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Autore Discussione: ENZO BETTIZA  (Letto 56838 volte)
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« Risposta #15 inserito:: Gennaio 05, 2009, 10:49:38 am »

5/1/2009
 
L'Europa sbandata
 
ENZO BETTIZA
 
Sembra di essere tornati ai tempi dell’infinita crisi bellica nella ex Jugoslavia quando l’Onu non sapeva che fare, la Francia appoggiava i serbi, la Germania i croati, l’Italia navigava fra gli uni e gli altri e l’Unione Europea, nel complesso disunita, restava in attesa delle decisioni americane per sintonizzare le proprie bussole discordi sulla bussola maestra di Washington. Oggi, al cospetto di Gaza in fiamme, il Consiglio di sicurezza non riesce a produrre una risoluzione comune sulla guerra in corso, mentre l’Europa, in attesa del verbo di Obama, torna ad esibire lo spettacolo di un’entità sbandata in preda alla schizofrenia. Ancora una volta Francia e Germania si ritrovano su posizioni nettamente contrapposte: il presidente Sarkozy condanna con dura chiarezza l’offensiva terrestre di Israele, riservando in coda qualche critica formale a Hamas, nello stesso momento in cui la cancelliera Merkel ribadisce il diritto degli israeliani di difendersi dallo stillicidio di missili.

Peraltro missili non più così artigianali, lanciati da Hamas fino all’antica Beersheva, annidata nel deserto di Negev.
Possiamo notare poi una sequela di altri paradossi degni di nota. Il primo è il più impressionante. Sarkozy, fino a pochi giorni fa presidente semestrale europeo, è stato immediatamente smentito dal suo successore ai vertici dell’Ue, il presidente ceco Vaclav Klaus, che per bocca di un portavoce ha voluto definire «difensivo» e non «offensivo» l’attacco israeliano. Si è di nuovo profilata così, come nei giorni delle guerre jugoslave e più ancora della guerra in Iraq, una spaccatura tra le posizioni francesi e quelle di un Paese importante dell’Est filoamericano e, di conseguenza, anche filoisraeliano. Non a caso i giornali parigini, per sminuire il peso della Repubblica ceca alla guida dell’Unione, stanno sottolineando con insinuanti accenti negativi il notorio euroscetticismo di Klaus.

Il secondo paradosso è anche il più contraddittorio. In queste ore vediamo due separate missioni europee, una francese guidata da Sarkozy, l’altra dal ceco Karel Schwarzenberg, programmate entrambe a incontrare e discutere con gli stessi interlocutori mediorientali; ma il ministro degli Esteri francese, Bernard Kouschner, membro della delegazione di Bruxelles e non di Parigi, quale linea è destinato a seguire? Quella del suo presidente Sarkozy, oppure quella del collega e ministro degli Esteri praghese Schwarzenberg? Non s’era ancora vista la diplomazia europea, affidata perlopiù alle parole riluttanti e convenzionali di Javier Solana, irretita in un simile pasticcio di contrapposizioni, diversità di giudizio, proposte disarmoniche, che nell’insieme conferiscono all’orchestra europea uno stridente timbro cacofonico.

Il terzo paradosso è costituito dalle oscillazioni amatoriali italiane. Da un lato vediamo il ministro degli Esteri, consapevole degli scenari mutati rispetto all’epoca di Andreotti, indicare la strada giusta puntando il dito sulle pesanti «responsabilità» terroristiche di Hamas; dall’altro lato, però, lo abbiamo visto incespicare, chissà come e perché, nell’annuncio errato e frettoloso che non vi sarebbero state operazioni terrestri da parte israeliana. Non sarebbe stato invece più giusto tacere, poche ore prima dell’attacco, senza sminuire con una previsione infondata la severità di giudizio espressa sulla rottura della tregua e il rilancio missilistico di Hamas?

Quanto all’opposizione, impegnata soprattutto a polemizzare con la politica estera del governo, non si capisce bene se essa intenda concedere a Israele il diritto all’autodifesa o suggerirgli il dovere di «dialogare» con chi per principio rifiuta ogni dialogo con l’ebreo satanico. Tutto ciò, proprio nel momento in cui l’Italia, la Francia, la Germania, la Repubblica ceca, l’Europa insomma, avrebbero più che mai bisogno di intervenire con una strategia concorde nella crisi, piena d’insidie, che sta esplodendo a un passo dalle porte di casa.

Peccato. Mai come in questo momento s’era intravista, sia pure per qualche attimo, la possibilità di una correzione d’opinione e di linea da parte europea su quella che seguitiamo dal 27 dicembre a chiamare guerra. Ma non è guerra vera, tra Stati sovrani. È una drastica e violentissima operazione di gendarmeria di un Paese minacciato di sterminio da una setta che ha giurato di estirparlo dalla faccia della Terra. Finora è sopravvissuta, fra stragi, autobombe, lanci di razzi, aiutata dai servizi siriani e dagli ayatollah iraniani. Non si sa fino a quando l’operazione, che sta provocando troppe vittime e troppo dolore, potrà durare. L’Europa, che con le sue divisioni mostra di non volerlo sapere, forse non potrà fare altro che aspettare il verbo ancora ignoto del prossimo presidente americano.

da lastampa.it
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« Risposta #16 inserito:: Febbraio 13, 2009, 10:52:14 am »

13/2/2009
 
L'Occidente e la bomba Af-Pak
 
ENZO BETTIZA
 

Nello stesso momento in cui l’America e la comunità occidentale stanno riguadagnando un Iraq placato, in mano a un governo credibile e ogni giorno più solido, vediamo profilarsi l’incubo di una perdita secca dell’Afghanistan. Non ha avuto bisogno di attendere una conferma l’allarme rosso, appena lanciato all’Occidente da Richard Holbrooke e dal generale Petraeus, già artefice del positivo «surge» iracheno, oggi massimo responsabile militare della svolta programmata d’urgenza da Barack Obama per salvare dal naufragio l’Afghanistan.

Quello che è avvenuto l’altroieri nel centro di Kabul, a un passo dal palazzo presidenziale di Hamid Karzai, è davvero senza precedenti. Non s’era visto un simile attacco terroristico nemmeno ai giorni dei più sanguinosi attentati jihadisti a Baghdad. Il commando dei sedici kamikaze talebani, armati fino ai denti, tutti imbottiti d’esplosivo, ha scatenato, in pochi minuti, una battaglia nel cuore di uno Stato ormai in balia d’una guerra più che di una guerriglia brigantesca. Una guerra vera, d’ampia portata regionale, che ha le sue infrastrutture organizzative nel Paese che lo stesso Obama definisce «il più pericoloso del mondo»: il vicino Pakistan atomico il quale, in molti valichi, non ha confini e si confonde e prolunga, con basi terroristiche ed etnie consimili, nei territori orientali dell’Afghanistan.

Un unico teatro in fiamme ribattezzato «Af-Pak» da Holbrooke, il superdiplomatico di Clinton e di Obama, promotore nel 1995 degli accordi interjugoslavi di Dayton, oggi a Kabul dopo un sopralluogo non casuale a Islamabad. L’eccidio istantaneo e i bersagli istituzionali colpiti dal blitz talebano - Giustizia, Carceri, Istruzione, sparatorie nel mucchio, suicidi devastanti, 27 morti, una cinquantina di feriti gravi - sono certo impressionanti di per sé. Ma ancora più impressionanti sono l’esecuzione premeditata e lo stile con cui sono stati compiuti, dai tratti più pachistani che arabi, nonché il significato simbolico e il monito strategico cui hanno voluto alludere alla vigilia dell’arrivo di Holbrooke. La tecnica dell’assalto a ventaglio, improvviso, massiccio, integrale, mirato alla devastazione del cervello politico di una capitale, è stata difatti simile a quella messa in atto a novembre contro Mumbai da una flottiglia organizzatissima di fondamentalisti pachistani.

L’ombra dei «martiri» di Al Qaeda si è qui combinata, alle spalle dei talebani del mullah Omar, con le trame dei servizi deviati del Pakistan denunciate e poi minuziosamente documentate dal governo indiano. Nel contempo l’allusione simbolica e strategica dell’operazione è stata chiara: il re di Kabul, l’inefficiente Karzai, è ormai nudo e a tiro di schioppo nonostante la presenza di 70 mila soldati stranieri che dovrebbero proteggerlo. La guerra del 2001, fanno capire i talebani, è stata vinta in apparenza per un attimo dagli americani, ma si è poi trasformata nella guerra dei 7 anni che i risorti ribelli, protetti da Allah, stanno ora vincendo contro gli americani e i loro collaborazionisti indigeni. Kabul, capitale momentanea di uno Stato fantoccio allo sbaraglio, risparmiata per qualche tempo, non lo è più come dimostrano gli attacchi islamisti sempre più frequenti e audaci. Il loro culmine, preannunciante la fine del nemico, è stato raggiunto nella battaglia dell’11 febbraio, il primo avvertimento serio, in grande stile, che noi jihadisti vittoriosi abbiamo lanciato al presidente degli Stati Uniti.

Il paradosso in tutto questo è che gli americani, in particolare i maggiori esponenti della nuova amministrazione, pensano quasi le stesse cose che i telebani annunciano coi loro atti di guerra e le loro dichiarazioni mediatiche. Per l’intelligente Holbrooke, specializzato com’è in conflitti regionali, il confronto con gli «insorgenti» in Afghanistan sarà «molto più duro che con i terroristi in Iraq». Per il lungimirante Petraeus sarà molto più esteso e sarà «la prova del fuoco per la stessa sopravvivenza della Nato». Per Obama, in faticoso rodaggio, è fin d’ora il problema prioritario della politica estera americana.

Il cambio di strategia, che il neopresidente e i suoi consiglieri stanno mettendo a punto, prevede un raddoppio dei contingenti statunitensi e un maggiore impegno in uomini e finanziamenti da parte degli europei impegnati sul campo. Obama l’ha già fatto capire per telefono a Berlusconi e lo ribadirà con forza, a tutti gli alleati, nel corso del decisivo vertice Nato che si terrà il 3 aprile a Strasburgo. Non solo. Ha lasciato chiaramente intendere che al mutamento della strategia militare dovrà coniugarsi, anche, un mutamento altrettanto radicale della strategia politica nei confronti dell’Afghanistan. Cioè, innanzi tutto, nei confronti del capo del vacillante Stato afghano. Il quale, una volta di più, ha perduto faccia e immagine a causa dell’assalto imprevisto e quindi tanto più incontenibile del commando ai palazzi governativi di Kabul.

Karzai, infatti, non gode più presso l’équipe di Obama, influenzata dal giudizio negativo di Holbrooke e del vicepresidente Joe Biden, del sostegno paternalistico che gli dava l’amico Bush. Lo ritengono un’anatra più morta che zoppa. Politicamente ambiguo, operativamente inefficace, moralmente succubo se non complice della corruzione dilagante. Sperano e, con ogni probabilità, cercheranno di promuovere un cambio di guardia puntando sulle elezioni presidenziali d’agosto. Cercheranno inoltre di negoziare, come ha fatto Petraeus in Iraq, accordi o compromessi con i capitribù feudali spesso legati, per interesse e traffici illeciti, ai guerriglieri islamici. Tenteranno infine, mediante investimenti e opere pubbliche, di bonificare l’economia disastrata e corrotta, incentrata soprattutto sulla monocoltura del papavero che produce oppio per molti e danaro per pochi.

In sostanza l’Afghanistan nell’incendio odierno è qualcosa di molto più di un’isolata ancorché dirompente questione afghana. Qualcosa che alla memoria collettiva degli americani riporta una rinnovata «sindrome Vietnam». Ne vanno di mezzo il successo o lo scacco della politica internazionale di Barack Obama, i rapporti con gli alleati del Patto atlantico, il miglioramento delle relazioni con la Francia, la concordanza diplomatica e logistica con Mosca nella lotta al terrorismo, la tenuta sotto controllo dell’atomica pachistana e quella potenziale dell’Iran. Mai si sarebbe immaginato che il fallimento della pax americana in Afghanistan avrebbe suscitato un tale puzzle di subordinate che però, tutt’insieme, concorrono alla durata della pace planetaria. E che concernono, più di quanto si pensi, il legame dell’Italia con l’America di Obama e l’impegno militare italiano in quella piaga (meglio così che plaga) lontana, solo in termini geografici, dall’Occidente non solo americano.
 
da lastampa.it
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« Risposta #17 inserito:: Febbraio 25, 2009, 09:57:35 am »

25/2/2009
 
Razzisti con i romeni?
 

ENZO BETTIZA
 

Secondo il presidente del Senato di Bucarest, Mircea Geoana, gli italiani sarebbero affetti da una vera e propria «romenofobia», cioè da xenofobia e razzismo ormai a senso unico: tutto diretto contro gli immigrati provenienti, con passaporto comunitario europeo, dal più popoloso dei Paesi balcanici.

L’obiezione ci sembra alquanto stonata, al limite offensiva, dopo le equilibrate e anche severe dichiarazioni congiunte fatte l’altroieri dal ministro degli Esteri Franco Frattini e dal suo omologo romeno Cristian Diaconescu. Il fatto che l’altroieri i due ministri abbiano deciso di affrontare pubblicamente insieme, a Roma, uno a fianco dell’altro, la più perniciosa piaga immigratoria di cui da un paio d’anni soffre l’Italia, dimostra per se stesso che né i governanti italiani né tanto meno quelli romeni possono più ignorare un problema divenuto ossessivo e, per tanti aspetti, spaventoso: lo stillicidio ininterrotto di crimini con stupro e ferocia spesso mortale perpetrati da cittadini romeni, crimini che, dopo lo scempio della signora Reggiani, sono purtroppo continuati senza esclusione di colpi e di scelta: coppie di fidanzati inermi, ragazze quattordicenni, ottuagenarie disabili.

Inutile nascondersi dietro un dito o alzarlo per accusare di xenofobia indiscriminata l’ospite, ovvero la società italiana e le sue istituzioni, che semmai dovrebbero venire rimproverate di eccessiva tolleranza legale e umanitaria. Basta un paragone. La Francia, che pure ha avuto il vantaggio di ospitare per decenni emeriti intellettuali e scienziati romeni nei suoi laboratori, nelle grandi università, nei migliori teatri parigini, nelle più prestigiose case editrici.

Ebbene, questa Francia, che ha saputo vivere per lunghi decenni in simbiosi linguistica e culturale con Ionesco, Mircea Eliade, Émile Cioran, non ha esitato a espellere soltanto nel 2008 oltre 7000 indesiderabili romeni. Nel corso dello stesso anno l’Italia ne ha espulsi circa 40, a titolo più che altro simbolico, perché macchiatisi di atti illegali visibili e spesso recidivi.

Quale xenofobia dunque? Chi scrive ha sempre cercato di nominare rispettosamente nei suoi articoli il romeno con la «o» e mai con la «u» inserita da tanti colleghi con sprezzo più o meno consapevole nella parola «rumeno». Ero io stesso un esule dell’Est adriatico, e ne sapevo qualcosa degli scafisti d’arrembaggio che nel primo dopoguerra traghettavano a prezzo salato, a prezzo di fuga, ebrei sopravvissuti e profughi detti «giuliani» verso le coste povere e non sempre accoglienti di un’Italia in ginocchio dopo la sconfitta. Tuttavia, pur consci di essere gettati dalla malasorte allo sbaraglio, si cercava di comprendere che anche la miseria e l’angoscia degli ospiti peninsulari, compatrioti simili e dissimili da noi, erano in quegli anni per tanti aspetti vicine alle nostre miserie e alle nostre angosce: cercavamo di non offendere, non pretendere l’impossibile, non soppesare e commisurare col bilancino le diversità nella disgrazia, cercando d’amalgamarci e adattarci con discrezione e lavori umili al poco che la seconda patria poteva allora offrirci.

Si dirà, altri tempi. Altri, risponderò, peggiori, durissimi per l’ospite e per l’ospitato, nei quali l’incertezza del domani avrebbe potuto fomentare facili istinti di scontro e di rapina e di violenza astratta. Il che, a memoria mia, non accadde quasi mai. Al contrario d’allora, oggi l’immigrato corretto, non solo comunitario, può trovare in Italia protezione sindacale, assistenza sanitaria, contratti di lavoro, tredicesime pagate, in un ambiente che nonostante la crisi è tuttora ricco e, nell’insieme, solidale per legge e per animo rispetto alla sua nullatenenza originaria. Quello che riesce più difficile da capire è come i fuochi fatui di un benessere non solo materiale, ma rotocalcato dalle televisioni, dalla densità animata e fumosa delle metropoli, hanno potuto scatenare nelle successive ondate migratorie dai Paesi europei ex comunisti (assai più che da quelli islamici) brame e pretese di possesso immediato, totale, di carne e di danaro, che evocano tempi di guerra più che di pace: le donne di Berlino o di Belgrado assaltate dai soldati russi, le terre bruciate dai tedeschi in fuga dalle nazioni occupate, le bravate crudeli e le sevizie inferte dai servizi segreti francesi in Algeria, da ultimo, dopo le foibe, le orrende e infamanti pulizie etniche interjugoslave in Bosnia, in Croazia, in Kosovo.

È tutto questo che sembra ritornare e noi sembriamo riscoprire nelle spietate scorribande e nei delitti efferati di una fascia di criminali e spostati balcanici. Certo, come ci dicono, essi rappresentano l’uno per cento su una comunità che conta un milione e che nella sua stragrande maggioranza è composta di persone oneste e operose. Ma quell’uno per cento, censito su un milione, raggiunge su per giù la cifra non indifferente di diecimila individui, prossima a quella rinviata drasticamente da Sarkozy al loro Paese. Si tratta quasi sempre di individui instabili, ubiqui, spesso clandestini, dediti allo spaccio di donne e di droga, fuggiti dalla Romania per malefatte impunite, giunti dal profondo del postcomunismo ceauceschiano, taluni già espulsi più volte dall’Italia e poi ritornati indenni in Italia attirati e rassicurati dall’incertezza della pena con cui sovente li condonano tribunali indulgenti. Sono le minoranze aggressive che purtroppo, talora ingiustamente, nella nostra epoca di nuove invasioni, danno il tono e il timbro alle maggioranze pulite di cui parlano la stessa lingua. Non a caso da noi si trova il 40 per cento di romeni ricercati con mandato internazionale. Non a caso ci sono 1773 romeni in attesa di processo e 953 condannati in via definitiva. Sono i restanti 990 mila, la più grossa compagine straniera in Italia, che ne subiscono controvoglia la pressione immorale e la coloritura etnica. È la minoranza corrotta a dare corpo alla «questione romena» ormai divenuta questione di Stato e perfino di Chiesa sia a Roma che a Bucarest. I prelati delle comunità romene ortodosse in Italia invocano «comprensione e fratellanza» per i correligionari perbene, paventando anch’essi il rischio di contraccolpi xenofobi, mentre la Chiesa cattolica di Romania tramite una lettera del vescovo di Bucarest Ian Robu al cardinale Bagnasco, in cui non si grida al razzismo, chiede scusa all’Italia per i «suoi» criminali e con chiarezza dice che «tutto il male fatto da loro ci mortifica e ci riempie di sdegno».

Come si vede, c’è anche nelle autorità morali di Bucarest un filo razionale che discerne l’orrore e, se vogliamo, distingue l’impotenza paralizzata della società italiana dalla supposta «romenofobia». Sarebbe augurabile che anche quelli che accusano l’Italia di razzismo vedessero un intensissimo film italiano, Cover Boy di Carmine Amoroso, in cui si racconta il sodalizio disperato di due precari solitari e disperati: un giovane romeno e un meno giovane italiano, che appassionatamente quanto vanamente cercano di soccorrersi fino al sacrificio suicida dell’italiano: non il dissidio di razza ma il vincolo nel dolore condiviso lega, fino al gesto estremo del poverissimo «ospite», un’amicizia priva di speranza e di futuro. Un omaggio dolente a due candidi sventurati dell’Ovest e dell’Est.

Quanto ai governi delle due parti, essi certo aspetteranno con comprensibile interesse la prossima prova del nove legittimante l’identità europea della cospicua comunità romena che sarà la prima a votare, in massa, per i candidati italiani al Parlamento di Strasburgo. Alemanno, il sindaco di Roma, la città più orrendamente martoriata dalle recenti nerissime cronache, ha inviato ai residenti romeni nella capitale il modulo di iscrizione alle liste elettorali aggiunte. Sarà la prima volta che gli immigrati dalla Romania verranno pienamente equiparati ai votanti italiani nell’esercizio dei loro doveri e diritti di cittadini dell’Unione Europea. Sarà, più che un orpello emblematico, un patto di rinnovata convivenza nell’ambito di una stessa nazione e nella cornice di uno stesso continente.

da lastampa.it
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« Risposta #18 inserito:: Marzo 02, 2009, 11:35:32 am »

2/3/2009
 
La frattura tra due Europe

 
ENZO BETTIZA
 
Fino a che punto i cittadini dei singoli Paesi dell’Unione Europea, italiani compresi, assordati come sono dalle rispettive controversie domestiche, possono essere in grado di percepire in tutta la sua estensione e gravità l’incombenza di una crisi continentale senza precedenti? Fino a che punto, insomma, riusciamo a comprendere che il vertice lampo dei 27 Capi di Stato e di governo dell’Unione, riuniti ieri a Bruxelles, è stato davvero «straordinario»? Straordinario per tante cose, certo, ma soprattutto perché svolto in una rovente atmosfera di ricatti, accuse, risentimenti che bollivano da un pezzo nella surriscaldata pentola comunitaria e che ormai nessuno, né all’Est né all’Ovest, può fingere di ignorare.

A Bruxelles, in realtà, si è verificata la spaccatura fra due Europe che si sono contese il campo di battaglia con due vertici contrapposti. Da un lato il vertice visibilmente ostentato e polemico di dieci Paesi dell’Europa centrorientale, di cui almeno sette al limite del disastro finanziario, promosso in separata sede addirittura dal presidente ceco dell’Unione Mirek Topolanek. Dall’altro l’incontro più discreto, ma nella sostanza altrettanto determinato, dei leader euroccidentali capitanati dal francese Nicolas Sarkozy col pretesto di difendere le industrie nazionali in generale e lo scopo di salvaguardare in particolare l’occupazione francese nell’industria dell’auto.

Secondo i governanti degli Stati ex comunisti, oggi tendenzialmente liberisti, i più polemici con la Francia accusata di dirigismo e nazionalismo economico, si tratterebbe d’un insieme di prevenzioni di sapore autarchico, antieuropeo, al limite protezionistico e contrario alla mobilità della manodopera dall’Est e alla localizzazione di attività produttive nell’Est dov’è minore il costo del lavoro.

Aleggia ovviamente sul tutto l’incubo delle recessione che, innescata dall’America, minaccia le società ancora solide e ricche della «vecchia Europa» e mette già in ginocchio i due terzi delle economie più fragili e vulnerabili dell’Europa centrorientale. I grandi d’Occidente, Inghilterra, Italia, Spagna, seguiti dall’Olanda e dal Belgio, sembrano propensi a non perdere il contatto con la linea di larvato neoprotezionismo imboccata da Sarkozy. La Germania con la sua doppia anima, per metà occidentale e per metà orientale, come lo è la biografia personale del cancelliere Merkel, sembra invece attestata su una posizione duttile e mediatrice tra i due fronti opposti.

Oramai è chiaro che la crisi europea è altrettanto politica, o forse senz’altro più politica che economica e finanziaria. Qui siamo al cospetto della più seria frattura che l’Europa di Maastricht, l’Europa della riunificazione tedesca, l’Europa dell’allargamento a Est, veda aprirsi nel proprio grembo dopo il crollo del Muro nel 1989. È in gioco qualcosa che va assai al di là delle comprensibili preoccupazioni della Francia, e dei Paesi in difficoltà che la sostengono, per la salvaguardia e l’intangibilità delle proprie industrie e dei propri mercati del lavoro. Una parte dei popoli e dei governanti dell’Est, i quali beninteso hanno anch’essi le loro colpe per la situazione spesso disperata in cui versano, rimproverano all’Ovest di voler erigere oggi una nuova «cortina di ferro» protezionistica al posto di quella ideologica e poliziesca caduta nell’89. Il presidente della Repubblica Ceca, di vocazione euroscettica, punta il dito sostenendo che la nave europea, sballottata qua e là dalla tempesta dei mercati internazionali, vorrebbe evitare il naufragio gettando a mare «la zavorra dei Paesi ex comunisti».

In queste accuse, ancorché esagerate, c’è tuttavia un fondo speculare di verità. Sono in gioco difatti il mercato unico europeo, la tenuta dell’euro nello sconquasso finanziario globale, il salvataggio di una metà d’Europa dalla bancarotta, il contenimento di tracolli di tipo argentino che s’affacciano sul Danubio, il recupero di membri comunitari giù adulti e importanti come l’Irlanda e la Grecia che oggi, dopo un decollo miracoloso, appaiono inclinati sullo stesso abisso che minaccia d’inghiottire i Paesi baltici e, più in là, perfino la Bielorussia e l’Ucraina. In definitiva, per la prima volta, è nell’occhio del ciclone non solo l’idea di un’Europa più unita e più ampia; è a rischio tutto ciò che, bene o meno bene, è stato già faticosamente e gradualmente costruito da oltre mezzo secolo. A prescindere dalle critiche che diversi europessimisti «vecchi» e «nuovi» esprimono sui labirinti della «burocrazia carolingia» di Bruxelles, paragonata da taluni perfino alla burocrazia sovietica, non è possibile non intravedere il danno storico che all’Europa odierna, all’Europa possibile, verrebbe dalla dissoluzione delle strutture giuridiche, dei propellenti monetari, degli strumenti d’intervento e di bonifica regionali già esistenti e operanti malgrado crisi minori di rigetto e conflittualità inevitabili in un organismo transnazionale di così eccezionale complessità.

La crisi in atto, purtroppo, non è per niente minore e passeggera. È una crisi che potrebbe trasformarsi, se non vi si pone per tempo rimedio, in un morbo terminale. Basta un piccolo spaccato periferico, la Lettonia, a testimoniare la profondità di un contagio che già lambisce Paesi molto più grandi come la Polonia e l’Ungheria. L’ex repubblica sovietica del Baltico aveva ricevuto un prestito di salvataggio di 7,5 miliardi di euro pilotato dal Fondo monetario internazionale, ma la cifra, troppo esigua, non era riuscita a contenere la deriva; il mese scorso erano scoppiate manifestazioni di protesta contro la corruzione e le insufficienti manovre economiche del governo; la crisi, fattasi politica, ha costretto il primo ministro e il suo esecutivo di centrodestra alle dimissioni sotto la pressione della piazza. Dopo quello islandese, è stato il secondo governo europeo a cadere per effetto del caos mondiale. Un caso in cui il rimedio si è rivelato peggiore del male. Il premier ungherese Ferenc Gyurcsany, indicando lo sfascio politico di Riga, ha colto la palla al balzo per contestare la recente cifra di 24,5 miliardi di euro, destinati dalla Banca Europea e dalla Banca Mondiale all’Europa dell’Est, esigendo un piano d'assistenza Ue da 180 miliardi nello stesso momento in cui il primo ministro polacco, Donald Tusk, richiedeva l’ingresso accelerato nella zona euro delle monete orientali. Come si sa, la richiesta di mutare le vecchie valute in euro è una delle più assillanti e più problematiche che arrivino alla Commissione di Bruxelles dall’Est, dove per ora fruiscono della moneta unica soltanto Slovenia e Slovacchia coi loro bilanci in regola con i parametri di Maastricht.

L’epidemia di dissesti nella metà più povera d’Europa, se dovesse tramutarsi in un incontenibile effetto domino paneuropeo, porrebbe scottanti problemi anche all’Italia impegnata con banche, prestiti e aziende (migliaia in Romania) in quelle nazioni ammalate. Così come li pone già alle banche austriache presenti nella Mitteleuropa, alle greche operanti nei Balcani, alle svedesi e finlandesi attive o invischiate fino al collo nei Paesi baltici. Ma, al di là di tante spine tecniche e pratiche, lo spettro che s’aggira per l’Europa è l’Europa stessa ormai in bilico tra malanni curabili e incurabili. La chiave d’uscita dalla crisi si trova sicuramente a Berlino. La buona salute economica, l’esperienza che le deriva dall’assorbimento dei tedeschi orientali, la sua atavica prossimità e sensibilità ai problemi dell’Est, fanno in questo momento della Germania la sola credibile nave di soccorso in mezzo alle acque procellose del Danubio e della Moldava. Non sappiamo ancora quali carte la signora Merkel giocherà per attenuare i colpi troppo duri di Sarkozy. Dovremo aspettare che le giochi e sperare che le giochi bene.

da lastampa.it
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« Risposta #19 inserito:: Marzo 14, 2009, 03:31:14 pm »

14/3/2009
 
Finisce il tempo dei diritti umani
 
 
ENZO BETTIZA
 
Non c’è giorno che la Cina non faccia notizia per una ragione o per l’altra o, meglio, per ragioni paradossalmente contrapposte. Se restringiamo il paradosso all’ottica italiana, vediamo da un lato la Camera censurare all’unanimità il governo cinese per la violazione dei diritti umani nel Tibet dove mezzo secolo fa, nel marzo 1959, fallì un’impetuosa rivolta anti-cinese costringendo il Dalai Lama alla fuga verso l’India. Ma da un altro lato vediamo però e sentiamo Gianfranco Fini, presidente della stessa Camera, aprire un seminario sulle relazioni tra il gigante asiatico e l’Europa con le seguenti parole: «La Cina, il cui ruolo è destinato ad accrescersi, ormai è un attore globale con il quale dobbiamo confrontarci in tutti i settori».

La censura, nell’auspicio realistico di Fini, sembra rivolgersi non tanto all’assenza dei diritti umani a Lhasa, quanto alla mancanza d’una più coesa e più perspicace politica europea nei confronti di una Cina che oggi, nella tempesta che minaccia le economie del mondo industriale, appare attestata su posizioni sensibilmente meno vulnerabili di quelle occidentali.

Quasi in simultanea la Camera di commercio di Milano ha reso noto che intende attivare al massimo con iniziative fieristiche e imprenditoriali la sua sede a Shanghai, dove dal 1° maggio 2010 si apriranno per 184 giorni i padiglioni di 185 Paesi partecipanti all’Expo.

Se poi allarghiamo l’ottica dall’Europa all’America rivediamo il paradosso ingrandirsi al pantografo. Qui il contrasto tra la difesa dei valori civili dell’Occidente, che la Cina violerebbe soprattutto nel Tibet, e la tutela degli interessi vitali della massima potenza occidentale che la Cina con le sue manovre anti-crisi potrebbe o agevolare o peggiorare, manda quasi un assurdo stridore cacofonico. Per l’America, maestra storica di democrazia, cosa deve prevalere nella bufera di una crisi che da Wall Street a Detroit ne sta colpendo i gangli strutturali più delicati ed essenziali? La battaglia morale con la Cina sui diritti del monaco tibetano? Oppure la cooperazione realistica con la Cina che detiene buoni del tesoro americani per 700 miliardi di dollari? La risposta l’ha già data una delle più note militanti per i diritti umani, Hillary Clinton, la quale, nella recente visita a Pechino in veste di segretario di Stato dell’amministrazione Obama, ha parlato di tante cose senza spendere una parola sul Tibet o sulla satrapia del Sudan protetta dai cinesi. Un’altra americana famosa, Bianca Jagger, membro del direttivo di Amnesty International, ex moglie del leader dei Rolling Stones, pur criticando la Clinton non ha potuto fare altro che prendere atto delle complesse ragioni della paralisi morale di Washington: «Non facciamoci illusioni. L’America dipende ormai finanziariamente da Pechino, che se la ride delle sue minacce, sapendo di avere la superpotenza in pugno. Gli Stati Uniti si sono indebitati fino al collo con la Cina e l’era in cui potevano dettare politica ad altri Paesi è finita».

Ma la Cina è diventata davvero così forte, una sorta d’usuraia ricattatrice a livello globale, da poter dettare lei, oggi, le sue leggi nel mondo? Nel Consiglio di Sicurezza dell’Onu, nello sfruttamento delle materie prime africane, nelle questioni nucleari della Corea del Nord, nei rapporti con le Borse mondiali, nelle relazioni con gli Usa, nei mercati finanziari europei? La Cina rappresenta davvero l’unico miracolo di resistenza alla crisi che da un pezzo scompagina l’America, lambisce già la Russia, devasta gran parte dell’Europa centrorientale, incombe su quella occidentale?

Bisogna stare attenti a non scambiare lucciole per lanterne. La Cina odierna, che proviene con la sua relativa solidità economica e sociale da tre decenni d’ininterrotta riforma capitalista, è tuttora nello slancio di una crescita che le consente di mantenersi a un tasso di sviluppo dell’8%. Nella scia del grande decollo, ha elaborato una capacità di ammortizzatori anti-crisi ignota all’Occidente, il quale ha esaurito, in parte, le sue risorse di resistenza non solo materiale ma anche psichica. La Cina non è più sana in assoluto dell’America, dell’Europa o della Russia; è soltanto meno malata e perciò anche meno minacciata dall’incubo di un disastro imminente. Con i forzieri bancari pieni di buoni americani e di valuta convertibile può destreggiarsi meglio di altri Paesi fra inflazione e deflazione, può dare perfino l’impressione ottica di una fuga in avanti premendo l’acceleratore sugli investimenti nella sanità pubblica, nel mercato interno, nelle spese militari, nelle esibizioni titaniche che dalle Olimpiadi di Pechino del 2008 si prolungheranno nell’Esposizione universale di Shanghai del 2010.

La crisi vera della Cina è d’una qualità diversa dalle crisi occidentali; sotto l’apparente mobilità, è una crisi di rallentamento, di terapia, tesa a raffreddare un’economia che correva il rischio di surriscaldarsi e di perdere la cadenza di una crescita ordinata. L’altra faccia del miracolo continuo, la faccia problematica, è difatti il crollo delle esportazioni e lo spettro della disoccupazione che, temperata a petto della potenza demografica del Paese, può toccare pur sempre decine di milioni di individui e fomentare il pericolo che il Partito comunista cinese teme più d’ogni altro: il disordine sociale e le jacqueries rurali e urbane. La rigidità sul Tibet, che preoccupa tanti democratici occidentali, che ignorano il passato di miseria a cui la teocrazia medievale dei preti buddisti sottoponeva una popolazione ignorante e sfruttata, non è di per sé un problema per il governo e tanto meno per la maggioranza Han che, dopo l’azzeramento maoista, si gode i frutti del «socialismo ricco» raccomandato da Deng e realizzato dai suoi eredi capital-comunisti; è il «cattivo esempio» indipendentista quello che più spaventa i governanti che sentono minacciata l’unità nazionale, non tanto dai tibetani, disponibili al compromesso autonomistico, quanto dalle ben più agguerrite, più popolose e più intransigenti minoranze islamiche del Sinkiang.

Continuare a insistere sui diritti civili, da parte occidentale, è un’inutile perdita di tempo alla quale, meno che mai oggi, i governanti cinesi possono dare una risposta. Quella che essi paventano è la ripercussione politica interna di una crisi economica esterna che, per ora, hanno deciso di tenere il più possibile lontana dalla Grande Muraglia. È tenendo conto di tali preoccupazioni essenzialmente politiche che l’Occidente, forse, anziché chiedere e aspettare l’impossibile, potrebbe ottenere qualche vantaggio dalla locomotiva cinese che, seppure rallentata, non desiste dal suo percorso. Bisognerebbe non ostacolarla ma facilitarle il punto di raccordo e d’incontro utile per tutti, per loro e per noi.

da lastampa.it
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« Risposta #20 inserito:: Aprile 05, 2009, 11:11:55 am »

4/4/2009
 
La potenza virtuale
 
ENZO BETTIZA
 
Ma qual è stato il significato vero, di fondo storico, dello straordinario raduno del G20 che ha visto raccolti per ventiquattr’ore a Londra i leader di venti Paesi che tutt’insieme detengono circa il 90 percento della ricchezza planetaria? Lo sfondo della grande crisi su cui si è stagliato il consesso è stato certamente economico, così come economici, o socioeconomici, sono stati anche linguaggio, preoccupazioni, alibi e perfino le ipocrisie diplomatiche dei partecipanti.

Tutti, alla vigilia del vertice, glorificavano il mito di Bretton Woods. Tutti invocavano la necessità di ridare al mondo un «nuovo ordine finanziario». Tutti s’inabissavano in labirintiche dissertazioni tecniche su due contrapposti modelli d’economie di mercato: l’uno anglosassone, basato sul «partito della spesa», sostenuto dalla coppia Obama-Brown; l’altro, il modello renano di Sarkozy e Merkel, basato invece sulla regolamentazione puritana e salvifica del capitalismo ammorbato dagli avventurieri di Wall Street e della City londinese. Giunti al compromesso, tutti hanno applaudito l’accordo sostenendo che esso non lasciava sul campo né vinti né vincitori.

In realtà, mediante un sottile gioco di deleghe e di perifrasi lessicali, gli «anglosassoni» si sono avvicinati con passo vellutato all’obbiettivo che ritenevano prioritario: tappare con profluvi multilaterali di denaro le crepe del disastro prodotto dai loro istituti di credito e dalle loro Borse. Washington e Londra sono riuscite a rafforzare il Fondo monetario internazionale, delegandolo ad amministrare oltre mille miliardi di dollari e impegnando i membri più facoltosi del G20 ad un esborso di ulteriori cinquemila miliardi entro il 2010.

Il presidente francese e la cancelliera tedesca, che avevano dato l’impressione di voler prevenire ipotetiche crisi future più che affrontare la crisi concreta in atto, hanno accettato il compromesso del documento finale che preannuncia la divulgazione di una lista nera di «paradisi fiscali» e garantisce pure la bonifica dei misteriosi «hedge funds» e «asset tossici». È stato il neopresidente americano in persona, Barack Obama, a placare gli animi di Sarkozy mediando e interrompendo al momento giusto una sua incipiente polemica con il cinese Hu Jintao ostile alla condanna generalizzata di Stati e enclavi offshore stilata dall’Ocse, organizzazione internazionale di cui la Cina non fa parte. Con ogni probabilità nella lista non figureranno Hong Kong e Macao.

Ma dietro questo gioco d’ombre, diciamo pure cinesi, sembrava nascondersi il vero significato di un evento che in realtà non era destinato né al fallimento né al successo: che era invece proiettato verso un piano alto, dove la grande economia sconfina nella grande politica. È stato proprio Obama, dopo i primi due mesi passati alla Casa Bianca, ad annunciare con le sue mosse e i suoi interventi apparentemente morbidi, ma sostanzialmente determinati, a lanciare al mondo il segnale di un cambiamento profondo nella struttura, nella strategia e nella ridistribuzione dei poteri mondiali. È stato lui a sottolineare che qualcosa era mutato tra l’America in crisi da una parte e gli alleati europei sulla difensiva dall’altra.

Con questo suo primo viaggio ufficiale nel Vecchio Continente, che dopo Londra lo porta a celebrare oggi il sessantesimo anniversario della Nato a Strasburgo e lo vedrà poi impegnato a Praga in un confronto diretto con l’Europa dei 27, Obama sta facendo comprendere agli europei che l’ecumenico G20 è ormai un’istituzione planetaria centrale che rispecchia, meglio del G8, la situazione reale del mondo contemporaneo. Non solo. Egli ha fatto intendere agli europei che quello che maggiormente conta all’interno del G20 è il rapporto privilegiato tra Washington e Pechino: cioè, il non tanto virtuale G2 che, d’ora in avanti, potrà diventare sempre più l’asse condizionante degli equilibri del pianeta. È stata proprio la crisi economica, indebolendo l’America, a indurre Obama a mettere la Cina al centro della sua politica asiatica (e mondiale) revisionata rispetto a quella assai più aggressiva di Bush.

La verità è che la Cina senza i consumi americani non riuscirà a favorire la sua crescita fondata sulle esportazioni, così come gli Stati Uniti senza i capitali cinesi, dirottati sulle obbligazioni del Tesoro americano, non potranno sostenere la ciclopica spesa necessaria al sostegno della ripresa economica globale. Il medesimo Hu Jintao, incontrando Obama, gli ha detto chiaramente: «Quando due persone si trovano sulla stessa barca devono remare assieme e di buona lena per arrivare all’approdo».

L’immagine della barca, con due soli vogatori ad affrontare i marosi, spiega bene perché Obama si sia mosso in una dimensione geopolitica che scavalca l’Europa, che va oltre i vecchi riti della «coesistenza pacifica» con una superpotenza comunista, instaurando in sostanza un dialogo strategico a lunga gittata con una Cina che ormai quasi ipnotizza gli americani debitori con la sua straordinaria solidità finanziaria. Il paradosso infine ha voluto che sia stato proprio un europeo anglosassone, il premier Gordon Brown, ex cancelliere delle Scacchiere, a fare da mentore e da spin doctor al più inesperto Obama indicandogli nei Paesi emergenti del G20 le sponde d’appoggio su cui puntellare una strategia di ripresa anticrisi.

Alla cena ufficiale in Downing Street, alla destra del padrone di casa Brown, sedeva non a caso Hu Jintao. Insomma, è iniziato in questi giorni per Obama un periplo diplomatico che, al di là della crisi, dovrebbe avere per meta ultima, più che la costruzione di un nuovo ordine economico, la ricostruzione realistica di un nuovo ordine politico. Una rinnovata trama multilaterale che privilegia la Cina, rispetta la Russia, attrae il Brasile, facendo dell’Europa una specie di Cenerentola avara ai margini della grandiosa trasformazione del mondo. Non a caso il primo ministro ceco Topolanek, presidente semestrale dell’Unione europea, ha bollato i progetti anticrisi dell’amministrazione Obama come «una via per l’inferno».

Perfino l’Economist, punta di diamante dell’opinione britannica, critica nel suo ultimo numero Obama come un uomo di buona volontà, incalzato da idee audaci, che però si muove sulla scena nazionale e internazionale con un notevole tasso d'incompetenza e di leggerezza amatoriale. Darebbe addirittura l’impressione di cavalcare ancora una campagna elettorale infinita. «Sta facendo troppe cose troppo in fretta». Rischierebbe così di mettere a repentaglio i buoni rapporti internazionali dell’America con gli alleati europei i quali, però, non farebbero molto per meritarsi più rispetto e più attenzione con le loro manovre inclini al moralismo e ai teoremi anziché alla pratica terapeutica. In definitiva, il vertice di Londra è stato un test utile per mettere la nuova presidenza americana alla prova diretta con il mondo e con l’Europa in particolare.

Al tempo stesso si è rivelato un test non molto positivo per l’Europa stessa. Se fosse lecito tentare una graduatoria dei poteri mondiali, testati al tavolo londinese, si dovrebbe dare accanto all’America di Obama un posto di primo piano alla Cina di Hu la quale si è perfino permessa di reclamare la fine dell’egemonia del dollaro sui mercati e prospettare l’avvento negli scambi internazionali di una valuta artificiale che lo sostituisca. Dopo la Cina, la Russia ha ottenuto anch’essa da parte di Obama un trattamento speciale nell’incontro cordiale e appartato ch’egli ha riservato al russo Medvedev.

 L’Europa invece è stata blandita con vaghe promesse sui paradisi artificiali e sulla purificazione delle trasgressioni capitalistiche che, con ogni probabilità, lasceranno il tempo che trovano. Si sa che l’Ue nel suo insieme costituisce la potenza economica più forte del mondo. Ma si sa, anche, che si tratta di una potenza virtuale, disorganica, tarlata da particolarismi regionalistici, la quale oggi stenta a soccorrere come dovrebbe i Paesi membri dell’Est destabilizzati e taluni devastati dalla crisi.

Privata della centralità planetaria del G8, ridotta a forziere supplementare delle risorse per l’uscita dalla crisi, ormai diluita nel gigantesco G20, l’Europa avrebbe una sola possibilità per occupare il posto che le spetta nella ridistribuzione dei rapporti di forza: salvare dall’abisso il proprio Est, allargare la zona dell’euro, darsi una politica estera e di difesa degna di quella grande potenza che essa è in fieri e non ancora nella realtà.
 
da lastampa.it
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« Risposta #21 inserito:: Aprile 07, 2009, 06:52:33 pm »

7/4/2009
 
Chi ha paura del fantasma turco
 

ENZO BETTIZA
 
L’ombra della Turchia si è inserita, con tutto il suo peso enigmatico, nel primo incontro del neopresidente americano con i 27 leader dell’Unione europea. Il suo fantasma erratico si è profilato come un improvviso convitato di pietra al gran banchetto di Praga, rovinando l’atmosfera di festa e di apparente concordia tra la nuova amministrazione di Washington e il nucleo duro europeo, l’asse Sarkozy-Merkel, che aveva già preso le distanze da Obama nel corso del G20 di Londra.

La contrapposizione tra una Casa Bianca che invita gli europei ad aprire le porte ad Ankara e l’Eliseo che rifiuta di schiuderle ha fatto riemergere, di colpo, un nodo tradizionale e mai chiaramente sciolto delle politiche occidentali: nello scontro sulla questione turca tra Obama e Sarkozy si è ripetuto, pari pari, lo stesso dissidio già a suo tempo acuto tra Bush e Chirac. Il presidente francese ha ribadito per l’ennesima volta, con inequivocabile chiarezza, il veto di Parigi, mentre l’americano tornava a ribattere che l’unico modo di ancorare la Turchia all’Occidente era quello di farla entrare a pieno titolo nel concerto europeo. La cancelliera Merkel, pur appoggiando nella sostanza Sarkozy, nella forma è stata più levigata ricordando che l’Ue sta valutando tempi e modi di una trattativa graduale, che potrebbe garantire ai turchi una «partnership privilegiata» in alternativa all’adesione piena. Il presidente del Consiglio italiano, che vanta un’amicizia personale con il premier turco Erdogan, si è inserito una volta di più da mediatore nel gioco dei grandi ventilando il progetto di un compromesso di non facile attuazione: accettare l’ingresso di Ankara, rinviando però a data indeterminata l’alluvione dei migranti anatolici sui mercati di lavoro europei.

Tutti discorsi a lunga gittata politica e tecnica. Basti pensare che la scadenza di una possibile affiliazione della Turchia all’Europa, come partner o di socia, potrebbe scattare appena tra il 2015 e il 2017. Comunque, a parte il calendario, il problema resta serio e spinoso. La situazione interna in area anatolica è tutt’altro che chiara. Il partito della Giustizia e dello Sviluppo di Erdogan (Akp) è uscito severamente limato dal voto delle elezioni amministrative del 29 marzo, al quale il primo ministro dava un valore di referendum sul suo operato. Non battuto dai rivali, l’Akp è però sceso al 39% dal 47 raggiunto alle elezioni politiche del 2007, con la perdita di 12 città, tra cui due importanti centri urbani curdi nel Sud-Est del Paese.

Alle spalle di questa sottrazione elettorale, di sensibile valore simbolico e psicologico, rimangono tre problemi pesanti e sempre irrisolti: il rapporto del governo con l’incombente irredentismo dei partiti curdi, il rafforzamento dei gruppi fondamentalisti più aggressivi e, in particolare, la tensione mai spenta tra il partito dominante e il contropotere rappresentato dalle forze armate che si ritengono garanti del laicismo kemalista e non vedono di buon occhio né il capo del governo Erdogan né il presidente della Repubblica Abdullah Gul. I generali antireligiosi continuano in sostanza a diffidare dell’uno e dell’altro, sospettati di voler imporre con manovre morbide la legge della sharia e del velo banditi dal fondatore della Repubblica secolare, Atatürk.

Sul piano economico la Turchia di Erdogan, importante piattaforma di passaggio energetico per l’Europa, aperta all’economia di mercato, intenta agli scambi commerciali anche in questo periodo di crisi, è un Paese in sviluppo che merita attenzione e collaborazione dall’Ue. Ma la sua schizofrenia d’identità, oscillante tra costumi islamici di ritorno e codici democratici non sempre rispettati, suscita nella metà degli Stati europei impulsi di precauzione profilattica se non di rigetto. Si aggiunga la polveriera di Cipro, col divieto turco di aprire porti e scali a navi e aerei ciprioti greci, e si avrà un quadro d’insieme quanto mai problematico. Ecco perché i negoziati per l’associazione turca all’Europa, avviati tra mille cavilli e perplessità nel 2005, tendono ad allungarsi all’infinito.

In verità Erdogan e Gul, pur imponendo il velo alle rispettive mogli, hanno appianato diversi ostacoli per sgombrare la strada che un giorno potrebbe condurre 70 milioni di musulmani nell’ambito di Bruxelles. Purtroppo, sull’argomento che permane scottante, non c’è più oggi in Turchia l’unanimità d’una volta. Almeno un terzo di turchi, delusi dalle lungaggini del negoziato, urtati dai persistenti monitoraggi europei sui diritti civili delle minoranze etniche e religiose, non considerano più l’approdo comunitario come qualcosa d’inevitabile. Altresì mezza Europa non considera auspicabile l’aggregazione della Turchia, e il fronte del rifiuto assomma al «no» secco della Francia il «ni» ambiguo della Germania, le due locomotive di punta del recalcitrante convoglio europeo. Insomma, nonostante le molte e clamorose affermazioni di Erdogan, un tempo lodato come efficiente liberista dalla grande stampa anglosassone, il dubbio dopo le recenti elezioni amministrative è tornato a dilagare di là e di qua dai Dardanelli.

Intanto il dilemma che, da Bush a Obama, continua ad assillare gli americani, resta essenzialmente strategico e connesso all’incubo del terrorismo. Washington teme che la Turchia, abbandonata dall’Europa, possa sprofondare interamente nell’Asia minacciando di diventare con il suo notevole peso demografico e militare una delle più importanti e insidiose componenti dell’Islam contemporaneo. Già l’islamologo americano Daniel Pipes ammoniva: «Il fatto che un pezzetto del territorio turco sia in Europa non rende completamente europea la Turchia».
 
da lastampa.it
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« Risposta #22 inserito:: Maggio 17, 2009, 12:14:39 am »

16/5/2009

La ritirata di Obama
   
ENZO BETTIZA


I primi passi di Barack Obama sui campi minati della politica estera stanno suscitando una miscela di consensi, di perplessità e di delusioni. Il lato negativo, nell’ottica di tanti sostenitori e oggi censori del Presidente, sembra guadagnare terreno soprattutto nel delicato settore dei diritti civili, dove la politica estera americana stinge e si confonde con quella interna. Ora, al divieto di Obama di pubblicare le foto dei prigionieri iracheni torturati da militari statunitensi, si aggiunge la clamorosa notizia della sua intenzione di mantenere in piedi i tribunali speciali istituiti per giudicare i detenuti di Guantanamo. Obama dichiara che gli imputati potranno godere di alcuni diritti di difesa; però i suoi critici liberal già ritengono che si tratti di una foglia di fico garantista, destinata a coprire la vecchia linea punitiva dell’amministrazione Bush contro i militanti o supposti terroristi islamici.

Le contraddizioni di Obama meritano comunque una disanima più ampia e più attenta. Ai governi e alle opposizioni europei erano piaciute le aperture del Presidente: la decisione di chiudere Guantanamo, la mano tesa all’Islam e all’Iran prima e dopo la liberazione di Roxana Saberi, le promesse ai palestinesi, l’indulgente attendismo verso il gabinetto di destra israeliano, la diplomazia di riguardo accennata nei confronti dell’America Latina e in particolare di Cuba.

Tutto questo, ammucchiato d’impeto sul fuoco dal nuovo inquilino della Casa Bianca, aveva rassicurato gran parte d’Europa, soprattutto occidentale, che ha voluto vedervi i sintomi di un profondo cambiamento rispetto all’unilateralismo imperiale di Bush. Al tempo stesso, in maniera apparentemente contraddittoria, non è dispiaciuto ai governi europei neppure il risvolto interventista della diplomazia obamiana che, per esempio in Afghanistan, si presenta oggi simile a una doccia scozzese in due versioni. Una morbida e politica, ispirata al «surge» iracheno del generale David Petraeus, volta a evitare troppe vittime civili e conquistare il sostegno psicologico e armato delle tribù offese dagli eccessi dei mullah; l’altra invece più dura, più gendarmeresca, consegnata al pugno di ferro del generale Stanley McChrystal, nuovo comandante Usa sullo scacchiere afghano, esperto di controguerriglia che a suo tempo aveva eseguito la cattura di Saddam Hussein e organizzato l’uccisione del capo qaedista Musab al Zarkawi. Queste mosse più inflessibili, derivate dal vecchio Pentagono del repubblicano Robert Gates, tuttora in carica, a cui s’aggiunge ora il clamore destato dall’affare di Guantanamo, sembrano però tornare anch’esse utili agli europei. Fa comodo a tutti l’Obama che con una mano mette su un fuoco tante castagne promettenti, mentre, con l’altra, su un secondo fuoco, mette quelle più compromettenti.

Le cose si collocano in una prospettiva diversa se guardiamo alla pubblica opinione americana, al Congresso, alle incrinature trasversali nella maggioranza democratica e nel partito repubblicano. Qui, alle notevoli speranze suscitate dagli interventi del presidente in politica estera, si mescolando dubbi, domande, apprensioni, incertezze. L’Europa, che deve vedersela essenzialmente con la sola crisi economica, non conosce l’esponenzialità di una crisi doppia e simultanea come quella che sta vivendo e affrontando l’America di Obama. Roosevelt, all’epoca del New Deal, doveva combattere con pacifiche armi keynesiane disoccupazione e povertà all’interno dei confini americani; non doveva combattere contemporaneamente, mille miglia fuori dei confini nazionali, una guerra erratica con milizie islamiste e terroriste. Oggi invece, al peggiore dei crolli finanziari mai attraversati dagli Stati Uniti dal 1929, si uniscono l’impatto di due guerre interminabili in Afghanistan e in Iraq, il pericolo di una guerra latente ancorché evitabile con l’Iran, e la gravissima minaccia di un coinvolgimento diretto nella guerra civile che sta dilaniando il più inafferrabile dei Paesi musulmani: il Pakistan.

Etnicamente frastagliato in etnie e clan simili e dissimili, unito misticamente dall'Islam, privo di frontiere reali con l'Afghanistan, perdipiù in possesso di un moderno arsenale atomico, questo Stato artificiale e instabile era da tempo una venefica spina nel fianco della strategia antiterroristica degli Stati Uniti. Dall'inizio di maggio esso è diventato l'incubo centrale dell'amministrazione Obama. Da quando è divampata l'ultima e, almeno in apparenza, la più vigorosa offensiva dell'esercito governativo contro i paramilitari talebanizzati nella «valle incantata» di Swat, tutti gli altri pur complessi problemi sul tavolo di Obama sono diventati meno urgenti e meno ossessionanti.

Basti pensare che il circondario di Swat, dopo una tregua effimera stipulata in febbraio dal governo con i ribelli ultrafondamentalisti, s'era configurato come uno Stato nello Stato: una prolunga della miccia talebana dal vicino Afghanistan verso la santabarbara nucleare del Pakistan. Vi regnava la legge coranica, la sharia, concessa dal governo ai tribunali islamici locali, che decretavano decapitazioni pubbliche, mentre le scuole integraliste istruivano, reclutavano e addestravano kamikaze minorenni. Le donne cacciate dagli istituti scolastici e dagli uffici e private d'ogni movimento autonomo per le strade. Si scopriva, nel frattempo, che importanti territori limitrofi erano di fatto controllati da militanti talebani, pronti a riaprire azioni di rappresaglia e di guerriglia contro le demoralizzate e spesso equivoche forze dell'ordine. Le paralizzavano atavici istinti di comunanza tribale e religiosa con i guerriglieri, nonché la tolleranza arrendevole di tanti comandanti. Quello strano e labile armistizio tra le autorità legali e l’autogoverno fondamentalista cessò il mese scorso, quando nutriti reparti ribelli, tornati sul sentiero di guerra, scesero dalla vallata e raggiunsero la città di Buner che dista 100 chilometri dalla capitale Islamabad. L’esercito ufficiale li attaccò solo dopo che gli americani, allarmati, avevano accusato il ministero della Difesa e la presidenza di Islamabad di «abdicare» davanti all’avanzata dei talebani.

Il Pakistan è ora nel caos. Mentre la guerra civile imperversa nella provincia di Swat, e oltre un milione di profughi, due terzi della popolazione regionale, scendono dalla vallata in fiamme in cerca di riparo e di cibo, la stampa americana denuncia la corruzione e l’inettitudine ambigua del governo del presidente Asif Zardari. Questi era giunto non a caso a Washington il 6 maggio, chiedendo ancora armi e ancora dollari, proprio nelle ore in cui le sue forze armate iniziavano la violenta battaglia di Swat. Appena ripartito, i giornali hanno cominciato a chiedersi dove sono finiti i tanti miliardi che l'America getta da anni nel vuoto pakistano ottenendo, in cambio, il dilagare dei talebani e del talebanismo. Time e Newsweek hanno scritto che Islamabad, più di Kabul, più di Teheran, più di Gerusalemme, è ormai «la sfida maggiore alla politica estera di Obama».

Il 4 giugno Obama sbarcherà al Cairo con l’annuncio, che si dà per certo, di un suo originale piano di pace per il Medio Oriente. Lancerà parole nuove e stimolanti agli israeliani, ai palestinesi, ai sauditi, ai giordani, ai siriani, probabilmente anche agli iraniani. Ma il suo pensiero più intimo resterà senz’altro concentrato sul Pakistan. Questo spiega oggi tante cose, anche la retromarcia su Guantanamo.

da lastampa.it
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« Risposta #23 inserito:: Maggio 28, 2009, 09:50:54 am »

28/5/2009
 
Dietro la follia coreana

 
ENZO BETTIZA
 
Raramente si era visto un paradosso del genere nelle vicende politiche contemporanee. Da un lato un Paese remoto e isolato, un paranoico residuo del comunismo asiatico, terrorizzato da un tiranno simile nelle ultime foto a un malato terminale, con una popolazione ridotta alla schiavitù e alla fame, che nel giro di un mese fa esplodere un ordigno nucleare potente come quello che distrusse Hiroshima e scatena una grandinata di missili a lunga e media gittata.

Dall’altro lato la condanna unanime della follia atomica di Pyongyang, condanna firmata non solo dagli Stati Uniti ma, per la prima volta, anche dalla Russia e dalla Cina fino a ieri ambigue sostenitrici negoziali della Corea del Nord.

Si tratta di un caso senza precedenti che mette a dura prova la politica della mano tesa di Barack Obama a quei Paesi già definiti dall’amministrazione Bush «Stati canaglia». Alla mano aperta il dittatore Kim Jong-il ha risposto col pugno atomico. Egli inoltre asserisce che nulla è cambiato con Obama nella politica aggressiva di Washington e che la Repubblica popolare di Corea sarebbe pronta, in caso di pericolo, ad affrontare anche una «battaglia» frontale con la superpotenza imperialista.

Non ci sarebbe di che preoccuparsi se le arroganti parole di Pyongyang fossero soltanto parole, non sostenute da prove ed esperimenti distruttivi che, in questo momento, allarmano soprattutto la Corea del Sud e il Giappone, i due principali alleati asiatici dell’America. Dopo che Pyongyang ha dichiarato nullo l’armistizio del 1953, che pose fine alla guerra di Corea, la possibilità di incidenti anche gravi rientra nel calcolo delle ipotesi strategiche regionali. Il governo di Seul, al quale Washington dichiara il proprio «impegno inequivocabile» a difendere il Paese minacciato dal Nord, fa sapere di voler aderire alla Proliferation Security Initiative (Psi) che consentirebbe alle sue forze navali di intercettare navigli con carichi sospetti. Il regime di Kim Jong-il risponde a sua volta che userà «forti misure militari» ad ogni operazione del Sud volta a fermare e ispezionare imbarcazioni nordcoreane: potrebbe essere la scintilla di una pericolosa deflagrazione a catena nel Pacifico.

Sono note la propensione e l’abilità ricattatoria di Kim nell’usare minacce per estorcere aiuti, vettovaglie, medicinali e dollari con cui lenire la miseria che attanaglia il popolo da lui affamato e oppresso. Può anche darsi che quest’alzata di scudi nucleari da parte del tiranno malato rientri in una torbida lotta di successione per aprire la strada del potere al prediletto dei suoi tre figli, Kim Jong-un. Comunque, le incognite che circondano le mosse dello scandaloso Davide sono infinite quanto lo è l’impotenza dei Golia e della comunità internazionale a decrittarle e prevenirle. La soluzione del quesito coreano è ora affidata soprattutto alla coesione dell’America, della Cina e della Russia nell’affrontare i ricatti e la sindrome da accerchiamento di un regime nevrotico che ha elevato l’atomo al toccasana di tutti i suoi mali.

Per quanto riguarda il noviziato presidenziale di Obama, si può ben dire che la questione atomica si colloca oramai al centro della sua politica estera. Allo scandalo coreano, che per ora è una minaccia simbolica più che reale, si aggiungono, in un contesto ben più incandescente, il Pakistan con l’arsenale nucleare minacciato dai talebani e l’Iran con la cocciuta ricerca di uno status di potenza nucleare. La politica della mano tesa non sembra funzionare quando ci sono di mezzo il plutonio e l’uranio.
 
da lastampa.it
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« Risposta #24 inserito:: Giugno 07, 2009, 07:57:39 pm »

7/6/2009
 
L'anima perduta dell'Europa
 
ENZO BETTIZA
 
E’facile e nello stesso tempo difficile spiegare la pressoché totale caduta d’interesse per l’Europarlamento, non solo in Italia, ma in tutti i 27 Paesi dell’Unione. C’è del giusto e dell’ingiusto in questo radicale mutamento d’umore da parte di 375 milioni di potenziali elettori.

Sono stato deputato europeo per tre legislature. Mi torna oggi per contrasto a mente il lontano 1979, quando fu insediato, a Strasburgo, il primo Parlamento a suffragio diretto e sorretto da una percentuale di voti mai più eguagliata. Predominava nella maggioranza dei parlamentari, anche se politicamente divisi, l’entusiasmo dei pionieri. Non tutto però convinceva, nel modernismo labirintico e trionfalistico del palazzo, meno accogliente della vellutata bomboniera di Palazzo Madama da cui provenivo. Al ronzìo dei motori per l’aria condizionata s’aggiungeva quello, meno attutito, di parlate danesi, fiamminghe, lussemburghesi, affettate con prepotenza identitaria e isolazionista. S’avvertiva l’assenza di quella forza di gravità lessicale, di mastice accentratore tra razze e culture eterogenee, esercitati per esempio dall’inglese nella concrezione dei giganteschi coaguli statali e imperiali anglosassoni.

Ricordo la seduta in cui re Baldovino, sovrano di uno Stato bilingue, ci ammannì un discorso grigio, cronometrato a singhiozzo su un doppio spartito: tanti minuti per ogni periodo in fiammingo destinato ai fiamminghi, altrettanti minuti esatti per ogni frase in francese destinata ai valloni.

Per fortuna, in quell’assemblea eletta per prefigurare una Federazione di popoli, si palesavano anche anticorpi correttivi. Molti alti funzionari, come il segretario generale del Parlamento Enrico Vinci, si sforzavano di restituire al francese il ruolo e la dignità che esso aveva avuto nell’ambito delle grandi diplomazie dei secoli passati. C’era poi un elemento di visibile rottura storica col passato, in cui l’Europa dei vecchi antagonismi si ripresentava nelle vesti di un’Europa rinnovata e rappacificata. Spiccavano gli epigoni emblematici di tre gloriose dinastie coinvolte nelle trascorse guerre civili europee. Nel sofisticato settore dei conservatori britannici, dirimpetto alla marea dei laboristi, c’era un ingualcibile Lord Douro discendente del duca di Wellington. Marcava il seggio sedendovi eretto, azzimato, imperturbabile, catafratto in un doppiopetto blasonato da un’arrogante cravatta color salmone. Più in là, nel settore dei popolari, cioè democristiani, si poteva scorgere Otto d’Absburgo. Mobilissimo, arguto, poliglotta, talora abbigliato in giacchettone tirolese con bottoni d’osso di cervo, il deputato Otto sembrava guizzare come un pesce nell’acqua in un ambiente che alla sua mente di studioso riportava, in maniera certo imperfetta, il ricordo dei parlamenti multinazionali della Vienna di Francesco Giuseppe: i quali, secondo lui, erano stati la vera anticamera dell’Europa unita. Poco più in là, sempre nel settore dei popolari, si ergeva la figura più ieratica, allampanata, la schiena incurvata all’indietro, di un von Bismarck parco di parole e di gesti.

Nelle primissime quarantott’ore dell’inaugurazione il mio gruppo liberaldemocratico s’era trovato al centro dei riflettori. Il medesimo gruppo, di dimensioni contenute, una trentina di membri circa, fra i quali Susanna Agnelli, Sergio Pininfarina, Bruno Visentini, albergava i due principali candidati in lizza per la conquista della presidenza parlamentare: la francese Simone Veil e il lussemburghese Gaston Thorn. Il maître della situazione, in quelle ore decisive, era il principe Michel Poniatowski detto Ponià, spregiudicato ex ministro degli Interni, pronipote di un generale polacco nominato da Napoleone granduca di Varsavia.

Il corpulento, roseo e allusivo Poniatowski, giscardiano di stretta osservanza, organizzò la battaglia con disinvoltura avvolgente. Alla spalle del «florentin», come lo chiamavano per le sue arti sottili e taglienti, c’erano un patto di ferro concluso fra il presidente Giscard e il cancelliere Kohl: costringere il folto gruppo dei democristiani tedeschi, sostenitori di Thorn, a togliere il veto alla nomina della scandalosa Veil, ex ministro della Giustizia, che aveva promulgato una legge favorevole all’aborto. Il capo dell’Eliseo intendeva raggiungere, con il voltafaccia tedesco a Strasburgo, due obiettivi in un colpo solo: assegnare da un lato alla Francia la prestigiosa carica europea, e dall’altro allontanare la popolare Veil dall’arena politica francese.

L’abile plenipotenziario di Giscard riuscì ad ammorbidire i popolari germanici e a privare Thorn del loro appoggio. Quando la candidatura della Veil uscì vincente, prima dal gruppo liberale e poi dalla votazione generale dell’assemblea, nessuno avrebbe saputo dire se il risultato l’avesse davvero soddisfatta. Sull’alto podio della presidenza ella salì, piuttosto accigliata, nel suo impeccabile tailleur Chanel. Non era cosa da poco vedere al vertice della prima istituzione rappresentativa europea un’orfana di Auschwitz, una che aveva visto incenerire l’intera sua famiglia e portava impresso sul polso il tatuaggio in cifre di deportata.

Dopo tre decenni, l’acqua non è passata sotto i ponti, ma li ha corrosi e demoliti. Non ci sono gli Amendola, i Pajetta, i Berlinguer che proprio lì, in Alsazia, tessevano con Willy Brandt la fragile ma sintomatica tela di Penelope dell’eurocomunismo: una sorta di Westpolitik delle Botteghe Oscure, faccia speculare e quasi atlantica della Ostpolitik socialdemocratica tedesca. Non ci sono più Altiero Spinelli e Bruno Visentini, fondatori del «Club Coccodrillo», dal nome del famoso ristorante strasburghese, dove fra una belon e una escargot alla provenzale già si preannunciavano la Costituzione europea, i parametri di Maastricht, la moneta unica. Marco Pannella ed Emma Bonino, che avevano dato lustro mondiale alla loro insolente transnazionalità radicale, rischiano di scomparire, ormai «à bout de souffle», sotto la tagliola del 4%. Anche l’ipotetica ma pur sempre attraente superpresidenza europea di Tony Blair minaccia di perdersi nel disastro elettorale del New Labour.

La più grossa tornata elettorale del mondo libero e abbiente rischia ora di naufragare in una sorta di masochistica autodelegittimazione: gli ultimi sondaggi indicano che alle urne andrà probabilmente meno del 40% di votanti. Perché mai, se il Parlamento ha comunque conquistato più poteri legislativi dal 1979 in poi? Perché mai, se l’euro si è dimostrato come la più stabile delle valute a petto della grande crisi?

La risposta investe la sostanza etica del problema. Il Parlamento anzitutto ha rinunciato alla sua grande premessa fondante, quella che più aveva attratto gli elettori di nove nazioni nel ’79, cioè la Federazione; essi, votando, vagheggiavano uno Stato unico prima ancora del mercato unico. Il Parlamento è peggiorato poi a livello perfino antropologico, diventando una sorta di ospizio dorato per i falliti delle politiche nazionali, di «talking-shop» per xenofobi paranoici, o addirittura antieuropeisti dichiarati. Infine, con l’allargamento galoppante dopo il 1989, ha dato l’impressione di esplodere sopprimendo le affinità elettive dei deputati a tutto vantaggio delle loro diversità idiomatiche e nazionalistiche. Una Babele intricata e costosa, una fabbrica d’incomunicabilità, un deposito di quintali di carta in venti lingue che nessuno legge e digerisce. L’Europa ha perduto così l’anima riducendosi a un consiglio d’amministrazione per il quale, a seconda degli interessi contingenti, si può votare per avere qualche azione di più in tasca, o astenersi per non mettere a rischio quelle già avute.

Non è detto che tutto sia crollato o stia per crollare. La metà della costruzione eurocratica resta sempre in piedi, ma è una metà che con le sue ordinanze di stile aziendale, anche quando non sono disutili, indispettisce e indispone l’elettore. Quella che manca è la metà politica. Manca l’anima federale, senza la quale l’Europa, per la maggioranza degli europei odierni, non è Europa ma una multinazionale neutra, anonima, immane e remota come tante. Remota: è l’aggettivo forse più proprio.

da lastampa.it
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« Risposta #25 inserito:: Giugno 13, 2009, 09:32:50 am »

13/6/2009
 
A destra le ricette socialiste
 
 
ENZO BETTIZA
 
Il voto europeo, appena concluso, è stato qualcosa di più serio di una sequela di plebisciti nazionali centrati su alcuni personaggi politici di primo piano. Un Berlusconi personalmente ridotto in Italia, uno Zapatero lievemente retrocesso in Spagna, un Socrates severamente punito in Portogallo, un Brown disastrosamente bocciato nel Regno Unito e umiliato perfino nella nativa Scozia, un Sarkozy splendidamente riconfermato ai vertici di gradimento in Francia, una Merkel misuratamente premiata in Germania: non tutto lo scrutinio elettorale, diluito e trasferito dall’Europa ai singoli Paesi che la compongono, si è risolto comunque e soltanto nella pagella inviata dai votanti ai sopra citati leader di governo e di partito.

Il plebiscito è andato assai al di là di un giudizio popolare sulle singole persone. Ha investito in blocco i grandi schieramenti politici europei decretando la sconfitta, sul piano continentale, dello schieramento che si richiama sostanzialmente alla tradizione socialista e che, in Italia, si è dato la cifra più fluida di «partito democratico» o di «centrosinistra». Il gruppo socialista al Parlamento Europeo ha perduto un quarto dei seggi, lasciando al centrodestra, rappresentato dal Partito popolare, il predominio pressoché incontrastato dell’assemblea di Strasburgo.

Il conto è presto fatto ed è, sotto ogni aspetto, cocente per le maggiori sinistre europee. Il naufragio laburista in Inghilterra è stato un colpo letale inferto dagli elettori non solo al partito di Blair e di Brown, sceso per la prima volta al terzo posto, ma anche al sistema selettivo britannico basato fino a ieri sul bipartitismo perfetto. Non migliore la sorte toccata ai socialdemocratici tedeschi, incapsulati con i cristiano-sociali nella grande coalizione guidata da Angela Merkel e precipitati al minimo storico dopo la seconda guerra mondiale. Nel contempo i socialisti spagnoli e portoghesi subiscono uno scossone preannunciante, con ogni probabilità, la loro prossima sostituzione da parte dei conservatori.

Il quadro peggiora se dalle sinistre di governo passiamo a quelle di opposizione. I socialisti francesi con lo scarso 16 per cento sono allo sbando, schiacciati fra il martello trionfante di Sarkozy e l’incudine dei verdi incalzanti di Cohn-Bendit. La piena misura della liquefazione del Partito democratico italiano, più che dall’insoddisfacente risultato europeo la si può trarre da quello catastrofico delle elezioni amministrative. Molti osservatori, a cominciare dall’entourage dello stesso Franceschini, hanno concentrato l’attenzione sulla potatura del carisma personale di Berlusconi, perdendo di vista la dilatazione del partito di Berlusconi e della Lega sempre più fortunata di Bossi nelle province una volta «rosse». La profondità dello scacco, subito soprattutto dalle sinistre storiche, è stata messa in lucida quanto allarmata evidenza dall’intervista concessa l’11 giugno alla Stampa da Fausto Bertinotti: «Queste elezioni, in Europa e in Italia, sanciscono la fine della sinistra novecentesca. La destra è forte perché la sua cultura è penetrata nella società e tra la nostra gente. Come fa il Pd a sentirsi rassicurato con 4 milioni di voti persi in un anno?».

Non è facile dare una risposta pertinente alle più che pertinenti domande di Bertinotti. C’è in effetti qualcosa d’inspiegabile, di enigmatico, in questo drastico tracollo dei socialisti e affini nell’ambito dell’Unione Europea. Molte cose sembravano favorirli nella competizione con le destre. La grande crisi in corso, la recessione, la disoccupazione, la crisi del capitalismo: non era, tutto ciò, il terreno più adatto al rafforzamento dei partiti di sinistra e alla diffusione delle loro ricette economiche e sociali? Si è avuta invece la sensazione, e poi la certezza, che i leader di centrodestra, per esempio Sarkozy e Merkel, abbiano avuto la capacità di sostituirsi alle sinistre cavalcando meglio e più svelti la crisi con politiche d’intervento, diciamo pure dirigistico, quasi sottratte al tradizionale ricettario d’ispirazione socialista. Al tempo stesso i conservatori hanno saputo dare risposte operative, apparentemente impopolari, quindi ideologicamente trascurate dalle sinistre, a questioni d’emergenza come l’immigrazione clandestina, la sicurezza nelle strade, all’autodifesa identitaria e regionalistica di cui in Italia ha saputo farsi portavoce la Lega presso i ceti artigianali e operai.

Temi, questi, che la destra più dinamica e spregiudicata, cioè francese, ha saputo affrontare e coniugare con la lotta alla disoccupazione, la difesa dei posti di lavoro, l'incentivazione e quindi la permanenza di tante industrie in territorio nazionale. Quello che in definitiva è sembrato mancare alle forze di sinistra è il contatto con la realtà. Certi leader velleitari hanno dato più ascolto ai salotti che alle fabbriche, più spazio alle visioni universalistiche e meno attenzione al cortile di casa, usando senza costrutto parole ovvie e luoghi comuni come «solidarietà», «dialogo», «amore per il prossimo», «tolleranza multiculturale» eccetera. Mai una scelta audace, innovativa, rapportata al duro e insidioso mondo reale in cui viviamo. L’arsenale intellettuale dei centrosinistra, nelle loro varie metamorfosi europee, è apparso così alla maggioranza dell’elettorato dell’Unione come una miscela fra antiquariato e modernariato ideologico senza presa sui più concreti fatti del giorno. La crisi di rigetto non poteva non arrivare. Ed è arrivata, per dirla con Bertinotti, in maniera purtroppo eccessiva, privando l’Europa e l’Italia di quel necessario contrappeso democratico o, meglio, socialdemocratico che vorremmo chiamare responsabile quando è al governo e correttivo quando è all’opposizione.
 
da lastampa.it
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« Risposta #26 inserito:: Giugno 26, 2009, 10:28:09 am »

26/6/2009
 
La profezia dello Scià
 

ENZO BETTIZA
 

Fu a Teheran, nella reggia di Niavaran, che in compagnia dello Scià di Persia passai uno dei più strani Natali della mia vita. Era il 25 dicembre del già tormentato e insidioso 1978. S’avvertiva da tanti segni che la lunga meteora dinastica di Reza Pahlavi, iniziata nel 1941 quando aveva soltanto 22 anni, era in apparente discesa. Dico «apparente» perché in realtà era già in caduta libera; e lo era quasi all’insaputa del diretto interessato che, con ogni probabilità, non prevedeva che la fine del suo regno era prossima più di quanto lui stesso e i suoi consiglieri potessero immaginare.

Lo scenario di una piazza dapprima inquieta, poi movimentata, infine di colpo violenta, doveva esplodere il 7 gennaio 1979 nella drammatica rivolta di massa che di lì a pochi giorni, il 16 gennaio, avrebbe costretto lo Scià alla fuga dall’Iran. Il grande vincitore dalla fluente barba bianca, gli occhi fiammeggianti, il turbante nero degli sciiti sulla testa, l’ayatollah RuhollahKhomeini, rientrava il 1° febbraio a Teheran per instaurarvi, dopo unesilio di 16 anni, la «Repubblica islamica» di cui lui sarebbe diventato il padre e la guida religiosa assoluta. Quell’imprevedibile, quasi improvviso cambio totale di regime e di clima s’era svolto in un crescendo di premonizioni psicologiche e di violenze fisiche che nei velocissimi ritmi di piazza, reiterati, incalzanti, inarrestabili, ricordavano alla rovescia per tanti aspetti lemanifestazioni di rigetto e gli orrori repressivi cheda due settimane insanguinano Teheran.

Le folle del ’79, anche allora in gran parte giovanili, s’avventavano contro la dura autocrazia laicizzante dei Pahlavi; oggi, dopo un trentennio di teocrazia fondamentalista, spietata quanto ambigua, sembra risuonare nei cieli foschi dell’Iran la sveglia del contrappasso; le irate folle giovanili odierne prendono di mira non solo i brogli elettorali, che hanno ridato la presidenza a Mahmud Ahmadinejad sottraendola al moderato Hossein Mousavi, ma in senso lato fanno capire al mondo che la democrazia di facciata, manovrata da vecchi preti inturbantati, è un imbroglio anacronistico che non risponde più alle esigenze di un società iraniana avida di progresso e di modernità.

Mi ritorna di riflesso in mente l’atmosfera d’insoddisfazione e di protesta che serpeggiava per la capitale iraniana negli ultimi giorni del potere, ormai scalfito e usurato, di Shahanshah Aryamehr Mohammad Reza Pahlavi. Pure lui, con il suo realismo ingegneristico e poliziesco, come dopo di lui gli ayatollah e i pasdaran, pensava che la forza d’urto e di ricatto del petrolio avrebbe potuto sanare i molti mali del regno che la politica, da sola, non riusciva a risolvere. Pure lui appariva in ritardo sulle esigenze e le aspettative di costituzionalità, di modernità democratica, che gl’indirizzavano i ceti istruiti ed evoluti di una società mediorientale tutt’altro che primitiva. Riteneva di poter mettere le cose a posto con una megalomaniaca e stonata combinazione di elementi disparati, a cui concorrevano, sul piano ideologico, il pugno di ferro di un kemalismo di riporto, poi sul piano d’immagine un classicismo anch’esso di riporto, imperniato in funzione antireligiosa sul mito di Ciro il Grande, infine sul piano della potenza una polizia segreta spietata e un esercito alimentato dai ricavi del petrolio.

La questione del nucleare era già nell’aria. Ma lui mi disse: «Non vogliamo, almeno per ilmomento, l’atomica, vogliamo invece un esercito tanto forte che, per batterlo, sarebbe necessaria l’atomica: quindi imbattibile». Intuivo di trovarmi al cospetto di un uomo di sofisticata e controllata brutalità, un misto d’archeologo astuto e uomo d’affari spregiudicato, che esprimeva i suoi concetti realistici nell’ottimo francese appreso nei collegi svizzeri. Sulla faccia pergamenacea, già offuscata dal male, spiccavano le inconfondibili labbra violette, enigmatiche, quasi tirate da un elastico da una guancia all’altra. Una faccia occidentalizzante più che occidentale. Sarebbe bastato liberarla degli occhiali, metterle un paio di baffi, ridurne l’ampiezza della fronte, per renderla del tutto simile a quella del masnadiero caucasico che era stato suo padre, Reza Khan, il fondatore semianalfabeta della posticcia monarchia.

Altro che Ciro, Dario, Serse. Erede vulnerabile di un usurpatore forestiero privo di scrupoli e di religione, seduto sul Trono del Pavone vagheggiando di congiungere gli oleodotti dell’Iran energetico al glorioso impero di Persepoli, egli ignorava quasi tutto dell’atavica anima islamica e sciita dell’Iran. Conosceva il calcolo infinitesimale, la chimica, la merceologia industriale, le lingue occidentali, ma non capiva i bottegai del bazar musulmano, che a loro volta non capivano il despota orientale che si dava le arie dell’ingegnere petrolifero.

I bazar, che avevo visitato, apparivano abbandonati da quella segreta poesia del baratto, quasi staccata dal valore intrinseco degli oggetti, che in genere gli conferisce una posizione emblematica e arcana al centro dell’universo coranico. I quotidiani locali, intanto, esibivano in prima pagina notizie sempre più allarmanti. Arresti, bombe, sequestri, sparatorie tra gendarmi e terroristi. Moschee affollate e minacciose. Morti, feriti, dispersi: un quadro che sembra ripetersi oggi su altri versanti. Ricordo le ultime parole, forse le più centrate e antevedenti, che lo Scià con un filo di rassegnazione mi disse in quelle sue ultime ore di regno: «Io, non a caso, ho cercato, nei limiti delle mie forze, di legare lo spirito riformatore e modernizzatore della dinastia iranica che rappresento al passato della Persia classica. Se il mio regno dovesse finire in maniera traumatica, a sostituirlo non sarà il comunismo del partito Tudeh, che dà una mano suicida ai terroristi, bensì qualcosa di assai peggio: sarà il più tetro Medioevo islamico».

Poco più d’un mese dopo, in una Teheran imbandierata di stendardi verdi, almomento del rientro dall’esilio il Khomeini creatore della teocrazia sciita avrebbe annunciato alle folle acclamanti: «La legge appartiene al popolo e nessun governo ha il diritto di mantenerlo sotto la sua tutela: ma fino a oggi il nostro popolo è stato trattato così dal governo dello Scià, in violazione d’ogni sacrosanto diritto internazionale. È per questo che noi non riconosciamo più la sua legittimità». Sono passati trent’anni. Oggi, quelle stesse parole delegittimanti rivolte contro la tirannia laicista dello Scià, vengono rivolte almeno dalla metà degli iraniani contro la tirannica teocrazia degli eredi clericali di Khomeini.

da lastampa.it
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« Risposta #27 inserito:: Agosto 02, 2009, 02:46:05 pm »

2/8/2009
 
L'Italia che non vedremo
 
ENZO BETTIZA
 

Quando si celebrerà, fra un anno e mezzo, il 150° anniversario dell’Unità, non potremo fare a meno di constatare la fragilità e la vulnerabilità di un panorama politico che fin da oggi si presenta purtroppo scisso, segnato più dalla disunione e che dall’unione nazionale. L’annosa «questione meridionale», acuitasi in questi giorni, graverà probabilmente a ridosso delle celebrazioni come il grande problema rimasto irrisolto (e perdipiù complicato dalla «questione romana») dopo la breccia piemontese di Porta Pia. La fiacchezza del consenso patriottico e storico all’anniversario, la quasi ostile indifferenza alla pericolante eredità unitaria, il «vuoto di idee» opportunamente lamentato dall’articolo di Ernesto Galli della Loggia che ha aperto un ampio dibattito sul passato e il presente dello Stato italiano, mettono radici nella faglia anche psicologica e perfino antropologica che la crisi in atto tra Sud e Nord pone ai gruppi dirigenti del Paese.

I molti silenzi e balbettii sull’anniversario originano da qui. Dalla non facile soluzione di un enigma, come quello del Mezzogiorno, mai compiutamente risolto, anzi esacerbato nelle sue oscurità dall’insorgenza protestataria di una contrapposta «questione settentrionale» che, tramite i megafoni di Bossi, esige più giustizia fiscale, più autogoverno, più autonomia amministrativa da Roma. Al lamento patriottico di Galli della Loggia, replica un uomo di sinistra pragmatica e molto nordica come Massimo Cacciari: «Commemorare l’Unità d’Italia? Meglio usare soldi per fare altro. Una festa per festeggiare in astratto l’unità nazionale è quanto di più inutile e retorico si possa immaginare. È giunto il momento d’imboccare una strada federalista». I concetti, come si vede, non sono molto lontani da quelli di Bossi. Per quanto riguarda il Sud, dove sarebbe in corso «una lotta per la sopravvivenza», il sindaco di Venezia sembra ispirarsi alle parole già pronunciate da Alberto Ronchey nei taglienti aforismi di Fin di secolo in fax minore: «Prima la mafia e la camorra potevano reclutare manovalanza e prosperare perché nel Mezzogiorno l’industria non c’era, oggi l’industria non c’è perché ricattata o taglieggiabile da mafia e camorra».

Come riuscirà Berlusconi, su un simile sfondo, a onorare decentemente il duplice e contraddittorio patto che aveva stretto, prima delle elezioni, con la Padania di Bossi e la Sicilia di Lombardo? Riuscirà davvero, nel momento in cui la recessione obbliga Tremonti a stringere i cordoni della borsa, a evitare il parto, per ora soltanto rinviato, di una Lega milazzista e movimentista del Sud opposta a una Lega ormai consolidata e sempre più influente ed egemone nel Nord? Insomma, Berlusconi arriverà al 2011 con un’eredità risorgimentale ricucita alla meno peggio o pericolosamente lacerata? Tutti, maggioranza incrinata e opposizione larvale, sudisti piagnoni e nordisti arroganti, in questi mesi di dibattito, di polemica, di pallida vigilia risorgimentalista, dovrebbero forse rileggere un temibile monito di Gregorovius: «Così com’era, l’Italia non poteva restare. Così com’è, non resterà. Così come dovrebbe essere, purtroppo, non diverrà». Era il 1860: anno d’attesa positiva per gli unitaristi dell’epoca, e negativa per quelli che la pensavano come il titanico e pessimistico storico tedesco.

Erano comunque, già allora, tempi difficili, problematici, travagliati, anche per uomini di grande erudizione e grandissimo fervore risorgimentale come un Niccolò Tommaseo. Il dalmata, che si riconosceva italiano nella cultura e slavo nel sangue, era stato al fianco di Daniele Manin, ch’egli detestava, durante i due anni dell’assedio austriaco di Venezia (1848-49). Era l’ideologo e, di fatto, il ministro degli Esteri della ribelle Repubblica di San Marco la quale aveva messo in scena una drammatica prova generale dei successivi moti del Risorgimento. Tommaseo fu contrario fino all’ultimo alla resa agli austriaci; tuttavia dissentì violentemente da Manin quando questi propugnò e riuscì a far proclamare l’annessione di Venezia al Piemonte. Non solo massimo filologo e lessicografo della lingua italiana, ma autore di una monumentale storia dell’Italia in cinque volumi, suo testamento civile e politico, il Tommaseo però non approvava la strategia unitarista di Cavour e, a mezza strada tra Mazzini e Gioberti, si dichiarava cristiano, repubblicano e federalista; cattolicissimo, perfino nelle cadute e nei rimorsi carnali, gli ripugnava il potere temporale della Chiesa e asseriva che «il destino d’Italia è purtroppo in mano ai preti». Provava un’irriducibile avversione per gli «avvocaticchi» che si erigevano, ignorando le masse, a protagonisti di prima fila dell’impresa risorgimentale. Amava l’Italia, come faro di civiltà e depositaria di un patrimonio universale, ma diffidava dei singoli italiani ritenendoli incapaci di costruire un’entità nazionale su scala europea. Dal nuovo regno italiano rifiutò ogni onore, anche quello di un seggio in senato, per conservare intatto e libero l’uso di una parola che gli usciva spesso velenosa e maldicente di bocca. Nelle opere, nelle passioni politiche, nei malumori, nelle viscerali contraddizioni del Tommaseo si riflettevano, in gran parte, le rose e le spine che l’idea dell’Unità italiana ha continuato a trascinare con sé dall’eroica rivolta antiaustriaca di Venezia fino a oggi. Ricordate il verso dolente degli assediati veneziani? «Il pan ci manca, sul ponte sventola bandiera bianca».

Dovremo forse, assediati da noi stessi, ripeterlo ancora?

da lastampa.it
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« Risposta #28 inserito:: Settembre 18, 2009, 11:56:32 am »

18/9/2009

Varsavia non capisce
   
ENZO BETTIZA


Barack Obama ha bocciato uno dei progetti strategici e politici più controversi del predecessore George W. Bush.

Opponendosi al dispiegamento delle basi per uno scudo spaziale in Europa centrorientale, il Presidente darà inevitabilmente la stura all’intreccio di consensi e dissensi di varia natura e diversa intensità sia all’Ovest sia all’Est.

Piacerà anzitutto al Cremlino, da sempre avverso all’eccessivo avvicinamento delle postazioni occidentali ai confini russi: in particolare, l’installazione nei territori ceco e polacco di batterie e di radar antimissile americani veniva considerata a Mosca, con qualche ragione, come una minaccia all’arsenale nucleare e quindi alla sicurezza militare della Russia. La tesi avanzata a suo tempo da Bush, secondo cui il progetto non avrebbe avuto un carattere offensivo contro la Russia, bensì dissuasivo contro i potenziali missili intercontinentali del lontano Iran, sembrava a molti una scusa cervellotica poco credibile. Ora l’amministrazione Obama ha trovato anch’essa, non si sa con quanta credibilità agli occhi dell’opinione conservatrice del Congresso, una sorta di controscusa tecnica e diplomatica: dai rapporti della Cia risulterebbe che l’Iran starebbe mirando solo alla costruzione di missili a corto e medio raggio, incapaci di raggiungere gli Stati Uniti e le capitali europee.

Il brusco dietrofront rispetto allo scudo in Polonia e in Repubblica Ceca è un’ulteriore tessera che egli inserisce nel mosaico già fitto delle inversioni e correzioni spesso demolitrici delle politiche di Bush. Probabile o improbabile che sia l’ipotesi d’intelligence sul ritardo estensivo degli armamenti atomici di Teheran, Obama dà l’impressione di voler scavalcare il dilemma tecnologico per attenersi strettamente alla strategia della mano tesa verso due Paesi, l’Iran di Ahmadinejad e la Russia di Putin, che da un pezzo si oppongono e contestano con crescente asprezza l’America. Insomma, accantonando il progetto Bush, Obama forse spera di poter cogliere con una fava vistosa due insidiosi sparvieri d’Oriente.

Però il gioco al rilancio positivo presenta qualche preoccupante risvolto negativo. Già il Wall Street Journal, che ha lanciato per primo la notizia, sottolinea che la manovra di Washington sarà «prevedibilmente destinata a placare la Russia ma, anche, a inasprire il dibattito sulla sicurezza in Europa». Ufficialmente il segretario generale della Nato Rasmussen, che interpreta peraltro il condiscendente parere di circoli politici euroccidentali, si è affrettato ad annunciare che il congedo dal piano Bush è un fatto in armonia con «l’indivisibilità della sicurezza di tutti gli alleati». Ma non è così. Non proprio tutti gli alleati atlantici - in particolare quelli dell’Est più coinvolti nell’installazione dello scudo, più vicini alla Russia, più esposti ai ricatti petroliferi e politici russi, ancora memori dei soprusi patiti sotto il giogo sovietico - la pensano come Rasmussen.

Voci sibilline si sono già levate dal ministero degli Esteri di Praga, dove per ora il riserbo sul passo di Obama prevale nettamente sull’applauso. Altre voci, invece più acute, storicamente più autorevoli, nazionalmente più critiche, stanno già alzandosi dalla Polonia che, insieme con la Repubblica Ceca, avrebbe dovuto e probabilmente desiderato ospitare le infrastrutture più cospicue dello scudo statunitense. Da Varsavia l’ex presidente polacco Lech Walesa, mitico leader di Solidarnosc e Nobel per la Pace, interpretando il disagio di tanti compatrioti, ha attaccato con ruvida energia la decisione di Obama invitando la Polonia a rivedere dalle fondamenta i suoi rapporti con gli Stati Uniti. Non v’è dubbio che molti polacchi, euroscettici e ultrapatrioti, avevano fino a ieri dello scudo americano una visione agli antipodi di quella di molti russi: se a Mosca lo percepivano come un latente strumento di offesa, a Varsavia per contro lo sentivano e lo aspettavano come una corazza difensiva.

Non si dimentichi che la Polonia è il più importante degli acquisti orientali dell’Occidente. Quaranta milioni di abitanti, una minoranza di circa sette milioni elettoralmente influenti in America, una Chiesa potente, un’economia in moto nonostante la crisi, un’industria automobilistica (Fiat, Volkswagen, Peugeot) all’avanguardia nell’Europa centrorientale. È la terra di dislocazione di servizi di altre grandi imprese come Philips e Lufthansa. Dai tempi del crollo del Muro di Berlino, il cui ventennale si festeggerà anche a Varsavia, i polacchi hanno sempre avuto nell’America, a prescindere dai presidenti americani, un saldo punto di riferimento, spesso in contrasto con le tendenze politiche e psicologiche degli europei occidentali.

Oggi Obama, volendo «placare» i russi, rischia di alienarsi la simpatia e l’appoggio della nazione più incisiva della nuova Europa, per la quale ricorre non solo l’anniversario liberatorio della caduta del comunismo nei Paesi ex satelliti. La ricorrenza indimenticabile, fra le più tragiche della sua storia, è quella dei settant’anni passati dal 1939, quando la loro patria venne aggredita frontalmente dai tedeschi, e assalita subdolamente alle spalle dai russi. Non sappiamo bene a cosa avrebbe potuto servire in uno scenario strategico reale lo scudo di Bush. Comprendiamo che potesse irritare i russi come un’ipotesi di minaccia. Ma comprendiamo, altresì, che dopo la spartizione della Polonia fra tedeschi e russi, e dopo le fosse di Katyn, la memoria storica potesse portare numerosi polacchi a vedere nello scudo, se non altro in chiave psicologica, almeno un simbolo di difesa.

Il rischio è che le due Europe si dividano sul tema del difficile rapporto con la Russia e, contemporaneamente, su quello ambiguo con gli Stati Uniti. Il massimo che Obama potrebbe fare, dopo l’annuncio clamoroso, è di trattare la cancellazione dello scudo non come un negoziato bilaterale tra americani e russi, ma come una proposta da discutere assieme a tutti gli alleati europei della Nato. Non esclusi, naturalmente, quelli dell’Est, i più turbati e più interessati alla questione.

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« Risposta #29 inserito:: Ottobre 02, 2009, 05:42:55 pm »

29/9/2009

Westerwelle liberale oltre i cliché
   
ENZO BETTIZA


La sintesi di un risultato per tanti aspetti inedito e travolgente l’ha data in due colpi precisi un giornale di Berlino: «Guido Westerwelle trionfa, Angela Merkel governa».

Lo tsunami Westerwelle, nome che in italiano potremmo tradurre «Onda dell’Occidente», è difatti la novità di punta di un’elezione che assegna al giovanile e spregiudicato leader liberale la medaglia del vincitore reale.

Mentre riconferma alla Merkel, togliendo punti ai due partiti democristiani che la spalleggiano, lo scontato bis personale alla Cancelleria e decreta, con la sconfitta di Steinmeier, la catastrofe storica della più antica socialdemocrazia europea. Completa il quadro, estremamente mosso, la notevole ma pur sempre marginale avanzata della Linke di Oskar Lafontaine e Gregor Gysi, figure di testimonianza di una «sinistra delle sinistre» che ha rastrellato voti di protesta fra gli elettori insoddisfatti dell’Ovest e quelli nostalgici dello scomparso Stato assistenziale dell’Est.

La vittoria netta di Westerwelle e del suo partito, la Fdp, Freie Demokratische Partei, emarginata per undici anni all’opposizione, ma ora balzata dal 9,8% al 15, ha tanti significati non solo sul piano politico, ma anche su quello del costume e direi perfino dell’estetica politica. Vediamo il liberalismo tedesco occidentale, che dall’epoca di Adenauer e di Erhard fino ai tempi di Brandt e di Kohl aveva esercitato la funzione dirimente dell’ago della bilancia nelle formule di governo, lo vediamo uscire da un mezzo coma e rompere a galoppo su una scena in crisi cavalcato da un personaggio anomalo, che fino all’altroieri veniva dileggiato dagli avversari come una scheggia mondana impazzita o applaudito dai seguaci ipnotizzati come un attore trasgressivo e dissacrante.

Lo ricordo nei depressi convegni liberali di fine secolo in Renania. Tentava di rivitalizzare con spericolate battute di spirito il terzo partito germanico in calo di consenso, annunciando alle platee, non so se allibite o fiocamente rallegrate, che la Fdp per rinascere avrebbe dovuto nientemeno che mimetizzarsi in una «Spasspartei»: partito dello spasso e del divertimento. S’attagliavano perfettamente all’annuncio, considerato da molti profanatorio, l’aspetto esibizionistico e il portamento pubblico anticonvenzionale del giovane segretario generale. Nell’omosessuale dichiarato, nei suoi abiti eccentrici e raffinati, nella prestanza ginnica, nelle battute ricalcate sugli aforismi di Wilde, già allora non c’era quasi nulla dell’aplomb severo dei grandi borghesi liberali come il presidente della Repubblica Walter Scheel e il pressoché inamovibile ministro degli Esteri Dietrich Genscher, che certo disdegnavano Wilde e certamente leggevano Max Weber.

Definire quindi uomo di destra un imprevedibile picaro della politica postmoderna (così direbbe lui), classificare la sua estroversa entrata nella Piccola Coalizione accanto alla materna Angela come una «svolta a destra» dell’asse politico tedesco, mi sembra alla fin fine improprio. Applicare i soliti cliché di un lessico topografico antiquato a un corridore stravagante, proteiforme e inafferrabile come Westerwelle, appare approssimativo o quantomeno prematuro. Si mescolano, in lui, un radical chic politicamente scorretto, un liberista estremo, un oppositore del fisco punitivo, un fautore dello Stato magro, attentissimo però alla questione dei diritti civili, all’ecologia ragionata, alla libertà individuale, alla protezione perfino esaltata della diversità che egli stesso non occulta e pratica apertamente, a fianco del suo compagno, nella vita privata. Lo si direbbe un miscuglio asimmetrico, radicalizzato alla tedesca, tra il miscredente Zapatero e lo spregiudicato conservatore Cameron. Per qualche altro lato può evocare più il liberalismo radicale di un Pannella che quello tradizionale di Malagodi. Se diverrà vicecancelliere e ministro degli Esteri, su certi argomenti civili, per usare il vecchio vocabolario, potrà scavalcare a sinistra la stessa Merkel, parzialmente contagiata e socialdemocratizzata dal suo ex vice Steinmeier.

Oggi appoggiano l’animale di successo la grande industria, le dame da salotto abbienti e influenti, il ceto medio benestante che deplora la tassazione eccessiva subita durante i quattro anni semiassistenzialisti del connubio cristiano-socialista. Ma l’inattesa ondata Westerwelle ha lambito e inghiottito anche il voto di ecologisti urtati dall’incontinenza ideologica dei Verdi, di molti metalmeccanici e perfino di tanti disoccupati delusi dal cerchiobottismo caritatevole della Grande Coalizione. Il sorprendente personaggio ha ribaltato le regole del compromesso storico germanico, che aveva visto fidanzarsi in senso politico, durante la campagna elettorale, la cautissima candidata Merkel e il prudentissimo candidato Steinmeier, non più rivali ma quasi complici navigati e astuti.

La punizione reattiva da parte dell’elettorato è stata esemplare e molto mirata. Hanno imbalsamato per una seconda legislatura la Merkel, hanno limato però lo zoccolo duro Cdu-Csu che la sosteneva, hanno inabissato la Spd e scartato il mito o, se vogliamo, il placebo del perfetto bipartitismo di governo. Hanno in definitiva premiato l’outsider imperfetto ma velocissimo che, da domani in poi, dovrà vedersela coi duri fatti di una crisi che continua ad attanagliare e destabilizzare con tre milioni di disoccupati il Paese più importante dell’Unione Europea.

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