttosto, nella combinazione o giustapposizione, su una spontanea esplosione di rivolta popolare, dei calcoli ambiziosi di un leader in difficoltà come Sarkozy: un leader ossessionato dalla rielezione e dall’urgenza di ridare quindi ai connazionali, con le proprie mani, l’immagine di una grandeur francese ritrovata per mezzo di una guerra pulita, democratica e vittoriosa.

La durata frustrante e i molti errori dell’intervento, da cui il poco convinto Obama si è ritirato quasi subito, non gli sono stati comunque del tutto favorevoli. Neanche l’appoggio incondizionato del satellite Cameron, che ha il fiato corto in patria, gli è stato di grande aiuto, mentre la neutralità netta della cancelliera Merkel gli ha fatto mancare la copertura del più rispettato e solido Paese europeo. Una discutibile guerra aerea, imposta senza corrette consultazioni da Parigi a mezza Europa, alla Nato, alle Nazioni Unite, si è prolungata affannosamente per sei mesi e alla fine si è quasi ridotta, come in un surreale gioco da playstation, alla caccia ripetitiva e puntigliosa di un mostro invisibile.

È a questo punto, anche se per ora non possiamo evocare Pirro, che il bluff umanitario di Sarkozy inizia a mostrare l’occulta corda colonialista. Stanno venendo alla luce i fini materiali della sua impresa che rivela i tratti cosmetici di un postgollismo di riporto: protezioni indulgenti e oscillanti concesse, dopo il colonialismo storico, ora ai dittatori miliardari ora ai popoli derelitti del Terzo mondo. Indubbiamente Sarkozy esce dal caos libico con lo scudo dell’unico vincitore; ma è per l’appunto unico perché isolato, abbandonato dagli americani preoccupati soltanto dagli arsenali chimici di Gheddafi, inascoltato dai tedeschi che non vogliono più esportare guerre e investimenti privi di garanzie adeguate. Il solo alleato sicuro sul quale Sarkozy potrà contare sarà, come abbiamo visto, l’appartato ma influentissimo Mida del Golfo, lo sceicco del Qatar, che trasforma in oro ogni granello di sabbia estratto dal deserto. Quello che oggi resta al centro del Grande Gioco nordafricano (termine maiuscolato dagli storici delle rivalità coloniali) è l’instabilità di una Libia devastata eppur in possesso di un’immensa eredità energetica e di un patrimonio di vincoli economici con diversi Paesi ricchi del mondo. Praticamente, un grande mercato di risorse aperto, anzi più che mai aperto fra cumuli di macerie, all’offerente e protettore insieme più scaltro e più deciso. Qui Sarkozy reciterà la parte del leone rivoluzionario dopo aver fatto una magra figura in Tunisia, dove, prima di scaricarlo, aveva dato manforte al corrotto Ben Ali nella repressione dei giovani rivoltosi. Qui, dopo una guerra spesso cruenta per le popolazioni libiche, ma anemica per i francesi che non vi hanno perduto una goccia di sangue, egli cercherà di vincere la pace contro il solo semiperdente rimasto vivo e ammaccato in piedi: l’Italia.

Non più stormi di Mirage, di Rafale, di portaerei nucleari come la Charles De Gaulle. Ma ingegneri, tecnici, geologi, manager, in caccia di greggio nei deserti e in guerra fredda per impedire alle imprese italiane il recupero delle loro posizioni prioritarie nella rete dei pozzi curata e attrezzata dai discendenti di Mattei. Non si dimentichi che la «partita Libia» valeva per l’Italia almeno 12 miliardi l’anno di giro d’affari. Il conflitto dei francesi con il Colonnello, per molti aspetti demagogico e pretestuoso, si trasformerà, come ha scritto venerdì Paolo Baroni, «in un conflitto di tutt’altro tipo»? Probabilmente sì. La continuazione, con altri mezzi, di una guerra in parte incompiuta si estenderà insomma ai campi di battaglia dell’economia? L’infame nemico Gheddafi sarà rimpiazzato come avversario, agli occhi di Parigi, dall’indebolito ed elusivo alleato Berlusconi o chi per lui? L’attivismo della nuova grandeur si scaricherà sulla sponda settentrionale del Mediterraneo? Sono domande che aspettano una risposta, magari una smentita, oppure, al peggio, una conferma allarmante.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9136
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« Risposta #64 inserito:: Settembre 11, 2011, 03:37:22 pm »

11/9/2011

La catena del Novecento

ENZO BETTIZA

E’ un anniversario troppo complesso per meritare solo immagini d’archivio tv, parole gonfie di retorica, amnesie calcolate di soloni strabici che da un decennio continuano a versare sentenze e lacrime su più piatti della bilancia. Convincono poco le celebrazioni quando i celebranti le proclamano correttamente «condivise», «inclusive», «aperte al dialogo» non si sa bene con chi.

Non convincono neppure le «istruzioni» suggerite agli ambasciatori da Obama, che sembra voler chiedere scusa al mondo di essere il Presidente della nazione più colpita dai terroristi islamici. La ricorrenza di un simile tragico anniversario, che per estensione è anche anniversario di un decennio di crolli globali, merita qualche incursione fuori dal coro. Sobria e, nei limiti del possibile, disincantata.

Anzitutto bisognerebbe chiarire che cosa s’intende quando, di un evento o periodo storico, si dice che «ha cambiato il mondo». Qui si rischia di cadere nell’accattivante superficialità dello slogan giornalistico o addirittura del plagio più o meno subliminale. Ho per esempio letto, nella congerie di locuzioni esaltative, un paio che annunciavano: «Ecco la storia dei dieci anni che sconvolsero il mondo». L’annuncio rifaceva il verso al famoso titolo del libro di John Reed: «I dieci giorni che sconvolsero il mondo». Ovvero i giorni che, nello scenario disastrato di Pietrogrado 1917, videro svolgersi il colpo di mano bolscevico contro un governo provvisorio allo stremo e contro un’assemblea costituente sotto la mira dei fucilieri lettoni indottrinati dal partito di Lenin e Trockij in minoranza.

Da quel golpe guarnito di qualche sparo finto, nacque il mito della Rivoluzione d’Ottobre: la quale, anziché il mondo, sconvolse la Russia e il leninismo, portandoli alle tenebre dello stalinismo. Lo sconvolgimento più inaudito fu la decimazione, voluta da Stalin, della vecchia guardia bolscevica e dei vertici dell’Armata Rossa. Dopodiché, spianata la strada, arriverà il patto con Hitler.

Attribuire quindi ad eventi storici, per quanto grandiosi e traumatici, una sconvolgente portata universale, un’unicità senza precedenti, è un esercizio non immune dal rischio di esagerazioni o previsioni falsanti. L’unicità di un grande evento, la quale si unisce perlopiù al senso del tragico, dura fino a quando un altro evento, altrettanto o più tragico, non la scavalca. Per la stessa America l’attacco contro le Torri e il Pentagono non è stato l’unico assalto nemico al suo territorio.

L’esercito britannico mise a ferro e fuoco Washington nel 1814. L’aviazione giapponese, con i suoi kamikaze, distrusse nel 1941 la flotta americana a Pearl Harbor, base militare nell’arcipelago delle Hawaii. L’unicità oltraggiosa dell’11 settembre non consiste perciò, come si è scritto, nell’attacco in sé a un territorio americano. Consisteva, semmai, nei modi dell’attacco e nell’indole insieme arcaica e postmoderna degli attaccanti.

Il kamikaze nipponico della seconda guerra mondiale partiva, solitario, da basi conosciute e aveva alle spalle una bandiera, un imperatore, uno stato maggiore e una struttura bellica visibile. Invece il kamikaze di nuova generazione, il kamikaze islamista, ha alle spalle una sorta di vuoto operativo: una galassia mistica invisibile, fluida, guidata da centrali occulte, operante per cellule autonome largamente finanziate e sparpagliate all’interno di Stati non solo arabi.

Una volatile multinazionale del terrore, il cui supremo imprenditore, il defunto Bin Laden, si manifestava solo in brevi prediche televisive o in messaggi online, reclutando così proseliti anelanti al martirio per Allah e alla morte degli infedeli. Un’armata senza Stato, senza stendardi, senza generali, tranne un’accolita di spettri radunati, fra grotte o tendaggi lisi, attorno al fantasma di Bin Laden. Alberto Ronchey, in un memorabile articolo del 17 settembre 2001, aveva parlato con lucidità di «un’endemia diffusa, che stravolge la stessa nozione antica di guerra».

Tornando con la memoria alla visione dei grattacieli di New York trasformati in immensi vulcani urbani, si potrebbe forse accennare al tentativo jihadista, in gran parte fallito, di tenere sotto scacco l’America e l’Occidente con la minaccia di una guerra santa tecnologica e perenne. La nozione di guerra, antica o nuovissima, resta in qualche misura legata all’idea fissa quanto effimera di un «mutamento del mondo».

Se frughiamo nel pensiero di coloro che raccontavano la Storia in presa diretta, o altri che l’hanno reinterpretata a posteriori, storiografi, filosofi, romanzieri, poeti, vediamo spesso congiungersi nelle loro pagine l’idea della violenza con quella del cambiamento. Il cambiamento in quanto tale, non importa se positivo o negativo, è dato per certo ed è quasi sempre combinato al nome di una risolutiva battaglia navale o campale (Salamina, Zama, Lepanto, Trafalgar, Austerlitz, Borodino, Waterloo, Sedan, Verdun, Stalingrado eccetera).

Sembra riecheggiarvi ossessivo fra le righe, quale auspicio di un mutamento purchessia, il motto «Cartago delenda est». Lo sterminio del nemico, il massacro, il sangue versato appaiono sublimati come inevitabili motori di uno strappo senza ritorno da un’epoca all’altra. Ma quante volte noi occidentali, i nostri nonni, i nostri padri, infine noi stessi, avevamo già detto con enfasi pessimistica che «nulla sarà più come prima»?

Lo si disse ogni volta che un avvenimento distruttivo, una guerra, una rivoluzione, una catastrofe economica, una calamità naturale o, in tempi più moderni, perfino un semplice ricatto petrolifero sembravano stravolgere le nostre consuetudini e farci percepire il futuro come un incubo senza fine. Prendiamo però il caso paradossale delle due massime potenze europee. La Francia sanculotta, dopo le ghigliottinate giacobine, non ha visto risorgere nei suoi fasti una larga fascia della vecchia aristocrazia e decollare un potente ceto imprenditoriale, l’una e l’altro protette da due imperatori Buonaparte e da restaurati «monarchi borghesi»? La Germania, nel 1945 precipitata dentro l’abisso di un Ground Zero che sembrava averla inghiottita, non era diventata già all’epoca di Adenauer e di Erhard la nazione più ricca del vecchio continente?

Certo, l’attacco contro New York e Washington conteneva in sé molti elementi capaci di scatenare nel mondo, non solo in America, uno tsunami d’orrore metafisico e di angoscia collettiva. Quel nuovo tipo di guerra subdola e mostruosa, insieme suicida e omicida, scagliata con mezzi impropri contro gli Stati Uniti che non avevano mai subìto tante vittime in così poche ore, doveva purtroppo immergere l’inizio del terzo millennio in una tetra atmosfera da «Apocalypse now».

Gli americani si sono mobilitati istantaneamente non solo nella mastodontica impresa di soccorso ai sopravvissuti, ma, anche nell’organizazzione di una risposta immediata contro un nemico privo di volto. Nei giornali si è subito parlato dello scoppio di una «terza guerra mondiale contro ignoti». La replica dell’Amministrazione Bush, sostenuta con impeto di cuginanza dal governo Blair, si preparava ad essere durissima sia con i talebani che nelle caverne afghane proteggevano i capi di Al Qaeda, sia con Saddam Hussein che usava foraggiare e ospitare a Baghdad terroristi non solo mediorientali.

La sorte dell’Afghanistan e dell’Iraq era ormai segnata. L’Occidente o, meglio, una sua parte, entrata in fibrillazione, ha cominciato allora a prendere le distanze dall’America ferita e a domandarsi: che genere di conflitto anomalo sarà mai questo, quali saranno le armate che vi si affronteranno, dove, come, per quanto tempo dovranno combattere? Oggi possiamo dire che l’eco del grido di solidarietà lanciato dai francesi il 12 settembre - «Siamo tutti americani!» - si spense dopo quarantott’ore. La Francia tornò di colpo francesissima, antiamericana, filoaraba; Chirac promosse e inflisse alla coalizione atlantica, con incursioni diplomatiche all’Onu coordinate e aggressive, la più profonda spaccatura da essa patita dopo la fine della guerra fredda.

L’agghiacciante spettacolarità dei fumiganti crolli di Manhattan, a cui tutti abbiamo assistito in diretta tv, non dovrebbe farci dimenticare che, nonostante le sue tremende novità, non era stato l’avvìo di una presunta «terza guerra americana» destinata a trasformare, per il meglio o per il peggio, il mondo. Una trasformazione violenta o, se vogliamo ricorrere a termini meno iperbolici, una certa commutazione armata nei rapporti etnici, religiosi, nazionali in diverse regioni del mondo era già iniziata nei paraggi del 1989. Per molti aspetti una «terza guerra» a macchia di leopardo era già all’opera, nell’Europa balcanica e nella Russia meridionale, dopo o durante il crollo del comunismo.

In altre parole: dovremmo tenere a mente tutti i conflitti di civiltà (considero presuntuoso scialo culturale gettare l’intero Huntington in soffitta) che precedettero e, in modo sia pure obliquo, preannunciarono l’apocalisse newyorchese. Azeri contro armeni nel Caucaso, serbi ortodossi contro slavi islamizzati in Bosnia, ancora serbi contro albanesi musulmani nel Kosovo, quindi russi contro guerriglieri fondamentalisti in Cecenia e nel Daghestan. Lo stesso carattere di genocidio indiscriminato, che ha connotato la strage inflitta da Al Qaeda all’inerme popolazione delle Torri Gemelle, non s’era già profilato in termini rovesciati e ambigui (slavi cristiani contro slavi islamici) nel più esecrando degli olocausti perpetrati in Europa, a Srebrenica, dopo l’ultima guerra mondiale?

Non mi sembra possibile, né sul piano logico né su quello storico, separare gli anelli di questa mobile catena di catastrofi regionali che infine, allungandosi sempre più, sono diventati intercontinentali. Alla pace negativa, ma pur sempre pace, basata sull’equilibrio del terrore garantito per mezzo secolo dagli Usa e dall’Urss, è subentrato fra il 1989 e il 2000 lo squilibrio del terrore globalizzato: del caos in libertà. Il pianeta, che da quando esiste cambia in continuazione, sta già incorporando, assorbendo e forse sterilizzando tale incognita eccezionale e asimmetrica.

Fatto è che neppure l’11 settembre è riuscito o riuscirà a cambiare un universo che si cambia da solo, come gli pare e piace, nel bene e nel male. Non è un universo astratto, l’universo in generale caro agli astronomi e ai filosofi, che una discrasia storica per quanto temibile può ribaltare d’un tratto recidendone la radice oscura e irraggiungibile. Quello che invece è mutato, che sempre più sta mutando, è la percezione del mondo in cui viviamo. Volendoci vivere il più a lungo possibile, dovremo affrontarne le insidie e combatterle con i valori di fondo, non solo di superficie, della nostra civiltà tanto detestata da tutti quelli che la imitano per distruggerla.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9183
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« Risposta #65 inserito:: Ottobre 06, 2011, 04:48:31 pm »

5/10/2011 - UN NUOVO PATTO

Putin sogna di resuscitare l'Urss

ENZO BETTIZA

Due sorprese nel giro di trenta giorni. Dopo essersi ricandidato a riprendersi il posto di presidente della Federazione Russa, Vladimir Putin già rende noto al suo popolo e al mondo intero quale sarà il grandioso progetto che egli promuoverà subito dopo la vittoria elettorale di marzo, data da tutti per sicura: la ricostituzione, con progressivo e parziale allargamento, di una parte dello spazio geografico che fino al 1991 si chiamava Unione Sovietica. Lo annuncia lo stesso Putin, in attesa di spiccare il salto dal governo alla terza presidenza, firmando nelle «Izvestia» un articolo dal linguaggio morbido, invitante, non allarmante, in cui i termini economicisti del progetto attutiscono accortamente quelli di significato più politico. Eccone il passo essenziale: «Proponiamo il modello di una potente unione sovrannazionale, in grado di diventare uno dei poli del mondo moderno e di svolgere un ruolo di efficace legame tra l’Europa e la dinamica regione Asia-Pacifico».

Non si capisce bene di quale legame con quale Europa Putin parli con un piglio che risente già d’autorevolezza presidenziale.
L’Europa comunitaria del Reno e del Danubio oppure l’Europa ex sovietica del Volga e degli Urali? Propenderei per la seconda versione eurasiatica. Infatti il modello geopolitico e geoeconomico, illustrato da Putin, esclude l’europea e riluttante Ucraina, per tacere dell’ostile Georgia e delle irrecuperabili repubbliche baltiche, basandosi precipuamente sull’unione doganale in atto tra Russia, Bielorussia e Kazakistan. Un bulbo di schietta e quasi leggendaria Eurasia.

Dal primo gennaio 2012 la triade, che formava suppergiù un terzo dell’Unione Sovietica, costituirà, rispetto ai 27 Paesi e ai 500 milioni dell’Unione Europea, un mercato comune di 165 milioni di «consumatori» (non più «proletari») definiti così secondo una vecchia terminologia fiorita a Belgrado e a Zagabria ai tempi dell’eclettico riformismo titoista.

Accentuerà la componente non europea e non slava il probabile ingresso nell’unione putiniana, che già accoglie il semistalinista bielorusso Lukašenko, di due minori democrature islamiche dell’Asia centrale, Kirghizistan e Tagikistan.

Questa sorta di riviviscenza o di «copia e incolla», con espedienti e finzioni interdoganali, di uno spazio storico dissolto dai crolli comunisti suggerisce il dubbio che il premier Putin stia cercando di surrogare l’Unione Sovietica pesante d’una volta con una sorta di «Urss leggera»: non più basata sull’ideologia delle tonnellate, sul mito e l’incubo dell’acciaio, bensì sugli oleodotti energetici, gli investimenti stranieri, la mobilità del lavoro, il benessere anziché la miseria e spesso la quasi schiavitù degli operai. Sarà.

Ma, al tempo stesso, non va dimenticato che l’enigmatico Putin definì il collasso dell’Unione Sovietica nel 1991 «la più grande catastrofe geopolitica del XX secolo». Quell’accento così drammatico sulla «catastrofe geopolitica» può aiutarci a comprendere, fino ad un certo punto, i suoi sforzi mirati a ricomporre oggi pezzo per pezzo, con la mezza finzione di un mercato o bazar comune, un’entità che almeno in parte possa evocare gli spazi «geopolitici» dell’impero perduto.

Del resto, si vede ormai benissimo che l’esercizio diuturno della finzione è stato e resta più che mai uno dei motori vitali dell’ambiziosa quanto straordinaria carriera politica di Putin. Fino a ieri molti credevano che il presidente Dmitry Medvedev, dimissionario in anticipo sui tempi legislativi, non fosse un fantoccio nelle mani del suo mèntore e padrone. Lo si dipingeva come un liberale in salita, uomo di riforme, in procinto di emanciparsi dal suo principe elettore e, in certi casi, perfino di opporglisi. Solo chiacchiere.

Il controllo sulla stampa e sulle televisioni si è assolutizzato; il partito putiniano «Russia Unita» è divenuto di fatto un partito unico circondato e sostenuto da simulacri pseudodemocratici; contemporaneamente la popolarità del presidente reale, che fingeva di fare il primo ministro, è cresciuta a balzi esponenziali. Oggi il volto sorridente e rassicurante del presidente Medvedev ci appare simile alla faccia intensamente dipinta di una matrioska che al proprio interno conteneva da sempre, fin dall’inizio, dal 2008, la grinta gelida dello zar autentico di tutte le Russie.

Il gioco delle parti, lo scambio fisiologico delle consegne tra burattinaio e burattino, è affare concluso da tempo e da tempo accettato dalla maggioranza dei «consumatori» votanti. Al terzo mandato al Cremlino di Putin potrà seguire il quarto e la durata prolungarsi fino al 2024. Praticamente presidente a vita. Una simile longevità politica ricorda solo quella di Stalin. Così come il rimpianto, più o meno segreto, della grandezza di Stalin sembra riflettersi in chiave minore nell’«Urss leggera» che Putin sta pianificando e già realizzando da Minsk al cuore dell’Asia.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9283
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« Risposta #66 inserito:: Novembre 08, 2011, 10:07:25 am »

8/11/2011

Lo psicodramma della diarchia franco-tedesca

ENZO BETTIZA

Sono in molti a parlare oggi di psicodramma. Si riferiscono ai malori dell’euro, al disastro della Grecia, alla quarantena internazionale imposta all’Italia, alla quasi deriva dell’Unione Europea sottoposta alle carote e alle bastonate dell’ondivaga diarchia franco-tedesca. «Psicodramma» è una locuzione vuota, priva di senso, risalente al lessico parapolitico della seconda metà del Novecento. Quello che in realtà si sta svolgendo sotto i nostri occhi in questi giorni fatali, con la Grecia prossima allo harakiri e l'Italia sospesa al filo di un ignoto mutamento epocale, è un dramma vero, senza «psico»; un dramma eminentemente politico, crudo, e ancora incompiuto.

E’ certo innegabile che l’economia, come tutti vedono senza capirne fino in fondo il linguaggio cifrato, abbia un suo ruolo in apparenza addirittura dominante nello svolgimento del dramma. La situazione reale però è intricata e più complessa. L’economia postmoderna, chiamiamola così, sembra giocarvi una parte prioritaria con le sue formule enigmatiche, tratte dal gergo finanziario della City e di Wall Street, o con i verdetti delle agenzie di spionaggio mercantilistico chiamato «rating» che indagano e denunciano, spesso sbagliando, la fragilità di resistenza alla crisi di aziende, istituti bancari e spesso di nazioni intere. In questo universo di minacciose astrazioni primeggia il culto pressoché eleusino dei «mercati», trasformati dai media in una sorta di umorali creature extraterrestri definite, a seconda dei casi, con aggettivi antropomorfi: «emotivi», «reattivi», «prudenti», «diffidenti», «aggressivi», «punitivi» e via dicendo.

Oramai le aperture dei telegiornali, con conduttori che farfugliano di corsa termini e dati incomprensibili a loro stessi nonché al pubblico che li ascolta, sembrano mimare in sintesi la lezione di una Bocconi dei poveri. Grandi quotidiani d’informazione paiono ridotti, in certe giornate di crollo delle Borse, a opuscoli economicisti di ardua e tetra lettura. Mai il pubblico non solo italiano, bensì europeo e occidentale, aveva avuto la sensazione di essere assediato da una catastrofe altrettanto incombente quanto inesplicabile, indecifrabile. Una specie di minaccia di guerra senza volto, senza un nemico dichiarato, non più fredda ma bianca e intestina: misteriosamente fomentata da incurabili «debiti sovrani», da forbici di «spread» che si allargano, da invasivi «Bund tedeschi» che spingono al baratro gracili «Btp decennali italiani», con l’appendice di un’avara trincea di protezione. Un Fondo europeo siglato dall’astruso acronimo «Efsf», che dovrebbe salvare dalla bancarotta o «default» gli Stati dell’Unione più sventurati o più vulnerabili.

Gli europei un tempo si sentivano minacciati da fatti concreti e chiaramente percepibili. I missili sovietici, il Muro di Berlino, la crisi di Cuba del ‘62 a carica atomica. Infine si sentirono sollevati o stupefatti o magari affranti, se erano comunisti, dalla caduta del Muro e dall’implosione dei regimi totalitari dell’Est. Dopodiché moltissimi, postcomunisti compresi, hanno invano sperato nella buona sorte dell’Europa di Maastricht e dell’euro. Non pensavamo che dagli assedi della Storia visibile saremmo precipitati, sulla fine del primo decennio del 2000, nell’assedio invisibile di una storia minore priva d’immagini e ingarbugliata, almeno all’apparenza, soltanto da numeri impazziti. Mai, insomma, avremmo potuto immaginare che un nuovo pericolo si sarebbe presentato ai nostri occhi in forma algebrica, nell’ambito stesso della promettente Unione di Maastricht, con un sordo bombardamento quotidiano di cifre, percentuali, statistiche, parametri e rendiconti punitivi. Il trasloco dai rischi della Storia autentica agli incubi di astrazioni per così dire astoriche, in continua mutazione, spesso inafferrabili, non poteva non ingenerare in coloro che avevano creduto all’unità europea una forte dose di disaffezione nei confronti degli istituti europei: istituti oggi intensamente condizionati e in gran parte confiscati dal direttorio franco-tedesco. Qui, dietro l’astrazione dei numeri in primo piano, si toccano le radici di questa grave paralisi europea che sono politiche e anche storiche.

L’ossessione della Germania per la propria stabilità e per quella dell’Europa, alla quale resta e resterà comunque legato il suo destino, si spiega meglio ricordando il retaggio negativo della Repubblica di Weimar: la vertiginosa svalutazione del marco, la vasta disoccupazione, la perpetua rissa tra partiti, fazioni, aristocrazie militari, il tutto culminato nell’ascesa al potere dei nazionalsocialisti e di Hitler. Lo stesso Hitler, che detestava interessarsi di economia, divenuto cancelliere, dovette affrontare d’urgenza il problema della stabilità affidando al conservatore Hjalmar Schacht, esperto banchiere e geniale uomo d’affari, il compito di rimettere «la casa in ordine». La ripresa impressa da Schacht riconsolidò il marco, ridusse la disoccupazione da sei milioni a un milione, il reddito nazionale raddoppiò. Scrive il testimone oculare Shirer nella sua «Storia del Terzo Reich» pubblicata da Einaudi: «Negli anni intorno al 1935 la Germania sembrava un grande alveare: le ruote dell’industria ronzavano e ognuno era affaccendato come un’ape». Buona parte dell’alveare ronzava nelle industrie belliche: il riarmo, voluto da Hitler e secondato con abilità e opportunismo da Schacht, fu per la Germania quello che, dopo il caos del 1929, furono per il Roosevelt keynesiano del New Deal i grandi e talora artificiali lavori pubblici. Comunque, la corsa nevrotica alla stabilità dopo il «default» di Weimar ha segnato nel bene e nel male l’animo dei politici tedeschi. Non è un caso se la cancelliera Merkel vede nella Banca centrale europea quasi una mezza banca tedesca e se ora difende, come se si trattasse del marco defunto, la solidità dell’euro a scapito del soccorso alla Grecia e di una cooperazione più sensibile con l'Italia.

Quanto alla Francia, con un Sarkozy che fa da portavoce alla signora Merkel, dicendo questo si è detto quasi tutto. Se ride e strilla contro l’Italia, che certo non naviga in acque serene, probabilmente lo fa per non piangere sul suo Paese che in tempi di elezioni presidenziali rischia di perdere le tre «A». A prescindere da altre fragilità, come il debito altissimo e la difficile ricapitalizzazione delle banche, sono queste le tre lettere indorate che tengono in piedi, non si sa fino a quando, la parvenza di una parità francese con la potente Germania. Sarà bene ripeterlo: soltanto la parvenza.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9409
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« Risposta #67 inserito:: Novembre 30, 2011, 06:09:40 pm »

30/11/2011

La "Gioconda nordica" salvi l'euro

ENZO BETTIZA

Il Financial Times concede al vascello dell’euro alla deriva non più d’una decina di giorni prima di affondare. Ne sapremo qualcosa, per il meglio o il peggio, entro nove giorni, allorché a Bruxelles si riunirà il vertice dei capi di Stato e di governo per discutere, secondo il presidente dell’Ue Van Rompuy, il progetto di «una vera e propria road map» di salvataggio della moneta comune.

Il timore diffuso è che Angela Merkel non cerchi, anche in questa occasione, d’imprimere alla mappa una strategia conforme agli interessi nazionali tedeschi o ai suoi personalissimi calcoli elettorali.

Sinora infatti nella sala macchine dell’Eurozona, coi motori fermi, si è sentito solo il rimbombo dei veti della cancelliera, il cui pugno di ferro emerge sempre più scoperto fuori dal guanto di velluto. Il repertorio è noto. No durissimi alla Grecia disprezzata; mezzi no all’Italia prima incalzata, poi blandita con l’arrivo di Monti, infine apparentemente promossa con la partecipazione, assieme alla Germania e alla Francia, al progetto di una «unione della stabilità» che non si sa bene come funzionerà; assoluti no al lancio nella burrasca di salvagenti d’emergenza, chiamati eurobond. E soprattutto no ad un intervento autonomo e risolutivo, sulle operazioni di salvataggio, della Banca centrale europea che dà invece l’impressione di agire come una semifiliale della vetocratica Bundesbank tedesca.

Ma chi è, in fondo in fondo, da dove spunta, dove si è plasmata, con quali ideali o ambizioni è cresciuta Angela Dorothea Kasner (Merkel è nome preso dal primo marito) che veniva dal freddo e che, dopo la caduta del Muro, era conosciuta solo da pochi notabili dei partiti cristiani Cdu e Csu che ne determineranno la fulminea ascesa ai vertici della Germania riunificata? Quando nel 2005 diventa il primo cancelliere donna della storia tedesca, «Der Spiegel» la presenta al pubblico occidentale come una massaia conservatrice, di tradizione luterana, dal «sorriso enigmatico di una Gioconda nordica». Ma alle spalle della cancelliera cinquantenne, se non «la vita degli altri» in senso deleterio e cinematografico, c’era stata la vita di un’altra Angela, un’altra persona, la quale mai avrebbe potuto immaginare di essere destinata - lei, partorita quasi per caso in un oscuro villaggio della Ddr - a rappresentare un giorno sulla scena mondiale ottanta milioni di tedeschi riuniti.

Suo padre, il pastore protestante Horst Kasner, detto da qualcuno «il prete rosso», si spostava spesso tra le due Germanie intrattenendo buoni rapporti, in quella comunista, sia con gli antichi insediamenti evangelici che con le nuove autorità ulbrichtiane. La penuria di pastori spingeva prelati volenterosi alle missioni nell’Est; ma non sempre la cosa veniva vista di buon occhio da Ovest, anche perché l’epoca era già segnata dalle fughe in direzione opposta, verso la Repubblica federale, di milioni e milioni di tedeschi orientali. Angela Kasner era nata in quell’epoca e aveva continuato a vivere «di là» senza troppe inquietudini ideologiche o bovaristiche, sempre in tranquilla o apparente pace con tutti. Con se stessa, con la religione del padre, con lealtà neutrale nei confronti del regime, perfino con le organizzazioni giovanili comuniste di cui, pur cristiana osservante, fece per qualche tempo parte attiva. Da noi si usava una volta il termine «cattocomunista»; forse, per la giovane Angela, scaltra, attenta, duplice, sfuggente, si sarebbe potuto adoperare con dovuta cautela quello di «luterocomunista». Imparò alla perfezione il russo, ammirando in particolare la superzarina, Caterina la Grande, nata come lei in Germania orientale. Studiò con profitto fisica all’università di Lipsia e, più tardi, operò anche all’Istituto per la chimica fisica dell’Accademia delle scienze di Berlino Est. Insomma, una studiosa capace, integrata nel sistema, alla quale mai sarebbe venuto in mente di rompere le righe e rischiare il salto del Muro per raggiungere la libertà nel settore occidentale dell’ex capitale. Non a caso dice di se stessa: «Ho bisogno di tempi lunghi e cerco quanto più possibile di riflettere prima di agire».

Aspettò che il comunismo e il Muro cadessero, o implodessero da soli, prima di tuffarsi con un piccolo ma influente movimento, «Risveglio democratico», nell’arena politica di una Germania in parte sconvolta e in gran parte esaltata dall’imminente riunificazione nazionale. Fu in quel clima di cambi della guardia, di fusioni monetarie, di processi volatili, di assoluzioni facili, d’embrassons-nous, che l’aspirante scienziata Kasner si mutò d’un colpo nell’aspirante cancelliera Merkel e compì, nel giro di quindici anni, la più inattesa e straordinaria carriera politica del Duemila. Si potrebbe evocare lo scatto metamorfico di una folgore fredda. Porta il suo movimento dell’Est ad allearsi e fondersi nella Cdu, entra nelle grazie di Helmut Kohl, che presiede lo storico partito democristiano e già prepara il cambio del marco orientale e la riunificazione; dopodiché passerà indifferente sopra il cadavere politico di Kohl, celebrato dal mondo intero, ma travolto da uno scandalo finanziario. Dirà senza batter ciglio: «E’ ora che se ne vada». E’ lei, das Mädchen, «la ragazza», come bonariamente o ipocritamente la chiamano seguaci e rivali all’interno della Cdu, che non intende andarsene più via; è lei, non più ostacolata dalla mole protettiva e dai meriti storici di Kohl, che si accinge alla conquista di due cancellierati uno dopo l’altro, coalizzandosi prima con i socialdemocratici e in seguito alleandosi da posizioni di forza con i liberali; è lei, già esperta di chimica, che adesso comincia a trattare come «molecole» problemi e personaggi coinvolti nel gioco politico.

A questo punto si sarà forse capito con che razza di animale politico imprevedibile, inafferrabile, caparbio, avranno a che fare il 9 dicembre soprattutto quei capi di governo più interessati a salvare dal naufragio l’euro e l’Europa comunitaria in quanto tale. Kohl, l’ultimo dei cancellieri europeisti di cui Adenauer fu il primo, un Kohl pressoché dimenticato, sulla sedia a rotelle, col fantasma di una moglie suicida dietro le spalle, si è già preso una rivincita attaccando l’ex pupilla scavalcatrice sul giornale «Der Tagesspiegel»: «La cancelliera, con la sua linea molto pericolosa nei confronti dell’euro, sta distruggendo la mia Europa». Voleva dire l’Europa occidentale dei renani, cattolica dei bavaresi, vicina a uomini di frontiera come l’alsaziano Schuman o il trentino De Gasperi; un’Europa che probabilmente non ha mai ispirato, ma piuttosto ingessato, le mosse di una protestante, una puntigliosa nordica, una quasi prussiana, cresciuta in scuole d’impianto scientifico e manicheo, culturalmente sensibile ai mondi e agli idiomi slavi. Kohl ha poi smentito di averlo detto, ma si sa che le smentite, in sede di giornalismo politico, equivalgono spesso a una riconferma rafforzata. Vedremo a giorni, nella capitale virtuale dell’Ue, se Angela Merkel si comporterà allo stesso modo con cui, ancora bambina o quasi, affrontava le prove di nuoto ai margini della piscina. Una sua biografa ufficiale, Margaret Heckel, scrive che la piccola scolara poteva passare un’intera lezione accovacciata e immota sul trampolino. Solo quando le giungeva dalla palestra lo squillo finale del campanello, riusciva a trovare il coraggio di fare il salto nell’acqua.

Tanti oggi sperano che la zarina dell’Unione, che sulla scrivania tiene un ritratto settecentesco di Caterina la Grande, trovi il coraggio di tuffarsi in extremis fra i marosi per trarre in salvo l’euro. Basterebbe, per esempio, che cessasse di opporsi a quello che i politici più responsabili e gli osservatori più acuti chiedono da tempo: concedere alla Banca di Francoforte il ruolo di prestatore di ultima istanza ai Paesi indebitati. Anche in termini fonetici quel drammatico ruolo può evocare l’ultima bombola d’ossigeno in una stanza di rianimazione: basta talora il ritardo di un minuto secondo, uno solo, a spegnere il rantolo del malato grave e farlo morire.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9498
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« Risposta #68 inserito:: Dicembre 16, 2011, 06:55:37 pm »

Cultura

03/06/2010 - L'INEDITO DA MOSCA: «STO SCRIVENDO UN LIBRO...»

Vasilij Grossman, nessun miracolo a Stalingrado

Sovietici e nazisti accomunati nel male: una nota dello scrittore svela l'impulso di verità totale con cui concepì "Vita e destino"

ENZO BETTIZA

Un foglio di carta ritagliata scritto a penna stilografica scura, senza data, conservato presso Rossijskij Gosudarstvennyj Archiv Literatury i Isskustva di Mosca, con una nota inedita di Vasilij Grossman: l'ha scoperta lo studioso Pietro Tosco, che la pubblica sulla rivista La Nuova Europa in uscita questo fine settimana, con un'ampia analisi del documento. Qui anticipiamo il testo di Grossman.


Sto scrivendo un libro su Stalingrado. Il libro, se riuscirò a finirlo, consterà di tre parti. In un anno e mezzo ho steso l'abbozzo della prima parte, ora sto lavorando alla seconda. Il lavoro sul libro mi riesce a spizzichi e non posso dire quando lo finirò, per il semplice fatto che io stesso non lo so. Stalingrado è la catastrofe del male nel mondo.
La vittoria di Stalingrado non è un miracolo, né una felice casualità. Stalingrado risponde a una grande legge nel movimento del flusso della storia. La vittoria di Stalingrado è un risultato che equivale alla somma di forze diverse, delle quali la forza materiale non è che una delle poderose componenti. Il destino di Stalingrado l'hanno deciso gli uomini, ma anche Stalingrado ha determinato il destino degli uomini e del popolo.
Vorrei che il mio lavoro, almeno in minima parte, fosse degno di quella sofferenza che la guerra ha portato nel mondo, di quelle forze della storia dello spirito del popolo, di quei caratteri umani, di cui mi sto sforzando di scrivere. Voglio che il mio lavoro, almeno in minima parte, sia degno di quei soldati senza nome che hanno combattuto col male, dei quali non ci si deve dimenticare.
Questo desiderio ambizioso e probabilmente irrealizzabile mi costringe ad affrontare il mio lavoro con la più grande severità di cui sono capace.

Vas. Grossman



E' molto più di una «nota inedita», priva di data, scritta oltre mezzo secolo fa dallo scrittore che l'aveva firmata quasi di corsa «Vas. Grossman». È di fatto la confessione segreta, essenziale come un distillato di verità, che il romanziere, già molestato dalla censura, consegnò con la penna a un ritaglio di carta nei giorni in cui s'addentrava nella stesura di «un libro su Stalingrado». Vasilij Grossman era allora immerso nella sua sfida narrativa finale, Vita e destino, che fin dal tolstoiano binomio dichiarava l'ambizione di diventare il Guerra e pace del Novecento. Un romanzo, secondo George Steiner, destinato a «eclissare tutti i romanzi che in Occidente vengono presi sul serio».

Simile e una cartina di tornasole, emersa per caso dalle profondità più tenebrose della storia, non solo russa ma europea, la «nota» ora ci svela l'impulso di verità totale e abrasiva con cui Grossman aveva concepito fin dall'inizio la sua massima opera. Il concetto centrale, da cui dovevano partire e a cui dovevano approdare le 800 pagine del romanzo, era questo: «Stalingrado è la catastrofe del male nel mondo». Nella coscienza ulcerata e nella memoria informata dello scrittore, che come giornalista di prima linea aveva attraversato tutti i fronti bellici, i termini «catastrofe» e «male» sostituivano e annullavano quelli di «vittoria» e di «guerra patriottica» esaltati dalla retorica ipernazionalista sovietica.

Il nome Stalin appare nella nota soltanto perché Stalingrado si chiamava Stalingrado. Per il resto Grossman ignora il generalissimo, non gli attribuisce alcun merito militare, non cita la gloriosa Armata Rossa ma soltanto «quei soldati senza nome che hanno combattuto col male». Così come, con simmetria allusiva, non cita Hitler e ignora del tutto l'esercito nemico. Anzi, tacendoli, egli dà l'impressione di collegare nazionalcomunisti e nazionalsocialisti nell'indistinto «male» del secolo inquinato dalla Gestapo e dalla Ghepeù, dai Lager e dai Gulag, che nei capitoli polifonici del grande romanzo s'alternano e quasi si confondono.

Non a caso François Furet, alla fine della sua disamina delle illusioni comuniste, aveva dato rilievo emblematico al momento più scabroso e inquietante di Vita e destinO, in cui assistiamo al rispettoso colloquio tra un ufficiale delle SS e un commissario politico russo: i simulacri della lotta di razza e della lotta di classe sembrano avvicinare, al di là dell'odio convenzionale, rendendoli quasi complici ideologici, l'imbarazzato comunista e lo spregiudicato nazionalsocialista.

La radicale metamorfosi dello scrittore russo israelita, che aveva iniziato la carriera nella scia della narrativa ispirata al realismo socialista, non poteva non esporlo alla rappresaglia di un potere confusamente e ottusamente totalitario anche dopo la morte di Stalin. Gli occhiuti e insieme strabici censori sovietici, che pur tollerando il primo Solženicyn avevano già massacrato Pasternak, riconobbero subito in Vita e destino un testo ben più temibile del Dottor Živago. Doveva allarmarli profondamente quell'onnipervasiva riflessione sul male a ridosso dell'epopea nuda, cruda, non oleografica di Stalingrado: una Stalingrado conosciuta e vissuta in prima persona dal rievocatore Grossman come luogo dantesco di dolore, di purificazione, più che di glorificazione encomiastica dell'avvilito popolo russo.

Quando negli anni Cinquanta, al principio del disgelo dopo la scomparsa di Stalin, le edizioni di Stato rifiuteranno di pubblicare la seconda metà del libro, la più importante e politicamente più ingombrante, Grossman scriverà una lettera personale a Krusciov chiedendo comprensione e libertà per il suo lavoro di narratore. Gli risponderà dopo qualche settimana il politburo del Pcus con una sferzata breve e sarcastica: «Prima che il suo romanzo venga pubblicato dovranno passare almeno trecento anni».

Intorno al 1960 gli agenti del Kgb faranno irruzione nell'appartamento di Grossman, considerato traditore del regime e della patria; sequestreranno il manoscritto del romanzo, gli appunti, la copia carbone, il nastro della macchina per scrivere e la stessa macchina. Per fortuna, il fisico dissidente Andrej Sacharov riuscirà a recuperare un secondo manoscritto facendolo giungere di sotterfugio in Svizzera. Grossman morirà per cancro nel 1964. La sua opera sarà pubblicata postuma nel 1980, a Ginevra, presso le Editions d'Age d'Homme.

Io lasciai Mosca nel '64, senza aver mai saputo che nella stessa città era vissuto uno dei più grandi scrittori russi. Nessuno me ne aveva parlato. Nessuno dei tanti letterati da me incontrati m'aveva fatto il suo nome. Stento ancora oggi a convincermi di averne ignorato per quattro anni l'esistenza. Grossman, molto più di Pasternak, era stato davvero cancellato dalla faccia della terra e ridotto al nulla della «non persona» nel senso più orwelliano del termine. La fama d'eroe di guerra, insigne come la sua firma giornalistica durante gli anni Quaranta, era riuscita a evitargli la deportazione in Siberia, ma non la morte civile in qualche oscuro e remoto appartamento moscovita.

da - http://www3.lastampa.it/cultura/sezioni/articolo/lstp/241262/
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« Risposta #69 inserito:: Gennaio 22, 2012, 10:27:31 am »

22/1/2012

L'Europa cerca in Croazia un nuovo futuro

ENZO BETTIZA

Oggi sapremo se un nuovo Stato si aggiungerà ai Ventisette di questa Europa in crisi, paradossalmente disunita fra tante difficoltà ma unita nei vischiosi tentativi di risolverle non si sa come. Lo sapremo dal risultato che uscirà stasera in Croazia dalle urne del referendum. La maggioranza dei sondaggi, salvo sorprese dell'ultima ora, conferiscono al «sì» una vittoria di calore medio, intorno al 55 per cento, contro un «no» che non dovrebbe superare il 25 per cento.

Se verrà confermato il pronostico sul consenso popolare al trattato di adesione, già firmato a Bruxelles dal nuovo governo di centrosinistra, la Croazia diventerà nel luglio 2013 non solo il Ventottesimo Stato membro dell'Unione. Rappresenterà anche, al fianco della Slovenia, la fusione con le istituzioni comunitarie di una seconda nazione ex jugoslava, la più coinvolta negli scontri armati con la Serbia dopo la dichiarazione d'indipendenza del 1991. Insomma, se il referendum riuscirà, costituirà un attestato di eloquente fiducia nella terapia europeistica da parte di una provata regione dei Balcani occidentali, proprio nel momento in cui l'Europa appare più incline a disintegrarsi che ad allargarsi.

Molte ombre, che s'intravedono nello sfondo dietro la prova referendaria croata, possono indurre comunque a considerazioni di prudenza e anche di perplessità. Spesso non vediamo le contraddizioni infinite nella deriva greca.

Tendiamo, per esempio, a dimenticare che la Grecia non è soltanto un pezzo disastrato dell'entità comunitaria europea, ma parte cospicua e irrequietissima della Penisola balcanica. Dimentichiamo che la sua politica estera, in contrasto per disperazione finanziaria con Berlino e Bruxelles, confligge al tempo stesso per ragioni storiche e mitiche con la Macedonia, di cui non riconosce il nome «usurpato», oppure con l'Albania, alla quale rimprovera di fomentare pulsioni nazionaliste nelle minoranze albanesi dell'Epiro.

Ora tantissimi greci - politici, intellettuali, popolani che siano - puntano il dito contro un'Europa che vorrebbe, dicono, espellere Atene dalla zona euro strizzando nello stesso istante l'occhio ai macedoni, agli albanesi, ai montenegrini e perfino ai kosovari. Ma è nel caso della Croazia, alla quale Bruxelles spalanca le porte europee che invece intenderebbe chiudere alla Grecia e mai aprire alla Serbia, che i greci nazionalisti e in genere filoserbi vedono il colmo dell'insulto.

I critici, non solo greci, contrari alla «europeizzazione» di quattro milioni e passa di croati, esibiscono con cifre alla mano diversi argomenti negativi d'ordine economico e sociale. Osservano che su quel Paese pesano una lunga recessione, un debito straniero di 48 miliardi di euro e una disoccupazione elevata al 17 per cento. Nel contempo gli stessi europessimisti croati, perlopiù estremisti di destra che non perdonano alle autorità indigene di aver estradato il generale Ante Gotovina, condannato per crimini di guerra a 24 anni di carcere dal tribunale dell'Aia, sottolineano che la Croazia perderebbe la sua antica identità nazionale in un'Europa dominata dalla Germania e dalla Francia. C'è anche chi sostiene, indignato e allarmato, che non esiste più una banca di proprietà croata poiché tutti gli istituti di credito sarebbero stati svenduti a voraci banche italiane, austriache, tedesche e francesi.

Argomenti certamente seri, ancorché non tutti comprovati, sovente alterati da una buona dose di demagogia. Però destinati ad attecchire sempre meno, in seguito alla catena di scandali e sconfitte che ha finito col travolgere il tradizionale partito conservatore Hdz, Unione democratica croata, fondato e guidato nelle battaglie contro i serbi e negli anni della ricostruzione dal defunto «padre della patria» Frano Tudjman. Il crollo senza riscatto della Hdz avviene sul termine del 2011, con l'arresto per corruzione del suo ultimo leader ed ex primo ministro Ivo Sanader; dopodiché in dicembre si celebra il trionfo elettorale di una coalizione di centrosinistra che consegna la guida del governo al socialdemocratico Zoran Milanovic. La presidenza della Repubblica era già nelle mani di un socialdemocratico colto e stimato, il musicologo Ivo Josipovic.

Il nuovo governo, ispirato dal presidente occidentalista, mette da parte le incertezze e ambiguità diplomatiche della logora Hdz e, sostenuto sul piano esterno da Bruxelles e dall'influente Chiesa cattolica su quello interno, accelera le ultime battute tecniche per l'ingresso della Croazia nell'Ue. L'odierno referendum, in cui sicuramente voteranno «sì» gli elettori che hanno appena votato per il centrosinistra, costituisce il corollario dell'operazione. Secondo l'intento degli attuali vertici di potere, gestiti e garantiti dalla socialdemocrazia, la valutazione squisitamente politica dell'evento, ovvero l'uscita definitiva dall'isolamento balcanico, deve ad ogni costo prevalere sulle valutazioni economicistiche, materialistiche e nazionalistiche.

La stabilità finalmente raggiunta, dopo gli scandali, a livello governativo e parlamentare, la chiarezza etica nei confronti del tribunale internazionale dell'Aia, l'aggancio ai costumi dell'Europa contemporanea mediante il portentoso decollo turistico avviato nel 2000, nessuna bandiera europea bruciata come nelle piazze di Atene e di Budapest: questi i temi che da qualche settimana prevalgono nei giornali e nelle televisioni di Zagabria. Non lascia dubbi in proposito neppure l'incitamento lanciato ai votanti dall'uomo di cultura Josipovic: «Oggi la Croazia sta entrando in Europa, ma soprattutto l'Europa sta entrando in Croazia. Non dobbiamo perdere la grande occasione. Dobbiamo completare l'ondata del sesto allargamento nella storia dell'Unione».

Da tempo non si udivano parole così alte e sincere indirizzate da una capitale europea all'idea, purtroppo vacillante, di un'Europa unita. Il «sesto allargamento» si riferisce a quello che ha vincolato all'Europa democratica i Paesi dell'Est una volta comunisti. Dal fatidico 2004 in poi, dopo la caduta del Muro e la riunificazione tedesca, la metà centrorientale del continente ne ha viste di cose: miracoli come in Polonia e Slovenia, smembramenti come in Cecoslovacchia, fallimenti e rigurgiti ancestrali e sospetti come in Ungheria. Se il referendum croato passerà, speriamo che almeno esso porti, da Zagabria, una ventata d'ossigeno corroborante alla vasta casa comune che minaccia di svuotarsi e sprofondare su se stessa.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9677
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« Risposta #70 inserito:: Marzo 04, 2012, 11:13:30 am »

4/3/2012

Lo zar Putin e l'incognita di una vittoria

ENZO BETTIZA

Primo o secondo turno, ballottaggio o meno, quasi nessuno in Russia o in Occidente dubita che l’intramontabile Vladimir Putin porterà comunque in porto il suo piano di scambio pattuito con l’uscente e ossequiente capo di Stato Dimitri Medvedev. A scanso di sorprese, poco probabili, dovremo rivedere per la terza volta al vertice del Cremlino un Putin in prodigioso rilancio, al quale gli ultimi e più attendibili sondaggi accreditano ormai il 66 per cento del voto. Qualche broglio sommato all’assenza di un concorrente alternativo potrebbero elevarlo al 70.

Di fatto, l’uomo aspro ed enigmatico che da una dozzina d’anni domina la scena russa del Duemila si presenta oggi come unico candidato sicuro di riconquistare o, se preferite, usurpare la massima carica: l’opposizione composita e proteiforme, che continua a osteggiarlo dalle elezioni parlamentari di dicembre, si è sfogata nelle piazze, divertita negli spot Internet, dispersa nei girotondi chilometrici, senza riuscire però ad esprimere un leader capace di fronteggiarlo o metterlo in seria difficoltà. Il punto della questione, secondo osservatori attenti, non è più quello di sapere se Putin vincerà, ma di prevedere quanto potrà durare e come vorrà usare questa sua terza presidenza.

Non è un mistero che, abituato a stravincere, egli guardi addirittura al traguardo del 2024. L’Economist, che gli dedica la copertina, lo mostra incappottato di spalle sotto il titolo «Il principio della fine». Sarà poi vero? La cosa più certa è che la Russia è profondamente cambiata dall’epoca di caos e di collasso di dodici anni fa. Putin, salito al potere, avviò allora nel bene e nel male la Federazione orfana dell’Urss a un periodo di stabilità autoritaria: democrazia censurata, potere cosiddetto «verticale», guerriglia permanente contro i rivali di «Russia Unita», liberalizzazioni confuse imperniate per due terzi attorno alla potenza non solo economica di gas e petrolio.

Seppe affrontare e risolvere cinicamente le guerre cecene, seppe stabilire un buon rapporto antiterroristico con l’America attaccata da Al Qaeda, seppe blandire e ricattare l’Europa con le forniture dei gasdotti siberiani. La popolarità del rude salvatore e garante della resurrezione della Santa Russia crebbe di anno in anno, anche con il sostegno dell’influente clero ortodosso, coronato dalla stima dimostratagli, poco prima di morire, dall’ultimo profeta della letteratura russa Solzenicyn. Ma nel frattempo, proprio in virtù delle prosperose operazioni di salvataggio messe in atto, operazioni spesso spregiudicate, al limite della legalità democratica, come l’incarcerazione inflitta all’oligarca Kodorkovskij, doveva farsi strada nella scia della stabilità una società che mutava pelle rivoltandosi contro colui che paradossalmente ne aveva favorito la nascita.

Quello che stava emergendo e protestando, soprattutto a Mosca, fulcro politico e mediatico dell’immenso Paese, era un nuovo ceto medio, abbiente, vociante, che ora vede la Russia ammorbata - dice con sarcasmo l’Economist - da una forma onnipervasiva di «cleptocrazia». Capofila di questa insolita classe urbana è una gioventù allegra, sfottente, ben vestita, armata dei più moderni strumenti tecnologici, la quale prende a contestare il putinismo dal settembre scorso, allorché Putin e Medvedev svelano come bari confessi il trucco delle due carte di scambio. Io (maiuscolo) di nuovo presidente, tu nuovamente (minuscolo) primo ministro.

Da quel momento le marce, le musiche, le tirate via Web, che Putin astutamente mostra di tollerare, diventano manifestazioni di giubilo critico pressoché quotidiano. Al coro si uniscono nei kalzò moscoviti anche ceti meno abbienti, pensionati, impiegati, vecchi comunisti e nazionalisti frustrati e impoveriti: tutti puntano il dito sulla corruzione, sulle riforme mancate, sui poteri ingiusti, sulle televisioni e i giornali intimoriti o asserviti. Che paesaggio stranito e rovesciato dal punto di vista storico e iconografico! Quelli che vediamo non sono rivoluzionari come lo erano i marinai di Kronstadt o i fucilieri lettoni di Pietrogrado 1917. Sono uno strano miscuglio riformista di giovani colti, sofisticati, educati all’occidentale, e di povera gente russa che non sa più perché e per chi votare.

È quasi sicuro che tale contestazione promiscua, concentrata soprattutto a Mosca, continuerà anche dopo la rielezione di Putin alla presidenza. Secondo i calcoli dei suoi analisti e consiglieri l’ondata di scontento, mirata a sostituire la «democratura» della stabilità con un’autentica democrazia di opinioni e partiti liberi, coinvolgerebbe dal 20 al 30 per cento dell’elettorato; il resto, maggioritario, esterno e refrattario agli umori della piazza moscovita, sarebbe tutto a favore del pugno solido dell’ex funzionario del Kgb. Finora Putin ha evitato il ricorso alla forza contro la piazza che lo insultava e derideva. Sottilmente ha adoperato il guanto di velluto. Ha promesso riforme; ha lasciato parlare in televisione pseudocandidati di secondo rango; ha assicurato di voler decentralizzare il potere restituendo ai governatori delle regioni la nomina per voto popolare.

Al tempo stesso, ha annunciato un fortissimo incremento delle spese militari prendendosela con l’America e, in particolare, con l’ambasciatore americano accusato di fomentare l’agitazione di contestatori e globber insolenti. Infine, pochi giorni or sono, ha radunato in un grande stadio più di centomila sostenitori evocando il Kutuzov delle guerre napoleoniche e gridando: «Noi siamo una nazione di vincitori. L’impulso a vincere è nel nostro codice genetico!». Evidentemente pensava a se stesso, senza svelare, ovviamente, che cosa farà dopo l’ennesima vittoria. Ignorare la risoluta richiesta di cambiamento che sale dagli avamposti della nuova borghesia russa, da lui medesimo creata, oppure dar manforte alla repressione e metterli a tacere? Sarà, qui, la scelta dirimente del terzo mandato di Putin. Non sarà facile imporre il silenzio alla Russia più evoluta e più esigente; ma lasciarla parlare, per lui che intanto invecchia, sarà ancora più temibile.

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« Risposta #71 inserito:: Marzo 18, 2012, 10:11:46 am »

18/3/2012

La rivolta siriana, Assad l'assassino tollerato

ENZO BETTIZA

Dopo un anno di sangue, orrori indicibili, scontri impari tra un esercito potente e una popolazione armata soltanto della propria vastità e disponibilità al sacrificio, assistiamo alla fine della disperata insurrezione siriana. Il carnefice Bashar al Assad, epigono minore del defunto presidente Hafiz, ma altrettanto determinato nell' uso della più ignobile spietatezza, sta infliggendo gli ultimi colpi agli oppositori ormai praticamente inermi e abbandonati a se stessi. Homs, centro della rivolta e postazione di punta dei giornalisti occidentali, è caduta sotto l'accanito bombardamento dell'artiglieria governativa che ne ha raso al suolo i due terzi. Più a Nord, Idlib, tenuta fino all'altroieri in vita da qualche magro rifornimento di viveri e munizioni dalla vicina Turchia, è stata costretta alla resa. I ribelli e i loro familiari braccati ovunque, massacrati, sottoposti a una delle feroci «trenta torture» minuziosamente classificate e descritte dai siriani in esilio.

E' il momento di tirare le somme di questa inaudita catena di violenze, prolungata nel tempo, definita col termine improprio di guerra civile che dovrebbe implicare qualcosa che in Siria non c'è stato: cioè uno scontro, più o meno paritario, anche su un piano organizzativo e militare. L'Armata libera siriana, di cui s'è scritto nei giornali, non ha mai assunto una fisionomia né una consistenza operativa sul terreno. I disertori dell' esercito, che avrebbero dovuto costituirne il nerbo, si sono dispersi tra fazioni opposte del movimento. Il governo dissidente in esilio, chiamato «Consiglio», lacerato tra sostenitori e negatori dell'utilità di un intervento internazionale, non è riuscito a esprimere un leader credibile né una politica di resistenza unitaria. L'Arabia Saudita e il Qatar strillano, minacciano, ma riluttano a dare alle parole il seguito dei fatti. La stessa esplosione delle due autobombe di ieri, che ha provocato circa trenta morti e un centinaio di feriti a Damasco, sembra testimoniare, più che un episodio da guerra civile, un atto di congedo vendicativo dopo il deperimento della rivolta popolare: il canto del cigno morente inviato, in pretto stile terroristico sunnita, al vittorioso regime minoritario alauita che le maggioranze veteroislamiche del Paese considerano «eretico» e «ateo». Esse certo non dimenticano, anzi, dopo l'attuale riduzione in macerie di Homs, ricordano con maggiore intensità il massacro già inflitto dal padre di Bashar nel 1982 ai fondamentalisti sunniti asserragliati nella roccaforte di Hama. Si parlò allora (anche se non si saprà mai il numero esatto) di quasi cinquantamila vittime sterminate a colpi di cannone e di baionetta in poco più di tre settimane. Una catastrofe, per i Fratelli Musulmani di Siria, che venne condannata come «l'atto singolo più letale perpetrato da un governo arabo contro il suo stesso popolo».

Altra considerazione, non meno impropria, è stata quella di voler mettere o, meglio, costringere pure i sanguinosi avvenimenti siriani nel novero delle cosiddette «primavere arabe». Il loro prototipo, rivelatosi poi deludente, si era manifestato con innegabile forza emblematica in una piazza del Cairo; l'insurrezione, in parte laica e giovanile, in parte integralista e antiquata, si svolse in un paradossale intreccio tra la massa degli insorti, i soldati ammutinati e gli uomini in divisa del Palazzo; questi ultimi profittarono dell'occasione per liberarsi anzitutto di un logoro Mubarak e, subito dopo, per sedare la massa protestataria e indisciplinata con ingannevoli promesse di democrazia e libertà. In Libia, sotto la pressione delle masse cirenaiche foraggiate dal Qatar e fornite di armi occidentali, ci fu un riciclo o travaso di dirigenti «pentiti» dal governo in ginocchio di Tripoli al Consiglio di liberazione di Bengasi; l'intervento europeo, privato dell'appoggio americano, si riduceva infine alla caccia all'uomo scatenata all'impazzata dai soli bombardieri francesi e britannici.

Nulla di consimile in Siria. Qui la cricca familistica dei governanti alauiti, stretta attorno al presidente Bashar, profondamente radicata nelle gerarchie militari, non ha patito defezioni degne di nota. Il collante mafioso del potere non s'è mai incrinato. Le brigate d'élite, specializzate in operazioni antisommossa, sostenute da forze di polizia e dal più implacabile dei servizi segreti arabi, hanno risposto alla ribellione nelle principali città con una escalation sempre più crudele e di mese in mese sempre più indiscriminata. Le piazze insorgenti, prive di speranza, soprattutto prive di leader e di un comando politico unitario, hanno continuato nonostante tutto a resistere e ad immolarsi disperatamente per dodici mesi.

Le ragioni che hanno condannato alla solitudine la rivolta delle folle siriane, tiranneggiate fin dal 1970 da una piccola setta che incide, sì e no, con un dieci per cento sull'intera popolazione, si possono spiegare con motivi diversi quanto complessi. Da un lato la Siria, Paese senza petrolio, non suscita nelle potenze occidentali, già rivali per la spartizione del sottosuolo libico, appetiti tali da spingerle al rischio di un secondo intervento «umanitario» dall'esito più che mai incerto.

Da un altro lato si profila il rischio strategico. Era molto più facile, per americani ed europei, prestare negli Anni 90 un soccorso armato alle popolazioni balcaniche minacciate dall' espansionismo serbo in Bosnia e nel Kosovo. Ma il Medio Oriente, in particolare oggi, è un allarmante bacino esplosivo e Damasco, nel Medio Oriente, occupa una posizione geopolitica assai delicata. La Siria è nel mezzo di un crocevia colmo di tensioni, di contrasti e interessi d'ogni genere. E' coinvolta da sempre nei torbidi intrighi libanesi, è nemica storica di Israele, è protettrice degli sciiti di Hezbollah ma diffidente dei palestinesi, è ostile alla Turchia e incerta sulle relazioni con il nuovo Iraq dopo la scomparsa dell'odiato Saddam Hussein. Inoltre è legata alla Russia e alla Cina, che seguitano a proteggerla, e resta al tempo stesso attentissima ai consigli politici e all'influsso religioso dell'Iran, laboratorio nucleare in chiave di monopolio sciita. Il codice, che le grandi potenze rispettano e praticano in politica estera, s'ispira in genere al realismo e al calcolo dei possibili passi falsi: interferire nel caos siriano sarebbe stato, per i più, come infilare la mano fra gli esplosivi di una santabarbara mediorientale.

Ecco perché gli americani, e i loro più stretti alleati, hanno deciso che la cosa migliore era non fare nulla sul piano militare affidando alle sanzioni economiche e al gelo diplomatico il ruolo punitivo, ma non distruttivo, nei confronti di Bashar al Assad. Nemmeno è da escludere che, non sapendo come e con chi sostituirlo, abbiano pensato che nell'interesse della stabilità regionale fosse meglio lasciarlo per ora al suo posto. Del resto, anche le minoranze religiose ed etniche della Siria, i cristiani, i drusi, i curdi, si sono mantenuti neutrali nei confronti di Bashar e del partito di governo Baath dominato dagli alauiti. Non hanno dato mano agli insorti, ritenendo che, se avessero vinto, avrebbero instaurato una sorta di teocrazia sunnita.

L'ultimo degli Assad, che con il collo lungo da rettile raggiunge l'altezza di un metro e novanta, ricordando la figura del padre riflessa da uno specchio deformante, è diventato così un assassino tollerato e quasi intoccabile. Può darsi che il disastro economico, inflitto dalle sanzioni, imponga di per sé un mutamento a medio termine di rotta e di persone al vertice del potere. Può darsi. Intanto non si conosce neppure il numero approssimativo delle vittime della repressione. Si dice diecimila; ma, se il massacro di Hama ne produsse assai di più in tre settimane, quale potrà essere mai la cifra, probabilmente altissima, dei lutti provocati dai massacri di un anno intero?

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« Risposta #72 inserito:: Marzo 29, 2012, 05:14:34 pm »

29/3/2012

La missione cruciale del Pontefice

ENZO BETTIZA

Ciò che, dopo tre lustri, colpisce è il contrasto più che la similitudine nel paragone tra i due incontri papali di Fidel Castro. Nel 1998 il pontefice polacco, promotore della caduta del comunismo, vide un Fidel ancora in piena forma, cordiale, aitante, sicuro di sé e miracolosamente invulnerato dal collasso dei regimi di cui egli e la sua isola apparivano gli estremi caposaldi sopravvissuti nel mare dei Caraibi.

Fu un evento di portentosa solennità mediatica, con al centro due robusti protagonisti del secolo scorso, due insuperabili artisti della comunicazione di massa; il loro abbraccio da sponde opposte, davanti gli occhi del mondo intero, sembrò segnare la fase conclusiva di un’epoca che nella caduta del muro di Berlino aveva avuto la spinta iniziale favorita da Wojtyla.

Ma, per quanto riguarda Cuba in sé, l’evento non andò al di là del grande impatto mediatico. Nulla di significativo accadde all’Avana, non vi si produsse alcun cambiamento degno di nota sul piano politico; anzi, quattro anni dopo, nel 2003, si abbattè sui cubani una sorta d’infausta «primavera nera». Retate di dissidenti, purghe crudeli come ai tempi di Che Guevara, fughe a catena verso la vicina Florida. La salute di ferro del Comandante era sembrata trasmettersi al pugno duro del regime contro coloro che osavano alzare la testa e opporsi.

Ben diverso è invece il clima che ha circondato ieri l’incontro alla Nunziatura apostolica tra un Fidel Castro ottantacinquenne, malato, sostenuto da guardie del corpo, e il papa tedesco della stessa età. Un papa cauto quanto allusivo nella parola, lento e come frenato nel gesto, quasi preoccupato delle conseguenze che ogni suo passo può produrre sul futuro ruolo della Chiesa a Cuba, sul destino dei cubani dentro e fuori dell’isola, sulle scelte politiche di un’America Latina e cattolica dove spesso il cattolicesimo si è venato, per opera degli stessi prelati, di tinte estremiste. Se per l’estroverso Giovanni Paolo II il soggiorno all’Avana fu una specie di sfida allegra, giocata sul richiamo televisivo, ritenuta da lui medesimo di limitato effetto politico, per l’introverso Benedetto XVI il viaggio cubano è stata forse la missione più delicata e difficile che abbia compiuto negli anni del suo papato. Lo si è capito benissimo dalla densa e ponderata omelia, inviata al presidente Raul Castro e ai cubani dall’altare in Piazza della Rivoluzione, prima del brevissimo faccia a faccia con il massimo e ormai crepuscolare leader e suggeritore Fidel. L’uomo di religione e di cultura Ratzinger si è rivolto alla folla dei fedeli in raccoglimento, chiamandoli non a caso «credenti e cittadini», ed esortando le autorità a vedere nella Chiesa indigena una forza non di contrasto, ma uno strumento di mediazione nella fase di apertura che l’isola caraibica sta cominciando ad attraversare.

A dire il vero, aperture e novità vanno molto a rilento. Gli arresti eseguiti dalla polizia durante la visita apostolica, aggravati dalla riluttanza del pontefice all’incontro con le Damas de Blanco che da sette anni manifestano per il rilascio dei mariti dal carcere, non ha giovato all’immagine né del pontefice né del suo ospite Raul Castro: per il quale il governo «farà riforme ma non politiche». C’è il rischio che i dissidenti, come l’audace Yoani Sanchez, finiscano per assumere un atteggiamento sempre più critico nei confronti di una Chiesa troppo prudente, troppo paga del patto di non aggressione con il regime, dimentica delle speranze suscitate a suo tempo da Giovanni Paolo II. Al tempo stesso la Sanchez riconosce che la venuta dell’attuale pontefice coincide con il decollo di «un’economia più flessibile» e con l’aspettativa popolare di concessioni democratiche e più rispetto per i diritti umani.

Secondo l’ Economist , Cuba, una volta all’avanguardia dei fermenti rivoluzionari dell’America Latina, oggi è messa nell’angolo e sopravvive soprattutto grazie al precario sussidio petrolifero assicuratole dal Venezuela di Chavez afflitto da un morbo grave. Dati i fallimenti dell’utopia rivoluzionaria in ritirata, al presidente Raul Castro, più pragmatico del fratello visionario, non resterebbe che imboccare la via cinese del «socialismo di mercato», metafora con cui le nomenclature comuniste intendono aprirsi al capitalismo conservando però la dittatura del partito unico. Le privatizzazioni già introdotte nel settore agricolo, le libertà di traffico già concesse a piccoli e medi commercianti, sarebbero ormai irreversibili. Ma il grande sblocco, la vera apertura alle dinamiche capitaliste e a quelle liberali della democrazia, potrà compiersi solo con la fine di due freni storici che, nel contrasto, si sostengono a vicenda da mezzo secolo: l’estinzione politica della famiglia Castro e il ritiro, magari graduale, dell’ormai insensato embargo, politico più che economico, mantenuto tuttora dagli Stati Uniti nei confronti di Cuba.

Non si sa quanto potrà durare il presidente Raul che nonostante gli anni, molti anche per lui, sembra comunque reggere con pacata energia all’erosione del tempo che ha reso invece spettrale e pressoché infermo Fidel. (Più che interrogare il papa su cose spirituali, come diversi osservatori s’aspettavano, l’ex leader gli ha posto una domanda fisica: «Ma lei, santità, come fa a mantenersi così bene?») Non si sa nemmeno cosa sarà in grado di fare il presidente americano, o il suo eventuale successore dopo le elezioni, poiché l’uno o l’altro non potranno ignorare le reazioni alla levata dell’embargo delle potenti lobby cubane in Florida e a Washington. La sola certezza che abbiamo è che il pontefice, ragionando per secoli lunghi come la Chiesa, ha potuto constatare in presa diretta che il comunismo a Cuba si è consumato nella stessa persona di Fidel in mezzo secolo: tutto ciò che avverrà da ora in poi sarà diverso e forse imprevedibile.

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« Risposta #73 inserito:: Aprile 29, 2012, 11:30:50 am »

29/4/2012

Un tifone elettorale sull'Europa

ENZO BETTIZA

Ci sarà poco da scherzare il 6 maggio. La data batte ormai alle porte della travagliata Unione Europea, non più con i toni trionfali della Nona di Beethoven, ma con quelli fatidici e minacciosamente interrogativi della Quinta. Dopo l’inno alla Gioia, che risuonava nel 1979 all’inaugurazione a Strasburgo della prima assemblea europea eletta a suffragio universale, ci verranno piuttosto in mente, domenica prossima, le note incalzanti di una Quinta molto severa e ostinata, molto germanica, dalla quale sembrano erompere e crescere senza posa l’austerità e l’enigma di un destino sempre più oscuro.

Domenica si abbatterà da ogni parte d’Europa, anche non comunitaria, un vero e proprio tornado elettorale. In un’atmosfera di crisi rivelata e di irritazione quasi psicotica i francesi torneranno alle urne per il secondo turno. I greci vi andranno sfiduciati e stizzosi per eleggere un nuovo Parlamento. I serbi, che aspiravano all’Europa e oggi ne osservano con perplessità i guasti, dovranno in una sola volta nominare un presidente, scegliere un nuovo Parlamento e nuove assemblee provinciali e regionali. I tedeschi affronteranno le regionali nello Schleswig-Holstein e più in là quelle nel Nord-Reno-Vestfalia. Perfino i votanti italiani andranno a tastarsi il polso con provinciali a scartamento ridotto. Seguiranno a settembre le inattese quanto difficili votazioni in un’Olanda denudata, di sorpresa, sotto l’apparente virtuosità calvinista, nelle sue tre vulnerabilità. La falsità economica, l’instabilità politica, l’ambiguità ideologica.

Non è possibile sottrarsi alle ombre di una situazione eccezionale e piena, per tanti aspetti, di insidie rischiose. Il clima, le emozioni, i risentimenti, le delusioni, i calcoli, dopo la giornata di un voto così diffuso, saranno destinati a marcare in profondità la sorte di un continente che, unito a parole, non è poi riuscito ad unirsi per affrontare nella realtà la globalizzazione e i baratri della recessione occidentale. In quale specie di «casa comune» ci ritroviamo ad abitare oggi? Anche se costa una certa fatica ammetterlo, ci ritroviamo ammucchiati o stretti in una sorta di conglomerato di 27 Stati (talora 26, o 25, se consideriamo l’assenza valutaria e spesso politica dell’Inghilterra con qualche corifeo).

Fino all’altroieri i 25 avevano almeno una bussola puntata ad un approdo ormai divenuto miraggio lontano e forse evanescente: dalla moneta unica europea ad una politica di unità europea, competitiva all’Ovest con l’America e all’Est con giganti consolidati come il Giappone o emergenti come la Cina e l’India. Quel che vediamo invece è un insieme di Stati in procinto di slegarsi dalla matrice europea degli Anni 50, Ceca, Euratom, Mec, Cee, trattato di Roma eccetera. La cupola di questo paziente work in progress federatore, non privo di prestigio internazionale e di successi straordinari (basti pensare agli anni d’oro dell’Irlanda), doveva diventare infine un’eurozona inserita al centro della Comunità trasformata e proclamata Unione Europea nel 1993.

Certo, gli Stati che compongono l’entità sovranazionale si dichiarano ancora sempre, con buone ragioni storiche, membri di un’Unione che però, alla vigilia del tifone elettorale in arrivo, vediamo uscire sfinita, divisa e delusa dalla belle époque semifederalista svoltasi all’egida del suffragio diretto, dei trattati di Maastricht e dell’allargamento ai Paesi ex comunisti. L’impressione odierna è che grandi Stati come la Francia, o minori come la Grecia, continuino per materiali necessità di sostegno o di sussidio a definirsi membri dell’Unione, mentre le opposizioni estremiste di destra e di sinistra, in continuo vantaggio, rifiutano tutto ciò che odora di sovranazionalità: l’euro considerato contagioso untore pestifero, la Commissione di Bruxelles rinnegata come usurpatrice, le frontiere aperte criticate come inviti all’immigrazione selvaggia.

Un nascente neonazionalismo posteuropeista, che ha già inquinato le urne francesi del primo turno con l’abnorme riconferma del voto lepenista, si sta diffondendo e rafforzando ben al di là della Senna. Gli euronegazionisti non francesi, anarchici, fascistoidi, postcomunisti, danno quasi tutti l’impressione di volersi lasciare influenzare dalla deriva dell’imminente ballottaggio francese, tra un Sarkozy che rincorre ansimante i cani sciolti dell’ultradestra nazionalista e un Hollande sicuro di recuperare per intero il 10 per cento della gauche di Mélenchon e una buona fetta del voto di protesta operaio confluito sul Front National.

L’antieuropeismo, che per ragioni di cassetta ormai accomuna negli ultimi discorsi Sarkozy e Hollande, ha già provocato la caduta della coalizione governativa di centrodestra in Olanda; già mette in pericolo la rielezione del presidente serbo Tadic, che ha esaltato nel suo programma l’ingresso in Europa; si fa sentire con forza crescente in Belgio e in Danimarca e non risparmia neppure il nordismo leghista in Italia. Il grande rischio, incrementato dalle sferzate d’austerità del cancelliere Merkel perfino nell’Olanda filotedesca, umiliata da un deficit pubblico pari al 4,7 del prodotto interno (più alto di quello italiano del 3,9), è che il voto di maggio sfoci in una sorta di referendum più o meno velato sul rimanere o non rimanere nella zona euro o, in senso più lato, nell’Unione europea in quanto tale.

Non piace più a nessuno, neanche ai governanti francesi in carica che l’avevano approvato, il temibile «Compact» fiscale che la Germania, la sola ricca fra troppi poveri, ha imposto un po’ a tutti: dalla Spagna in bolletta, con un esercito esplosivo di disoccupati, alla Grecia in rovina dove la maggioranza degli elettori potrebbe decidere di uscire dall’euro e tornare alla dracma. Anche un’altra sorpresa potrebbe verificarsi ad Atene. All’interno dei due partiti maggiori - la conservatrice Nuova democrazia e il Pasok socialista, destinati a rimettersi insieme al governo - potrebbero rafforzarsi con l’aiuto di formazioni estremiste le correnti antieuropee che vedono il salvatore in Vladimir Putin: il Gazprom al posto dell’ente petrolifero nazionale, un terzo e più del debito sovrano coperto dall’oro di Mosca, il tutto provvidenzialmente benedetto dall’antico abbraccio ortodosso fra prelati greci e russi.

Intanto, se Atene piange, Sparta non ride. Per la prussiana Merkel il 6 maggio sarà l’inizio di una settimana di fuoco che si concluderà il 13 con il voto nel Nord-Reno-Vestfalia: un Land da 18 milioni di abitanti, determinante sul piano elettorale, dove il possibile crollo degli alleati liberali della cancelliera cristianodemocratica potrebbe mandare all’aria il governo di coalizione a Berlino. Una deviazione di rotta non da poco, per la punitiva politica di rigore inflitta dalla Germania merkeliana soprattutto agli europei del Sud: per i quali la solidarietà dovrebbe contare più dell’austerità da Kriegswirtschaft, o economia di guerra, che da tempo sembra prevalere per volontà tedesca fra i banchieri di Francoforte e gli eurocrati di Bruxelles.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10043
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« Risposta #74 inserito:: Maggio 10, 2012, 11:46:37 pm »

10/5/2012 - COME SALVARE L'UE

Un'uscita di sicurezza per l'Europa

ENZO BETTIZA

Non saprei cosa potrebbe scrivere oggi dell’Europa, se fosse ancora vivo, Oswald Spengler, il discusso filosofo tedesco della storia che fin dal 1917 prevedeva come inevitabile «il tramonto dell’Occidente».

Nella sua visione biologica e quasi zoologica delle grandi civiltà, vedeva già allora l’Europa, matrice nativa dell’Occidente, dilaniata dalla prima guerra, avviarsi fatalmente all’ultimo tratto della sua discesa crepuscolare verso la fine.

In quest’ultimo tratto, durato fra altre guerre e rivoluzioni circa un secolo, Spengler, col suo sguardo impietoso, avrebbe forse intravisto la sagoma di un pachiderma che caracolla solo e vetusto verso un cimitero ignoto.

Il futuro dopo la superdomenica elettorale del 6 maggio ci appare, in effetti, allarmante o fosco persino nel liturgico «embrassons-nous» messo in scena dai contendenti sulla ribalta parigina. Le ipocrisie trionfalistiche celebrate dopo il duello sotto l’Arco di Trionfo dal modesto Hollande e dallo smarrito Sarkozy, epigoni di un passato segnato dalla cerea maschera di Mitterrand e dal gesto di De Gaulle, non possono ingannare nessuno. Non è stato un confronto all’altezza della grandeur francese, grandeur che né l’uno né l’altro ha saputo reinterpretare al secondo turno; non c’è stato né un candidato davvero vittorioso, né uno davvero sconfitto; c’è stato soltanto un timido socialista vincente affiancato a uno pseudoconservatore perdente. Pirro ha dato l’impressione di attraversare con la sua ombra in lungo e in largo, da sinistra a destra, i gloriosi Campi Elisi.

Nella Francia metà divisa e metà riunita dal confronto tra due candidati indulgenti, che hanno rincorso l’ultimo voto quasi con le stesse parole, non abbiamo più ritrovato la Francia europea di Schuman ed europeista di Delors. Sull’antieuropeismo finale, sia di Sarkozy sia di Hollande, hanno pesato allo scocco del ballottaggio i voti in libera uscita dei nazionalisti di destra e degli estremisti di sinistra: lepenisti o trockisti, fervidamente congiunti in un comune risentimento contro le regole di Bruxelles e la frusta di Berlino. Il candidato conservatore ha caricato a fondo contro gli immigrati, quello socialista ha attaccato con più tatto, di lato, l’euro punitivo e i ricatti di bilancio sostenuti dalla cancelliera Merkel. Meno Francia carolingia da una parte, più Francia giacobina dall’altra. In altre parole: poca o scarsa Europa da ambedue.

Ma è nel sempre più grave dissesto greco che la maggioranza degli europei, tranne la ricca e severa Germania merkeliana, sembra vedere prefigurarsi la triste fine che potrebbe abbattersi poco a poco, o da un giorno all’altro, sull’insieme dell’Unione. Ad Atene sembra infatti riflettersi, come in un microcosmo a specchi deformanti, una specie di violenta svolta antieuropea che lì, fra i greci impoveriti e infuriati, si manifesta en plein air , mentre in Italia, in Spagna, in Portogallo il disagio per ora striscia e serpeggia in mezzo a tracolli periferici e vuoti dibattiti televisivi. I governi corrono ai ripari, puntano il dito sulla democrazia invalida e lo scandaloso deficit di Atene, annunciando una sequela di vertici «sanitari» a Bruxelles; ma in Grecia è già crepuscolo e metastasi avanzata. Cinque anni di recessione, disoccupazione alle stelle, code di risparmiatori disperati davanti alle banche, con il defenestrato socialista Papandreou che accusa: «L’Europa ci ha usato come cavia da laboratorio». I due partiti tradizionali, Nuova Democrazia e Pasók, che da quarant’anni condividevano il potere, sono di fatto crollati il 6 maggio. I loro due ultimi esponenti, il conservatore Samaras e il socialista Venizelos, non contano più nulla e non riescono a rimettere in piedi né un esecutivo di coalizione né un blocco d’emergenza anticrisi, di unità nazionale, capaci di salvare dalla bancarotta il Paese indebitato. Arranca sulla scena delle consultazioni il giovane Alexis Tsipras, scaltro, ambizioso, neppure quarantenne, che ha piazzato la coalizione di sinistra, Syriza, al secondo posto dell’arco un tempo occupato dai navigati socialisti del Pasók. Tsipras ha ancora 24 ore da consumare, credo vanamente, per indurre altri partiti antieuropei a seguirlo in un gabinetto che non ci sarà. Con ogni probabilità i greci, che a Salonicco già usano monete alternative al posto dell’euro, dovranno tornare a nuove elezioni nel mese di giugno. Intanto, il leader di Syriza ha già fatto sapere che un suo governo cancellerà i memorandum firmati, per risanare il bilancio, dai governi precedenti con la troika Ue, Bce, Fondo monetario, da lui definita «usuraia e famigerata».

Non oso addentrarmi nelle lunghe, reiterate, spesso incomprensibili locuzioni algebriche e speranze utopiche attribuite al rigore contro la crescita, alla disciplina di bilancio contro lo sviluppo degli investimenti, all’oscillazione degli spread e al continuo rilancio dei vari bond, che quasi nessuno sa spiegare con adamantina chiarezza al pubblico. Ma una cosa andrebbe sottolineata. E cioè che i conti, i libri mastri di Bruxelles, il dare e l’avere fra i membri della Comunità, non sono riusciti a impedire che l’euro, dopo dieci anni di vita, degenerasse in una moneta d’impaccio e d’immiserimento per tanti europei: solo per i tedeschi, che duramente lo gestiscono a detrimento degli altri soci, la moneta unica è diventata una specie di supplente intoccabile del marco d’una volta.

Se vogliamo che il 6 maggio non venga ricordato, dalla Francia alla Grecia, come la data di un rovinoso plebiscito contro le istituzioni europee, dobbiamo o dovremmo fare in modo che l’Ue si trasformi alfine in un’autentica Unione sovrannazionale. L’economia da sola, mitizzata nel bene e nel male, senza un’uscita di sicurezza politica, ovvero federalistica, non può portarci che ad una speciale forma di eutanasia: l’eutanasia passiva e oscura degli elefanti spengleriani, avviati, con tutta la loro mole ormai cadente, ad una morte solitaria e quasi vergognosa.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10084
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