LA-U dell'OLIVO
Novembre 24, 2024, 07:25:40 pm *
Benvenuto! Accedi o registrati.

Accesso con nome utente, password e durata della sessione
Notizie:
 
   Home   Guida Ricerca Agenda Accedi Registrati  
Pagine: [1]
  Stampa  
Autore Discussione: Elisabetta GUALMINI. La protesta è diventata alienazione  (Letto 3284 volte)
Admin
Utente non iscritto
« inserito:: Maggio 13, 2013, 10:56:23 am »

Editoriali
13/05/2013

La posta in gioco per il Pd

Elisabetta Gualmini


La deprimente Assemblea di sabato ha formalmente aperto il Congresso Pd che, a meno di colpi di mano, dovrebbe concludersi in ottobre, secondo le innovative regole scelte nel 2008, con l’elezione di un nuovo leader da parte di tutti i cittadini che abbiano voglia di partecipare. 

 

Sia gli accordi presi dai maggiorenti nella riunione del «caminetto» tenutasi pochi giorni prima, sia il testo criptico (as usual) di un ordine del giorno approvato sabato, sia l’entusiasmo impalpabile con cui Epifani è stato ascoltato da una platea ridotta a un terzo nel dopo-pranzo, dicono che il neo-segretario dovrebbe essere traghettatore e garante di una breve fase transitoria. Nella quale sarebbe ragionevole attendersi che nuovi attori si facciano ora avanti per contendersi la guida del partito. Corposi indizi lasciano invece intendere che non andrà così, per il prevalere di «istinti di sopravvivenza» che già hanno portato quel partito ben oltre la soglia della auto-dissoluzione.

 

Chi si aspettava un taglio netto col passato, una cura da cavallo al corpaccione agonizzante del Pd, capace di rianimarlo e di rimetterlo in corsa, non poteva che rimanere deluso, via via che scorreva lo spartito degli interventi, tutti rigorosamente sottotono, in una gara ad apparire modesti, monocordi, elusivi sui clamorosi fallimenti del gruppo dirigente dimissionario, appassionanti come la lettura del codice civile alla fine dei matrimoni. Con l’eccezione, va riconosciuto, del candidato in pectore Gianni Cuperlo, decisamente fuori standard per chiarezza e profondità, l’unico ad aver pronunciato la parola «sconfitta». 

 

Tra gli indizi visibili al pubblico ci sono i calorosi abbracci, di consolazione e incoraggiamento, tra Bersani, Franceschini, Letta ed Epifani. A conferma che quest’ultimo potrebbe non essere il traghettatore verso un nuovo inizio (che si tratti di far girare la ruota lungo il viale delle rimembranze già solcato da Bersani o di imporre un’agenda alternativa con il metodo Renzi) ma, tutto al contrario, il garante dello status quo. Il rappresentante del «patto di sindacato» che controlla il Pd dal 2010 (Bersani, Letta, Franceschini). E dunque dell’accordo di governo Pd-Pdl, l’ultima spiaggia a cui questo gruppo dirigente è approdato dopo una sconclusionata navigazione a vista. Le parti si sono invertite rispetto ai piani fatti alla vigilia delle elezioni: la «non vittoria» di Bersani ha portato i post-Dc in prima fila; e con quello che ieri era il nemico pubblico numero 1 (Berlusconi) si è oggi dovuta stringere una «alleanza organica» (si sarebbe detto nella Prima Repubblica). Ma il «patto di sindacato» regge. Viene prima di tutto. Anche se per tenerlo in piedi e rimanere a galla si devono fare salti mortali sul piano logico che pochi comuni mortali riescono a seguire.

 

Non è facile spiegare come Epifani, che da segretario della Cgil fu un combattente tenace contro il governo Berlusconi, ora sia il principale sostenitore dell’accordo con il nemico. Ce lo ricordiamo nell’ottobre del 2010, alla manifestazione Fiom a Roma, mentre urlava e infiammava la piazza, in un crescendo di bordate contro il Caimano, al centro del palco tra due tostissimi come Landini e Cremaschi che ascoltavano annuendo. «Una politica di destra che ha umiliato il Paese, che ha tagliato scuola e ricerca e ha mandato a casa i precari. Che ha usato la crisi per colpire i diritti dei lavoratori». Il leader che ha spinto la Cgil sulla via delle intese separate, dicendo no alla riforma del modello contrattuale del 2008, il primo degli strappi da Cisl e Uil sino a Pomigliano. Ora è lui la stampella su cui si regge il governissimo con Berlusconi, con il problema giustizia grande come una casa.

 

Ma se questa è la base di partenza, il Congresso Pd potrebbe rivelare sorprese. Il discrimine potrebbe diventare, per l’appunto, quello che separa i difensori dello status quo (patto di sindacato interno, larghe intese) e chi ritiene che vada superato (sotto tutti e due i punti di vista). Che poi vuole anche dire, chi scommette sulla durata dell’attuale governo per più di dieci mesi e su Enrico Letta come bandiera elettorale del Pd anche nelle prossime elezioni, e chi pensa che la nuova bandiera non potrà che essere Renzi, il prima possibile. 

 

twitter@gualminielisa 

da - http://lastampa.it/2013/05/13/cultura/opinioni/editoriali/la-posta-in-gioco-per-il-pd-CCNmKSNV0Fuk0GA5illk6I/pagina.html
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #1 inserito:: Maggio 28, 2013, 05:11:05 pm »

Editoriali
28/05/2013

La protesta è diventata alienazione

Elisabetta Gualmini


Li hanno provati e hanno capito che non sono tanto diversi da tutti gli altri. I grillini dalle facce nuove e sconosciute alla politica, quelli «troppo inesperti per poter rubare», i politici-cittadini «proprio come noi» non hanno convinto gli elettori a chiedere il bis.  

 

Il Movimento 5 Stelle ha perso un po’ dovunque nei comuni in cui si è presentato, dopo lo straordinario successo di tre mesi fa. Una nemesi storica a velocità supersonica, di proporzioni vistose. E lo sboom più che andare agli altri partiti è andato verso l’astensione. Se a febbraio Grillo aveva tirato per i capelli cittadini spazientiti, ma disponibili a fare il tentativo più estremo, buttandosi pancia a terra su una novità, ieri nemmeno le urla e i cori sbracati di tutti-a-casa non sono bastati. Più che rinunciatari o ribelli, in gruppi ora cospicui, i cittadini italiani tenderanno a cadere nella categoria dei «politicamente alienati». Di chi si sente totalmente estraneo rispetto alle istituzioni della democrazia rappresentativa. E non se ne cura più.  

 

Il caso di Roma è emblematico. Solo un cittadino su due ha votato e i 5 Stelle hanno dimezzato il loro peso rispetto alle politiche. Avevano già dimostrato di soffrire sul voto amministrativo rispetto a quello nazionale, basato sull’opinione creata dal leader attraverso i media. La vittoria di Pizzarotti a Parma non deve trarre in inganno. Nel febbraio 2013, a Roma, presero il 27,3% sulle liste per il Parlamento. Ma lo stesso giorno, il candidato grillino alla presidenza della Regione guadagnò il 20,1 (e la lista con i candidati al consiglio comunale del Movimento solo il 16,8%). Oggi, però, è caduto al 13!

 

Il cyberpartito di Grillo, poi placcatosi saldamente a terra per mettere radici nei palazzi del potere, rimane pur sempre un partito di protesta. E i partiti di protesta raramente arrivano a ottenere una maggioranza utile per governare, o a mutare natura e diventare parte integrante del sistema. Il ridimensionamento che pare portare i 5 Stelle verso una taglia media, sembra dovuto a due fattori. Il congelamento del voto dato alle politiche ad opera di gruppi parlamentari che hanno perso troppo tempo a discutere di micro-strategie, scontrini del caffè, e organizzazione interna. E la mancanza di candidati alle amministrative con qualche appeal che non sia la sola luce riflessa del capo. Non si è visto in giro nessun altro Pizzarotti, in grado di essere a suo modo personaggio, e di farsi portavoce politico di movimenti locali già esistenti e già fortemente legati alla città. Dove Pizzarotti non c’è, come nella maggioranza dei luoghi, i «politici-gente-comune» sono solo degli sconosciuti, i 5 Stelle rimangono Grillo-dipendenti. Ma davanti al capo sfigurano. Di fronte alla violenza delle sue sparate colossali contro tutti, alla concretezza sanguigna del turpiloquio buttato addosso a chiunque e all’energia ciclopica che nemmeno il corpo elastico di Grillo riesce a contenere, il mondo mite e naïf degli aspiranti-politici che vogliono realizzare un Sogno (Come De Vito che è sceso in politica per cambiare il mondo per la sua bambina) semplicemente sparisce.  

 

La politica corre veloce e le cose cambiano in fretta. Nel giro di pochissimo, l’antivoto è diventato non voto. Per quanto i dati vadano rispettati e non si debba indulgere con le esagerazioni. Ad esempio, alle regionali del 2010, la partecipazione a Roma era stata del 56,6%, solo di poco superiore a quella registrata ieri. Ma soprattutto, molti dei comuni in cui si è votato domenica scorsa, nel 2008 avevano votato nello stesso giorno delle politiche. Il termine di comparazione era quindi alterato. Tanto che se si considerano separatamente i comuni capoluogo che nel 2008 avevano votato lo stesso giorno delle politiche registrano un calo di 18 punti nel tasso di partecipazione. Ma in quelli che avevano votato in una data diversa, il calo è ben differente, di 8 punti. Molti lo stesso, naturalmente.  

 

Insomma dalla «voice» (la protesta), si è passati all’exit (alla uscita dal gioco). Il suo fallimento ha fatto di Grillo il traghettatore da una forma di rifiuto a un’altra. Facendo prima lievitare la stizza per poi trasformarla in alienazione. E’ una indubbia battuta di arresto. Se il flop avrà ripercussioni sul plotoncino di parlamentari che dovevano aprire il Parlamento come una scatoletta di tonno, lo vedremo a breve.

 

twitter@gualminielisa  

da - http://lastampa.it/2013/05/28/cultura/opinioni/editoriali/la-protesta-diventata-alienazione-riFazRvlBm3UIaqg1v8P5H/pagina.html
« Ultima modifica: Giugno 11, 2013, 05:23:48 pm da Admin » Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #2 inserito:: Giugno 06, 2013, 03:05:29 pm »

Editoriali
05/06/2013

Pd, il partito che ha paura del leader

Elisabetta Gualmini


Ieri Matteo Renzi ha ripetuto che la sua candidatura alla segreteria del Pd «non è un tema prioritario». Giorni addietro aveva detto di considerare più importanti le scelte e gli orientamenti che dovrebbero maturare, non si sa come, all’interno del partito: «Farà un congresso serio o no? Accetterà la sfida del cambiamento? Ha capito di avere perso le elezioni di febbraio? E ha voglia di provare a vincere le prossime?».

 
Si tratta di domande pertinenti, non c’è dubbio. Ma le risposte non verranno dall’attuale gruppo dirigente. Renzi sa benissimo che a quelle domande oggi può rispondere solo lui. E proprio per questo la sua candidatura è il tema prioritario. Lo sa lui, e lo sanno gli altri. Il congresso sarà serio se vi si confronteranno proposte realmente alternative e candidati veri alla leadership, capaci di porre con forza la sfida del cambiamento. Una opportunità che di solito si dilata dopo una cocente sconfitta, se si intravede qualcuno che può riportare il partito a vincere, ma fa in fretta a richiudersi. Renzi dovrebbe sapere che non ci saranno per lui tappeti rossi e che le occasioni raramente tornano, in politica.

 
Il coro quasi unanime degli «ora tocca a Matteo», «è lui il leader del futuro» si è già quasi ammutolito. Dopo la direzione nazionale del Pd di ieri sera, dovrebbe essere ancora più evidente che l’attendismo non paga. Ne genera a sua volta dell’altro. L’incertezza ingrossa la voglia di annacquare il brodo, di stemperare il rendiconto dei leader che hanno fallito e la ricerca di nuove strade in una lunghissima liturgia congressuale di rito ortodosso. Le resistenze dal ventre molle del partito nei confronti del sindaco ci sono ancora, eccome, sebbene si manifestino con toni e strategie più morbide e con transfughi candidamente pronti a orientarsi, di ora in ora, verso un nuovo carro del vincitore.

 
Un primo chiaro segnale è il cosiddetto «congresso dal basso». Che sembra voler dire: giù le mani dall’organizzazione. Ancora non si sa a chi andrà il tassello astrattamente più rilevante della segreteria da qui al Congresso, se a Luca Lotti, come chiesto da Renzi o, come si mormora, a Davide Zoggia, molto vicino all’ex segretario. Ma nel frattempo Epifani ha proposto che il rinnovo delle cariche di livello provinciale e regionale avvenga in un momento precedente e distinto rispetto all’elezione del segretario nazionale. Che è come dire, lasciarle tutte o quasi nelle mani dell’attuale «patto di sindacato» e delle macchine interne consolidate, dato che tra gli iscritti, in assenza di una competizione tra indirizzi politici chiaramente alternativi, sono destinati a prevalere gli assetti esistenti. 


Il secondo segnale è la riluttanza verso la leadership. La leadership è ancora un tabù per il Pd. Ha certamente ragione Epifani quando dice che il Pd è l’unico partito non personale (non è proprietà di nessuno). Ma è anche l’unico partito senza un leader. Andrebbe aggiunto con altrettanto vigore. O, che è la stessa cosa, con troppi leader, nessuno in grado di dare la rotta. Una zattera che sbatte di qua e di là con scarse possibilità di approdo. Non ci può essere visione senza un leader. Non ci può essere un progetto senza un centro. Nella «democrazia del pubblico», piaccia o non piaccia, il ruolo dei partiti come organizzazioni solide che aggregano e gestiscono il consenso è destinato a indebolirsi; è il leader con le sue caratteristiche personali a parlare direttamente all’opinione pubblica, a mettersi quanto più possibile in gioco davanti ai cittadini. Non c’è niente da fare. La propensione alla leadership del sindaco-arrembante al Pd non va proprio giù. Il partito del «noi» e del «tutti insieme» non la digerisce. E non si capisce come questo possa conciliarsi con l’appoggio a un governo che sta intraprendendo la strada del semipresidenzialismo. Una contraddizione esplosiva, su cui ieri sera il segretario ha frenato.

 

Tocca a Renzi a questo punto, se ne ha la forza, di interrompere la sindrome, già in corso, della normalizzazione. E cioè il ritorno a un partito non contendibile. Utile a garantire il governo che c’è, finché non arriva la prima tempesta che lo spazza via. Solo con un partito contendibile e con leader che si affermano in una competizione aperta si può veleggiare senza sbandare.

 

twitter@gualminielisa 

da - http://lastampa.it/2013/06/05/cultura/opinioni/editoriali/pd-il-partito-che-ha-paura-del-leader-eJwigbwb3GIJXfGTxTt6CK/pagina.html
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #3 inserito:: Giugno 11, 2013, 05:24:26 pm »

Editoriali
11/06/2013

La normalità del non voto come negli Usa

Elisabetta Gualmini

In Italia non andare a votare è diventata una cosa normale. Siamo tutti un po’ più americani. Metà dei cittadini – anche meno – ci vanno stabilmente, l’altra metà spesso sta alla finestra a guardare. Nemmeno il sindaco, il leader politico più a contatto con le magagne della vita quotidiana ci appassiona. Per andare al seggio ci vogliono buonissimi motivi, solide ragioni.

L’abitudine non è più un movente idoneo. 

Nemmeno nel Nord, un tempo primo della classe, quando il senso civico si traduceva in senso del dovere elettorale, il quale a sua volta spingeva a «turarsi il naso» per sostenere il meno peggio.

Sta qui uno dei tre fattori che spiegano la vittoria netta del centrosinistra: undici comuni capoluogo su undici. Lo avevamo già visto all’opera durante il primo turno delle amministrative. È il fenomeno dell’astensionismo asimmetrico: la fuga a gambe levate dalla politica che però stavolta colpisce in maniera di gran lunga prevalente il centrodestra. Un elettorato, quello del Pdl, meno incline a mobilitarsi secondo logiche di fedeltà ad un partito (semmai a un leader che questa volta non c’era) rispetto a un elettorato che, anche se si rimpicciolito, non sceglie facilmente la via dell’uscita. L’hanno spiegato bene D’Alimonte e Cataldi sulle pagine del «Sole 24 Ore» con riferimento a Roma. Rispetto al primo turno delle comunali del 2008, Marino ha perso il 33% dei voti ottenuti allora da Rutelli, mentre Alemanno è stato abbandonato addirittura dal 46% degli suoi elettori di cinque anni fa, i quali sono rimasti quasi in blocco a casa. Un fenomeno simile si è ripetuto anche al secondo turno, aumentando il divario tra i due, quando sono arrivati anche un po’ di voti aggiuntivi, ma quasi solo a Marino, da elettori che al primo turno avevano scommesso su candidati usciti di scena. In dimensioni inferiori, sono capitate cose simili in molte delle città al voto. Perché quasi dappertutto i candidati locali del centrosinistra apparivano stavolta più presentabili.

A loro vantaggio, hanno giocato al secondo turno anche le crescenti aspettative di vittoria. Al primo, complici i sondaggi basati sulle intenzioni di voto in ambito nazionale, tutti favorevoli a Berlusconi, gli elettori «attivi» del centrodestra potevano nutrire buone speranze che i loro candidati ce l’avrebbero fatta. Ma i risultati hanno segnalato un vento in direzione contraria, con l’effetto di deprimere ulteriormente i potenziali sostenitori del Pdl e rimotivare quelli del Pd.

Non solo. E così arriviamo dritti ad un altro fattore che ha portato i candidati Pd a vincere. La maggiore capacità di includere gli elettori di candidati arrivati terzi o quarti, anche nei capoluoghi in cui vi era pochissimo scarto tra primo e secondo. Il Pd è riuscito a creare cartelli e accordi locali ad hoc contro i candidati avversari. In molti casi il flusso dal Movimento 5 stelle o da liste civiche è stato «naturale», non ha avuto bisogno di essere favorito da accordi tra ceto politico, ha seguito la logica descritta dalla teoria di Anthony Downs, del voto dato al candidato meno distante rispetto al preferito. In altri «la politica» ha fatto la sua parte.

Ad Avellino, ad esempio, la vittoria del Pd è l’esito di un referendum contro il candidato di Ciriaco De Mita (Udc) che ha visto ordinatamente confluire i voti del Pdl, contraddicendo Downs (!), sul candidato Pd, un po’ come ad Imperia, dove la débâcle di Erminio Annoni va trasferita dritta dritta al suo principale sponsor Scaiola. A Brescia, invece, dopo la deludente (o degradante) prova di governo del sindaco uscente, il candidato Pd ha stretto una formale alleanza con una lista «civica» guidata dall’ex-socialista Laura Castelletti. 

Insomma, il centrosinistra ha superato la prova, con candidati spendibili a livello locale, di gran lunga più credibili rispetto ai competitori pidiellini, a leghisti ormai fuori tempo massimo, ai 5 stelle introvabili. La previsione del premier Letta che aveva azzardato un risultato «molto positivo» da queste elezioni - se intesa nel senso di segnare uno stop all’incontenibile propensione di Berlusconi a scrivere l’agenda del Governo, in quanto azionista in ascesa - si è rivelata azzeccata. 

twitter@gualminielisa

da - http://lastampa.it/2013/06/11/cultura/opinioni/editoriali/la-normalit-del-non-voto-come-negli-usa-96ZDjwfXSpJBB4WaBT6ZvN/pagina.html
Registrato
Pagine: [1]
  Stampa  
 
Vai a:  

Powered by MySQL Powered by PHP Powered by SMF 1.1.21 | SMF © 2015, Simple Machines XHTML 1.0 valido! CSS valido!