LA-U dell'OLIVO
Novembre 28, 2024, 03:36:52 am *
Benvenuto! Accedi o registrati.

Accesso con nome utente, password e durata della sessione
Notizie:
 
   Home   Guida Ricerca Agenda Accedi Registrati  
Pagine: 1 [2] 3 4 ... 7
  Stampa  
Autore Discussione: MAFIA - MAFIE - CORRUZIONE  (Letto 70372 volte)
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #15 inserito:: Giugno 25, 2008, 10:59:17 am »

CRONACA

IL RACCONTO. L'autore del best seller sui gangster della Capitale ricostruisce il loro possibile ruolo nel sequestro della Orlandi

Dalla Magliana ai salotti buoni romanzo criminale di una banda

di GIANCARLO DE CATALDO

 
BISOGNA sempre fare una robusta tara, quando si parla di Banda della Magliana: con l'andar del tempo, la dimensione di questo gruppo criminale ha assunto contorni di leggenda. Piccoli delinquentelli cani sciolti si appropriano con disinvoltura di quarti di nobiltà criminale millantando legami inesistenti con la Banda. E zelanti sbirri accrescono il prestigio di arresti periferici collegando arbitrariamente il ladro di turno alla ormai mitica Banda. La "voce" di rapporti fra De Pedis e il Vaticano riemersa prepotentemente in questi giorni, non è una novità in senso assoluto: anche se, almeno sino al maxiprocesso del 1996, niente di serio era mai trapelato. E' verosimile un così prolungato silenzio, anche da parte dei "pentiti"?

Non avevano forse accusato altre figure eccellenti (qualcuno ritrattando, qualcun altro, come Antonio Mancini, confermando senza mai smentirsi)? Se sapevano, perché hanno taciuto su Emanuela?

Il dato di partenza, se considerato come ipotesi "di contesto", appare comunque verosimile. A parte il dettaglio della sepoltura in terra consacrata di un uomo che, quando fu assassinato, chiamavano "Il Presidente" della malavita, che De Pedis e l'ala "testaccina" da lui capeggiata godessero di ottime entrature, è verità storicamente accertata. Non altrettanto certo è che si possa attribuire un'analoga capacità di manovra all'intera Banda della Magliana.

Anche qui vanno sfatati alcuni resistenti luoghi comuni. Come associazione criminale, la Banda della Magliana nacque per aggregazione di "batterie" di giovani delinquenti di periferia. Si strutturò come vera e propria banda reinvestendo nel traffico di eroina e di cocaina i proventi di un tragico sequestro di persona. Impose la propria egemonia sulla città di Roma grazie a un uso sapiente e chirurgico della violenza, e, da un certo punto in avanti, fu apertamente "aiutata" a progredire. Sottovalutazione della pericolosità, distrazione delle forze dell'ordine, impegnate nella spasmodica caccia ai terroristi, soprattutto "rossi", l'abilità manovriera di alcuni boss assicurarono alla Banda una rete di complicità che, sia pure per un breve periodo, equivalse a una patente di impunità.

Ma, attenzione: non tutti i componenti della Banda, e non sempre, poterono godere di uguale libertà di manovra. Secondo una consolidata legge della malavita - e il crimine organizzato non fa eccezione - da un certo momento in avanti si procedette ciascuno per sé. Invidie e rancori esplosero fra l'anima "proletaria" e borgatara e quella più compromessa con pericolosi compagni di strada come mafiosi, massoni deviati, terroristi, grand commis dalle oscure frequentazioni. D'altronde, era inevitabile che fra gente che sognava una villetta all'Infernetto e un negozio di parrucchiera per la sua compagna e uno come Renatino De Pedis che ostentava atteggiamenti e look da gran signore, si finisse ai ferri corti. Per intenderci: per cercare la prigione di Moro fu coinvolta l'intera banda, ma a sparare a Roberto Rosone, il vice di Calvi all'Ambrosiano, Danilo Abbruciati ci andò da solo, e senza informare gli altri. Proprio per questo, d'altronde, ipotizzare che la scomparsa di Emanuela Orlandi sia un affare "tout court" della Magliana è azzardato: perché, in quell'anno 1983, la storia personale di De Pedis aveva già preso un'altra strada.

Il suo coinvolgimento nella scomparsa di Emanuela potrebbe però trovare, stando ai si dice di questi giorni, una spiegazione in chiave di politica, interna o internazionale. Il ricatto al Vaticano, l'ombra di Marcinkus, i maledetti (viene da dire: diabolici) soldi dello Ior, l'esecuzione sotto il Ponte dei Frati Neri, i missili Exocet, il sicario turco che invoca la Madonna di Fatima... Un gioco enorme anche per gente pronta a tutto, che, negli anni a venire, avremmo imparato ad assimilare non alla genìa dei criminali, ma a quella degli imprenditori "abili e spregiudicati". Uno scenario tanto tragico quanto affascinante. Uno scenario che l'ostinato "riserbo" mantenuto in tutti questi anni dalle gerarchie ecclesiastiche ha decisamente complicato. Le ex spie dell'Est, però, smentiscono categoricamente. D'accordo, le smentite dei professionisti della menzogna lasciano il tempo che trovano. Ma è impossibile non tenerne conto, non foss'altro per smentire le smentite.

Nel corso degli anni, altre "piste" si sono accavallate. Qualcuno era innamorato follemente di Emanuela e se l'è portata via. Qualcun altro è intervenuto impiantando un ricatto politico su una vicenda di tutt'altro genere. La Banda della Magliana, o chi diceva di agire a suo nome, o semplicemente sfruttava la propria autorevolezza criminale, si è prestato al gioco. Sta di fatto che qualunque ipotesi rimanda, drammaticamente, al Vaticano e ai suoi silenzi. I verbali che circolano, ha osservato il giudice Lupacchini, che di questa storia ne sa forse più di chiunque altro, conterrebbero almeno una grave imprecisione temporale. Staremo a vedere. Può sembrare una frase fatta, ma è così che funzionano - o dovrebbero funzionare - le cose nell'ambito della giustizia. Soltanto il tempo potrà fornire le risposte. Il tempo dell'inchiesta giudiziaria: che è lento, meditato, scandito da regole che da un lato impongono verifiche puntuali, addirittura ossessive, della credibilità di testimoni e imputati, dall'altro assoggettano ogni dichiarazione alle strettoie del regime processuale. In vicende di questo genere ci si rende acutamente conto di come il tempo della giustizia e quello, convulso e frenetico, dell'informazione, corrano a due velocità inconciliabili.

Tutti gli addetti ai lavori, in questi giorni, sono benissimo a conoscenza di alcune verità elementari. Non è affatto garantito che tutti i verbali diventino "prova" in un dibattimento. Non è nemmeno certo che, alla fine, un processo debba necessariamente essere celebrato. E chiunque faccia questo mestiere, d'altronde, sa quanto sottile sia il discrimine fra verità e calunnia, e quanto sia arduo, a volte, individuarlo: solo pochi anni fa un "superteste" annunciò bombe e stragi e sui giornali si parlò di golpe imminente. Poi si venne a sapere che il superteste era screditato, e gli stessi giornali definirono il golpe "una bufala". Era il marzo 1992. E non era una bufala. Di lì a poco avrebbero ucciso Lima, Falcone, Borsellino, e fatto saltare in aria gli Uffizi e San Giorgio al Velabro, oscurato i centralini del Viminale, cercato di coinvolgere il Presidente della Repubblica in uno scandalo finanziario.

I nuovi sviluppi del caso Orlandi ci costringono, una volta di più, a riaprire la partita con la storia criminale d'Italia. Una storia segnata da una continuità impressionante di rapporti fra settori deviati delle istituzioni e criminalità organizzata, fra servitori infedeli dello Stato e terroristi, fra uomini in grigio e coppole e lupare. Una lunga catena di agevolazioni, depistaggi, affari gestiti in comune. Con costanti pressoché obbligate: lo scambio di favori, l'occultamento delle prove, il patto per tacere segreti inconfessabili. Da qui, anche da qui, l'esito deludente di processi che si annunciavano clamorosi e che si sono trasformati in altrettante débacle per la giustizia: anche dietro l'omicidio Pecorelli c'era la Magliana. Tutti assolti. Andreotti baciò Riina. Tutti assolti (o prescritti). Calvi fu "assistito" a Londra dagli usurai di Campo dei Fiori. Tutti assolti.

Speriamo che anche questa volta non finisca allo stesso modo.

(25 giugno 2008)

da repubblica.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #16 inserito:: Luglio 31, 2008, 03:11:17 pm »

Spampinato


La mafia si combatte anche con le parole e non lasciando soli i colleghi


“Bisogna trovare il coraggio di dire che esiste questo problema”. Lo afferma con forza Alberto Spampinato, consigliere nazionale della Federazione nazionale stampa italiana. Il problema è uno dei più gravi che affligge questo paese, ma che molto spesso viene dimenticato. La libertà di stampa, in special modo al Sud, è gravemente minacciata. La mafia, la criminalità organizzata, i poteri forti hanno buon gioco nel far tacere uomini che molto spesso restano soli. I cronisti di mafia, quelli che parlano di notizie scomode, si trovano a vivere e lavorare in solitudine, dimenticati da istituzioni e mezzi di informazione, isolati dai propri colleghi. Minacciati e costretti a subire violenze fisiche e psicologiche.
Uomini che scelgono di dire no alla autocensura, che scelgono di dire no ad un’informazione “mutilata ed approvata”. Giornalisti pagati tre o quattro euro a pezzo.
Quello dell’osservatorio sui cronisti sotto scorta è un progetto bello, importante, e coraggioso, ma difficile.
“Vogliamo avviare un cammino comune per cominciare a cercare una soluzione concreta a questa situazione, insieme ai colleghi più timorosi e tenendo conto di tutte le preoccupazioni che sono serie e fondate, perché parlare di queste cose da lontano è facile, ma essere direttamente impegnati in questa lotta e poi tornare a casa la sera di notte è un’altra cosa. E lo vogliamo fare, questo cammino, proprio col passo lento dei cronisti più prudenti, più sensati, tutti insieme, tutta la categoria, e ovviamente con i cronisti già minacciati, che hanno dato prova di coraggio.

E’ la scommessa di Alberto Spampinato

Da dove nasce l’idea dell’osservatorio?
L’osservatorio è un’idea che io ho lanciato un anno fa, che man mano ha trovato ascolto e che adesso ha ottenuto l’adesione della Federazione nazionale della stampa, dell’Ordine nazionale dei giornalisti e dell’Unione nazionale cronisti. Inoltre, anche se non è tra i promotori, abbiamo ricevuto dei segnali di attenzione anche dalla Federazione degli editori (Fieg).
Negli ultimi anni ho ricostruito la vicenda di mio fratello, Giovanni Spampinato, giornalista de L’ora, corrispondente da Ragusa, ucciso nel 1972. Una di quelle vicende dimenticate, sepolte. Giovanni era uno di quei giornalisti che non solo hanno pagato con la vita il fatto di interpretare il mestiere di fare informazione nel senso più alto, più nobile e che non solo sono stati dimenticati, ma sono stati bistrattati sia in vita che in morte. Solo l’anno scorso la memoria di Giovanni Spampinato ha avuto un alto riconoscimento, il premio Saint Vincent, ma nei primi anni dopo la morte e durante le fasi processuali lui è stato sempre presentato come un ficcanaso, uno che si ostinava a scrivere cose che giustamente gli altri non scrivevano. Le cose che lui scriveva erano notizie, notizie rilevanti, di interesse generale, quelle cose per cui al processo di appello il Procuratore generale disse: “se i giornalisti non fanno queste cose tanto vale che chiudiamo i giornali”. Questa è l’origine di questo progetto.
La giuria del premio Saint Vincent ha dichiarato che la vicenda di Giovanni Spampinato è emblematica delle vicende di tutti i giornalisti che sono stati uccisi  per mafia e terrorismo. È emblematica per come avviene la vicenda, un giornalista trova una notizia, la scrive, gli altri al contrario non la scrivono e lo isolano. Poi dopo la morte, finché è possibile, viene negato il valore del lavoro svolto dal cronista. Col tempo, per fortuna, ci si accorge del merito di questi uomini.
Le vicende di oggi, la storia di Lirio Abbate per esempio, quella di Roberto Saviano, di Rosaria Capacchione, riproducono molti degli aspetti che hanno caratterizzato la vicenda di mio fratello. Mi colpiscono, in particolare, dei meccanismi che sempre si ripetono: abbiamo giornalisti minacciati, altri sotto scorta di cui si sa e molti altri di cui non si sa nulla, perché non hanno la forza di denunciare la situazione di rischio, di pericolo, di censura in cui si trovano, e in questa situazione i giornalisti non riescono neppure a parlarne, a darne notizia. Ho individuato una forma di tabù. Il problema è che nelle regioni dove la mafia ha un potere forte, quello che succede è che si ha un’informazione limitata perché c’è un confine che è segnato da mafiosi, prepotenti, coloro che devono difendere degli interessi costituiti e che, specialmente sul terreno locale, influenzano la proprietà dei giornali, le direzioni, tutta l’informazione, i rapporti sociali e la politica. Oltre questo confine ci sono delle notizie di grande importanza ed interesse, che influenzerebbero la politica così come le scelte dei cittadini, che però non possono essere diffuse, chi osa farlo entra in un campo minato.
Noi, intendo come categoria di giornalisti, non possiamo continuare, di fronte a questo stillicidio di episodi gravi, a dire solo parole di solidarietà. Dobbiamo fare qualcosa di più. Le parole dunque non bastano più, ed è quello che ha ribadito lo stesso presidente dell’ordine dei giornalisti, Lorenzo Del Boca.

Cosa si propone di fare l’osservatorio, quali saranno i suoi compiti?
Non sappiamo ancora come organizzeremo l’osservatorio. Alla ripresa dalla pausa estiva faremo le prime riunioni organizzative, ma l’idea generale è quella di creare un organismo che possa produrre un rapporto annuale che fornisca una descrizione accurata, completa della vicende delle vittime di mafia perché fanno informazione sulla mafia, attraverso una seria raccolta dei dati. Non esiste, infatti, un archivio, una banca dati di fatti e avvenimenti riconducibili alla mafia e all’acqua in cui nuota. Ancora oggi non esiste veniamo a conoscenza soltanto dei fatti più eclatanti che riescono ad imporsi all’attenzione dei media.
pensiamo ad u rapporto che risponda anche ad una attenzione internazionale che si è creata attorno alla situazione italiana, che vista dall’estero, forse, impressiona ancor di più.
L’altro compito sarà quello di creare, attraverso l’osservatorio, un organismo che sia attivo, vivo, che intervenga tutte le volte che c’è un episodio e che prenda contatto con le persone che sono in pericolo, che sono minacciate, e si rechi sul posto per rendersi conto delle circostanze. E che tenga sotto osservazione anche tutti quegli altri aspetti che, ho notato, si ripetono costantemente.
Quali sono?
Per esempio il deterioramento dei rapporti tra il giornalista minacciato ed i suoi colleghi di categoria. C’è una dinamica che innesca l’avvelenamento dei rapporti, anche fra persone per bene. Più alla lunga l’obiettivo sarà quello, analizzati tutti questi dati, di fare delle proposte per evitare che al giornalista si presentino queste due alternative: scrivere una notizia scomoda e rischiare danneggiamenti, minacce o la vita oppure tenerla nel cassetto e vivere senza conseguenze negative. Ma non può essere questa l’alternativa. Il giornalista non può sempre vedersela da solo perchè fa parte di un sistema dell’informazione.
Qui viene fuori un altro aspetto che mi porta a paragonare questa realtà a quella del pizzo. La censura su notizie che infastidiscono criminali, boss mafiosi, personaggi potenti può essere paragonato al pizzo che viene imposto ad industriali e commercianti. È, come l’estorsione, una forma di violenta imposizione. Finora tutto ciò è stato subito in silenzio. Ma chi è che paga il pizzo dell’autocensura? Ci sono tanti cronisti, onesti, persone per bene, che si trovano in situazioni di pericolo serio a cui non si possono sottrarre se non, nell’immediato, pagando questa imposizione. Ma ci sono molti altri casi in cui la cosa non è così chiara. Non può essere solo la paura, il timore di una futura ritorsione a giustificare che un cronista tenga una notizia nel cassetto. Questo confine non è chiaro. La Confindustria siciliana ha posto una condizione per cui chi paga il pizzo non può essere iscritto. Ma se un imprenditore è seriamente minacciato, ha un coltello alla gola, certo di questo si deve tener conto. Altro è accettare di pagare per il quieto vivere o perché si ottengono dei vantaggi. Qui entra in gioco un aspetto che è etico e culturale al contempo.
E la politica?
Noi abbiamo impostato il progetto innanzitutto sul terreno professionale e culturale senza andare ad invadere direttamente il terreno della politica, ma è chiaro che un progetto del genere richieda delle risposte anche da parte della politica. Non è vero che non si può fare nulla per i cronisti di mafia. Ad esempio per i cronisti che si occupavano di terrorismo furono create più ampie garanzie, forme più articolate di protezione.
I giornalisti possono contribuire?
Sono proprio loro che possono costituire la scorta più importante ai cronisti di mafia. Si tratterebbe di una scorta mediatica. Il giornalista che si occupa di fatti di mafia non solo non deve essere lasciato solo, ma deve sempre essere affiancato e da altri colleghi e da dirigenti del suo giornale, ma nelle situazioni più gravi tutta la categoria dei giornalisti si deve riconoscere nel cronista minacciato e deve trovare delle forme di solidarietà che siano attive.

In che modo?
Condividendo la firma, spersonalizzare certe notizie pubblicandole senza firma, affiancando più di una firma, usando pseudonimi, aggiungendo alle cronache commenti ed editoriali delle firme più autorevoli. Per queste cose dovrebbero esserci dei protocolli, delle procedure standardizzate.

da sinistra-democratica.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #17 inserito:: Settembre 18, 2008, 03:51:07 pm »

CRONACA         

Operazione dei Ros. Dal nostro paese import di cocaina dai Los Zetas

Si tratta della più sanguinosa organizzazione paramilitare del paese

Messico-Calabria, la via dei narcos 200 arresti tra America e Italia

I boss filmati mentre sotterravano la droga in un bosco di Gioiosa ionica

di ALBERTO CUSTODERO

 

ROMA - Con duecento arresti in Italia e America, è stata dichiarata guerra alla più sanguinaria organizzazione di narcotrafficanti al mondo, quella dei messicani Los Zetas, responsabili dall'inizio dell'anno di 2700 omicidi e del traffico di cento tonnellate di cocaina dirette negli Stati Uniti. I Los Zetas rifornivano anche la 'ndrangheta calabrese, in particolare la cosca degli Schirripa che a New York gestivano una pizzeria.

L'autorità giudiziaria italiana, e in particolare i carabinieri del Ros, hanno fermato sedici persone, a New York i fratelli Vincenzo e Giulio Schirripa, e i broker Cristopher Castellano, detto Cris, e Javier Guerrero. In Italia, nella locride, i coniugi Giulio Schirripa e Teresa Roccisano e la figlia Anna Maria (sorella di Giulio e Vincenzo). A Siderno è stato fermato Pietro Commisso nella cui abitazione è stato trovato un bunker. A Valdagno (Vc), è stato infine fermato Diego Lamanna. La 'ndrina degli Schirripa, che importava dai Los Zetas dieci chili di coca al mese, faceva parte di un consorzio di cosce della 'ndrangheta (fra questi, Coluccio, Aquino, Macrì), in grado, secondo gli inquirenti, di movimentare carichi di cocaina da mille chili alla volta. Per trasferire il denaro all'estero, la cosca utilizzava il circuito della Western Union e una ricevitoria di Marina di Gioiosa Jonica.

L'operazione alla quale hanno partecipato i Ros è stata coordinata dalla Dea, dall'Fbi, dall'Ice (la polizia messicana), e hanno messo a fuoco un traffico di droga fra Sud America (paese produttore), Messico (paese di smistamento), e Stati Uniti, Canada, Europa (i paesi dove la cocaina veniva spacciata).

Le indagini dei carabinieri e della procura distrettuale di Reggio Calabria hanno provato i collegamenti fra le cosche calabresi e il Cartello del Golfo, al quale la cosca Schirripo s'era rivolta dopo l'arresto del loro fornitore storico, l'ecuadoregno Luis Calderon, detto Tio. Le cosche jonico-reggine avevano dunque deciso ddi consorziarsi, unendo i capitali, e di mettersi in società con i narcotrafficanti Christoper Castellano e Ignacio Diaz, proiezioni newyorkesi - i broker), dei Los Zetas, l'organizzazione paramilitare messicana responsabile del traffico di tonnellate di cocaina, metamfetamina e marijuana diretta negli Usa in Europa, Italia, Spagna e Olanda.

L'indagine italo-americana ha documentato come il Cartello del Golfo avesse assoldato squadre di mercenari paramilitari per assicurarsi il controllo della fascia meridionale del Paese al confine statuinitense. Fra le persone da arrestare in Messico ci sono anche i tre capi delo Cartello del Golgo, subentrati al vertice dell'organizzazione dopo l'arresto, nel marzo del 2003, di Osiel Cardenas Guillen.

L'operazione di oggi è l'epilogo di una complessa indagine che ha portato all'arresto in Canada, il 7 agosto, di Giuseppe Coluccio, esponente di spicco dell'omonima cosca e nella lista dei 30 latitanti più pericolosi in Itaila. Coluccio è stato espulso dal Canada per aver violato le leggi sull'immigrazione in quanto sorpreso con documenti falsi. Una volta sbarcato in Italia, gli è stata notificata una misura cautelare da tempo emessa dall'autorità giudiziaria italiana.
Gli investigatori americani, che hanno accertato un movimento di cento tonnellate di cocaina negli ultimi mesi, hanno sequestrato ccomplessivamente 15 mila chili di droga. Ma già in passato sono emersi i collegamenti fra la 'ndrangheta e le organizzazioni paramilitari colombiane Farc e Auc. I controlli di polizia internazionale negli aeroporti e nei porti hanno costretto i produttori colombiani nuove aree per lo stoccaggio della pasta di coca come, ad esempio, il Messico. Ecco perchè anche la criminalità calabrese ha spostato i suoi traffici dalla Colombia al Cartello del Golfo, mettendosi in contatto, attraverso broker, con Los Zetas.

Le indagini italiane coordinate dal pm Nicola Gratteri. Con la collaborazione delllo Squadrone eliportato cacciatori Calabria dei carabinieri, i Ros hanno tenuto sotto controllo per mesi la famiglia Schirripa. I carabinieri sono riusciti a filmare i narcotafficanti calabresi mentre nascondevano una partita di droga (una campionatura di circa tre chili di coca), in un bosco di Gioiosa Jonica.

(17 settembre 2008)

da repubblica.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #18 inserito:: Settembre 19, 2008, 05:42:36 pm »

Proteste dopo l'uccisione di sei extracomunitari: sparati 130 proiettili

Castelvolturno, rivolta degli immigrati dopo la strage di camorra

Vetrine rotte e auto in mezzo alla strada: «Non siamo trafficanti di droga, questo è razzismo»

 

CASTELVOLTURNO (Caserta) - Circa 130 proiettili esplosi da sei-sette sicari, a bordo di almeno un'auto e una moto. È questo lo scenario che gli investigatori hanno finora ricostruito dell'agguato in cui sono stati uccisi giovedì sera sei immigrati africani a Castelvolturno. Un volume di fuoco impressionante (a sparare sono stati un kalashnikov, una pistola calibro 9x21 e una 9x19), simile a quello impiegato nell'agguato di Baia Verde, sempre a Castelvolturno, vittima il gestore di una sala giochi, Antonio Celiento: in questo caso una sessantina i colpi esplosi. La quantità di proiettili usata in entrambi gli agguati è uno dei diversi elementi che fanno pensare a un solo gruppo di fuoco in azione: per averne la certezza occorrerà però attendere la perizia balistica. Gli inquirenti ritengono che, all'origine della strage degli immigrati, ci fosse una «spedizione punitiva» contro la sartoria, probabilmente un centro del traffico di stupefacenti. Per il momento non emergono piste diverse da quella del regolamento di conti nel mondo della droga.


LA RIVOLTA - Nel frattempo, sale la rabbia a Castelvolturno: alcuni immigrati, bastoni in mano, hanno frantumato le vetrine di alcuni negozi e rivoltato auto in mezzo alla strada, distruggendo vetri di altre vetture ferme. Il tutto davanti al luogo dove sono stati uccisi i sei stranieri. «Vogliamo giustizia - urlavano - non è vero che i nostri amici ammazzati spacciavano droga o erano camorristi. Sono state dette tutte cose false». Gli extracomunitari, soprattutto africani, puntano il dito contro chi li accusa di spacciare droga. «Noi siamo persone perbene, non è giusto che ogni volta che si parla di droga - dicono - siamo noi i colpevoli e questo solo perché è nero il colore della nostra pelle. Questo è razzismo». Nel gruppo che protesta ci sono anche diverse donne con i bambini.

 
REAZIONI - Ma la strage è al centro dei discorsi di tutti gli abitanti. Davanti ai bar di piazza Annunziata, gli anziani i Casalesi neanche li vogliono chiamare per nome. «Meglio non nominarli nemmeno». «Qui abbiamo paura, paura di essere ammazzati anche davanti a un bar - racconta uno - qui, quando si parla di camorra, è bene farlo a bassa voce». «Non si può avviare nessuna attività se prima non si paga il clan» racconta un altro. In molti se la prendono con lo Stato: «Ma lei questo lo definisce un paese normale? È normale che ci siano 18 morti in pochi mesi su neanche 20 mila abitanti? Lo Stato ci ha abbandonato, non c'è volontà di risolvere il problema e noi siamo ormai morti che camminiamo». Un altro commento: «Non serve l'esercito né le forze dell'ordine - dice - servono le leggi, lo Stato, serve qualcuno che cancelli tutta questa omertà. Qui la gente non parla perché ha troppa paura di morire»


19 settembre 2008

da corriere.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #19 inserito:: Settembre 19, 2008, 05:59:10 pm »

Gomorra fronte del nord

di Gianluca Di Feo e Emiliano Fittipaldi


Bologna, Modena, Parma, Reggio: è la nuova terra di conquista dei casalesi. Il pentito Bidognetti descrive l'assalto camorrista. Con il gioco d'azzardo, il racket, l'ingresso nei cantieri. E con la sfida dei padrini campani a Felice Maniero: 'Fatti da parte'  L'arresto di Francesco Schiavone detto 'Sandokan'Tra la via Emilia e il West, nella Modena cantata da Francesco Guccini, c'è gente che le pistole le usa davvero. "Gli interessi dell'organizzazione dei casalesi si estendono oltre la provincia di Caserta, anche ai territori dell'Emilia-Romagna, e in particolare alle province di Modena, Reggio Emilia e Bologna. L'interesse dei casalesi e la loro presenza sul territorio inizia sin dalla fine degli anni Ottanta, ma in realtà molti miei concittadini, per motivi attinenti ad attività da loro prestate, in modo particolare nel settore edile, si trasferirono in Emilia già negli anni '70. Oggi si può dire che, vista la numerosa presenza di casalesi in quella zona, Modena e Reggio Emilia corrispondono a Casal di Principe e San Cipriano D'Aversa....".

Domenico Bidognetti è stato un protagonista del romanzo criminale che in vent'anni ha portato i camorristi di tre paesini alla costruzione di un impero. Lui Gomorra l'ha vista crescere e prosperare. È cugino del padrino Francesco Bidognetti, quel Cicciotto 'e Mezzanotte che anche dal carcere ha dominato l'ascesa dei mafiosi campani. La sua collaborazione con i magistrati, che va avanti da un anno, sta svelando nuove dimensioni della conquista casalese. Partendo dall'occupazione di quelle province del Nord dove maggiore era la prospettiva di guadagno e minore il rischio di entrare in guerra con le cosche siciliane e calabresi, radicate in Lombardia e Piemonte: l'Emilia-Romagna, appunto, e parte del Veneto. Con il sogno proibito di mettere un piede a Milano, realizzando quell'assalto alla capitale morale già tentato da Raffaele Cutolo nei primi anni Ottanta.

Giochi d'azzardo
Il contagio avviene sempre partendo dai soldi. Prima le bische e gli investimenti immobiliari. Solo in una seconda fase si mettono sul tavolo le armi e la violenza per imporre il racket. Con un obiettivo strategico: entrare nel giro delle grandi opere, trasferendo sopra la linea gotica gli accordi con le aziende padane collaudati nei cantieri campani dell'Alta velocità. Si comincia quindi dall'industria dell'allegria. Bidognetti elenca night e ristoranti gestiti dagli affiliati, racconta della spartizione del territorio con i calabresi e con il boss del Brenta Felice Maniero, parla delle mazzette estorte ai costruttori Pizzarotti di Parma, in un'Emilia inedita in cui i camorristi sembrano muoversi come fossero a casa loro.

Rivelazioni pagate a caro prezzo
Il padre di Bidognetti è stato assassinato tre mesi fa. Lui invece è andato avanti. Le sue parole intersecano e completano anni di indagini della Procura antimafia di Napoli, che già hanno svelato la penetrazione della famiglia Zagaria a Parma. Ma anche l'altro collaboratore di giustizia, Gaetano Vassallo, fornisce retroscena illuminanti sui traffici di cocaina tra Riviera romagnola e Costa domiziana, completando l'affresco dell'arrembaggio malavitoso.

Soldi facili
La scoperta della terra promessa avviene secondo il modello classico: il soggiorno obbligato. Un capoclan spedito dai giudici a Modena fa di necessità virtù criminale: sfrutta le colonie di emigrati campani onesti per imporre il modello camorrista. "Accadeva tra l'89 e il '90. All'epoca noi ritenevamo questa zona molto sicura, una sorta di fortezza. Sui casalesi e i sanciprianesi residenti lì esercitavamo pressioni, quando eravamo a Modena o Reggio per latitanza o provvedimenti di natura giudiziaria". Domenico Bidognetti si trasferisce in Emilia una prima volta a 15 anni: è apprendista di una ditta casertana, ma dopo tre mesi torna indietro "perché mi sentivo sfruttato".
Scopre così che ci sono soldi molto più facili. Le bische, ad esempio, e i videopoker che i casalesi decidono di gestire "in regime di monopolio". La rete che unisce Caserta, Modena e Reggio frutta oltre 200 milioni di lire al mese, che i boss venuti dal Sud non vogliono dividere con nessuno. "Venimmo a sapere che c'era un gruppo riconducibile a Felice Maniero e a un calabrese che volevano inserirsi in quell'attività. Decidemmo di incontrare il Maniero, e da Casal di Principe partì una squadra di notevole spessore criminale": una delegazione che somma diverse condanne all'ergastolo. Due auto con pezzi da novanta come i cugini Bidognetti, Raffaele e Giuseppe Diana e l'imprendibile latitante Antonio Iovine. "Nell'incontro imponemmo a Maniero di lasciar perdere. Quando tornammo, mio cugino Cicciotto commentò l'inutilità del loro intervento, dando del 'drogato' a Maniero". L'atteggiamento cambia nei confronti della 'ndrangheta. I padrini casertani si fanno più rispettosi e stringono patti. Le zone dove incassare il racket vengono divise in base alla provenienza: ognuno impone il pizzo a negozianti e ditte create in Emilia da emigrati della zona d'origine, riproducendo al Nord omertà e regole di casa. È una situazione paradossale: nella gogna finiscono imprenditori che avevano lasciato il Sud proprio per sfuggire alla prepotenza dei clan. Per i boss invece le spedizioni hanno parentesi felici: nei ristoranti e nei night emiliani non devono chiedere, tutto viene offerto, tutto è gratis. "Tirammo fuori solo una mancia per le ragazze che ci avevano intrattenuto...".

Caccia all'uomo
Le faide si spostano spesso da Caserta al Nord. Bidognetti descrive inseguimenti nella nebbia e vendette incrociate lungo la direttrice dell'Autosole. C'è il pedinamento nel centro di Modena condotto durante i giorni di Natale: dopo lunghi appostamenti, il bersaglio viene sorpreso in una piazzetta, ma all'ultimo momento arriva un'auto e i killer rinunciano a colpire. Solo un rinvio: la condanna verrà poi eseguita ad Aversa. A Modena ci sono parenti fidati che custodiscono le armi e altri designati come autisti per la conoscenza dei luoghi. Ma al volante non si dimostrano all'altezza: uno degli agguati fallisce proprio perché la vittima riesce a seminare il commando. Le sentenze nascono anche da semplici sospetti. Uno degli ambasciatori delle famiglie si vanta di guidare senza patente e non temere i controlli della polizia. E due boss venuti da Caserta per incontrarlo vengono invece bloccati dagli agenti: quanto basta per qualificarlo come infame e decretarne l'esecuzione.

La legge del clan
Il pentito non lesina dettagli. Elenca i capi militari a cui era affidata la custodia del fronte Nord. "Nel 1995 Francesco 'Sandokan' Schiavone ci rappresentò la necessità di sottoporre a estorsione non solo i commercianti casertani, ma anche quelli non campani, come ad esempio gli emiliani. Per noi fu una novità: sino ad allora le estorsioni venivano praticate solo a danno di imprenditori che realizzavano grossi appalti". La richiesta è legata a un momento di grande crisi economica del clan, con le prime operazioni antimafia che avevano fatto finire in cella capi e gregari e quindi la necessità di mantenere le famiglie. Anche in questo caso c'è un'osmosi tra le attività campane e quelle emiliane. Le commesse pubbliche più importanti a Caserta andavano spesso a colossi del Nord, che poi accettavano la legge dei camorristi, concedendo quote di lavoro e mazzette cash. Il collaboratore ripercorre la storia della Pizzarotti di Parma, che scese a patti per la costruzione del nuovo carcere di Santa Maria Capua Vetere, destinato a custodire proprio i camorristi. Un appalto da 82 miliardi di lire, portato avanti dal '93 in poi, quando Mani Pulite aveva azzerato i cantieri settentrionali. A vincerlo è un consorzio guidato dalla celebre coop ravennate Cmc e dalla Pizzarotti. Gli emissari delle aziende emiliane e i loro geometri vennero intimiditi con schiaffi, percosse e pistole spianate. "Partecipai a una riunione con l'ingegnere della Pizzarotti per sollecitare i lavori che spettavano a una delle nostre ditte di fiducia". I boss ottengono un duplice vantaggio: denaro in nero, pagato attraverso giri di fatture false, e contratti leciti per entrare in una dimensione imprenditoriale.

Scacco alle due torri
"Anche a Bologna da tempo i casalesi hanno propri interessi economici". Bidognetti però sugli investimenti non sa essere più preciso: è un uomo d'azione, che ricorda tutto delle pistolettate, ma non ha amministrato capitali. Sul riciclaggio sotto le due torri gli investigatori lavorano da tempo nel segreto. Ma le indagini hanno già smantellato parte della rete creata a Parma dagli Zagaria, assieme ai Bidognetti e agli Schiavone la terza grande famiglia casalese: lì si erano uniti a immobiliaristi locali, trovando agganci nella politica cittadina e sfiorando il colpo grosso. Uno degli Zagaria riesce a incontrare Giovanni Bernini, leader emergente di Forza Italia e presidente uscente del consiglio comunale ma soprattutto consigliere dell'allora ministro Pietro Lunardi. Dalle intercettazioni emerge come la ricerca di un contatto con Lunardi e con i costruttori parmensi fosse quasi un'ossessione per gli Zagaria. Non è un caso. Parma, Reggio Emilia, Modena, Bologna scandiscono l'asse delle opere più importanti in ballo: l'Alta velocità, le tangenziali, le nuove corsie dell'autostrada. Un Eldorado di cantieri e subappalti che hanno tentato in tutti i modi di infiltrare. Finora non c'è prova che ci siano riusciti. Ma i padrini casertani contano sul fattore protezione: quasi tutti i colossi italiani hanno costruito nel territorio chiave tra Roma e Napoli. Dove avrebbero ricevuto dai casalesi servizi importanti: sicurezza, manodopera a basso costo e pace sindacale. Il tutto in cambio di subappalti, portati a termine con efficienza. Un contratto che molti manager settentrionali hanno trovato vantaggioso.

La dama bianca
In Romagna i casalesi scoprono anche delle professionalità innovative. Ne parla Gaetano Vassallo, 'il ministro dei rifiuti' della camorra, descrivendo l'ammirazione del clan per un narcos romagnolo, che apre una nuova rotta per i rifornimenti di cocaina dal Sudamerica. Un personaggio che viene subito ammesso nella cerchia che conta per la capacità di far entrare fiumi di droga attraverso tanti corrieri insospettabili: dieci chili a settimana, 40 al mese. Li chiamavano 'criature', ossia bambini. Ma l'amico della Romagna era anche in grado di fornire rifugi sicuri per i latitanti che volevano stare alla larga dalle retate e dai killer avversari. Quando il clima ad Aversa e a Casal di Principe si faceva teso, quale migliore esilio che il divertimentificio adriatico?

(18 settembre 2008)

da espresso.repubblica.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #20 inserito:: Settembre 20, 2008, 10:55:32 am »

Territorio e criminalità Lo scontro con la città «gemella» dei clandestini

Il clan dei giovani «impazziti»: l'eccidio, poi spari per fare festa

Sedici omicidi in dieci mesi: la sfida delle nuove leve

DA UNO DEI NOSTRI INVIATI


CASTELVOLTURNO (Caserta) — Quelli del bar Monica si difendono in proprio. Sulla veranda con vista su una delle tante rotonde di cemento della Domiziana ci sono cinque indigeni che aspettano in piedi l'arrivo dei « niri ». Due di loro stringono nella mano destra una pistola, puntata verso la strada. Gli altri, più concilianti, brandiscono delle spranghe di acciaio. «Negri di m..., ci provassero a venire vicino, gli facciamo scoppiare la testa», dice quello che sembra più anziano in virtù dei capelli bianchi. Scusate, ma provare con la Polizia? A momenti si mettono a ridere.
C'è un posto in Italia dove sei persone vengono ammazzate con 170 colpi di mitra e pistole, alle nove di sera, su un lungomare non certo deserto, con gli assassini che una volta finito il lavoro sottolineano il loro operato sparando qualche raffica in aria. E il giorno seguente gli amici delle vittime, che nulla dicono agli inquirenti di quanto hanno visto, reagiscono fracassando auto e fioriere, ribaltando cassonetti, lanciando sassi grandi quanto un pugno nelle finestre della case. Non c'è da stupirsi. Castelvolturno è un luogo dove la violenza è ritagliata sulla vita quotidiana come un abito di sartoria. Vi aderisce perfettamente, indirizza ogni singolo comportamento, ogni parola.
La Portofino del Sud, così era chiamata a metà degli anni Settanta. Le villette sulla Domiziana erano considerate un investimento sicuro e prestigioso. Il declino fu veloce, inarrestabile. Le case in costruzione vennero requisite per gli abitanti di Pozzuoli colpiti dal bradisismo, le falde acquifere e il mare si riempirono dei veleni prodotti dai rifiuti tossici sversati illegalmente. La Portofino del Sud divenne oggetto di furiose e folli speculazioni immobiliari. Arrivarono gli extracomunitari, a lavorare nei cantieri e nei campi di pomodori. Fino alla metà degli anni Ottanta si trattò di una immigrazione mista. Poi la città divenne il punto di raccolta dei nigeriani. Partivano da Lagos con la parola «Castelvolturno » scritta a pennarello sulla mano. Oltre a usi e costumi, importarono anche la loro criminalità, in un territorio che ne era già saturo.
La strage di Pescopagano segnò la resa dei conti con la malavita locale, ma anche l'inizio di una nuova fase. Il 24 aprile 1990 un commando di camorristi di Mondragone sparò all'impazzata in un bar, inseguì alcuni immigrati che erano fuggiti in macchina, li trucidarono in mezzo alla strada. I clan non gradivano che i « niri » venissero a spacciare a casa loro. Dopo il massacro, gli lasciarono un territorio dove esercitare i loro affari, dietro parcella settimanale da elargire ai Casalesi. Da allora camorristi e mafiosi nigeriani conducono vite parallele basate su un patto di mutuo soccorso. Scambi di armi e killer, case per le reciproche latitanze.
Casalvolturno è diventata un ghetto segnato da spaccio e prostituzione. Le vie interne alla Domiziana sono piccoli inferni di overdosi e violenze. Le ville disabitate sono il luogo dove recludere e seviziare le ragazze appena arrivate dall'Africa, prima di sbatterle sulla strada. Così arroganti, i nigeriani, da aver creato altri ghetti per gli altri, espellendoli dal loro mondo. Ghanesi e liberiani sono confinati nella frazione di Varcaturo. I senegalesi se ne stanno in fondo alle campagne di Lago Patria.
La città conta ufficialmente 21 mila abitanti, ma accanto ad essi è come se fosse sorta una città gemella popolata solo da clandestini. Lo dice chiaro l'ammontare pro capite della tassa sui rifiuti. Il Comune paga esattamente il doppio di quello che dovrebbe produrre in base ai residenti registrati all'anagrafe. Ma Castelvolturno è soprattutto la città dei Casalesi. Il posto che contiene gli investimenti immobiliari a cinque stelle e i tuguri dei disperati nei quali pescare reclute a basso costo, i grandi progetti e i boschi dove si nascondono gli eroinomani da rifornire con la dose quotidiana. L'Alfa e l'Omega del loro atlante criminale, dentro al quale adesso si agita una scheggia impazzita. Un piccolo gruppo di camorristi giovani e imbottiti di cocaina, stanchi del limbo nel quale il clan dei Bidognetti è stato costretto da arresti e condanne, che ha deciso di rinegoziare ogni alleanza, e di alzare il prezzo con gli stranieri, per rivendicare il primato della camorra. Negli ultimi dieci mesi hanno firmato 16 omicidi. All'inizio erano 4-5 elementi, adesso sono già una dozzina. La violenza paga, fa proseliti. In questa Babele, è l'unico linguaggio riconosciuto.
L'atteggiamento dello Stato è inspiegabile. Castelvolturno è uno dei territori europei meno «disturbati» dalla legalità. Come se tutti ci avessero rinunciato. Anche per questa strage le telecamere in zona hanno funzionato a vuoto, come accadde per l'imprenditore Domenico Noviello o per i due albanesi ammazzati all'inizio di agosto. Occhi ciechi, giocattoli senza videocassetta. Il commissariato locale dispone di 35 unità e poche macchine sfiatate che devono inseguire di tutto, camorristi, papponi, trafficanti di rifiuti e pusher di eroina. È stato calcolato che se lavorassero tutti insieme nello stesso momento, gli uomini delle forze dell'ordine potrebbero controllare al massimo tre chilometri quadrati di territorio cadauno. Di notte, viaggiando da Napoli fino a Mondragone, capita raramente di incrociare una Volante. Il controllo sul territorio è pari a zero, non esiste.
Un posto senza pietà, governato da un sovrano invisibile e temuto. La disoccupazione giovanile sfiora il 90 per cento, stessa percentuale, fornita dai carabinieri, dei clandestini che delinquono. I Casalesi non hanno bisogno di inseguire la gente per farsi pagare il pizzo. Ci sono decine di intercettazioni che testimoniano dello zelo con il quale commercianti e imprenditori si mettono in coda per avere un padrone. Ci sono camorristi impazziti che sparano come fossero ad una festa di paese, e immigrati che si sfogano nell'unico modo che da queste parti è considerato legittimo. A voler cercare, c'è di tutto a Castelvolturno. Manca solo lo Stato.


Marco Imarisio
20 settembre 2008

da corriere.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #21 inserito:: Settembre 20, 2008, 07:38:32 pm »

Raid dei Casalesi, guerriglia a Castel Volturno


Eduardo Di Blasi


Alle 5 del pomeriggio la via Domitiana, nel tratto tra Castel Volturno e Lago Patria è un cimitero di cartelli stradali e bidoni della spazzatura. Un uomo di colore di due metri, in pantaloni della tuta e canottiera sotto la pioggia, si accanisce contro un segnale di «stop». Lo sbatte contro l’asfalto, urla. È la coda di un corteo partito quasi due ore prima e degenerato immediatamente. Un corteo di protesta per l’uccisione di sei ragazzi africani, avvenuta nella notte del giorno precedente davanti alla sartoria «Ob. Exotic Fashions», poche centinaia di metri piu giù, al chilometro 43 di questa statale vicina a un mare che non si vede mai, coperto da pini, alberghi e case abusive.

È stato un agguato di camorra: quasi centotrenta colpi sparati. Pistole e kalashnikov. Una strage che, chi è arrivato davanti alla lavanderia alle undici di questa mattina, non si spiega con la sola ricostruzione fatta dagli inquirenti. Una ricostruzione che parla di uno spaccio «in proprio» punito dalla camorra. «I nostri amici non erano camorristi e non spacciavano!», dicono a voce alta quei pochi manifestanti che parlano un minimo di italiano. Siamo davanti al presidio che, alle undici di mattina, ha già assunto la forma di un blocco stradale con le auto rovesciate e messe di traverso lungo la carreggiata.

Alle tre del pomeriggio in un corteo che ormai conta duecento persone rispetto alle pacifiche 40 iniziali, lo scontro è solo tra chi vuole radicalizzare la violenza e chi preferirebbe fermarsi alla dimostrazione, alla semplice richiesta di una «protezione» da parte dello Stato. Una richiesta di indagini celeri, con il rimpatrio delle salme nei Paesi d’origine e un sostegno per le mogli e per i bambini rimasti orfani. Queste le richieste che la delegazione porterà poi all’incontro con il sindaco di Castel Volturno Francesco Nuzzo e il Questore di Caserta Carmelo Casabona.

Intorno alle 15,30, quando la rabbia per il torto subito è già diventata violenza condivisa da un nutrito gruppo di partecipanti al corteo, inizia la devastazione sistematica della strada. Armati di mazze di ferro, ombrelli e pietre, un centinaio di uomini si muovono lungo la Domitiana, sfasciando insegne e vetrine e seminando il panico. La polizia segue a distanza senza intervenire. La guerriglia dà alle fiamme bidoni della spazzatura, copertoni d’auto e materassi, tutta roba trovata per strada. È una furia indistinta che per due ore e mezza tiene con il fiato sospeso gli abitanti della zona e rinfocola odi di razzismo in una città che, dati alla mano, conta 25mila regolari censiti e altri 20mila irregolari (cifra calcolata dal Comune attraverso la produzione dei rifiuti urbani).

Una città schiacciata dal peso di un’immigrazione massiccia e dall’antistato che in questa fame di lavoro trova braccia e corpi per la propria manovalanza: prostituzione, spaccio, edilizia. Sotto l’angolo di un bar di cui non si riconosce il nome (l’insegna è in frantumi ai nostri piedi), dentro un parapioggia blu, Mario guarda verso il fumo che sale sulle strada: «Questi negri dovrebbero tornarsene a casa loro - sbotta convinto - La polizia non gli fa niente». Davanti al portico dell’alimentari dei F.lli Papa carabinieri e polizia si tengono pronti senza tensione. Una fila di una trentina di uomini in assetto antisommossa chiude un pezzo di strada, mentre dietro di loro la Domitiana è diventata una via senza uscita, una specie di circuito di guerra con cassonetti in fiamme in mezzo alla carraggiata in entrambi i sensi di marcia.

Sotto l’insegna del bar Elite, alle 18 in punto, temperatura indicata di 16 gradi centigradi, la banlieue casertana ci mostra però anche un’altra faccia. Il corteo è passato da mezzora e l’autopompa dei vigili del fuoco sta spegnendo i roghi che la pioggia scrosciante ha già in parte affievolito. Da sotto il portico del bar, una ventina di persone, pelle bianca, quarant’anni di media, e spiccato accento del luogo, si spinge sulla strada. Muniti di bottiglie di spirito e accendini danno alle fiamme una campana per la raccolta differenziata, assieme a un materasso e a un pezzo di mobilio. Mentre il camion dei vigili si allontana via in buon ordine, un ragazzo di colore che prova a scostare una parte del blocco per passare con la propria auto viene rincorso ed è costretto a fare un sorriso di circostanza come per dire «mi ero sbagliato» per non incorrere nell’ira dei vandali indigeni.

La scena ci racconta l’altra parte di questo posto, di questa «trincea dei Casalesi», come la chiama il sindaco Nuzzo, mentre racconta dei 18 morti dall’inizio dell’anno, della disoccupazione giovanile inchiodata all’80%, e di quegli autobus che attraversano i comuni di Castel Volturno e Giugliano per andare verso Napoli e i paesi vesuviani, dove da anni non si trova la faccia di un bianco. Posti dove l’uomo bianco detta la sua legge sull’uomo nero. Anche questa sera, si direbbe, la storia non è cambiata. Alle fermate di autobus che non passeranno mai, la strada è impraticabile, con o senza ombrelli, nugoli di persone di colore aspettano sotto la pioggia. Qualcuno sa quello che è successo: «Sono stati ghanesi e nigeriani», ci spiega Patrick incamminandosi verso i fuochi assieme a decine di persone tornate dai campi. Rosa, invece, che viene dal Togo e si dirige verso la Caritas non se lo spiega che non ci siano gli autobus e che i segnali stradali siano tutti per terra: «È stata polizia? Carabinieri?», domanda.

È la paura dello Stato, in qualsiasi forma esso si presenti. Sia la paura dei controlli di polizia, che per chi non ha i documenti significa la fine, sia quella della camorra che si finge Stato e pretende soldi da chi non ne ha nemmeno per sè. Ha ragione il sindaco Nuzzo quando afferma che «quello che è successo oggi a Castel Volturno riporta le lancette indietro di dieci anni sui nostri processi di integrazione». Però anche questa sera la Domitiana riprenderà i suoi ritmi, con le prostitute nigeriane a riscaldarsi dietro i bracieri e gli altri schiavi a dormine in queste case-vacanza senza riscaldamento, davanti a un mare che non si vede nemmeno.

Pubblicato il: 20.09.08
Modificato il: 20.09.08 alle ore 10.47   
© l'Unità.
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #22 inserito:: Settembre 20, 2008, 07:41:35 pm »

19 settembre 2008, 20.18.27

Campania: tra clan e politica


Il dominio totale dei clan di alcune zone della Campania, che vedono il ripetersi di efferati delitti di camorra, è anche colpa di una cattiva politica che non ha interesse a liberare la regione dal giogo della criminalità perché o ignava, o complice o compromessa.

E' un fatto gravissimo. In Campania c'è bisogno di indagare a fondo sui rapporti tra clan e politica. I due partiti maggiori, Pd e Pdl, che a fasi alterne hanno malgovernato la regione, annoverano tra i propri rappresentanti alcuni politici coinvolti in vicende poco chiare, citati da pentiti o inquisiti per collusione, corruzione o che addirittura, secondo quanto hanno appurato alcune indagini, hanno ricevuto appoggio elettorale dai clan. Nicola Cosentino, Paolo Russo, Mario Landolfi e Luigi Cesaro del Pdl, i consiglieri regionali di centrosinistra che sostengono Bassolino Roberto Conte e Nicola Ferraro, spieghino ai cittadini perchè sono stati coinvolti in indagini della Dda di Napoli o in vicende assai poco trasparenti.

La verità è che in Campania, a parte le dichiarazioni di rito, è mancata fino ad ora una vera e perdurante volontà politica di sconfiggere la camorra perché, direttamente o indirettamente, la stessa politica campana si è spesso servita delle zone d'ombra e dei rapporti poco limpidi, degradando la legalità ad un mero slogan invece di interpretarla sempre come un principio ispiratore dell'azione politica. Ecco perché i Casalesi, così come molti altri clan, nonostante lo sforzo delle forze dell'ordine, della magistratura e di una (piccola) parte della politica sana, riescono ad esercitare un controllo totale di alcuni territori, sottraendoli di fatto allo Stato.

Solo il primato dell'etica nella politica, solo superando un ceto politico troppo spesso colluso, si potrà arrivare ad una vera svolta in grado di portare ad un'altra Campania. Il rispetto rigoroso della legalità è, infatti, condizione essenziale per un'economia sana e per una vita più civile per tutti, in particolare per i giovani. Anche nella nostra regione dovrà al più presto essere possibile attivare sempre appalti 'puliti'; attrarre investimenti e nuovi posti di lavoro senza dover aver paura degli attentati dei clan; permettere ad un singolo cittadino di poter aprire un negozio senza temere i taglieggiamenti e le bombe dei camorristi e di poter camminare per strada senza correre il rischio di essere ucciso in una sparatoria.


da italiadeivalori. ecc. ecc.
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #23 inserito:: Settembre 21, 2008, 12:05:46 am »

La Guardia di Finanza torna per la seconda volta nella redazione del settimanale

Setacciate anche la case dei giornalisti Di Feo, Papaianni e Fittipaldi

Camorra al nord, perquisito l'Espresso "Pesante intimidazione, andiamo avanti"

La Fnsi: "E' un'azione invasiva grave e sconcertante"



 ROMA - La Guardia di Finanza sta perquisendo in questi minuti, per ordine della procura di Napoli, la redazione del settimanale l'Espresso, a Roma e le case di tre giornalisti. La perquisizione sarebbe motivata dalla ricerca di prove sui responsabili di presunte fughe di notizie relative all'inchiesta con il titolo "Gomorra al Nord" pubblicata sul numero in edicola da Giuliano Di Feo ed Emiliano Fittipaldi. Per i due giornalisti è la seconda perquisizione a distanza di una settimana (la prima era già avvenuta dopo la pubblicazione nel numero precedente del settimanale di un servizio di copertina sui rifiuti a Napoli dal titolo ("Cosi' ho avvelenato Napoli").

Le Fiamme gialle sono arrivate anche a casa Claudio Pappaianni, collaboratore dell'Espresso che non ha firmato tra l'altro nessun articolo dell'inchiesta. A quanto risulta, sono stati sequestrati il pc dell'abitazione e il computer portatile utilizzati dallo stesso Pappaianni.

In una nota la direzione del settimanale parla "di una seconda pesantissima azione di intimidazione da parte della procura di Napoli" assicurando ai lettori "che il settimanale continuerà nella sua opera di puntuale informazione e denuncia e che non si farà intimidire da spettacolari e gravi iniziative della magistratura tese a limitare la libertà di informazione".

Molto critico anche il cdr del settimanale. "Nelle perquisizioni di oggi, offensivi per il lavoro dei nostri colleghi sono apparsi i modi con cui l'intervento della Guardia di Finanza è stato effettuato. Gli agenti, che hanno sequestrato i computer di Di Feo e Fittipaldi, si sono presentati in redazione di sabato, un giorno dopo l'uscita in edicola. Ci chiediamo se il ritardo non sia legato all'obiettivo di trovare gli uffici sguarniti per poter operare con mani più libere. Alla luce di queste considerazioni, ci domandiamo se anche in Italia abbiano valore le sentenze europee che tutelano la libertà di stampa. E invitiamo le istituzioni che credono nei valori democratici, a partire dal Presidente della Repubblica, a difendere l'esercizio del diritto di cronaca".

Solidarietà al settimanale è arrivata anche segretario generale della Fnsi, Franco Siddi, che parla di una "azione invasiva grave e sconcertante". "La gravità e lo sconcerto - continua Siddi - è data anche dal fatto che la perquisizione avviene a redazione chiusa in assenza dei colleghi nei confronti dei quali è condotta l'indagine. C'è da chiedersi cosa valgano le ripetute sentenze della corte di Cassazione che hanno giudicato illegittime azioni di questo tipo in quanto arrecano potenziali e reali limitazioni alla libertà di stampa".'

(20 settembre 2008)

da repubblica.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #24 inserito:: Settembre 21, 2008, 11:38:06 am »

Spedizioni punitive e raid

Il gioco dei Casalesi: stasera tiro al negro

La fuga di Teddy, il nigeriano che vuole salvare le prostitute

 
 
CASTELVOLTURNO (Caserta)- Teddy è andato via perché adesso sa cosa significa essere una boccetta. «Vogliono la tua sottomissione, gli interessa solo questo. Abbiamo provato a renderci utili. Ma a loro non interessa. Siamo schiavi, e tali dobbiamo rimanere». In un'intercettazione di 12 anni fa, uno dei tanti macellai dei Casalesi saluta il suo compare. Lo saluta dicendo che in serata magari se ne va a Castelvolturno «per giocare a boccette con i negri». Poche ore dopo, da una macchina in corsa parte una raffica di mitra contro tre extracomunitari che aspettavano l'autobus sulla Domiziana. «Siamo i loro giocattoli, ma fanno così perché sanno che agli altri italiani in fondo non dispiace ».

Il 19 agosto di quest'anno il nigeriano Teddy Egonwman e sua moglie Alice sono diventati birilli a casa loro. All'ora di cena un gruppo di quattro uomini si mise a sparare sulle finestre del container dove vivevano, ne sfondò la porta e continuò a fare fuoco anche dentro. Un'ottantina di colpi. Due giorni dopo, Teddy e la sua famiglia erano su una macchina diretta a Torino. Così finiscono le illusioni, da queste parti. I coniugi Egonwman si erano messi in testa di fare qualcosa. In modo confuso, arruffato, pasticcione. Ma ci avevano provato. Erano arrivati in Italia da clandestini, come tutti. Teddy trovò lavoro e permesso di soggiorno in un'azienda edile, Alice si buttò nell'import- export di oggetti africani. Lui fondò un'associazione per raccogliere tutti gli immigrati provenienti da Benin City. L'anno scorso aveva deciso di redimere le sue connazionali che lavorano in strada. Faceva addirittura le ronde, non risparmiava qualche schiaffone, alle ragazze a ai loro galoppini. «Non avevano capito che nulla deve e può cambiare. I "miei" e i "tuoi" non vogliono seccature».

A Castelvolturno Teddy era un personaggio così isolato da risultare addirittura patetico nei suoi sforzi. La spedizione punitiva fu bipartisan, nigeriani e casalesi d'accordo nel dare una lezione a un pesce piccolo che veniva considerato un traditore del suo popolo e metteva in crisi il patto tra mafiosi africani e Casalesi. «Volevo dare il mio contributo per liberare la Domiziana dalla prostituzione. Mi hanno urlato che ero un venduto alla Polizia. Mi hanno sparato. Nessun italiano mi ha dato solidarietà, perché un negro che cerca di darsi da fare deve avere per forza qualcosa di storto, no? Tanti saluti, allora». Quelli che restano però rischiano davvero di diventare boccette a disposizione di giocatori anfetaminici e fuori controllo, schiacciati da due poteri simili e alleati nel tenere oppressi i pochi che si muovono sulla linea di confine. «Le uniche vere comunità che ancora esistono sul territorio sono quelle criminali», ragiona un investigatore e le sue parole sono simili a quelle di padre Giorgio Poletto, il prete comboniano che da anni cerca di togliere le ragazze nigeriane dalla strada. «Non è mai stato così difficile. Abbiamo davanti un mare di persone anonime, con rappresentanti che sanno di non rappresentare nulla. La frammentazione li rende più deboli. Sono soltanto individui, alla mercé di un sistema criminale perfetto nella gestione del territorio. In una parola: schiavi».

La strage di Varcaturo rappresenta il disprezzo per i più deboli, quelli che si trovano in mezzo. Il simbolo di questa violenza «terrorista e razzista», come la definisce il magistrato Franco Roberti. La Spoon river delle vittime racconta di gente molto diversa dal prototipo dello spacciatore. Francis era felice perché due settimane fa aveva avuto il riconoscimento dello status di rifugiato politico, dopo sei anni in Italia. Faceva il muratore e frequentava le associazioni di Caserta che si battono per i diritti degli immigrati. Elaj il sarto partecipava alle assemblee settimanali sui diritti degli immigrati, anche lui frequentava i centri sociali impegnati. Akej il barbiere è morto con 700 euro nei calzini. Stava andando a spedirli alla famiglia da quella sorta di Western Union non autorizzata che sorge accanto al locale della strage. Lavorava a Napoli, in un locale del centro. Nei locali devastati dai proiettili e nelle loro case delle sei vittime non è stata trovata droga. Puliti.

Marco Imarisio
21 settembre 2008

da corriere.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #25 inserito:: Settembre 26, 2008, 06:37:36 pm »

Rostagno, il silenzio vent’anni dopo


Vincenzo Vasile


Ha sparato la mafia? Macché, una dark lady e un santone chiacchierato e «bon vivant». Traffici d’armi? Ma no, gelosia, adulteri e tradimenti incrociati, oppure la vendetta di qualche tossico-trafficante. La massoneria deviata? O non saranno stati i soliti servizi segreti? O gli ex-compagni di Lotta Continua invischiati nel delitto Calabresi? Comunque, l’unica cosa certa è che lui, la vittima, «se l’è proprio cercata».

Oggi compie vent’anni il romanzaccio delle ipotesi e degli svarioni, delle indagini e delle infamie su presunti autori e moventi dell’uccisione, appunto, il 26 settembre 1988, in contrada Lenzi di Trapani, con quattro colpi di fucile calibro 12 e due di pistola calibro trentotto, di Mauro Rostagno. E chissà quali battute lancinanti avrebbe inventato lui, Rostagno, sulle tante piste e sugli altrettanti depistaggi che hanno segnato la vicenda delle indagini sul delitto. Quali “calembour” avrebbe concepito, quell’oratore nato, quel pedagogo con i piedi scalzi, in ultimo fustigatore televisivo della corruzione e dei segreti di una provincia dove da sempre Cosa Nostra tiene “i cani attaccati”. Cioè gode di molteplici e cospicue protezioni istituzionali e altolocate. Solo un paio di mese fa, il sostituto della Dda di Palermo, Antonio Ingroia, ha stabilito un punto fermo: fu un delitto di mafia, senza escludere il concorso di altre “entità”. Perché i proiettili che uccisero Mauro furono esplosi da armi che servirono per altri due delitti. Di mafia. “Significative analogie” provano l’appartenenza di queste armi e munizioni, che furono scambiate dai primi inquirenti per ferrivecchi degni di killer dilettanti, all’arsenale della “famiglia trapanese”, come dice la perizia balistica che ha portato alla richiesta di rinvio a giudizio del capomafia Vincenzo Virga. E si riparte da qui, ipotizzando anche un legame e il concorso di moventi e mandanti dell’esecuzione in Somalia dei giornalisti Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, altro “mistero” insabbiato. Mauro era molto amato e molto odiato. Era stato tra i protagonisti del Sessantotto italiano, compagno di università a Trento di Renato Curcio e Mara Cagol, operaio, sociologo, giramondo, fondatore di Lotta Continua, insegnante universitario, guru di una comunità di recupero dei tossici, giornalista investigativo senza tessera professionale, capo redattore di un tv privata. È l’ultimo anno e mezzo di questa vita tormentata e seducente a originare la sentenza capitale, e a cadergli addosso sono i troppi muri di gomma violati dal free lance più appassionato che abbia mai circolato per le redazioni italiane: Mauro si era fatto dare una telecamera portatile dai tecnici della sua emittente, «Rtc». La cassetta con le riprese la teneva chiusa in un cassetto, in ufficio. E aveva fatto anche una copia, dopo essersi informato con uno dei suoi più stretti collaboratori su come trasferire le immagini dal formato degli home video a quello che consente la trasmissione in tv. Mauro Rostagno teneva in borsa la seconda cassetta. Tutte e due sono sparite. Il commando, con il favore del buio provocato da un black out appositamente creato sulla rete Enel, sorprese Rostagno che in compagnia di Monica Serra, una ragazza di 24 anni, stava rientrando in auto nella comunità «Saman» che gestiva, insieme a sua moglie Chicca Roveri e al suo amico Francesco Cardella, per il recupero di tossicodipendenti. Mauro non ebbe scampo. Monica, che era ospite della Saman, se lo vide morire accanto. La perizia ha stabilito che il finestrino posteriore dell’auto della vittima non fu infranto da alcun colpo, ma da un pesante oggetto: i killer avevano un doppio incarico, sparare e perquisire la borsa di Rostagno. Angelo Siino, “ministro dei lavori” pubblici della mafia, ha detto ai magistrati di aver cercato di convincere il padrone della tv a metterlo a tacere, di essersi «mosso per salvarlo, non volevo che si facesse troppo rumore con quell’omicidio...». Vincenzo Sinacori, il primo a rilanciare la pista mafiosa - ma dalle sue dichiarazioni sono passati dieci anni - aveva raccontato di aver partecipato, durante la latitanza, a un colloquio tra don Ciccio Messina Denaro e Francesco Messina, che avrebbero assegnato al gruppo di fuoco trapanese l’incarico di ammazzarlo. Antonio Patti e Enzo Brusca hanno riferito del nervosismo che serpeggiava nella Cosa Nostra per le inchieste di Rostagno, e delle felicitazioni di Totò Riina dopo l’omicidio. E Giovanni Brusca: «Fu Riina a dirmi che eravamo stati noi... che era stata Cosa Nostra a uccidere Rostagno». Invece, le prime indagini dei carabinieri ruotano attorno alla figura della vittima, alla sua cerchia di amici ed ex compagni e sulla sua tumultuosa vita privata. La Procura di Trapani si adegua: nel 1996 ipotizzò che il delitto fosse maturato all’interno della «Saman», per un mix di moventi passionali e di interesse, o anche per un traffico di stupefacenti nella comunità. Inviò mandati di cattura ad alcuni ospiti della comunità, individuati come esecutori materiali del delitto, come mandante a Cardella (che si rifugiò in Nicaragua) e alla Roveri, accusata di favoreggiamento. Dopo alcuni mesi di carcere gli amici e la compagna di Rostagno tornarono in libertà. Cardella, in seguito, fu indicato come trafficante di armi, ora è ambasciatore del Nicaragua. E la morte di Rostagno sarebbe legata alla scoperta di un traffico d’armi con la Somalia, lo stesso su cui indagava Ilaria Alpi e alle attività del Sismi e di Gladio in zona. Si continua a indagare, ma per due volte le porte del Sismi si sono chiuse davanti ai magistrati. Il perito incaricato da Ingroia, Aldo Giannuli, fu estromesso perché accusato da un falso scoop di Panorama e da Francesco Cossiga di avere intenzione di indagare su Berlusconi e sul colonnello Mario Mori. Il falso più clamoroso che ha inceppato la strada della verità si intreccia con il caso Calabresi. In quell’estate del 1988, poco prima di essere ucciso, Rostagno ricevette un avviso di comparizione davanti ai giudici che indagavano sulla morte del commissario. Un rapporto dei carabinieri indica un magistrato dell’inchiesta su Calabresi come la fonte di una contro-pista che accende i riflettori su tutto il gruppo dirigente di Lc, accusato di avere messo a tacere un testimone scomodo come Rostagno. Il magistrato smentì. Di tanta spazzatura, un filone di indagine inesplorato rimane da coltivare. È stato confermato un episodio che era stato archiviato come una leggenda metropolitana: Rostagno incontrò Giovanni Falcone poco prima di morire, ma non si sa se intendesse parlargli dei traffici d’armi e delle attività del Sismi deviato, oppure dell’intrico massonico e mafioso dell’establishment locale, martellato dai suoi quotidiani editoriali televisivi, ambienti che il giudice conosceva bene, avendo compiuto i primi passi della carriera proprio a Trapani, dove c’è un pozzo senza fondo di misteri, anche perché Cosa Nostra tiene “i cani attaccati”.

Pubblicato il: 26.09.08
Modificato il: 26.09.08 alle ore 15.02   
© l'Unità.
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #26 inserito:: Ottobre 07, 2008, 04:29:34 pm »

Scontri a Pianura, due politici in «regia»

Enrico Fierro


«Sono partiti, stanno a Fuorigrotta, mannaggia 'a morte». «Guagliu' iammo, stanno arrivann 'e carabinieri». Napoli, gennaio 2008, a Pianura scoppia la guerriglia contro la discarica. Ci sono blocchi, scontri con le forze dell'ordine, devastazioni delle sedi dei partiti, i commercianti devono chiudere i negozi. Chi c'è dietro gli scontri?, i no global, gli ambientalisti duri e puri, i pericolosissimi anarco-insurrezionalisti? Affatto. Il «fronte del no» partenopeo è una miscela maleodorante di politica, affarismo, speculazione, camorra e tifo violento. È questo il vomito ammorbante che sta uccidendo Napoli e le sue speranze di rinascita. Giorgio Nugnes ha la tessera del Partito democratico in tasca ed è assessore al Comune di Napoli, di lui si fida il sindaco, di lui si fidano la prefettura e la Questura.

Prende i voti a Pianura, è in corsa per il consiglio regionale. Non può certo lasciare spazio a Marco Nonno, consigliere comunale pure lui, ma di Alleanza Nazionale, che in quei giorni di fuoco capeggia la rivolta. Due fronti opposti, ma uniti nel no alla discarica. Motivo nobile, direte, visto che a Pianura quello sversatoio c'è da 40 anni e nel quartiere si muore intossicati e devastati dai tumori. La gente lotta per la salute. Nugnes e Nonno per altri interessi.

È scritto nell'inchiesta della procura della Repubblica di Napoli, 34 arresti e 40 indagati. Nonno è finito a Poggioreale, Nugnes è agli arresti a casa sua. Per tutti l'accusa è di devastazione, associazione per delinquere e un'altra sfilza di reati che occuperebbe tutto lo spazio di questa pagina.

«Se salgono di qua si fa una cosa»

3 gennaio 2008, a Pianura sono stati già incendiati autobus, feriti agenti e carabinieri. Ci sono le barricate e Giorgio Nugnes, che è assessore alla protezione civile, è ufficialmente informato degli spostamenti della polizia che muove verso Pianura per «liberare» la discarica. Il clima è teso, Marco Nonno - giacca militare addosso - è tra i rivoltosi. Ha un filo diretto con l'assessore che lo informa e gli dà ordini: «Ma via Sartana è libera, mannaggia 'a capa vosta». E Nonno: «Se salgono di qua si fa una cosa, hai capito?». Una «cosa», un blocco, gli scontri con i petardi, le molotov e le spranghe di ferro. Quelle portate dai ragazzi della tifoseria ultrà mobilitata per l'occasione, da Nonno e Nugnes e foraggiata con «mangiate» e danari da un altro «galantuomo».

Filo diretto con le Teste Matte

È Leopoldo Carandante, piccolo costruttore fortemente sospettato di essere il referente principale di quel misto di camorra e speculazione che ha trasformato Pianura nel regno dell'abusivismo edilizio. I guaglioni degli ultrà sono quelli delle «Teste Matte» e dei «Niss» (Nessun incontro, solo scontri), quelli che ogni domenica incendiano il San Paolo e tutti gli stadi dove il Napoli calcio va a giocare. Mario 'o bandito, Rafilone, Gino 'o topo, Popoff... ecco: questi sono i referenti dei due politici napoletani, soprattutto di Marco Nonno. «Sulla curva esiste una vera e propria legge di camorra», disse un anno fa il pentito Giuseppe Misso jr, nipote del boss Peppe Misso, re della Sanità. «Allo stadio come nella vita o si è guardie o si è ladri»: è lo slogan dei Niss.

«Fammi sapere che mi muovo»

Ma torniamo a quel 3 gennaio. L'assessore Nugnes segue i movimenti dei blindati, informa Nonno che si spazientisce. «Le cose fammele sapere a tempo di record, così mi muovo». Il consigliere del partito di Fini (un fissato di paracadutismo, arti marziali e armi da guerra) teme di essere intercettato.

Ma l'assessore lo rassicura attingendo a piene mani nella sua enciclopedica cultura politica: «Quelli che ci stanno intercettando ci fanno un bucchino». Nonno non è da meno nell'esternare la sua stima a magistrati e forze dell'ordine: «Ci cagano il babà, io non sto facendo niente di illegale». Fermiamoci un attimo. Nugnes è l'assessore di una grande città italiana, un politico in ascesa di un partito in quel momento al governo. Nonno è un giovane consigliere comunale destinato a diventare consigliere regionale per il partito che di lì a poco conquisterà l'Italia ed esprimerà presidente della Camera e ministro della Difesa. E pensate alle loro chiacchiere «ufficiali» condite dalla stima verso polizia e carabinieri. Balle.

Voti, affari e clan

Di nuovo Nugnes: «Io sto qui, sto difendendo i miei cittadini». Balle pure queste. Perché l'inchiesta della procura di Napoli mette a nudo gli affari tra Nonno e il «costruttore» degli abusivi Carandente e le relazioni pericolose di Nugnes che invece usa Ciruzzo Sanges, un pluripregiudicato. Correva l'anno 1994, quando Pietro Lago (legato al clan che porta lo stesso nome e che detta legge a Pianura) parlò dei legami tra camorra e politici: «Ho procurato voti all'on. Martusciello (Forza Italia, ndr) in cambio di piaceri che mi avrebbe fatto: mi avrebbe potuto far avere appalti nella zona di Pianura... Per ultimo ho appoggiato Giorgio Nugnes che mi ha passato informazioni e documenti sui soldi che dovevano essere stanziati per Pianura».

Il patto della braciola

I telefoni non trovano pace quel 3 gennaio. Pianura è in fiamme. Quindici minuti dopo la telefonata tra Nonno e Nugnes, scattano i disordini. Guaglioni mascherati dirottano un bus del trasporto pubblico e lo incendiano con le molotov. In quei giorni Marco Nonno non si perde una telecamera. È lanciatissimo, anche se nel suo partito c'è un consigliere regionale, Piero Diodato, che ha detto sì alla discarica. Durante gli scontri qualcuno appicca il fuoco al distributore di benzina del fratello dell'onorevole. Per rabbonire gli abitanti di Pianura, Diodato, ha premuto sulla giunta regionale per trovare un po' di finanziamenti. Nonno ne parla con Nugnes. Perché l'assessore democratico vuole sapere cosa è riuscito ad arravogliare (arrangiare) alla Regione Diodato, quante braciole, soldi, ha racimolato per Pianura.

Amara la considerazione dei magistrati. «Il denaro pubblico, frutto dell'imposizione fiscale è paragonato efficacemente ad una braciola da mangiare». Ultrà e speculatori, camorra e politici, democratici e di destra: Napoli affondava nella monnezza e loro organizzavano le barricate.

Quando ha vinto il centrodestra, Marco Nonno ha fatto affiggere un bel manifesto: «Grazie a Pianura l'Italia ha voltato pagina», e giù una serie di ringraziamenti ai suoi cari elettori, nome per nome. Grazie a Garibaldi, 'o Russo, 'o Macellaio, Birritella. Firmato popolo delle Libertà.


Pubblicato il: 07.10.08
Modificato il: 07.10.08 alle ore 11.51   
© l'Unità.
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #27 inserito:: Ottobre 21, 2008, 11:30:25 am »

Parla Franco Tricoli, già capo della procura di Crotone

Da procuratore a tutore di un condannato per 'ndrangheta

Ex pm sta col boss: "Pentito? No Salvo 700 posti di lavoro"


dal nostro inviato ATTILIO BOLZONI


CROTONE - È al comando di un impero che puzza di mafia ma sembra che gliene importi meno di niente. "Pentito io? Neanche un po'", dice sfidando tutto e tutti. Procuratore di Crotone non lo è più da sessanta giorni, però ha ancora una "vigilanza" comandata dal prefetto e la zona rimozione sotto la sua bella casa sul lungomare. Con l'approvazione e l'ammirazione di molti suoi concittadini e dopo 41 anni con la toga addosso, Franco Tricoli di fatto è diventato il prestanome di un potente imprenditore condannato per relazioni con la 'ndrangheta.

"Prego, garante dei suoi beni", risponde lui il giorno dopo che la prefettura di Crotone ha negato il certificato antimafia alle società sospette che gestisce per conto terzi. E si sfoga, spiega, ricorda, racconta e attacca chi lo attacca: "Intorno a me c'è stato solo uno sciocco clamore mediatico, cosa c'è di tanto strano nelle mia decisione? Ci sono magistrati che si arricchiscono con le consulenze, io invece non mi nascondo, ho scelto di guidare un blind trust e mi faccio consigliare solo dalla mia coscienza: la mia coscienza mi ha detto di fare questo passo per il bene della mia città".

Nella Calabria degli abbracci mortali abbiamo incontrato l'uomo che fino a metà estate era un procuratore capo e poi - alla prima ora del primo giorno di pensione, la mattina del 18 agosto - ha scelto di salvare i beni delle società di Raffaele Vrenna, ex presidente del Crotone calcio, ex vicepresidente regionale di Confindustria, un pezzo da novanta del business della monnezza con tanti agganci nella 'ndrangheta.

L'imprenditore si è "spogliato" del suo patrimonio - intestando le sue quote ai familiari - per paura degli effetti di vecchie e nuove indagini. L'ex procuratore ha fatto il resto: ha accettato di amministrare quei beni saltando dall'altra parte.

Lo sa che alcuni suoi ex colleghi la considerano un traditore.
"Forse qualcuno sparla alle mie spalle, quando però incontro certi magistrati quelli mi fanno i complimenti. Mi dicono: bravo Franco, tu sì che sei un uomo libero. L'altro giorno uno mi ha commosso. Mi ha bisbigliato all'orecchio: caro mio, quando andrò via da Crotone, porterò te sempre dentro il cuore. Io, può chiederlo a chiunque in Tribunale, sono stato un riferimento umano per molti".

Dottore Tricoli, non le è sembrato quantomeno inopportuno diventare garante del patrimonio di un imputato che un sostituto del suo ufficio, il collega della porta accanto, ha messo al centro di un'inchiesta di 'ndrangheta?
"Il trust che ho creato è un corpo autonomo staccato dal padrone, cerco di garantire 700 posti di lavoro. E poi Raffaele Vrenna è stato condannato a 4 anni solo in primo grado. E se in Appello o in Cassazione verrà assolto? Già è stato arrestato e prosciolto per alcuni fatti in Sicilia, a Messina. Il mio maestro, il professore Giuliano Vassalli, diceva che il processo penale è come l'incidente stradale: può capitare a chiunque".

La moglie di Vrenna, Patrizia Comito, è stata per tanti anni la sua segretaria in procura. Era nella sua cancelleria anche quando i suoi colleghi stavano indagando su Vrenna, le sembra normale anche questo?
"Patrizia, una donna eccezionale. Io l'avrei clonata, ne avrei voluto avere tante di Patrizia Comito nel mio ufficio. efficiente, instancabile, precisa. Un esempio. Come dicevo, da clonare".

La signora Comito cosa faceva nella sua segreteria?
"Smistava la posta, riceveva i rapporti dalla polizia giudiziaria e me li consegnava".

Lei conosce anche il marito, l'imputato?
"Sì, certo. Raffaele Vrenna non lo posso considerare fra i miei amici più intimi, diciamo che è un conoscente. Ma che c'entra?, io sono stato sempre un magistrato al di sopra di ogni sospetto. Sono stato il primo a dichiarare guerra alle cosche della provincia e il primo ad arrestare il capo dei capi della 'ndrangheta di Crotone. Sa cosa si chiamava? Si chiamava Luigi Vrenna. Un suo parente, certo. Mi pare che fosse lo zio".

È stato qualcuno a suggerirle di fare il "garante"?
"Un amico avvocato. Erano gli ultimi giorni di luglio e io ero molto angosciato. Dopo 41 anni di magistratura, a 70 anni ho capito che non servivo più, non mi volevano più. Avrei voluto continuare per altri cinque anni. Come presidente del Tribunale dei minori di Catanzaro o come procuratore antimafia sempre a Catanzaro, oppure come presidente del Tribunale di Cosenza. E invece per me non c'era spazio. Mi hanno fatto quella proposta, ci ho pensato su qualche giorno e ho accettato".

Ma davvero non si è pentito neanche un po'?
"No, qui sto benissimo. Vengo ogni giorno, mi incontro di primo mattino con Gianni Vrenna (il fratello, ndr) e studiamo insieme le strategie del gruppo".

C'è chi dice che uno dei suoi figli, Luca, abbia ricevuto in passato - quando lei era ancora procuratore capo - laute consulenze da Vrenna. È vero?
"Mio figlio Luca è avvocato, è entrato in uno studio che già da prima curava gli interessi di Raffaele Vrenna. Questa è la verità".

Dicono pure che lei abbia accettato l'incarico perché non poteva rifiutare.
"Infamie, io debiti non ne ho mai avuti con nessuno. E credo che tutto questo can can sia scoppiato per affossare le imprese di Vrenna. Il bersaglio non sono io, c'è qualcuno che vuole distruggere questa realtà imprenditoriale per farsi largo. Vrenna ha due punti deboli. Uno è occuparsi di monnezza, l'altro quello di chiamarsi Vrenna. Non è l'unico condannato di Crotone. Ci sono tanti condannati che occupano cariche pubbliche qui.. in tutti gli enti".

Non si sente a disagio per quella "tutela" che gli ha assegnato la prefettura?
"Prima avevo anche la scorta ma in verità mi sembrava eccessiva, così alla fine di agosto ho fatto sapere a chi di dovere che sarei andato in giro con la mia auto. Mi hanno garantito una vigilanza radiocollegata, controllano a distanza i miei movimenti. E poi, certo, ho sempre la zona rimozione sotto casa".

E adesso che farà? Continuerà ancora a provare a salvare il patrimonio dei Vrenna?
"Devo valutare, voglio leggere prima il provvedimento con il quale si nega il certificato antimafia a queste imprese".

È solo in questa sua battaglia o qualcuno lo aiuta?
"Al mio fianco ho un solo consulente. Un professionista di fama, il professore Vincenzo Comito, chieda in giro chi è".

Parente della sua ex segretaria Patrizia?
"Mi pare di sì".

(19 ottobre 2008)


da repubblica.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #28 inserito:: Ottobre 31, 2008, 11:18:22 pm »

Su Odeon tv da lunedì alle 22.20


Gelli conduttore in tv: «Venerabile Italia»

Il «Maestro» della loggia massonica segreta P2 condurrà un suo programma.

Ospiti? Andreotti e Dell'Utri
 


MILANO - È ricordato principalmente per essere stato «Maestro Venerabile» della loggia massonica segreta P2. Per cui il titolo della sua trasmissione non può che essere «Venerabile Italia». Sottotitolo: «La vera storia di Licio Gelli». Quindi Licio Gelli sbarca in tv. Avrà un programma tutto suo da lunedì, alle 22.20, su Odeon tv .

IL PROGRAMMA - Sarà proprio il maestro della P2 la «voce narrante», assieme a Lucia Leonessi, di una «ricostruzione inedita della storia dell’ultimo secolo, «dalla Guerra di Spagna agli anni ’80, dai salotti di Roma alle rive del lago di Como, dall’epoca fascista al crac del Banco Ambrosiano». Il programma, presentato venerdì ufficialmente a Firenze, vedrà anche la partecipazione di personaggi politici e storici come Giulio Andreotti, Marcello Veneziani e Marcello Dell’Utri. Nella prima puntuta perlerà di fascismo.

CHI È GELLI - È ricordato principalmente per essere stato «Maestro Venerabile» della loggia massonica segreta P2. È stato camicia nera, ha aderito alla Repubblicà di Salò, qualcuno ipotizza che Gelli era molto vicino alla Cia. È stato accusato di aver un ruolo in «Gladio», amico stretto del leader argentino Peròn. Dopo la scoperta della P2, fuggi in Svizzera dove fu arrestato mentre cercava di ritirare decine di migliaia di dollari a Ginevra, ma riuscì ad evadere dalla prigione. Fuggì quindi in Sudamerica, prima di costituirsi nel 1987. Licio Gelli è stato condannato con sentenza definitiva per i seguenti reati: procacciamento di notizie contenenti segreti di Stato, calunnia nei confronti dei magistrati milanesi Colombo, Turone e Viola, tentativi di depistaggio delle indagini sulla strage alla stazione di Bologna e Bancarotta fraudolenta (per il fallimento del Banco Ambrosiano è stato condannato a 12 anni).


31 ottobre 2008

da corriere.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #29 inserito:: Ottobre 31, 2008, 11:19:13 pm »

L'associazione familiari delle vittime di mafia: «iniziativa indegna»

Gelli in tv, il Pd fa appello all'Agcom

Vita: «Conferma successo del Piano».

Libero Mancuso: «È ancora in grado di condizionare la politica»


ROMA - Il ritorno sulla scena di Licio Gelli, il Gran Maestro della loggia P2, che condurrà un programma su Odeon Tv, non passa sotto silenzio nei palazzi della politica. L'opposizione grida allo scandalo, la maggioranza tace. E l'Associazione familiari delle vittime di mafia attacca l'«indegna iniziativa»: «Il solo nome di quell'uomo suscita in noi tutto il ribrezzo e lo sdegno possibile». Viene chiamato in causa il premier Silvio Berlusconi, definito da Gelli, «l'unico che può andare avanti» nel Piano di Rinascita democratica della P2. Anna Finocchiaro del Pd si chiede se «è possibile che Berlusconi non senta nessun imbarazzo. Trovo inoltre sconcertante che un personaggio come Licio Gelli diventi una sorta di star televisiva e che una rete privata presenti in pompa magna un tal avvenimento». Marcello Dell'Utri, definito dall'ex Gran Maestro «una bravissima persona, onesta e di profonda cultura», chiarisce di non avere alcuno rapporto con Gelli: «Non ci ho mai parlato. Può dire quello che vuole, noi occupiamoci di cose serie».

«INTERVENGA AGCOM» - Il restio della maggioranza tace, ma dall'opposizione si alzano voci di forte preoccupazione. Come quella di Vincenzo Vita (Pd): «Il ritorno sulla scena politica e televisiva di Licio Gelli è la tragica conferma dell'incredibile successo che ha avuto l'eversivo Piano di rinascita di tanti anni fa. Attenzione a non prendere sotto gamba le dichiarazioni di Gelli perché altro non sono che il sintomo di una profonda crisi della nostra vita democratica». Secondo il senatore pd «la conduzione di una trasmissione televisiva è verosimilmente illegale essendo stata messa fuori legge a suo tempo la P2. C'è quindi da sperare che già nelle prossime ora l'autorità per le garanzie nelle comunicazioni intervenga seccamente su tale caso». Anche la Federazione nazionale della stampa chiede l'intervento dell'Agcom: «È un vero e proprio insulto alla storia di questa nostra nazione e un affronto gravissimo al mondo dell’informazione. Il sindacato dei giornalisti italiani chiede che nessun giornalista si presti ad operazioni così scandalose e si fa promotore di una precisa richiesta di intervento del presidente dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni».

«CONDIZIONA POLITICI» - Durissimo il commento di Libero Mancuso, già presidente della Corte d’Assise di Bologna e presidente della Sezione del Riesame, che si è occupato di eversione, terrorismo e criminalità organizzata indagando in particolare sulla strage di Bologna del 1980 e su quella dell'Italicus del 1974, su Licio Gelli, Pazienza e i vertici del Sismi. Per Mancuso Licio Gelli è «uno che ha ancora grandi capacità di condizionare e di ricattare la politica e i suoi ex associati (alla loggia P2, ndr). Gelli si inserisce in un momento particolarmente delicato della vita del Paese per riproporre la sua vecchia mercanzia logora ed eversiva».

«VERGOGNA NAZIONALE» - «Si vuole sdoganare persino l'eversione, è una vergogna nazionale - attacca il capogruppo alla Camera dell'Italia dei Valori Massimo Donadi -. Non c'è da stupirsi per le parole di Licio Gelli sulla possibilità che Berlusconi porti avanti il suo Piano di rinascita democratica. Il programma di governo di Berlusconi e il piano di Gelli sono la stessa cosa. Berlusconi e la sua maggioranza si esprimano con chiarezza su questa vicenda gravissima, che è un vero schiaffo alla nostra storia e alle nostre istituzioni. Sinora il loro silenzio è sconcertante di fronte al riemergere di un passato antidemocratico».

«FANTASMI DEL PASSATO» - Secondo Rosy Bindi, vicepresidente della Camera del Pd, «tornano i fantasmi del passato ed è inquietante che vada in onda l'autocelebrazione di Licio Gelli e un nuovo tentativo di inquinare la vita pubblica. Non abbiamo mai avuto dubbi su chi era davvero Berlusconi e sulla sua iscrizione alla P2. Di questo dobbiamo essere tutti grati a Tina Anselmi che ha avuto il coraggio di scoperchiare la trama piduista. Dobbiamo essere ancora più avvertiti e vigilanti sui rischi che corre la nostra democrazia». E Marco Minniti, ministro ombra dell'Interno del Pd: «Licio Gelli, riesumato dalla naftalina, conferma il suo profilo di pericoloso eversore, così come l'Italia lo ha conosciuto nei decenni passati». Giuseppe Giulietti, portavoce di Articolo21: «Ci auguriamo che Oden tv voglia riflettere se sia il caso di affidare a un signore come Licio Gelli la conduzione di una trasmissione televisiva. Noi non invocheremo mai censure, ma ci sembra una scelta non proprio felice e nel momento meno adatto».


31 ottobre 2008

da corriere.it
Registrato
Pagine: 1 [2] 3 4 ... 7
  Stampa  
 
Vai a:  

Powered by MySQL Powered by PHP Powered by SMF 1.1.21 | SMF © 2015, Simple Machines XHTML 1.0 valido! CSS valido!