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Autore Discussione: Vincenzo Vasile - Strategia della violenza  (Letto 2088 volte)
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« inserito:: Novembre 14, 2007, 09:08:07 am »

Strategia della violenza

Vincenzo Vasile


No, l’Italia non è quella degli ultrà: il presidente Napolitano ha saputo dare voce allo sconcerto e allo sdegno per le immagini di devastazione e di sedizione passate domenica sera in tv. Immagini che chiudono una sequenza iniziata la mattina nel piazzale dell’autogrill di Arezzo dove ha perso la vita un giovane tifoso laziale. Bisogna ragionare con i nervi saldi. E il primo sforzo di razionalità che la situazione richiede è, per l’appunto, quello di scomporre, di spezzare la concatenazione di fotogrammi di questa ennesima, gravissima domenica violenta.

Nel ripercorrere gli avvenimenti, del resto, si scopre che molto probabilmente il poliziotto che ha ucciso Gabbo Sandri sparando ad altezza d’uomo riteneva di bloccare con un assurdo e sconsiderato uso delle armi quello che aveva scambiato per un tentativo di rapina. La “rissa” e il “conflitto tra tifoserie” di cui per ore e ore hanno parlato i telegiornali, c’entra, dunque, sin dall’inizio della folle domenica di san Martino, poco o nulla.

Dalla sequenza bisogna, perciò, isolare la lunga coda di violenti fotogrammi della serata. Sono stati semmai il lungo black out di informazioni e qualche interessato depistaggio sui fatti di Arezzo a scaricare, infatti, gli effetti di un gravissimo episodio di violenza e di defaillance poliziesca sul mondo del calcio.

Negli stadi che in quelle ore si stavano riempiendo c’era in stragrande maggioranza gente che voleva godersi la partita della squadra del cuore (e che oggi pagherebbe un prezzo immeritato se venissero messi in atto inconcludenti sospensioni del campionato); e c’era una minoranza non solo violenta ma organizzata, che non aspettava altro che una scintilla per dar fuoco - letteralmente - alle polveri.

Quello che è accaduto per le strade di Roma - caserme e commissariati presi d’assalto, due quartieri caduti letteralmente in mano a bande di incappucciati, incendi e bombe contro le auto parcheggiate e i cassonetti, il tentativo di linciaggio contro chiunque portasse una divisa - ancor più degli episodi paralleli avvenuti dentro agli stadi di Bergamo e di Milano, mostra la carica eversiva e la determinazione di un “movimento” pericoloso, da bloccare e ridurre alla ragione prima che sia troppo tardi. Già per un motivo oggettivo ed evidente: le strade della città sono state scelte forse per la prima volta con questa nettezza come il teatro per scatenare le violenze, anche in zone lontane qualche chilometro dall’Olimpico. Sono stati tirati in ballo i cosiddetti “anni di piombo”, ma forse neanche in quell’epoca ci sono simili precedenti.

Bisogna dare, perciò, alle cose il loro nome: abbiamo un grave problema di ordine pubblico e di repressione, e così riteniamo sacrosanta la decisione della Procura romana di contestare l’aggravante di “terrorismo” ai (pochi, troppo pochi) fermati dell’altra sera. Croci celtiche, inni razzisti e nazisti, saluti romani, esibizioni muscolari: il fatto è che in Italia a differenza di consimili ma assai meno organizzati fenomeni di altri Paesi, il “movimento delle curve” si è installato ormai da anni nella “zona franca” degli stadi, acquistando ed esibendo connotati politici di estrema destra sempre più evidenti. All’origine questo nuovo squadrismo ha cercato di pescare anche negli ambienti dei raduni musicali, ma ha fallito il tentativo di intrusione. E ha ormai scelto definitivamente il terreno di coltura e la nicchia accogliente delle gradinate. Ha anche goduto per un certo, lungo periodo della tolleranza e dei finanziamenti delle società calcistiche. Ma ora che, sia pur tardivamente, si sta cercando di spezzare questo cordone ombelicale - come è dimostrato dalle posizioni della dirigenza del Catania dopo l’omicidio dell’agente Raciti, o quelle di ieri del presidente dell’Atalanta - appare sempre più chiaro che non sarà qualche sociologismo sulla devianza giovanile o qualche sospensione di campionato, né tanto meno il divieto di trasferta dei club, a bloccare una deriva politica ed eversiva che non può che aggravarsi.

La “caccia alla divisa” ingaggiata dagli ultrà per le strade del Flaminio e di Ponte Milvio non rappresenta solo una pericolosa e grave persecuzione degli addetti alla sicurezza e all’ordine pubblico, ma può scatenare una reazione uguale e contraria dentro a corpi dello Stato che non hanno ancora interamente metabolizzato lezioni di civiltà e di democrazia, come dimostra il tragico “affare” del G8. E inutili “grida” manzoniane appaiono, per fare un altro esempio, misure come quelle agitate in queste ore, che attribuirebbero alle società una responsabilità oggettiva anche per incidenti che avvengano fuori dallo stadio: non solo per ovvie ragioni garantiste - che colpa hanno Lotito o Sensi per l’assalto al commissariato di Ponte Milvio? - ma per il rischio di aggiungere disagio e tensione, e dunque altro spazio di proselitismo presso una grande massa di tifosi perbene penalizzati dalla repressione assieme ai violenti.

Cosa vogliono? Quali obiettivi si propongono gli oltranzisti delle curve? Le pulsioni ribellistiche e il brusio disperato di molte radio e blog ultrà in queste ore ci dicono che il tifo violento non si pone più soltanto, volta per volta, lo scopo di condizionare le decisioni degli organismi sportivi, o di impossessarsi dei business delle trasferte e del merchandising, come faceva ai suoi albori, aiutato dal silenzio quasi generale e dalla sottovalutazione delle autorità di governo; così come oggi il frastuono più confuso di uno stracco braccio di ferro tra governo, autorità sportive e società calcistiche rischierebbe di facilitare anziché bloccare un ulteriore salto di qualità. Bisogna, dunque, fare terra bruciata attorno al “movimento” prototerroristico che si intuisce stia cercando di crescere nelle curve; restituire esse al nostro sport nazionale; ed evitare che altre esche si infiammino dentro a una strategia pianificata che ha sempre più chiaramente obiettivi destabilizzanti. Il nome degli ultrà, del resto deriva - e ci sarà una ragione - proprio dalla denominazione degli oltranzisti monarchici della Restaurazione, che erano ancor “più realisti del re” - ultra-realisti - e cercarono in tutti i modi di esasperare la situazione nella Francia di inizio Ottocento. Per far tornare l’Ancien Regime. E l’Italia, anche in questo senso, non è quella degli ultrà: ha ragione Napolitano.

Pubblicato il: 13.11.07
Modificato il: 13.11.07 alle ore 9.19   
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