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Autore Discussione: ENZO BETTIZA  (Letto 56777 volte)
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« Risposta #45 inserito:: Luglio 15, 2010, 10:36:21 pm »

15/7/2010

L'atto finale della questione adriatica
   
ENZO BETTIZA

Non è stato semplice mettere insieme, attorno al podio dell’orchestra multietnica diretta dal maestro Muti nella più famosa piazza di Trieste, i tre Capi di Stato dell’Italia, della Slovenia e della Croazia. Si è detto che ci sono voluti più di nove anni di trattative e tensioni diplomatiche per giungere finalmente, sulle note arcane di Cherubini, al vertice della riconciliazione fra l’italiano Giorgio Napolitano, lo sloveno Danilo Turk e il croato Ivo Josipovic. Il rito dell’amicizia è poi culminato nella visita con deposizione di corone, da parte dei tre presidenti, a due luoghi simbolo delle reciproche ferite: il palazzo dell’ex Hotel Balkan, centro culturale sloveno dato alle fiamme nel 1920 dai nazionalisti italiani, e il monumento in ricordo dei 350 mila esuli istriani, quarnerini e dalmati costretti all’esodo dopo la fine, per loro drammatica, della seconda guerra civile europea. L’evento, indubbiamente di grande significato emblematico, nonostante qualche dimenticanza politica di cui dirò più avanti, è stato accolto e seguito con favore da gran parte della popolazione triestina che, come sappiamo, non è di sentimenti e di gusti facili.

La data citata (l’incendio del 1920) e l’altra allusa (l’esodo dal 1945 in poi) dicono comunque, di per sé, che alle spalle del celebrativo evento di Trieste, al di là dei nove anni spesi per promuoverlo, si apre in realtà lo spessore di un dossier storico fra i più tormentati e complessi del Novecento europeo. Si apre l’abisso della «questione adriatica».

Questione che, al suo inizio, vide una nazione giovane e caotica, l’Italia esasperata dalla «vittoria mutilata», l’Italia di D’Annunzio, dell’impresa di Fiume, degli interventisti delusi già inclini al fascismo, contrapporsi a una nuova entità multinazionale mai esistita prima del 1919: la Jugoslavia dei serbi, dei croati e degli sloveni, composta in parte a sforbiciate con scampoli cospicui del dissolto impero austroungarico.

Le radici dell’incendio triestino dell’Hotel Balkan, per esempio, affondano nel marasma esponenziale delle «questioni» nazionali scatenate come un verminaio dalla decomposizione del cadavere absburgico. La «questione adriatica», prima di esplodere vistosamente tra italiani e sloveni a Trieste, era cominciata a fucilate tra italiani e croati o neojugoslavi nella città di Spalato. Il clima politico vi era da tempo incandescente. Traumatizzava già il capoluogo della Dalmazia, a maggioranza slava, l’opportunità concessa da Versailles ai dalmati di lingua italiana di poter optare, se lo desideravano, per la cittadinanza italiana. L’11 luglio 1920 Tommaso Gulli, comandante della nave Puglia, ancorata nel porto a monitorare le clausole armistiziali, venne ferito a morte dai gendarmi jugoslavi in uno scontro in cui perì anche il motorista Aldo Rossi. Due giorni dopo, il 13 luglio, esattamente novant’anni orsono, i nazionalisti italiani per ritorsione assaltavano il «covo sloveno» dell’Hotel Balkan. Il tragico episodio, che provocò morti e feriti, doveva passare poi alla storia come una sorta di prova generale dello squadrismo fascista.

La «questione adriatica», inasprendosi politicamente e razzisticamente con Mussolini, degenerò in seguito, con l’aggressivo fascismo di frontiera, nella guerriglia civile contro sloveni e croati dell’Istria e sfociò infine nella guerra vera contro la Jugoslavia monarchica. Il resto ci è più noto perché più vicino nel calendario storico. All’occupazione italiana della Slovenia, della Dalmazia e parte del Montenegro, che non fu priva di misfatti sanguinosi, seguirono a catena le vendette dei partigiani di Tito con i 40 giorni infernali di Trieste e di Gorizia, le foibe in Istria, l’esodo di massa delle popolazioni istriane e dalmate di lingua italiana. Zara, per una ventina d’anni porto franco italiano sulla costa jugoslava, venne rasa al suolo da oltre cinquanta bombardamenti alleati come nessun’altra città della penisola: il cumulo di macerie suggeriva la visione spettrale di una Dresda sull’Adriatico. Zara ancora aspetta un riconoscimento ufficiale italiano, e un giorno speriamo anche croato ed europeo, di quel terrificante quanto inutile e ingiustificato massacro aereo.

Ed eccoci al punto. L’incontro fra i capi dei tre limitrofi Stati adriatici acquista, in definitiva, un senso pieno soprattutto se lo percepiamo come un decisivo atto terminale della «questione adriatica». Gli antagonisti dell’annosa «questione» furono due Stati, di cui uno, la Jugoslavia, non c’è più. Ci sono oggi al suo posto due Stati europei, la Slovenia in ottimo decollo e la Croazia in positiva attesa, con l’Italia che può costituire per l’una e per l’altra una sponda intima, direi più che amica, nell’arena di Bruxelles. Speriamo sia giunto davvero, come hanno detto i tre presidenti, il momento di dimenticare un passato fra i più pesanti e spietati lungo le frastagliate frontiere europee.

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7598&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #46 inserito:: Agosto 11, 2010, 10:40:35 am »

8/8/2010 (7:48)  - RITORNO NEGLI STATES/1

L'America disamorata ha sorpassato Obama


Si era affidata al Presidente nero per sconfiggere le paure e la crisi.

Ma il Paese reale corre troppo rapido per fermarsi ai suoi sogni da outsider

ENZO BETTIZA

Di Americhe ne ho viste tante, a cominciare da quella remota di Eisenhower, ma l’impatto con questa America di Obama, che corre velocissima scavalcando crisi e ostacoli d’ogni genere verso le elezioni di medio termine di novembre, è per me davvero sorprendente e anche sconcertante. Ho la strana impressione di aver sbagliato volo.

Di essere atterrato su un continente che non è l’America che conoscevo e immaginavo di ritrovare modificata, sì, ma non cancellata e rigenerata al punto di presentarmi il volto d’un Paese pressoché sconosciuto: una popolazione spesso bilingue, intensamente amalgamata nella diversità, con infiniti travasi di tinte epidermiche in un vivace tripudio del non apartheid. In sostanza, uno sfondo antropologico in tattile sintonia con la pelle, le idee, il sorriso, gli scatti elastici del primo presidente nero degli Stati Uniti.

A prima vista si direbbe che il tradizionale melting pot, il crogiuolo che una volta rimescolava a fuoco lento le diverse etnie e religioni, sia esploso e tracimato con forza inaudita dal Ground Zero, dopo la tragedia dell’11 settembre. Come se l’oltraggio subìto da tutti, neri e bianchi, avesse abbattuto o quantomeno spostato vecchi pregiudizi razziali, parametri psicosomatici, steccati culturali e linguistici dell’America anglosassone. Non a caso il primo gesto simbolico di Obama presidente è stato di togliere dalla Casa Bianca un troneggiante busto di Winston Churchill e di rispedirlo con i complimenti d’obbligo a Londra.

l resto l’hanno fatto i dieci anni d’inarrestabile ondata migratoria dall’America latina, in particolare dal Messico, ancorché duramente contrastata da diversi Stati del Sud capeggiati dall’Arizona.

L’evoluzione esplosiva del classico melting pot, trasmutato, grazie ad elettori non solo neri e ispanici, in un grado superiore di compagine nazionale multietnica, aveva trovato il suo momento sublimante nella conquista della Casa Bianca da parte di Barack Obama. L’America dei grandi traumi - i flagelli terroristici, i venerdì neri, gli tsunami pertoliferi, la guerra irrisolta in Iraq e impotente in Afghanistan - si era affidata con ottimismo insieme entusiastico e disperato al giovane outsider vedendo in lui l’uomo della provvidenza, il salvatore, il taumaturgo, quasi un mago benefico.

Per molti americani Obama è stato un sogno di speranza e di redenzione. Lo avevano votato per la sua visione del mondo, le sue parole suadenti, le sue promesse utopiche, non ancora messe alla prova dalla dura replica dei fatti. Poi, quando lo scontro coi fatti è cominciato ad arrivare a valanga da Wall Street e Detroit, da Guantanamo e dal Golfo del Messico, da Kabul e da Teheran, da Gaza e dal Libano, il presidente ha dato l’impressione di non riuscire a mantenere tutto ciò che aveva promesso in campagna elettorale.

Allora il «sogno Obama» ha preso ad attenuarsi. E’ iniziata la seconda fase, quella del disamoramento, che in genere ogni nuova presidenza americana registra a metà mandato, ma che nel caso eccezionale e mitizzato di Obama tende ora a palesarsi esponenzialmente come un calo fisiologico e ideologico insieme. Oggi i sondaggi sulla sua popolarità appaiono sostenuti intorno al 75 percento presso l’elettorato nero, mentre scendono al 50 nel bacino ispanico e al 25 in quello bianco. Le prossime elezioni di medio termine, che prevedono una forte rimonta dei repubblicani nelle due camere del Congresso, si profilano già come un referendum sull’operato personale del presidente dal gennaio 2009 in poi.

Avrò modo di tornare in seguito, con più particolari, sulle ombre e le luci che ne circondano l’amministrazione. Vorrei però sottolineare, fin da ora, che le pulsioni di velocità con cui gli europei giudicano il fenomeno Obama sono in notevole ritardo rispetto a quelle degli americani. Noi stiamo ancora digerendo ammaliati il fenomeno. Invece tanti americani d’ogni ceto con cui ho parlato, imprenditori, intellettuali, militari, barbieri, impiegati, pur giustificando e non spregiando il sogno, pur criticando l’eredità e gli errori interventisti di Bush, mi hanno dato la sensazione di aver già digerito la novità del fenomeno.

Non tutti si dichiararono delusi o disillusi; non censurano malevolmente le frenate realistiche dell’uomo di governo, spesso contrastanti con le promesse del tribuno elettorale; riconoscono il fascino e la bravura oratoria del personaggio che dà il meglio di sé quando parla a un pubblico di giovani. Ma quasi tutti fanno capire che l’America ha già superato la bella fase onirica, che il peso della realtà, aggirando l’idillio, già la costringe a prescindere da Obama, a pensare e proiettarsi oltre Obama. Parlano dell’America come di un «laboratorio in profonda trasformazione», dove la velocità frantuma il tempo, travolge miti e sogni, non consentendo più a nessuno di correre fra le nuvole con la testa voltata all’indietro.

Non si vede comunque, per adesso, tra le file repubblicane, il profilo di un leader e successore latente di Obama degno di nota. Si vedono invece ingrossare e ufficializzarsi le schiere infervorate del movimento conservatore dei «tea party», animato da una sorta di qualunquismo costruttivo, che si richiama alla leggendaria rivolta del 1773 dei coloni americani contro le imposte britanniche sul tè; sotto la guida di una luterana di origini democratiche, Michele Bachmann, considerata più colta e più agguerrita dell’impresentabile Sarah Palin, il movimento anti-tasse è riuscito a formare addirittura un gruppo parlamentare separato al Congresso. Ma è sulla donna politica più in vista del momento, l’attuale segretario di Stato Hillary Clinton, ex rivale sconfitta alle primarie da Obama, che diversi analisti tornano a intravedere un possibile aspirante futuro alla massima carica. In altre parole, una possibile riscossa vendicativa dall’interno dello stesso partito dei liberal.

Alle informazioni politiche apprensive, allusive, quasi divinatorie, che raccolgo in ambienti chiusi, fa da riscontro quello che osservo per le strade di New York. Già all’aeroporto di Newark, al primo contatto con questa America nuovissima, severa, piena di regole occhiute e di leggi complicate, mi aveva colpito il misto di multietnicità e di rigore nel comportamento dei molti uomini e donne di colore, neri, mulatti, ispanici, perfettamente addestrati ai servizi di polizia e di filtro dei passeggeri in arrivo. Gesti muti e precisi, padronanza istantanea e assoluta dei dispositivi tecnologici, cortesia e freddezza nell’ispezione dei documenti e delle facce soprattutto straniere. Nel timido brusìo bisbigliato dai passeggeri avviati ai banchi di controllo, interrotto dal rumore delle televisioni e dalle voci dei megafoni, sentivo che ogni minima deviazione dal rettilineo in fila indiana sarebbe stata immediatamente percepita e repressa dagli agenti che ci scrutavano uno per uno con calma attenzione.

Il clima generale, se posso esprimermi così, era quello di una scenografia orwelliana placida e difensiva. Avvertivo una singolare sovrapposizione, o combinazione, nello sguardo dei poliziotti che era scuro nella tinta e nordico nella fermezza. Tornavano alla mente le parole che mi diceva Guido Piovene all’epoca in cui scriveva il suo superbo «De America»: «Non si capisce nulla di questo continente se non si coglie il sottofondo tedesco della sua macchina organizzativa». Mi stupisce la sicura fretta burocratica con cui al banco di controllo una poliziotta nera, grassa, dall’aria materna, liquida il mio passaggio senza obbligarmi a schiacciare i polpastrelli sul piccolo schermo, illuminato da un bagliore fosforescente verdognolo e adibito alle impronte digitali. Prima di lasciarmi passare aveva messo a confronto i dati anagrafici del mio passaporto con quelli riportati in un suo computer: evidentemente vi ero registrato come persona grata e immune da ogni sospetto.

Questo elemento d’ordine tedesco, se vogliamo prussiano, che già Piovene negli anni Cinquanta fiutava nella società americana, è emerso con più forza dal «sottofondo» in superficie dopo l’attentato alle Torri Gemelle. E’ curioso constatare come esso attecchisca e aderisca ad una società multietnica che al primo colpo d’occhio sembra quasi brasiliana, quasi indolente e insofferente alle famose «regole» americane derivate dal luteranesimo anglosassone oggi forse più «sassone» che «anglo».

Tale prussianità americanizzata può manifestarsi in diverse versioni e occasioni. Dalla severità e dalla disciplina dell’aeroporto di Newark può travasarsi in forme contrastanti nel miscuglio d’ordine e disordine che regna per l’eterna movida di Times Square, lungo gli ingressi sovraffollati dei ristoranti e famosi teatri di Broadway. Qui, nel cuore di un’America attanagliata dalla crisi economica e dalla paura del terrorismo, capita di vedere di tutto. Giovani disoccupati, anche bianchi dall’aspetto wasp, che s’industriano a sbarcare il lunario pedalando a cavallo di ampi risciò carichi di turisti.

Pupazzi sgargianti e semoventi di Walt Disney frammisti a giovani biondi o neri che invocano un dollaro per gli homeless, i senzatetto. Oppure, all’incrocio centrale fra l’ottava e la trentasettesima strada, un bianco sulla quarantina, vestito decorosamente, che mostra ai viandanti un cartello di cartone scritto a mano: «Ho perduto ogni cosa in questo disastro finanziario. Vi prego, aiutatemi». Poi, di colpo, alzando lo sguardo, si può scorgere un enorme poster con faccia in gigantografia del presidente iraniano Ahmadinejad, appeso ad un grattacielo fra un pannello pubblicitario dei jeans Levi’s e un altro della bevanda Ginger Ale. Non lascia dubbi la scritta che l’accompagna: «Egli non è benvenuto qui. Dovete fare qualcosa contro di lui. Tutti uniti contro l’Iran nucleare».

Alla fine della passeggiata, rigurgitante di folle e di sorprese, sono sceso per violente scale mobili fino al sotterraneo dove, fra hamburger piramidali e bevande dolciastre per obesi, si commemora mangiando e ascoltando ritmi frastornanti l’epopea dei Beatles e del Hard Rock. Un autentico museo musicale e gastronomico anni Sessanta. Anche qui, d’un tratto, è scattata la morsa d’ordine germanica. Avevo prenotato per quattro, ma eravamo scesi soltanto in tre. Una giovane hostess nera, la cui grazia e avvenenza apparivano come irrigidite in un amido militare, mi ha subito bloccato annunciando: «Dovrete aspettare qui, in piedi, o al bar. Potrete occupare il vostro tavolo soltanto quando arriverà la quarta persona».

Intanto la musica, erompendo scatenata da ogni dove, intonava via via le melodie provocatorie e anarcoidi della gloriosa e ormai preistorica epoca Rock. Nessuno, però, ha saputo spiegarmi il perché della misteriosa ingiunzione proibitiva impostami dalla hostess nel locale in parvenza più permissivo di Times Square.
(CONTINUA-1)

http://lastampa.it/redazione/cmsSezioni/esteri/201008articoli/57440girata.asp
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« Risposta #47 inserito:: Settembre 13, 2010, 04:09:52 pm »

13/9/2010

La Turchia di Erdogan volta pagina

ENZO BETTIZA

Al di là delle previsioni, che anticipavano per Recep Tayyp Erdogan e il suo partito di centrodestra un'affermazione piuttosto risicata, i primi risultati del referendum e dell'affluenza alle urne danno il quadro di un successo per diversi aspetti inatteso. Anzi, sorprendente, per il clima incandescente e da scontro civile in cui si è verificato. Tenuto conto della spaccatura profonda del Paese, si può ben dire che Erdogan è uscito sostanzialmente premiato da una prova plebiscitaria che per tema centrale aveva il giudizio popolare sui suoi movimentati otto anni di governo.

Anni a pagella ottima nell'economia che ha continuato a crescere a ritmi «cinesi». Ma, al tempo stesso, molto travagliati nell'ondivago rapporto della Turchia erdoganiana con l'Europa incerta da una parte e le attraenti sirene islamiche dall'altra. Per quanto riguarda l'immediato futuro, si può aggiungere che il contraddittorio personaggio, cautamente maomettano nei costumi, ma liberista all'occidentale nella pratica, si prepara fin d'ora a raccogliere quasi con certezza la terza investitura alle elezioni del 2011.

Quale però è il vero significato, non solo politico ma storico, di questo che possiamo definire come il più delicato e rischioso contenzioso istituzionale della Turchia moderna? Quali incognite stanno per emergere ora da una simile contesa ai ferri corti tra il governo di Tayyp Erdogan, impegnato a emendare una Costituzione varata dopo il colpo di Stato militare del 1980, e le opposizioni laiche impegnate invece a difenderla vedendovi un ultimo baluardo del retaggio kemalista della repubblica turca? Chi analizzi con attenzione le proposte di cambiamento dei 22 articoli della Carta costituzionale, sostenute dal partito islamico moderato Giustizia e Sviluppo, l'Akp capeggiato da Erdogan, s'accorgerà che esse compongono un duplice e non sempre coerente quadro d'intervento. Da un lato una serie di misure intese a perfezionare l'immagine europea della Turchia, con provvedimenti civili favorevoli all'emancipazione della donna, alle cure dell'infanzia, all'istruzione dei giovani. Da un altro lato invece scorgerà l'intenzione di Erdogan e dei suoi d'infliggere un colpo decisivo, storicamente il più duro, al potere congiunto di magistrati e di militari che si ergono insieme, fin dal lontano 1923, a custodi integerrimi della tradizione secolare e anticlericale imposta con un misto d'autoritarismo illuminato e spietato ai turchi musulmani dal loro «padre» Kemal Atatürk Mustafa. E' al pugno e alla volontà di Kemal che la Turchia, europeizzata con metodi asiatici, deve tutto ciò che oggi la propone alla candidatura, sia pure sempre discussa e discutibile, di socia eccezionale dell'Unione di Bruxelles: fu la travolgente mareggiata del kemalismo a laicizzare dopo il califfato lo Stato ex ottomano, a istituire il suffragio universale, a introdurre l'alfabeto latino, il calendario gregoriano, il sistema decimale.

Uno dei dogmi secolari inappellabili fu la netta separazione tra Stato e Chiesa. La religione venne dichiarata «affare privato». Il borsalino sostitui il fez. Il velo islamico sparì dalle scuole. Ismet Inönü, primo ministro e stretto collaboratore del presidente a vita Atatürk, nascondeva in una tasca un Corano tascabile e lo leggeva bisbigliando al figlio nelle ore serali. Dopo la scomparsa del grande presidente della Repubblica laica e del sottomesso capo dell'esecutivo, le vestali di questo secolarismo in grigioverde, duro, occhiuto, europeizzante nei fini ma meno nei metodi, divennero i generali e i giudici della Corte costituzionale. Eredi dello spirito kemalista, s'improvvisavano spesso golpisti controvoglia, dittatori cincinnateschi per così dire ogni volta che, a torto o a ragione, ritenevano di dover arginare con un colpo da caserma la deriva corrotta o, secondo loro, antisecolare e quindi antikemalista di un governo infido. Se necessaria, la ferocia anatolica rientrava nell'uso di queste profilassi golpiste a tempo determinato. Lo stesso premier Erdogan e il suo partito Akp, già allora sospettati di islamismo strisciante, rischiarono nel 2008 di essere spazzati via da un colpo di mano castrense.

Sono cose non del tutto ignote a chi ne sa qualcosa di turchi e di Turchia. Ma oggi, dopo lo scontro concluso con la vittoria plebisciatria di Erdogan, mi sembra si debba ripeterle e rimetterle meglio a fuoco per comprendere che la Turchia ormai non è più quella che conoscevamo fino a ieri. E' avvenuta una svolta, una scissura, in qualche modo è avvenuta dopo quasi un secolo la fine della rivoluzione culturale kemalista, la fine della modernizzazione forzata del solo Paese islamico che impediva ai muezzin d'invitare i fedeli alla preghiera in lingua araba. I militari, il cui superpotere Erdogan da tempo aveva contrastato e limato con metodi non meno duri dei loro, stavolta non hanno alzato la cresta né le baionette. Decimati negli stati maggiori, molti incarcerati, gli epigoni rimasti hanno delegato al perdente partito repubblicano, fondato da Atatürk, il compito di affrontare invano elettoralmente lo straripante Akp islamico; frattanto, con le nuove misure approvate dai «sì» referendari, la Corte costituzionale e il Consiglio di sicurezza nazionale, organismo con cui i militari partecipavano alla vita dello Stato, verranno diluiti con l'immissione di magistrati d'estrazione religiosa. I tribunali militari non potranno più processare civili e, a loro volta i militari, se processati, dovranno subire il verdetto di tibunali ordinari. Non sono quisquilie. Sono eventi di grande portata emblemetica che marcano il crepuscolo del kemalismo e danno inizio a una sorta di controrivoluzione islamica che, del resto, sembra accordarsi alle nuove mosse ideologiche e diplomatiche di Erdogan: sempre più vicino all'Iran, più lontano da Israele, più neutro con l'Occidente in quanto tale e più indifferente o insofferente al ruolo turco una volta importantissimo nell'ambito della difesa atlantica.

Due punti chiave però aspettano sempre una risposta. Uno è l'Europa, in cui non si sa se questa imprevedibile Turchia riuscirà mai a entrare, ma di cui finora si è sempre servita per smantellare nel nome dei diritti civili europei l'europeismo storico e programmatico dei militari e dei magistrati kemalisti. L'altro sono i curdi. Questi, in maggioranza, non hanno votato perché Erdogan non si è pronunciato con chiarezza sullo sbarramento del 10 percento imposto già dai militari (Bruxelles in proposito tace). I curdi vedono qui un'arma costituzionale rimasta quale era, la sentono mirata a escluderli dal gioco parlamentare, e ora minacciano di riprendere il sentiero della guerriglia e degli attentati. Non facile dilemma per Erdogan. Contentare i curdi abbassando lo sbarramento e irritando le masse nazionaliste turche? Oppure ricorrere ai militari, da lui stesso depotenziati, per far fronte all'insorgenza di quella temibile minoranza ribelle?

La storia turca ha voltato pagina. Ma, come si vede, restano ancora tante da voltare, non si sa come, non si sa quando, non si sa con chi.

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7825&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #48 inserito:: Settembre 21, 2010, 05:13:45 pm »

21/9/2010

L'Europa e il contagio della paura
   
ENZO BETTIZA

Il risultato del voto svedese assume un significato che fa della Svezia il campione dei profondi mutamenti che, da qualche anno, stanno sconvolgendo il panorama politico dell'Europa nordica un tempo immune da tempeste, nevrosi e paure endemicamente diffuse nelle regioni meridionali e orientali del Vecchio Continente. Il significato storico ed emblematico di quanto è emerso dalle urne scandinave va ben al di là di un semplice regolamento o spostamento di conti elettorali da sinistra e destra.

Gli svedesi, assuefatti da quasi un secolo a vivere in un clima di welfare blindato, abbiente, pressoché infinito, hanno determinato col loro voto una sorta d'eutanasia rivoluzionaria: hanno staccato la presa dell'ossigeno al già indebolito partito socialdemocratico, infliggendogli, per la prima volta in ottant'anni, un catastrofico calo di oltre il 4 per cento. Sempre per la prima volta una coalizione moderata di centrodestra, guidata con accortezza dal premier Fredrik Reinfeldt ed elevata alla notevole percentuale del 49,1 (un passo dalla maggioranza assoluta), è riuscita non solo a portare a termine il mandato governativo, ma potrà e dovrà impegnarsi sia pure con qualche spinosa difficoltà nella formazione di un secondo esecutivo.

Nella lineare e neutrale vicenda della Svezia contemporanea, sostanzialmente modellata e condizionata dal predominio socialdemocratico, non era ancora successo dalla fine della guerra che i conservatori crescessero al punto di conquistare due mandati di seguito.

Il primo dato impressionante emerso dalle urne è infatti la conferma di quella che l'Economist, con icasticità clinica, definisce oggi «la strana morte della socialdemocrazia svedese». Basti pensare che solo cinque anni prima il severo Guardian, influente negli ambienti laburisti, vedeva nella Svezia forgiata dai governi di Olof Palme «la migliore delle società che il mondo avesse mai conosciuto». Per anni i socialisti europei, e non solo europei, avevano ammirato e contemplato nella nazione guida della Scandinavia un socialismo democratico austero e generoso insieme, capace di combinare un fisco esigentissimo e una spesa pubblica massiccia con un'economia robusta e un'alta qualità della vita. I Paesi vicini e consimili, Finlandia, Danimarca, Norvegia, perfino l'Olanda, cercavano d'imitarne con successo la lezione che conteneva in sé anche una notevole e talora ardita tolleranza nel settore dei diritti civili, concessi sia ai concittadini sia agli stranieri immigrati.

Dopo l'enigmatico assassinio di Palme nel 1986, mai chiarito fino in fondo, le prime ombre cominciarono a oscurare il paradiso socialdemocratico di Stoccolma. Iniziò a turbarsi la sostanziale stabilità politica, presero ad aprirsi parentesi governative gestite dai conservatori, la Svezia nel 1994 siglò gli accordi per l'ingresso nell'Unione Europea. Con il progressivo allargamento verso l'Europa orientale postcomunista si profilarono, anche per gli svedesi, ormai stanchi del modello socialista, troppo fiscale con i compatrioti e troppo indulgente con gli stranieri, i due problemi insidiosi che l'Europa intera conosce da alcuni anni: la crisi economica combinata con la crisi dell'immigrazione incontrollata. Sul piano economico il governo dei conservatori moderati, eletto nel 2006, capeggiato dal primo ministro Reinfeldt e amministrato dal responsabile delle Finanze Borg, ha saputo affrontare con sagacia e competenza la crisi, senza smantellare le fondamenta del sistema socialdemocratico ma correggendone gli eccessi ideologici e ammorbidendo con interventi liberisti e maggiore elasticità gli spazi operativi dell'industria privata. Il compromesso è riuscito, il prodotto lordo è aumentato, la disoccupazione è calata. Oggi la Svezia occupa un posto d'avanguardia nell'economia mondiale. Il contrasto con la situazione stentata di non pochi Paesi europei è più che notevole: è quasi schiacciante.

Alla fine, anche su questa Svezia economicamente risanata e ristabilizzata incombe lo stesso pericolo che oggi travaglia, assieme alle regioni scandinave, tanti altri Paesi europei. Esso incombe però con forza particolarmente nevrotica a Stoccolma, a Helsinki, a Copenaghen, ad Amsterdam, nelle parti fiamminghe del Belgio: cioè proprio nei vivai delle civiltà nordiche più evolute, fino all'altroieri culturalmente più aperte alla tolleranza e alla convivenza con il diverso, con l'esule, con l'immigrato in cerca di pane e di protezione. Il retaggio di tolleranza, di carità umana, depositato in quelle gelide terre settentrionali dal protestantesimo e dalle socialdemocrazie, si è come rovesciato nella grande paura dei diversi che oggi vagano e premono a tutte le porte del continente. Il cortocircuito prodotto dalla paura per la calata in massa dei dissimili, paura ancestrale, che per facile retorica definiamo troppo sbrigativamente «xenofobia», sta fomentando perfino nella civilissima Svezia una contropartita politica. Qui, difatti, si è verificata un'ennesima «prima volta» con la rottura dello sbarramento elettorale del 4 per cento e l'entrata imbarazzante in scena dell'estrema destra del giovanissimo Jimmie Akesson. Esorcizzati non solo dai perdenti socialdemocratici di Mona Sahlin, ma anche dal vincente conservatore Reinfeldt, i «Democratici svedesi» capitanati da Akesson hanno raggiunto, pare, più del 6,5 percento dei voti al grido «restituiamo la Svezia alla Svezia». La situazione è poco piacevole soprattutto per Reinfeldt che, dopo aver annunciato che non toccherà Akesson «neppure con le pinze», potrebbe vedersi costretto a trattare una scandalosa coalizione proprio con l'intoccabile. La vittoria del centrodestra moderato è stata purtroppo incompleta: alla coalizione manca una manciata di voti per formare un esecutivo da soli.

Non sappiamo quello che potrà succedere a giorni a Stoccolma. Sappiamo invece che la paura sta dilagando per il Nord. In Finlandia stanno correndo forte i cosiddetti «Veri finlandesi» che esaltano la «dignità delle tradizioni silvane». In Danimarca sta crescendo il «Partito del popolo» che basa la sua campagna sul «pericolo immigrati». In Olanda il «Partito della libertà» di Geert Wilders ha già 24 seggi in Parlamento e intrattiene contatti sempre più stretti con i consanguinei nazionalisti fiamminghi di Vlaams Belang. Tutti, compresi i nazionalradicali di Budapest e di Bucarest, si riuniranno a fine ottobre ad Amsterdam per festeggiare l'ormai leggendario Wilders.

Si vede, insomma, che il caso svedese è tutt'altro che isolato. L'Europa si è fatta più piccola, mentre la paura, che andrebbe studiata e non solo respinta con anemica «correttezza politica», si va facendo sempre più grande e più ubiqua. Non basta condannare alla rinfusa i «cattivi». Bisognerebbe anche sforzarsi di spiegare come e capire perché sono diventati tali dal Baltico fino al Danubio.
http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7856&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #49 inserito:: Ottobre 04, 2010, 12:07:32 pm »

4/10/2010 - POLONIA

Cenerentola ora siede tra le Grandi

ENZO BETTIZA

Ricordate la derelitta Cenerentola postcomunista del 2004? Quella, entrata per la porta di servizio nel Palazzo europeo, che scaraventava i primi lavavetri sotto i semafori di Roma, quella che ossessionava Parigi con lo spettro dell’idraulico crumiro, che spaventava gli agricoltori tedeschi con ortaggi a prezzo stracciato, che si presentava agli americani come una labile zona cuscinetto tra la Nato e la Russia.

Ebbene: chi avrebbe potuto immaginare che, nonostante le sue infinite metamorfosi e sventure, la Polonia del 2010 sarebbe diventata dopo la Germania, anzi a fianco della Germania, una delle nazioni europee oggi economicamente più sane ed emergenti? Chi avrebbe mai supposto che con il suo tasso di crescita, registrato dalla Commissione di Bruxelles al 3,4 percento, avrebbe pareggiato quello tedesco diventando il secondo Paese europeo uscito quasi indenne dalla crisi che ha stroncato la Grecia, sfiancato la Spagna, impoverito il Portogallo, paralizzato l’Irlanda? Fatto sta che il «miracolo sulle sponde della Vistola», come già lo definiscono gli esperti, non è più un effimero trompe-l’oeil: è ormai realtà consolidata e perfino emblematicamente sottolineata dalle fastose inaugurazioni degli stadi di calcio che ospiteranno in terra polacca i Campionati europei 2012. La futura miniolimpiade calcistica dovrebbe fra l’altro restituire alla Polonia, dopo la notte totalitaria infranta dai carpentieri di Danzica, il marchio geopolitico centrale (non più «orientale») che storia e civiltà le assegnano di pieno diritto nel grembo della vecchia e nuova Europa.

Come spiega l’articolo rivelatore di Pierluigi Mennitti, il 2010, anziché anno del miracolo, avrebbe potuto essere per la Polonia un ennesimo annus horribilis. La tragedia d’aprile, il tremendo choc della caduta dell’aereo che trasportava al sacrario di Katyn il presidente della repubblica Lech Kaczinski e novanta personalità dell’élite dirigente, aveva scatenato tra le masse molte e incognite pulsioni politiche.

Per tre mesi d’incertezza, dominati dalla maledizione di Katyn, abbiamo visto aggrovigliarsi un gran nodo di emozioni e passioni confuse che minacciavano di frenare, o addirittura vanificare, l’opera di stimolo riformistico avviata con notevolissimi risultati dal governo moderato di Donald Tusk. Il rischio maggiore era che il vuoto, lasciato dalla morte di Kaczinski al vertice dello Stato, venisse riempito, nell’emergenza caotica delle presidenziali anticipate, dal gemello Jaroslaw, ex premier e leader del partito d’estrema destra Diritto e Giustizia. Era, costui, l’anima nera della gemellocrazia che i due indistinguibili omozigotici, l’uno capo dell’esecutivo e l’altro dello Stato, avevano imposto per un biennio a Varsavia fino alla svolta liberale del 2007. Fu il livello fantapolitico più basso, più stravagante sul piano internazionale, toccato dalla Polonia dopo la rottamazione del comunismo. Quel regime familistico e ultraconservatore era stato contrassegnato, in particolare, dalla retorica di un populismo negativo declamata dall’incontenibile Jaroslaw: egli si professava non solo ideologicamente anticomunista, ma xenofobicamente antieuropeo, antigermanico, antirusso, antitutto, raccogliendo plausi e voti dalla Polonia clericalsciovinista più retriva e più rustica.

Infine, a luglio, la sconfitta del secondo gemello e la vittoria risicata del candidato Bronislaw Komorowski, uomo della scuderia liberale di Tusk, doveva ridare slancio e credibilità alla pericolante strategia riformista riconquistando il favore degli investitori stranieri e dei contabili della Commissione europea. L’ascesa alla presidenza di Komorowski è stata immediatamente percepita come la fine conclusiva dei veti, dei ricatti demagogici, dell’autarchia oscurantista dell’era Kaczinski. Un mercato interno di 40 milioni d’abitanti si è immediatamente risvegliato, i consumi sono cresciuti, le esportazioni aumentate: non più ortaggi bensì migliaia di autobus, prodotti in joint venture con imprese tedesche, poi sofisticati strumenti hightech elaborati a Cracovia, navigli costruiti negli storici e ammodernati cantieri di Danzica.

Certamente non tutto è stato risanato. Permane ancora la palla al piede di una campagna povera, popolata da masse contadine chiuse e misoneiste, bacino elettorale sempre ostile al riformismo oggi più che mai rafforzato dal binomio Tusk-Komorowski. I sei anni trascorsi nell’ambito Ue, non sono stati comunque spesi invano. Un recente rapporto della Commissione testimonia che nel 2009 la Polonia è stata beneficiaria di un «extra» di 6,5 miliardi di euro e che la Germania, al solito, è stata il maggior contribuente. Premio volto ad accelerare un decollo già avanzato. Difatti l’economia urbana polacca, incrementata dai fondi comunitari, si è velocemente rialzata sulle proprie gambe grazie a un ceto medio operoso e ad un governo di centrodestra razionale e dinamico. La Polonia intelligente che ne segue e sostiene la linea aperta all’Europa, molto stretta alla Germania, in distensione con la Russia, sta ora chiudendo l’anno in ottima salute; conti in regola; industrie in moto; con in più la pagella di uno dei rari Paesi europei che ha saputo evitare scogli e marosi della recessione. Non dimentichiamo che la Polonia è da sempre terra di tragedie e di sorprese, di ricadute e riscatti e sfide imprevedibili. L’ultima è la più sorprendente. Diventare una nazione di punta, nazione leader di un’Europa allargata e mutata, che vive il crepuscolo dell’asse franco-tedesco e vede Berlino avvicinarsi sempre più alle capitali postcomuniste.

Le vicende storte del mondo contemporaneo costringono generalmente, coloro che scrivono sui giornali, a farsi il callo all’idea che solo la cattiva notizia fa notizia. Finalmente da Varsavia ci viene suggerito che anche una buona notizia può andare in prima pagina.

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« Risposta #50 inserito:: Ottobre 08, 2010, 12:54:32 pm »

8/10/2010

Il grimaldello dello scrittore

ENZO BETTIZA

Letteratura e politica insieme, oppure letteratura come preludio alla politica, oppure ancora letteratura come correttivo, come antidoto o addirittura fuga dalla politica aspra e approdo all’utopia liberale? Tutte domande sottili, in parte contrastanti, che si addicono quasi simultaneamente alla complessa e nomade personalità intellettuale di Mario Vargas Llosa.

Romanziere prolifico, drammaturgo visionario, saggista provocatorio, giornalista asciutto, al tempo stesso sfortunato e battagliero candidato nel 1990 alla presidenza del nativo Perù, l’infaticabile Llosa ha aggiunto sovente al grimaldello dello scrittore che sviscera la politica la grinta del militante che fa politica. Gli accademici del Nobel, premiandolo dopo la tedesca Herta Müller, vittima solitaria dell’Est comunista, hanno messo per la seconda volta il dito su uno dei tasti più delicati, in perenne attesa di chiarezza, del mondo contemporaneo: il rapporto irrisolto tra «nobiltà dello spirito», come Thomas Mann chiamava la cultura, e trivialità drammatica nelle svolte rivoluzionarie o empirica e più statica in circostanze democratiche. Insomma il legame mutevole e spesso strinato del poeta, del filosofo, dell’intellò novecentesco di stampo europeo, in senso lato occidentale, col ruvido pragmatismo dell’azione politica.

I valori aggiunti all’originaria americanità latina di Llosa sono europei: cittadinanza spagnola, formazione parigina, residenza londinese. Ma non tutta l’intelligencija occidentale riconosce in lui uno scrittore e soprattutto un analista impegnato civilmente e socialmente. L’Italia, dove gran parte della sua opera romanzesca è pubblicata da Einaudi e da Rizzoli, lo riconosce e lo celebra principalmente (parole sue) «come uno schiavo volontario e felice della letteratura». Tanto schiavo da esserne alla fin fine stufo e quasi infelice. Rileggo una ricca intervista, concessa al Corriere della Sera nel 2008, in cui il Llosa «politico» confidava a Dario Fertilio il suo disappunto di venire considerato dagli italiani soltanto come un «romanziere». Diceva alquanto deluso: «Nessuno si prende la briga di pubblicare i miei saggi sulla situazione sudamericana. Ancora oggi un certo conformismo di sinistra passa sotto silenzio il saggista liberale, dando spazio al solo narratore. Invece che vedermi dipinto come un uccello esotico, preferirei mi si considerasse un uomo del nostro tempo che pensa e guarda, senza paraocchi, la realtà che lo circonda».

L’esatta collocazione ideologica dell’odierno Nobel continua a essere ignorata o, peggio, equivocata per calcolo o disinteressata corrività. Diversi, dimenticando il suo distacco critico dall’«illusione italiana», cioè dal populismo berlusconiano, tendono a percepire in Llosa un liberalconservatore, un cantore di centrodestra, mentre secondo me egli inclina a un certo radicalismo e purismo liberale. Non a caso un suo capolavoro intriso di sdegno politico, «La fiesta del chivo» ovvero «festa del caprone», pubblicato nel 2000, è una sublime requisitoria a mezza via tra realtà e surrealtà contro le tirannidi caraibiche. Vi si narra la storia non remota di San Domingo, quella più sudicia, dominata dal generalissimo Rafael Leónidas Trujillo, il despota caprigno al quale i notabili della spaventata repubblica delle banane portavano in dono figlie e fidanzate per il consumo dello jus primae noctis. Lo spietato ritratto al fosforo del priapesco caudillo, che risente il contagio dei demoniaci personaggi di Borges e di García Márquez, è uno dei mostri più impressionanti che ci siano arrivati dalle nebbie insondabili dell’universo letterario sudamericano. Il crudo pamphlet qui si congiunge alla maestà di una fiaba nera e atemporale. La nemesi giungerà dopo un implacabile trentennio criminale (1930-1961), quando Trujillo, padrone della vita e della morte di un popolo perduto, verrà trucidato in un attentato ordito dai suoi collaboratori e da agenti occulti della Cia.

Llosa conosceva bene, e di persona, anche i feroci caudilli di sinistra con la coorte di menestrelli da Márquez a Sartre. In gioventù il bellissimo scrittore, dai tratti aristocratici, aveva esaltato Cuba, stimato Castro, amato Guevara, frequentato bettole e bordelli con Márquez. Ma l’infatuazione finì con la comunistizzazione dell’Avana e l’arrivo dei missili sovietici a Cuba. L’insofferenza politica riprese il sopravvento. Il suo castrismo si stroncò, pressoché fisiologicamente, in una epica rissa a pugni con l’amico Márquez. Dopodiché, nel suo immaginario ideologico la Parigi di Aron sostituì la Rive Gauche di Sartre e il liberalismo puro, più intransigente che dubitativo, conquistò definitivamente l’animo europeizzato del futuro Nobel.

La grande svolta non impedì tuttavia, anzi, favorì la riconciliazione con il geniale compagno colombiano Márquez al quale, in omaggio armistiziale, il peruviano neoliberale volle dedicare nel 1971 l’effervescente «Historia de un deicidio». Effervescente certo. Ma forse non priva di squarci d’ambiguità, quanto meno di bivalenza, giacché i due famosi amici-nemici hanno rappresentato e indicano pur sempre due diverse vie d’uscita storica al travagliato subcontinente dell’America Latina. Oggi per Márquez è Chávez il successore legittimo di Castro; per Llosa, forse, è Llosa stesso.

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« Risposta #51 inserito:: Ottobre 14, 2010, 11:57:50 am »

14/10/2010

Lo scarto balcanico

ENZO BETTIZA

Ormai gli stadi del mondo stanno diventando un pretesto teppistico che ha sempre meno a che fare con la nobiltà originaria dello sport, con il codice d’onore fra squadre e nazioni in rivalità ludica ma leale fra loro. Stanno diventando sempre più arene di violenza pura o, peggio, non soltanto gratuita. In realtà stanno perfino degenerando, come a Genova, in terrificanti rappresentazioni teatrali di massa, a sottofondo metastorico o mitologico in cui si celebrano e ribadiscono, in aggressiva parodia, tristi memorie di guerra del passato prossimo, guerriglie e pulizie etniche più recenti, o addirittura battaglie perdute e rivendicate dopo secoli in strabica rivisitazione omerica. S’è per esempio visto, sull’avambraccio di un gigantesco ultrà belgradese, la fatale data del 1389, evocante la tragedia degli eserciti slavi guidati dai serbi contro i turchi nella sfortunata battaglia del Kosovo Polje. Ai duemila guerriglieri serbi, perché tali e non tifosi erano per davvero, interessava assai poco parteggiare sia pure energicamente per la loro squadra e gufare per quella italiana.

Interessava molto più agli epigoni e fanatici della Stella Rossa di Belgrado sottolineare con brutalità, in un grande emporio europeo come Genova, che essi provenivano dai battaglioni paramilitari dediti a suo tempo a perpetrare in Bosnia, Croazia e Kosovo i più orrendi massacri compiuti in Europa dopo la seconda guerra mondiale. Gli energumeni in tuta mortuaria, passamontagna terroristico sul volto, teschio gessoso con ossa incrociate sul petto, solo in parvenza evocavano i Gozzilla tratti da qualche film o videogame dell’orrore; in realtà s’è trattato di veterani ben agguerriti, provenienti in gran parte dalle temibili «Tigri di Arkan», lanzichenecchi ipernazionalisti che avevano il loro vivaio nella Stella Rossa di Belgrado il cui gestore milionario, durante e dopo le ultime guerre interjugoslave, era stato per l’appunto Željko Ražnatovic, detto Arkan. Abbiamo visto nella gabbia dello stadio genovese un caporione, calmo, trapezistico, meticoloso, mentre spicinava le vetrate intorno e tagliava le reti divisorie con la perizia tecnica e gli strumenti di un autentico guastatore da combattimento.

Che ai duemila ultrà scaraventatisi con tanto d’arsenale a Genova importasse poco o niente la vittoria della nazionale serba, lo si è capito bene dalla letale aggressione scagliata contro il portiere Stojkovic, preso a bersaglio come un fellone per aver tradito il covo della Stella Rossa e scelto di giocare per la rivale squadra indigena del Partizan. Che si sia trattato, inoltre, di una vera e propria performance paramilitare, lo dimostrava anche la quintessenza insieme leggendaria e politica che animava i veterani decisi a distruggere lo stadio Marassi con lancio di razzi, fumogeni, bombe di carta, cesoie, coltelli e spranghe d’ogni genere: la distruzione doveva essere un ammonimento non alla nazionale italiana, ma all’Italia in quanto tale, che aveva partecipato alla guerra antiserba nel Kosovo e riconosciuto, insieme con altre sessantuno nazioni, l’indipendenza kosovara nel febbraio 2008. Il momento culminante del raptus mitico lo si è visto nel momento in cui hanno dispiegato la bandiera albanese, con l’aquila bicipite, dandola alle fiamme e tracciando minacciosamente nell’aria il segno ortodosso delle tre dita: «Serbia divina», «Montenegro sacro», «Bosnia fedele». Purtroppo quel sacro gesto cristiano, pervertito dai cetnici delle milizie più estremiste, è stato contraccambiato dal campo di gioco, non si sa se per condivisione o per paura dal capitano Dejan Stankovic. C’è chi dice volesse avvertire i connazionali, almeno i più ragionevoli, che l’interruzione della partita avrebbe favorito gli italiani con un tre a zero a tavolino. Sarà.

In termini calcistici è stato questo uno dei più pesanti autogol sferrati dalla Serbia contro se stessa nel momento in cui un governo responsabile, guidato dal presidente moderato Boris Tadic, si prepara a ricevere il 25 ottobre dal Consiglio europeo il via libera della domanda d’adesione di Belgrado all’Ue. Gli ultrà, politicamente confusi e trasversali, non solo di destra estrema, certo non rappresentano la Serbia attuale nella sua interezza e nella sua resipiscente rinascita europeista. Costituiscono lo scarto balcanico, irrazionale e passionario, lasciato alla maggioranza dei serbi pensanti dal nazionalcomunista Miloševic, dal poeta pazzo Karadžic e dal criminale di Srebrenica Mladic, tuttora in contumacia protetta. Sono stati costoro i veri responsabili della perdita di tutto ciò che una nazione eroica come la Serbia, nerbo storico della defunta Jugoslavia, aveva conquistato a fianco degli alleati occidentali dopo il primo conflitto mondiale e riconsolidato, dopo il secondo, in un contesto federativo, con il comunista riformatore Tito: cioè l’intero Kosovo, l’intera Macedonia, due terzi della Bosnia, tutta la Croazia e tutta la Slovenia. È contro i loro padrini scomparsi e sconfitti che gli ultrà di Belgrado avrebbero dovuto scagliare il segno trinitario dell’antichissima e gloriosa croce serba e ortodossa.

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« Risposta #52 inserito:: Dicembre 05, 2010, 09:11:40 am »

5/12/2010

La rivoluzione accidentale di Mr Cameron

ENZO BETTIZA

I festoni natalizi volatili e sgargianti non riescono ad attenuare del tutto un senso di opacità turbata. Un’opacità un po’ spettrale che, tra folate di gelo polare, assedia sottilmente la capitale britannica in queste giornate d’inattesa protesta studentesca, di spietati rigori fiscali, di taglienti misure d’austerità in netto contrasto con sfilze di vetrine ingombre di beni di lusso eccessivi e inaccessibili. Come se non bastasse, l’atmosfera si è perdipiù appesantita dopo che dalle segrete fluviali di Wikileaks è emerso il giudizio negativo dei cugini americani sui due giovani leader della coalizione di maggio, il conservatore David Cameron e il liberaldemocratico Nick Clegg, definiti «deboli e destinati a non durare a lungo».

Giudizio se non altro affrettato. Può darsi che i dioscuri affini ma non identici, costretti dall’aritmetica elettorale a coalizzarsi, non ce la faranno a rispettare il patto di governare insieme per l’intero quinquennio della legislatura. Ma l’insinuazione, che li vorrebbe «deboli», non sembra reggere in queste settimane d’imposte triplicate sulla retta universitaria e di cancellazioni ancor più spietate inflitte a 500 mila posti di lavoro nel pubblico impiego. L’aria rigorista che si respira è quella, già travolgente nella vicina Irlanda, di un drastico ridimensionamento per non dire scorticamento dell’elastico Welfare all’inglese. Il liberal Clegg, sfidando l’ala socialdemocratica del suo stesso partito, fa almeno per adesso da scudo ideologico o, se vogliamo, da temeraria testa di turco al più radicale taglio della spesa pubblica operato da una coalizione a guida Tory dalla fine della seconda guerra mondiale.

E’ soprattutto lui, il vicepremier Clegg, il quale dall’opposizione diceva una cosa mentre dal governo ne dice un’altra, è lui che oggi paga, in termini di sondaggio e d’immagine, il conto della salatissima anoressia di Stato. Anoressia comminata al Paese dal premier Cameron che, prima e dopo l’elezione, preannunciava al contrario di Clegg sempre la stessa cosa: l’inevitabilità di un’asfittica stretta di cinghia.

Si sa che i conservatori in Gran Bretagna sono storicamente mitridatizzati all’odio rassegnato delle masse. Stavolta però hanno un jolly d’eccezione nella manica. Hanno la copertura morale da sinistra, in parte obbligata in parte calcolata, offertagli dall’abbraccio del vertice liberaldemocratico per ora docile e collaborativo. Si sentono perciò le mani più sciolte che mai per affrontare la grande svolta, la perigliosa operazione di salvataggio che il declino della nazione, il logorio del Welfare e la recessione mondiale impongono obiettivamente agli inglesi. Il loro duplice vantaggio isolano, che li rendeva insieme distanti e partecipi ai vortici della globalizzazione, ha finito per portarli al capolinea di un itinerario di colpo crepuscolare. Basta una visita breve alla City a farci percepire il malessere, per non dire la sindrome emiplegica, che sotto l’agitato traffico della metropoli paralizza ancora in buona parte quello che fu, a fianco di Wall Street, il più creativo e avventuroso vivaio del capitalismo finanziario mondiale.

Gli aspri successi liberisti di Margaret Thatcher, quelli morbidi e più edonistici di Tony Blair, infine il triennio di compromessi fallimentari tra stimoli capitalisti e sogni socialisti di Gordon Brown sono ormai archeologia politica. L’«era della coalizione», come la chiamano, è un’era di rottura brusca, di amputazioni impensabili in Francia o in Italia, smantellamenti, interventi profilattici restrittivi e arrischiati che, sotto molti aspetti, fanno apparire smussata perfino la scure della tagliatrice di teste Thatcher. I rari governi di coalizione evocano non a caso, nella storia britannica, momenti cruciali d’emergenza riassunti nel motto churchilliano di «lacrime e sangue».

E’ difficile etichettare la coalizione che cavalca l’attuale stato d’emergenza; nell’ottica dei Tories si presenta come un governo di centrodestra, in quella dei liberaldemocratici come un esperimento inedito di centrosinistra. Ma, più dell’etichetta, quello che pragmaticamente prevale oggi è il dirompente novum di una ricetta a suo modo rivoluzionaria, mirata non solo a sconvolgere il tradizionale sistema bipartitico, a disarticolare la rigida diarchia fra conservatori e laburisti, immettendo nell’arena una terza forza liberale e promettendo un referendum inteso a modificare l’avara legge elettorale basata sul gioco e il giogo di due soli partiti. Sul tavolo c’è molto di più.

C’è la decisione di dimezzare i costi della politica svuotando l’apparato burocratico, riducendo il numero dei deputati ai Comuni, prosciugando l’affastellamento congestionato e sclerotico di troppi Lord alla Camera Alta del Regno. C’è, infine, l’intento, che potremmo definire smitizzante, di ridurre il peso e la memoria del passato imperiale. Il che significa consegnare definitivamente all’oblìo il fascino romantico di Kipling, dimenticare le succursali del Commonwealth, dare una sforbiciata anche alla «relazione speciale» con l’America e riportare l’Inghilterra alla sua reale misura odierna di potenza media europea.

Stanno entrando difatti nel tritacarne non solo i ministeri che si svuotano, le ambasciate che si sfoltiscono, i leggendari consolati che si chiudono, le scuole d’elite che protestano, i servizi di sanità che d’altronde languono da un pezzo. La mannaia sta per abbattersi pure sulle forze armate, simbolo residuo e fino a ieri efficiente del retaggio imperiale, i cui comandanti d’ogni epoca, dal Nelson con feluca al Montgomery con basco, costellano con le loro impassibili statue in bronzo e in marmo le principali piazze di Londra.

Il «clean break», la rottura detta pudicamente «pulita», ridurrà dell’otto percento il bilancio della difesa per i prossimi quattro anni; ma diversi osservatori, taluni preoccupati, altri soddisfatti, ritengono che il depotenziamento dell’arsenale militare andrà ben oltre nel tempo. Il Regno Unito conserverà il simbolo deterrente dell’atomica, mentre la regina dei mari, la mitica flotta, l’orgoglio d’Albione che diede la sua ultima prova di forza nella guerra lampo delle Falkland, dovrà accontentarsi di collaborare e condividere con la Francia la produzione cantieristica delle corazzate.

L’«era della coalizione» coinciderà così con l’ultimo e definitivo tramonto degli emblemi e della grandeur imperiali. La stessa collocazione dell’Inghilterra sulla scena internazionale non potrà non subire spostamenti e contraccolpi, per ora imprevedibili, forse non tutti negativi. La sola prospettiva che possiamo intanto immaginare è che l’Atlantico si farà per gli inglesi probabilmente più largo e la striscia della Manica più stretta. Poi si vedrà fino a che punto l’isola superba e ubiqua di Sua Maestà, costretta alle sue vere dimensioni, riuscirà più o meno a «europeizzarsi».

Forse nessuno, né a Londra né altrove, s’aspettava che a sei mesi dal suo titubante insediamento la coalizione Cameron-Clegg si sarebbe lanciata d’un tratto in una sfida tanto radicale da coinvolgere e stravolgere, al di là di un’ingessata costruzione politica, almeno due secoli di storia nazionale e planetaria. Sfida definita anche «rivoluzione accidentale», nel senso che non è stata imposta dalla volontà degli uomini alle cose, ma dalla forza superiore delle cose agli uomini. Il Financial Times l’ha descritta ricorrendo a una paradossale battuta castrense del maresciallo francese Foch: «Il mio fianco destro è sotto pressione. Il centro sta per cedere. La manovra mi è impedita. Situazione eccellente. Io attacco».

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« Risposta #53 inserito:: Gennaio 10, 2011, 03:42:31 pm »

10/1/2011

Demoni d'America


ENZO BETTIZZA

Ricordo quello che mi diceva Montanelli, che, da giovane recluta del mestiere, aveva lavorato per qualche tempo un po’ da Parigi e un po’ da New York per una agenzia di stampa americana: «Ogni volta che andrai negli Usa non dovrai dimenticare che loro, anche se non lo dicono, credono soprattutto in tre cose. Bibbia, pistola e sedia elettrica». Era una generalizzazione lampo, che, come altre iperboli di Montanelli, condensava in pillole le verità che ritroviamo in genere stemperate o pudicamente ignorate nei libri di storia dedicati alla tumultuosa società democratica e multietnica d’Oltreoceano. Già i Padri Fondatori, con la loro scarna e poco indulgente religiosità luterana, capivano che l’universo incognito che andavano estendendo dall’Atlantico al Pacifico non avrebbe potuto fare a meno di tre strumenti essenziali. La Scrittura a portata degli occhi, la pistola a portata di mano, la corda giustiziera a portata del collo dei trasgressori.

È su questo ruvido sfondo di delitto e castigo che in America si sono consumati i più gravi omicidi politici da Lincoln ai fratelli Kennedy. Ed è su tale ancestrale sfondo di follia nichilistica, simile a un contrappunto nero nei confronti del luminoso ottimismo del «sogno americano», che esplodono troppo spesso casi tragici in cui vediamo un pistolero scaricare l’arma all’impazzata nei campus, nei dormitori delle caserme, nelle sfilate e nei raduni politici. Arma, si badi bene, sovente personalissima, acquistata con un centinaio di dollari in un negozio non lontano da casa.

Il massacro compiuto in Arizona da un giovane ignoto, apparentemente un povero squilibrato, muto e pietrificato davanti ai magistrati, non può essere interpretato come novità assoluta. L’orrore che suscita, per quanto immenso, rientra purtroppo nella casistica delle cronache nere e degli attentati americani. La vera novità è un’altra. È nel clima politico di divisione sempre più radicalizzata, da guerra civile bianca, dilagata col movimento del tea party, culminata nel recente trionfo parlamentare dei repubblicani e provocata, principalmente, dall’insediamento nella Casa Bianca di un anomalo presidente liberal: ormai considerato da molti elettori, anche democratici delusi, «socialista», «europeo», «poco americano». Sarebbe certamente eccessivo evocare l’America lacerata tra sudisti e nordisti, oppure l’America delle lettere scarlatte di Hawthorne, delle pannocchie stupratrici di Faulkner, dei film spietati dei fratelli Coen e di Eastwood. In termini politici non siamo ancora a tanto. Siamo però a un punto che è, insieme, di stallo e di svolta insidiosa: le misure anticrisi che boccheggiano, spesa pubblica e disoccupazione che crescono, l’assistenza medica per tutti che non tutti desiderano e che i repubblicani si preparano a svuotare al Congresso dove hanno conquistato la maggioranza.

È da un simile quadro politicamente teso, pieno d’astio e di vetriolo, scrivono i giornali, che la madrina carismatica del tea party, Sarah Palin, ha tratto lo spunto per stilare una «target list». Una minacciosa lista nera, in cui spiccavano, come in un tiro al bersaglio, i nomi di tanti personaggi «da abbattere»: al terzo posto figurava la vittima democratica Gabrielle Giffords. Non a caso nel marzo dell’anno scorso, in vista della rovente riforma sanitaria, l’ufficio della deputata, già considerata idonea alla carica di governatrice dell’Arizona, Stato del Sud in polemica xenofoba con Washington, era stato attaccato a Tucson da vandali notturni. L’Arizona ha varato, nel 2010, una poliziesca legge antimmigrazione ed oggi è uno dei luoghi più inospitali degli Usa. Di notte si è al limite del coprifuoco. Lo sceriffo di Tucson, Clarence Dupnik, ne ha definito senza mezzi termini l’atmosfera: «Siamo diventati La Mecca del pregiudizio e del fanatismo».

Ecco, insomma, il colore e la temperatura della buia città sudista. Qui, durante un comizio, è stata colpita alla testa Gabrielle Giffords, sono morte sei persone, tra cui una bambina e un giudice federale, e ne sono state ferite altre dodici. È l’incidente senz’altro più tetro abbattutosi sul già travagliato percorso nazionale del presidente Obama. Ma chiedersi ora se l’attentatore, il ventiduenne Jared Loughner, sia un pazzo isolato o membro di un gruppo di congiurati antidemocratici, pare una di quelle domande destinate a non ottenere mai una risposta. In genere i grandi attentati, come l’oscuro assassinio di Kennedy a Dallas, restano in America privi di un identificabile sigillo politico.

L’unica cosa che per ora possiamo dire con certezza è questa. Che anche il lupo solitario, come le sue prede, appare per qualche aspetto una vittima invasata, una vittima orrenda, un relitto psicolabile travolto dal clima di sovreccitazione ideologica e contrapposizione oltranzista che si respira negli Stati Uniti dopo le elezioni di medio termine. Auguriamoci che gli anticorpi, che all’America non sono mai mancati, riescano a eliminare i dèmoni dal suo futuro prossimo.

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« Risposta #54 inserito:: Gennaio 27, 2011, 12:06:27 am »

26/1/2011 - LA STRAGE DI MOSCA

La Russia e le radici dell'odio


ENZO BETTIZA

Il terrorismo non è certo fenomeno nuovo nella storia della Russia, così come non sono affatto nuove le guerre e le guerriglie o gli atti di brigantaggio politico nei labirinti etnici e religiosi del Caucaso. Le statistiche storiche grondano di sangue, atrocità d’ogni genere, doppi giochi ambigui e pressoché permanenti. Dagli squadroni criminali a cavallo dell’Opricninà personale del veterozar Ivan il Terribile, dai metodi brutali della Preobraženskij Prikaz dell’illuminato Pietro il Grande, dalla spietata Terza Sezione del conte Bekendorf fino ai dipartimenti speciali e delittuosi dell’Okhrana del tardo zarismo si vide rigenerarsi sistematicamente, in Russia, un singolare quanto paradossale metabolismo: in sostanza si vide saldarsi, fuori d’ogni regola morale e d’ogni controllo legale, uno scellerato connubio tra il personale segreto addetto alla sicurezza dello Stato e gli uomini più in vista di organizzazioni eversive, populisti utopici, socialrivoluzionari dinamitardi, anche bolscevichi doppiogiochisti, intenzionati ad annientare personalità e settori dello stesso Stato che sovente li sovvenzionava, li copriva e perfino se ne serviva.

Non a caso l’esempio più clamoroso di un agente doppio assoldato dall’Okhrana fu quello di Evno Azef, il capo dell’organizzazione combattente socialista rivoluzionaria, uno dei maggiori precursori dell’impiego negli attentati di terroristi suicidi. Nei primissimi anni del Novecento Azev, mentre tramava l’assassinio di due ministri dell’Interno e di un granduca, riceveva somme imponenti dai servizi zaristi. Ad un certo punto, quel patologico genio della doppiezza e della provocazione non seppe davvero più per chi stesse lanciando bombe e uomini destinati all’autosacrificio: per lo zar o contro lo zar?

Qualcosa di simile si potrebbe dire per lo stesso Lenin che, al pari di Stalin, aveva tratto diverse ispirazioni tecniche dai labirinti dell’Okhrana. Negò fino all’ultimo la verità denunciata dai menscevichi a proposito di Roman Malinovskij, operaio e capogruppo dei sei parlamentari bolscevichi alla Duma, definendolo «dirigente proletario portatore di grandi speranze». Quando la triste verità venne inesorabilmente a galla, si seppe che Beletskij, direttore della polizia ai tempi di Nicola II, nei rapporti descriveva Malinovskij come «l’orgoglio dell’Okhrana».

Oggi, dopo il devastante e spettacolare massacro compiuto da uno o due kamikaze all’aeroporto moscovita di Domodedovo, si parla con sufficienti ragioni cronachistiche di un ennesimo atto terroristico «di matrice caucasica e islamica». Ma il terrorismo nel Caucaso, che non comprende solo ceceni, daghestani, ingusci, eccetera, aveva conosciuto pure radici non islamiche. Prima della rivoluzione uno dei più terribili attentati di brigantaggio terroristico fu compiuto da un ex seminarista ortodosso, il ventinovenne Josif Džugašvili, in seguito noto come Stalin, che il 13 giugno 1907 mise a ferro e fuoco il centro di Tiflis, capitale della Georgia. Scopo del vasto e organizzatissimo assalto, che si prolungò per un giorno e una notte, era un carro blindato che trasportava quintali di rubli, destinati secondo il piano a foraggiare il partito bolscevico dal capobanda e dai suoi uomini di mano: malavitosi comuni, fuorilegge disperati, preti spretati, principi romantici e chisciotteschi ridotti in miseria. Luogotenente del futuro Stalin era il leggendario armeno Kamo, temerario rapinatore di banche, maestro di evasioni, un quasi matto incline ad una violenza crudele e senza freni. Erano tutti, in qualche modo, fondamentalisti del terrore. Li dipinge così Simon Sebag Montefiore, documentato biografo del giovane Stalin: «Le loro azioni erano criminali, ma non gli importava nulla del denaro; erano devoti a Lenin, al partito e al loro burattinaio di Tiflis: Stalin». Qualche giorno prima Lenin e Stalin s’erano incontrati segretamente a Berlino, per mettere a punto il colpo nonostante il partito socialdemocratico, di cui i bolscevichi facevano ancora parte, avesse rigorosamente vietato i cosiddetti «espropri proletari» (cioè rapine bancarie). Gli avvenimenti di quella giornata di sangue scossero dalle fondamenta Tiflis e il Caucaso e polverizzarono il già spezzato partito socialdemocratico nella violenta fazione leninista e in quella più intellettuale dei menscevichi di Martov e Plechanov. Comunque, agli occhi di Lenin, le gesta banditesche di Stalin, sempre meticolose, segrete, perfezioniste, dovevano fare di lui il «principale finanziatore del Centro bolscevico».

Come si vede, il terrorismo russo, già agli inizi del secolo scorso militarmente e ideologicamente radicato nel Caucaso, era un fenomeno a suo modo ancestrale, trasversale, equivoco, a doppia lama. Si avvinghiava da ogni lato alla complessa storia russa, allo Stato russo, alle polizie russe e, infine, alla stessa rivoluzione russa, alla guerra civile russa, alla collettivizzazione forzata contro i contadini e all’arcipelago Gulag. Le stesse fortune e sfortune di Putin ci appaiono oggi, per più aspetti, legate per calcolata reazione ad un terrorismo islamico che ha trovato comunque nell’odiata Russia un terreno fertile e perfino qualche maestro cattivo da cui assorbire la lezione. Fra le notizie nei giornali mi ha particolarmente colpito, per esempio, il fatto che un siberiano slavo, Alexander Tikhomirov, sia diventato un istruttore di giovani kamikaze ceceni, uomini e donne; fino alla sua morte, avvenuta l’anno scorso durante un conflitto a fuoco, ha preparato plotoni di fanatici suicidi curandone personalmente l’addestramento. Quanto a Putin, sarà bene non dimenticare che la lotta al terrorismo è stata il trampolino di lancio nella sua straordinaria ascesa al potere. Era appena diventato Presidente nel 2000 quando, di lì a poco, scoppiarono gravi attentati alla periferia di Mosca che lo spinsero a sobbarcare l’esercito russo alla seconda guerra cecena e a chiudere con toni gelidi una memorabile trasmissione televisiva: «Darò la caccia ai terroristi fino ai cessi più profondi».

Poi Grozny è stata rasa al suolo dai blindati e dai cannoni russi. Dopodiché è stata ricostruita e «pacificata» sotto il knut di Kadyrov: un pascià collaborazionista crudele, corrotto e privo di scrupoli che, coperto dal Cremlino, ha continuato a governare la Cecenia con brutalità terroristica nel nome della Russia cristiana.

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« Risposta #55 inserito:: Marzo 04, 2011, 06:47:04 pm »

Cultura

27/02/2011 -

La leggenda della santa socialista

Angelica Balabanoff, la piccola rivoluzionaria "mai tranquilla": una biografia di Amedeo La Mattina

ENZO BETTIZA

La prima pagina del libro (Amedeo La Mattina, Mai sono stata tranquilla, Einaudi 2011) comincia con la descrizione di un’alba d’inquietante agonia del 25 novembre 1965. «Una vecchietta sta morendo in un appartamento romano di Montesacro. Bacia nell’aria un volto che aleggia sulla sua testa canuta» sospirando, nel più accorato dei diminutivi russi, mamuška mamuška… La morente, di cui nessuno sarebbe in grado di precisare l’età inoltratissima, esala l’ultimo mormorio quasi ignota, dimenticata da tutti. È passato più di mezzo secolo dal giorno in cui, mentre abbandonava gli odiati privilegi della tenuta patrizia dov’era nata, venne colpita dallo struggente urlo di malaugurio che la mamuška, la madre padrona, una ricca vedova ebrea di Cernigov in Ucraina, le aveva scagliato addosso: «Tu sarai maledetta per tutta la vita e quando morirai mi chiederai scusa».

Non si sa bene se quella fuga dai territori zaristi verso il Belgio, dove allora si davano convegno illustri «sovversivi» e dottori di marxismo, avvenne negli ultimi due anni dell’Ottocento o ai primi del Novecento. Neppure si sa con certezza se la fuggitiva ribelle, la mezza russa Angelica Balabanova, con desinenza prussificata in Balabanoff, avesse meno o più di vent’anni nel momento della rottura con la facoltosa famiglia i cui beni e vantaggi la riempivano di vergogna e sensi di colpa. La sua vera data di nascita è rimasta sempre avvolta nel mistero. «Qualcuno - scrisse Montanelli in un raro “coccodrillo” dedicato dalla stampa italiana alla scomparsa - gliene attribuiva novanta, altri novantacinque. Forse li aveva dimenticati anche lei e comunque non le pesavano». La Mattina, biografo appassionato della vegliarda un tempo famosa, poi condannata da gran parte della cultura progressista alla damnatio memoriae, conclude così l’ultima delle sue ricche 370 pagine: «Questo libro è il merito che spetta a una donna che ruppe con Mussolini e con Lenin. Una “santa del socialismo” che diventò anticomunista e implacabile fustigatrice delle debolezze umane e politiche della sinistra italiana».

Il riscatto di memoria, che La Mattina dedica alla Balabanoff con lo scrupolo dello storico e il distacco descrittivo del giornalista, è basato non solo su una ricerca spregiudicata accuratissima, stipata di testi e documenti sottratti all’oblio e alla polvere degli archivi. Egli puntella il suo scavo certosino anche su incontri con personaggi che conobbero in presa diretta quella stranissima errabonda, mai placata, «mai tranquilla», spesso affamata e denutrita, sempre in fuga da se stessa e dalle sue molte patrie: la nativa Ucraina, la culturale Germania, l’insidiosa Francia, l’ospitale America, l’adottiva e amatissima Italia. Fra gli intervistati dall’autore primeggia un vecchio giornalista dell’Avanti!, Giorgio Giannelli, «unico erede testamentario ancora in vita» e piuttosto incredulo o agnostico, come lo era Renzo De Felice, a proposito della diffusa vulgata che voleva o vorrebbe tuttora vedere in Angelica una delle tante concubine del giovane socialista Mussolini.

Eppure, uno dei nodi di questa biografia a più strati, che come un mare gonfio e profondo ne coinvolge altre maggiori e minori, è proprio nel rapporto complesso, pedagogico, umano, sentimentale, perfino logistico, tra la rivoluzionaria ucraina e l’irrequieto rivoluzionario romagnolo. Una buona metà, se non di più, della narrazione è incentrata infatti sull’incrocio biografico tra il giovanissimo esule in Svizzera, poi direttore dell’Avanti!, quindi leader dell’ala rivoluzionaria del Partito socialista, e la meno giovane ma certamente più dotta Balabanoff che aveva letto moltissimo e parlava almeno cinque lingue. De Felice, sempre attento a frenare pettegolezzi e vulgate, non ha concesso spazio nel suo Mussolini il rivoluzionario alla probabilissima relazione anche erotica tra l’allievo autodidatta e la prolifica maestra ucraina di marxismo, la quale, nella scia delle mode più estremiste dell’epoca, teorizzava e praticava l’amore libero.

Lo stesso De Felice aveva invece messo bene a fuoco, sul piano storiografico, l’incisiva e determinante influenza ideologica esercitata sulla formazione di Mussolini, oltreché dall’onesto Giacinto Menotti Serrati, dall’incalzante Balabanoff, che cercherà di sospingere l’ambizioso pupillo sulla strada di un maggiore approfondimento dottrinario del socialismo. Va detto che, per molti aspetti, l’aristocratica rivoluzionaria era una idealista tanto colta quanto ingenua. Sembrava non accorgersi, forse mentalmente confusa da sentimenti e istinti poco libreschi, che soprattutto Sorel era per Mussolini assai più importante di un Marx già contestato da Bernstein e limato dal grande Kautsky; sembrava non avvertire che le riflessioni sulla violenza, sullo sciopero generale, in una parola il sindacalismo rivoluzionario erano a lui, ideatore del primo fascismo che nasce come tronco deviato dalla sinistra anarchica e massimalista, assai più congeniali del materialismo storico e dialettico predicati dal profeta del Capitale. Non a caso Mussolini aveva ammirato Bakunin e tradotto dal francese qualche pagina di Kropotkin.

Ancora più tardi, negli anni antecedenti la Prima guerra, quando gli farà da spalla nella direzione dell’Avanti! e lo appoggerà nella conquista delle principali leve del Partito socialista, la medesima Balabanoff, alleata ostinata e cieca, stenterà ad afferrare gli scatti della metamorfosi mannara di un Mussolini ormai maturo e sicuro di sé. Non intravederà l’ombra nera di Hyde accovacciata nel grembo del suo caro Jekyll d’estrema sinistra. Non capirà che il demiurgo moderno, narcisistico, di penna perentoria, d’oratoria tonitruante, di gestualità melodrammatica, in scaltra sintonia con l’infantilismo belluino delle masse stava ormai prevaricando e sbeffeggiando l’idealismo ottocentesco di lei educata agli slanci del populismo russo e alle certezze storicistiche del marxismo tedesco.

La «santa atea», come la chiamavano, non riuscirà in definitiva a comprendere che il Mussolini rampante, il Mussolini «milanese» dopo l’esilio svizzero, si era sempre servito di lei come di una comoda facciata massimalista nella lotta per il potere all’interno del socialismo italiano contro la destra riformista e salottiera dei Turati, delle Kuliscioff, dei Treves. Alla vigilia della guerra, allorché l’ultrasocialista si convertirà dal neutralismo all’interventismo e lascerà la guida dell’Avanti! per fondare da un giorno all’altro Il popolo d’Italia, la Balabanoff si sentirà sconvolta e come travolta da un disastro esistenziale. Il primo numero del Popolo uscirà il 15 novembre 1914, qualificandosi per breve tempo «giornale socialista», ma esibendo sotto la testata una citazione napoleonica che sembra già covare in nuce il germe dei futuri Fasci di combattimento: «La rivoluzione è un’idea che ha trovato delle baionette». La rottura con l’ex maestra antimilitarista è netta e definitiva. «Se non l’avessi incontrata», aveva confessato una volta Mussolini, «sarei rimasto un rivoluzionario della domenica». Per lei, invece, il transfuga è ormai il peggio del peggio: è un Grande Giuda, un Caino, un «Traditore» maiuscolo, come dirà il titolo di uno dei suoi libri più noti.

Fra i tanti meriti di questo sfaccettato saggio multibiografico di La Mattina ce n’è uno, in particolare, che attira l’attenzione del lettore: l’aver rivestito di carne viva, con interventi in proprio e citazioni calzanti, le sagome di personaggi che gli storici professionali ci presentano in genere anemici e ingessati. Nelle sue pagine, per esempio, acquista sangue e nervi il fascino misterioso che una donna come la Balabanoff, di sgradevole aspetto, alta un metro e mezzo, riusciva tuttavia a esercitare sui singoli che la frequentavano e sulle folle che ipnotizzate ne ascoltavano l’eloquio travolgente. A spiegare l’enigma basterà la descrizione a chiaroscuri violenti che, dopo la Seconda guerra, ne dava una cinica signora altoborghese che non le fu amica ma rivale, l’ebrea veneziana Margherita Sarfatti, già amante confessa del giovane direttore dell’Avanti! e poi devota biografa del Dux Anni Trenta. «Angelica era persona uterina, di piatta e sudicia bruttezza calmucca e di corpo deforme»; ma al tempo stesso «era una rivoluzionaria meravigliosamente eloquente in sei o sette lingue diverse. Quando parlava, l’anima saliva a divorarle il volto. Non si vedevano più che due occhi accesi da fiamme, sia d’entusiasmo, sia d’indignazione. Non esistevano per lei vie di mezzo». La lucida e pentita Sarfatti, già amareggiata dall’antisemitismo hitleriano del suo Dux, riconosceva infine di essere stata «miope» nel sottovalutare le risorse e il coraggio della Balabanoff.

Chi non la sottovaluta affatto, anzi se ne serve per un paio d’anni come portavoce da Stoccolma e come segretaria tuttofare della Terza Internazionale a Mosca, è il nuovo padrone bolscevico del Cremlino. La violenza impersonale di Lenin al potere dopo l’ottobre del 1917 rappresenterà, dopo la svolta di Mussolini nel 1915, il secondo trauma fallimentare nella vita tempestata di ideali eccessivi e innocenti dell’eterna fuggiasca senzapatria di Cernigov. Lei, socialista adamantina, naïve, lei che paradossalmente aveva praticato con abbandono sacrificale e impolitico gli inferni politici del secolo scorso, non fu in grado, proprio per questo, di percepire fino in fondo la natura dei due protagonisti esemplari della storia novecentesca che aveva tuttavia «visti di vicino». L’esperienza svizzera non l’aveva aiutata. Nell’esagitato Mussolini, in perenne mutazione d’umori e d’intrighi, non aveva percepito nulla del fascista venturo. Così come nell’appartato Lenin, che lei stessa definiva «scialbo e incolore», non aveva avvertito l’embrionale terrorista di Stato che nei primi tempi della rivoluzione bolscevica l’avrebbe affascinata, arruolata nelle sue schiere e cinicamente utilizzata come rispettabile militante del comunismo internazionale. Al comunismo di guerra risponderà, dopo averlo attraversato, con un anticomunismo di ferro che non le sarà mai perdonato.

La maledizione solenne, proferita dalla mamuška all’inizio dei vagabondaggi di Angelica, avrebbe scandito senza remore, di delusione in delusione, la sua esistenza votata alla purezza dell’ideale assoluto. Un ideale di giustizia, di speranza per i «dannati della terra», sempre intralciata da inganni, tradimenti, delazioni, illusioni e disillusioni: costituiscono questi, tutt’insieme, il filo rosso della trama redentrice sapientemente dedicata da Amedeo La Mattina alle mille vite della piccola grande signora del socialismo italiano ed europeo.

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« Risposta #56 inserito:: Marzo 14, 2011, 12:26:00 pm »

14/3/2011 - LA RESISTENZA DEL RAISS

Gheddafi spiazza l'Occidente

ENZO BETTIZA

La riconquista di Brega, porta d’ingresso alla Cirenaica isolata, ultimo caposaldo degli insorti disorganizzati e allo sbaraglio, segna il decisivo punto di svolta a favore delle truppe di Gheddafi nell’avanzata verso la metà secessionista della Libia. Ogni ora che passa accresce sempre più il riconsolidamento del regime repressivo del Colonnello, dei suoi accoliti e soprattutto dei suoi figli addestrati al comando militare e alle pubbliche relazioni. Un’occhiata alla carta geografica basta a darci l’istantanea della situazione. Bengasi, roccaforte dei ribelli, è nel mirino. Dopo la caduta di Ras Lanuf, centro petrolifero da cui i ribelli intendevano lanciare un attacco simbolico contro Sirte, città natale di Gheddafi, soltanto l’intervento unanime della comunità internazionale avrebbe potuto arrestare questa riscossa implacabile del raiss.

Ma l’unanimità non c’è stata, non c’è, ed è azzardato sperare che ci sarà nei prossimi giorni. Lo stesso concetto di «comunità internazionale» si sta rivelando vacuo e quasi sinonimo del nulla di fatto. Quelli che davano per certa o imminente la fine della dittatura libica, a cominciare dal presidente Obama, dovranno rivedere il loro affrettato pronostico e fare i conti, come ai tempi di Miloševic e del Kosovo, con la paralisi dell’Onu e l’inusitata tenuta di potere di un dittatore spietato e caparbio. L’Occidente appare diviso in tre blocchi.

Uno interventista costituito dalla Francia e dalla Gran Bretagna, il secondo più neutralista formato dall’Italia e dalla Germania, il terzo attendista rappresentato dagli Stati Uniti. Le loro posizioni diversificate si elidono a vicenda e il risultato finale, che abbiamo sotto gli occhi, è la mancanza di un’azione salvifica nei confronti dei rivoltosi e bellica contro i blindati e i cacciabombardieri di Tripoli. Si prenda a esempio la questione, certo delicata, della «no fly zone» che, attuata sul serio, comporterebbe vere azioni di guerra e quindi di protezione del governo provvisorio di Bengasi: attacchi dal cielo e dal mare agli arsenali, ai porti, alle caserme, alle piste di decollo in mano ai soldati del regime. Tantissimi politici e strateghi occidentali ne parlano quotidianamente, ma nessuno finora ha agito, nessuno dà l’impressione di voler agire davvero.

All’inerzia oratoria dell’Occidente si sommano, giustificandola, le solite e ormai storiche fibrillazioni di cui danno spettacolo le Nazioni Unite durante le crisi planetarie. Scomuniche, minaccia di sanzioni, embarghi, ingerenze umanitarie. Stati Uniti, gran parte dell’Unione europea, Germania in testa, s’appellano di continuo, come ai tempi della crisi jugoslava, al salvacondotto internazionale dell’Onu quale giustificativo per operazioni d’intervento concreto in Libia. Ma si tratta di comoda finzione diplomatica. Tutti sanno benissimo che il problema della «no fly zone», quando e se sarà portato al Consiglio di sicurezza - quello dei cinque, il solo che conta - verrà con ogni probabilità bocciato dai veti o aggirato dai sofismi della Cina e della Russia. L’una e l’altra tifano per la controffensiva lealista e si direbbe non vedano l’ora di usurpare il posto, per esempio, dell’Italia nei grandi commerci petroliferi con una Tripoli vittoriosa.

Già il figlio più politicizzato del raiss, Saìf al Islam, in una recente intervista al «Corriere della Sera» ha evocato la possibilità di un’opzione energetica in favore dei cinesi, minacciando gravi ritorsioni contro governanti e investitori italiani accusati di «tradimento» e «complicità con i terroristi cirenaici». Minacce mirate che, assieme a quella di sommergere la Penisola con migliaia di fuggiaschi africani, non si dovrebbero prendere tanto alla leggera. Un Muammar Gheddafi condannato come criminale in Occidente ma inaspettatamente resuscitato, grazie ai veti di Pechino e di Mosca, alla sommità di tonnellate d’oro nero porrà grossi e tremendi quesiti all’Italia e all’Europa nel suo insieme. Come ha scritto sul «Foglio» Carlo Panella, correremo il rischio di avere alle porte di casa uno «Stato pirata» governato da «un imprenditore del terrorismo».

Si capisce meglio, anche se duole capirlo, la prudenza con cui i governi di Roma e di Berlino hanno cercato di trattare, fin dall’inizio, una crisi che non definirei «rivoluzionaria» ma, piuttosto, un condensato spontaneo di collere tribali contro una tirannide tribale e personale insieme. Il tutto, com’era in parte prevedibile, non poteva che insabbiarsi in una rivolta disperata e abbandonata a se stessa. Una rivolta non ad armi pari. Il clan di potere che, aggredito, sembrava destinato al collasso corre invece armatissimo verso Bengasi e Tobruk alla riconquista del tempo e dello spazio perduto. Nelle prossime ore comprenderemo se i giochi resteranno aperti o se si sono già chiusi.

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« Risposta #57 inserito:: Aprile 11, 2011, 08:45:34 pm »

11/4/2011

Se prevale l'egoismo dei più forti

ENZO BETTIZA

Oggi al concilio di Lussemburgo dei 27 ministri europei dell’Interno, l’Italia, rappresentata da Roberto Maroni, farà la figura dell’accusatrice o dell’accusata? Sulla lettura più o meno estensiva degli accordi di Schengen il concilio darà ragione a Roma, oppure subirà e approverà l’interpretazione restrittiva della potente diarchia di Parigi e Berlino sostenuta dal satellite di Londra? È probabile che avranno la meglio le tesi, sostanzialmente egoistiche e antieuropee, dei francesi e dei tedeschi. Lo fa già immaginare la lettera inviata a Maroni dalla commissaria europea Cecilia Malmström, in cui si sostiene che il discusso decreto del governo italiano «non fa scattare automaticamente la libera circolazione dei migranti nei territori comunitari». Quindi è altrettanto probabile che nella grande crisi mediterranea, che vede la Libia esposta ad una guerra mal congegnata e l’Italia aperta all’invasione selvaggia di migliaia di tunisini, etiopi, somali, eritrei, toccherà alla Penisola la parte della vittima e del principale capro espiatorio occidentale.

Il mito delle «primavere arabe», che nella Libia in stallo di guerriglia cronica ha il suo nodo più soffocante, è stato confiscato a giustificazione dell’intervento armato franco-britannico e ne ha rivelato subito, fin dall’inizio, la natura disastrosa. L’alba dell’«Odyssey Dawn» è già al crepuscolo. L’imposizione di una «no fly zone» contro gli eserciti di Gheddafi, legittimata moralmente dall’Onu, si è purtroppo risolta in una serie di bombardamenti aerei disordinati, privi di coordinamento e di coerenza sul piano strategico e nella struttura delle alleanze. L’immagine degli occidentali nel loro insieme ne è uscita danneggiata.

Si è avuta l’impressione che, in seguito al colpo di testa del presidente Sarkozy, pressato da tensioni elettoralistiche sul piano interno, tutte le maggiori istituzioni politiche e militari dell’Occidente, la Nato, l’Unione europea, l’alleanza storica fra europei e americani, siano entrate in una sorta di panne semianarchica. La Gran Bretagna si è agganciata per prima all’azione francese, come ai tempi di Suez nel 1956; i canadesi si sono mossi di malavoglia, mentre la Germania deplorava e si tirava indietro. Ognuno ha preso a bombardare per conto proprio le poco visibili e mimetiche truppe di Gheddafi, colpendo qua e là, per eccesso di «fuoco amico», gli stessi ribelli che l’intervento avrebbe dovuto aiutare e proteggere.

La Casa Bianca di Obama, non ascoltando il saggio parere contrario del Pentagono di Robert Gates, ha fatto una magra figura. Gli americani, in obbedienza plateale alla risoluzione Onu, hanno sparato un paio di missili, dopodiché, pentendosi, hanno ritirato i novanta jet da combattimento destinati alle operazioni sulla Libia. La Nato ha allora tentato di riprendere in mano il filo della matassa imbrogliata dai francesi, imponendo tardivamente ai belligeranti europei e canadesi un minimo di coordinamento almeno formale; ma oramai senza traino americano la Nato non poteva avere, come infatti non ha, che un peso assai relativo.

La politica del governo italiano, completamente privata della solidarietà europea e in particolare francese, ha fatto quello che poteva fare in un quadro che vede complessivamente l’Italia in difficoltà delinearsi come l’unica perdente europea: dagli accordi petroliferi in crisi, stipulati con una Libia che non c’è più, all’immane problema dei migranti africani che Maroni porrà oggi, speriamo con la chiarezza di sempre, sul tavolo delle discussioni a Lussemburgo. Pur non osteggiando, per spirito di lealtà, le vane azioni della Nato, Roma ha rifiutato di partecipare ai bombardamenti, ha riconosciuto il provvisorio comitato governativo di Bengasi, ha mantenuto tuttavia aperta una porta al dialogo con i lealisti di Tripoli. La possibilità di un compromesso è difatti più che mai nell’aria. Da un lato, come si vede nel tira e molla fra Misurata e Brega, abbiamo lo stallo sul terreno tra gli insorti, disordinatamente guidati, e gli organizzati e meglio addestrati fedeli di Gheddafi; dall’altro abbiamo lo scacco strisciante dell’intervento militare, già rallentato, già disertato dagli Stati Uniti, già criticato per la sua inefficienza e i suoi errori dagli stessi rivoltosi libici. La situazione potrebbe sbloccarsi sfociando sia in un’uscita di scena negoziata del Colonnello e dei suoi figli, sia nei preparativi di una spartizione della vecchia Libia in due nuovi Stati: la Cirenaica ad Est, la Tripolitania ad Ovest.

Comunque vadano a finire le cose, la storia non potrà non ricordare la pessima riuscita dell’intervento neocolonialista in Libia, ammantata dalla fraseologia del Tigellino buonista dell’Eliseo, Bernard-Henri Lévy, gran stimolatore in ogni senso di «bombe umanitarie». Già il precedente intervento franco-britannico a Suez nel 1956 era stato controproducente, rafforzando il panarabista Nasser, fornendo a Kruscev un ottimo alibi per stroncare in parallelo con le armi la rivoluzione ungherese e favorendo in sostanza l’insediamento sovietico nel Medio Oriente. Limitò l’entità dei danni il drastico alt imposto a Parigi e a Londra dal presidente Eisenhower. Obama ha fatto l’opposto: è intervenuto, si è ritirato, non ha fiatato. Sul piatto politico dei «danni collaterali» potremmo mettere il relativo rafforzamento del Gheddafi che si voleva abbattere e il sicuro indebolimento dei rivoltosi che si voleva appoggiare. Ma chi presenterà mai il conto a Sarkozy?

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« Risposta #58 inserito:: Aprile 19, 2011, 06:38:56 pm »

19/4/2011 - DOPO IL VOTO IN FINLANDIA

L'ora della verità per l'Europa

ENZO BETTIZA

L’ultimo colpo alla botte sempre più vuota dell’Unione europea lo ha sferrato la Finlandia, con un risultato elettorale non solo esiziale in sé, ma anche spia paradigmatica della brutta aria che tira su quasi tutti i Paesi comunitari.

I «Veri Finlandesi» dell’euroscettico e nazionalpopulista Timo Soini sono stati i veri trionfatori di una gara che, in convenzionali e vaghi termini statistici, li mette al «terzo posto». Ma se analizziamo più da vicino il risultato, vediamo che la sostanza politica della classifica è quanto mai opinabile. L’impressionante marea di voti ha posto in realtà il partito dell’antieuropeista Soini quasi al secondo posto e non lontano dal primo, con un 19,6 per cento contro il 19,8 dei socialdemocratici e forse il 20 dei conservatori: ai quali, dopo il tracollo del partito centrista della premier uscente Kiviniemi, spetterà l’onere spinoso di formare la nuova coalizione di governo.

Ma non basta. I dati del recente passato ci dicono che il trionfo di Soini è stato altrettanto schiacciante quanto imprevedibile. Il suo partito xenofobo ha spiccato infatti un balzo gigantesco dallo scarno 4 per cento del 2007, quintuplicando i seggi da 6 a 38, mentre i conservatori con la loro vittoria di Pirro ne perdono 6 e i socialdemocratici 2.

È possibile quindi che i «Veri Finlandesi» possano entrare nella futura coalizione, ottenendo qualche ministero pesante nei settori dell’economia e dell’immigrazione. Però, se ne restassero esclusi, la loro prepotenza anche numerica dai banchi d’opposizione si farebbe sentire comunque su uno dei nodi più delicati della politica europea del prossimo governo di Helsinki: il salvataggio finanziario del Portogallo, che richiede l’unanimità dei 17 membri dell’Eurozona, e già da tempo suscita il crescente malumore della maggioranza dei finlandesi. «Quale Portogallo?», obietta Soini. «Si è già visto che il pacchetto di aiuti alla Grecia e all’Irlanda non ha funzionato».

Se poi spostiamo lo sguardo su altri territori scandinavi e dell’Europa nordica, che sta diventando sempre più nordista, ci accorgiamo che la musica non cambia e anzi si fa più minacciosa. In Svezia, i cosiddetti «democratici», che rappresentano l’estrema destra, sono riusciti lo scorso settembre a entrare per la prima volta nella Camera dei deputati superando la soglia di sbarramento; un partito analogo è presente nel parlamento danese; in Olanda gli ultranazionalisti di Geert Wilders, nonostante la campagna ostile all’aiuto ai Paesi europei in bancarotta, sono stati accettati come forza di sostegno dal governo di minoranza; in Belgio il populismo regionalista di Bart De Wewer paralizza da circa dodici mesi la formazione di un nuovo esecutivo. Un anno senza governo: caso limite fra le democrazie europee.

Che dire inoltre dell’affondamento di tutte le regole antidoganali di Schengen, voluto e imposto dalla Francia all’Italia, con colpi bassi di polizia intesi a impedire l’arrivo da Ventimiglia o da Bardonecchia di migranti tunisini di lingua francese? Forse non ci si rende del tutto conto che si tratta di un affondamento delle stesse basi di libertà e di convivenza civile su cui, dai tempi della Ceca, ormai leggendari, avevamo cercato di creare un continente transnazionale che oggi chiamiamo Unione Europea con parole vuote e fatti che la contraddicono alla radice. Oggi la linea storta di Sarkozy in crisi elettorale, incalzato da Marine Le Pen in testa ai sondaggi per il primo turno delle presidenziali 2012, non appare altro che una replica esasperata e isolazionista della politica della «sedia vuota» di De Gaulle. Non ritroviamo qualcosa del Generale che abbandonò la Nato, che sognò un’Antieuropa carolingia, nel modo con cui il suo ultimo erede si è lanciato quasi da solo, o malamente scortato, nella guerra calda in Libia e nella guerra fredda con l’Italia? Non sappiamo ancora se tutto questo basterà a Sarkozy per soffocare il canto della sirena Marine, la quale, per batterlo in curva, promette ai moltissimi francesi che la ascoltano addirittura un referendum sull’uscita dall’Unione europea. Di certo sappiamo che Sarkozy sta già rispondendo alla rivale con le sue personalissime e implicite azioni poco europee, per non dire antieuropee. Un grande e sincero europeista come Robert Schuman, autore del «piano S» da cui nacque la Ceca, si rivolterà nella tomba.

La verità amara è che nulla, purtroppo quasi nulla, dell’Europa immaginata dai «padri fondatori» alla Schuman ha attecchito in profondità. L’Europa ha sempre affossato gli strumenti che avrebbero potuto darle il prestigio e la forza di competere con le maggiori potenze del mondo. Ha bocciato l’idea di un esercito comune, di una politica estera comune, di un vero presidente eletto e riconosciuto da tutti gli europei. Non è andata al di là dell’euro, dando al presidente della Banca Centrale di Francoforte quasi la supplenza di un capo di Stato; ma ora, con l’euro pure in crisi, si vede che da Francoforte potevano e possono partire solo impulsi per salvare banche e banchieri, ma assai meno i cittadini impoveriti di Atene, di Dublino, di Lisbona. Meno ancora per fronteggiare le sfide delle potenze emergenti o già emerse da secoli come la Cina, la Russia, gli Stati Uniti.

Si direbbe che l’attuale Europa divisa, autolesionista, acefala, dove è di moda celebrare in primissimo luogo il glorioso passato nazionale, sia giunta al momento della verità: andare avanti, o indietreggiare e sfasciare quel poco che s’è fatto? La cosa peggiore sarebbe, in ogni caso, che tutti quanti gli europei diventassero prima o poi «veri finlandesi».

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« Risposta #59 inserito:: Maggio 16, 2011, 11:25:14 am »

16/5/2011 - CONTRO LA CRISI DELL'UE

La seconda rifondazione dell'Europa

ENZO BETTIZA

Il «secondo miracolo tedesco», come già lo chiamano, si staglia in tutta la sua potenza e solitaria ambiguità sullo sfondo di un’Europa sempre più disunita e attratta da una sorta di magniloquente cupio dissolvi. Mentre la Germania celebra i suoi trionfi economici e sociali - crescita del 5 per cento su base annua, due volte più dell’America, salari e domanda in salita, disoccupazione in calo, rilancio della produzione automobilistica, fortissimo incremento dell’export con la Cina - vediamo altri smarriti Paesi dell’Unione sferrare un colpo dopo l’altro contro i pilastri della costruzione comunitaria: contro le regole di Maastricht, la stabilità dell’euro, la solidarietà con i soci periferici, soprattutto Grecia e Portogallo, che languono in sala rianimazione senza sapere ancora se li aspetta la rinascita o l’eutanasia.

Sull’onda dei movimenti euronegazionisti di estrema destra, onda che si diceva lunga ed è oggi veloce e corta, si sbaraccano con picconate gli accordi di Schengen. Erano accordi, fra l’altro, di profondo valore simbolico. Avrebbero dovuto rappresentare, con la libera circolazione dei beni e delle persone, un continente alfine rappacificato con la propria storia. Senza dogane, senza dazi, garitte, guardie di frontiera; in una parola, senza linee Maginot e Sigfrido.

Tutto è iniziato con la giusta decisione dell’Italia, coinvolta nell’infinita guerra libica voluta dalla Francia, di concedere un permesso di soggiorno europeo a ventimila migranti tunisini. Il grazie dei francesi, nonché dei loro accoliti belgi e danesi, premurosamente sostenuti dalla Commissione di Bruxelles, è stata la scorretta demolizione dei codici di Schengen. Nel blocco di Ventimiglia è risorto qualcosa che riporta alla memoria lo spirito isolazionista della Maginot mai sopito nei ministeri pesanti di Parigi. Sarà istruttivo anche ricordare che la «guerra umanitaria» in Libia, da cui si è dissociata la Germania non più carolingia, è stata lanciata da un Sarkozy il quale cercava, a suo tempo, di vendere a Gheddafi gli stessi aerei Rafale che oggi bombardano le casematte del Colonnello in Tripolitania.

Le reazioni a catena, innescate dagli eventi nordafricani con rivolte indecifrabili e invasioni di massa inarrestabili, stanno di fatto portando alla chiusura dell’Europa senza frontiere. I populisti antieuropei francesi, fiamminghi, olandesi, danesi, finlandesi, svedesi incalzano e ricattano i rispettivi governi moderati, spaventati dall’ombra di cupe ghigliottine elettorali. Basti pensare all’immagine che dell’Europa dà al mondo l’Ungheria che, da gennaio, ne rappresenta la presidenza. Da Budapest la voce dell’autoritario premier Victor Orbàn, presidente di turno, ha annunciato inequivocabilmente: «Noi non crediamo nell’Unione Europea, crediamo nell’Ungheria. Il nostro lavoro nell’Unione varrà soltanto se l’Ungheria ne trarrà un tornaconto».

Dubito che la Germania arricchita, che pure ha tratto tanti benefici dall’integrazione europea, voglia o possa fare da locomotiva salvifica di un’Unione che fa acqua da ogni parte: che compie ogni giorno un salto all’indietro, verso il passato degli Stati-nazione, piuttosto che verso il declamato futuro di una Confederazione transnazionale. La locomotiva è a suo modo timida, incerta, priva di un’incisiva bussola continentale, e preferisce scorrere sui binari sicuri del commercio estero più che affrontare i marosi della politica estera. Le bastano per ora come alleati e seguaci i polacchi, con crescita al 4 per cento prossima a quella di Berlino, poi i lituani, gli estoni, i lettoni, i cechi e gli slovacchi. Insomma un «Sonderweg», o «cammino speciale», che in termini aggiornati e non aggressivi potrebbe evocare quello del Reich prussificato da Bismarck. La cautissima cancelliera Merkel, che in Germania è ritenuta un primus inter pares, viene invece considerata come un’imperatrice nei Paesi dell’Est: pacifica e facoltosa sovrana di un rinnovato «Drang nach Osten», la corsa all’Oriente. Oggi si usa dire che esiste un’Europa a quattro velocità. Forse sarebbe più esatto specificare a ventisette. Un bel numero, idoneo a segnalare qualcosa di troppo, che rischia di paralizzarsi e soccombere per eccesso di frazionamento. La verità è che l’Europa che conosciamo ed esaltiamo a parole da mezzo secolo, l’Europa che proviene dalla Ceca di Schuman e Adenauer, poi da Roma con De Gasperi e Martino, poi da Maastricht, infine da Lisbona, non funziona più. Ormai s’avverte che una sua fase lunga e travagliata è finita sull’orlo dell’autodissolvimento. Nelle più ambiziose edificazioni storiche le ombre purtroppo fanno parte integrante dello spartito.

Superarle, dissolverle come? Accettando passivamente un anacronistico ritorno al vecchiume del passato? Oppure cessare di contemplare e di contare ipnotizzati i grandi numeri del miracolo tedesco, e cominciare a pensare a un secondo miracolo europeo: oramai, chi ha occhi per vedere non vedrà altra via d’uscita se non quella di una seconda rifondazione dell’Unione Europea, dopo l’inevitabile e forse imminente estinzione della prima. Magari invertendo le piste di decollo e partendo non più dall’economia ma soprattutto dalla politica.

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