LA-U dell'OLIVO
Novembre 28, 2024, 12:35:16 am *
Benvenuto! Accedi o registrati.

Accesso con nome utente, password e durata della sessione
Notizie:
 
   Home   Guida Ricerca Agenda Accedi Registrati  
Pagine: 1 ... 4 5 [6] 7
  Stampa  
Autore Discussione: MAFIA - MAFIE - CORRUZIONE  (Letto 70329 volte)
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #75 inserito:: Novembre 26, 2009, 11:06:23 am »

I verbali del processo Dell'Utri.

Il pentito Spatuzza: anche Schifani incontrava Graviano

Il presidente del Senato annuncia azioni legali.

Di Pietro: chiarisca la sua posizione

"La morte di Borsellino decisa prima di Capaci"


di ALESSANDRA ZINITI e FRANCESCO VIVIANO


PALERMO - C'è il nome del presidente del senato, Renato Schifani ma anche un inedito retroscena che rivela come la decisione di uccidere Paolo Borsellino fosse stata presa prima della strage di Capaci, nelle 2000 pagine di verbali giunti dalla Procura di Firenze e depositati al processo d'appello al senatore Marcello Dell'Utri per concorso esterno di associazione mafiosa. Pagine che riscaldano la vigilia dell'attesa deposizione del pentito Gaspare Spatuzza. E' sempre Spatuzza, dopo avere indicato Berlusconi e Dell'Utri come i "referenti" di Cosa nostra e possibili mandanti delle stragi del '93, a ricordare adesso anche di quell'avvocato che nei primi anni '90 avrebbe visto più volte incontrare il boss di Brancaccio Filippo Graviano nei capannoni di una azienda di cucine componibili, la Valtrans. Quell'avvocato, allora difensore dell'imprenditore, Pippo Cosenza, è l'attuale presidente del Senato, Renato Schifani. "Preciso che questa persona - dice Spatuzza - contattava sia Cosenza che Filippo Graviano in incontri congiunti. La cosa mi fu confermata da Filippo Graviano. Preciso che anch'io avendo in seguito visto Schifani sui giornali ed in televisione l'ho riconosciuto per la persona che all'epoca vedevo agli incontri di cui ho parlato".

Indignata la reazione di Schifani che nega decisamente: "Non ho mai avuto rapporti con Filippo Graviano e non l'ho mai assistito professionalmente. Questa è la verità. Sia chiaro: denuncerò in sede giudiziaria, con determinazione e fermezza, chiunque, come il signor Spatuzza, intende infangarmi. Sono indignato e addolorato". Dura la posizione di Antonio Di Pietro, presidente dell'Italia dei Valori: "Schifani non può semplicemente affermare che Spatuzza è un calunniatore ma deve spiegare nel merito se conosce o ha avuto incontri con Graviano. Senza spiegazioni convincenti - aggiunge - si creerebbe un gravissimo corto circuito istituzionale che imporrebbe le dimissioni di Schifani".

Ai pm di Firenze Spatuzza racconta anche un episodio che potrebbe fare rivisitare la genesi delle stragi dell'estate del '92. Il pentito spiega infatti che la cosca mafiosa di Brancaccio, di cui lui faceva parte, fu incaricata di procurare l'esplosivo per la strage di via D'Amelio già prima che fosse ucciso Giovanni Falcone. "Noi di Brancaccio - racconta il pentito - siamo attivi prima di Capaci, quando siamo andati a prelevare l'esplosivo a Porticello e stavamo rientrando a Palermo c'è stato un problema di posto di blocco dei carabinieri. Questo evento avviene prima di Capaci. Ora se noi di Brancaccio già siamo attivi per via D'Amelio, significa che era già tutto in programma". Spatuzza offre anche un movente specifico per l'eliminazione di Falcone e Borsellino. "I due magistrati sono stati sotterrati per una questione di carceri" dichiara Spatuzza riferendosi ad un colloquio con il suo capo, Filippo Graviano che avrebbe aggiunto: "Se rimanevano vivi quei due magistrati, altro che 41bis". E un altro pentito, sempre della cosca di Brancaccio, conferma le accuse rivolte da Spatuzza a Berlusconi e Marcello Dell'Utri. E' Giovanni Ciaramitaro: "Come politico dietro agli attentati del '93 mi indicavano sempre Berlusconi. Il politico era colui che aveva indicato anche i monumenti da colpire perché i fratelli Graviano, essendo palermitani, non li potevano conoscere".

© Riproduzione riservata (26 novembre 2009)
da repubblica.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #76 inserito:: Gennaio 07, 2010, 04:59:55 pm »

7/1/2010
 
'Ndrangheta, una bomba nel Palazzo
 
 
GIANCARLO DI CATALDO
 
E’ nota da tempo, agli addetti ai lavori, l’esistenza, nel nostro Paese, di un rapporto di proporzionalità diretta fra il «rumore» prodotto dalla criminalità organizzata e la repressione dello Stato. Il «rumore» allarma l’opinione pubblica; eccita pericolosamente la curiosità dei cronisti; soprattutto, scuote «chi di dovere». Quando Mafia, ’ndrangheta e Camorra fanno «rumore» non si può più sostenere che parlarne significhi denigrare le belle terre del Sud o delegittimare le forze dell’ordine o minimizzare i successi degli apparati repressivi. Ogni panetto di tritolo impiegato, ogni grammo di piombo speso, stanno lì a ricordarci due cose.
1) la criminalità organizzata, in Italia, non solo non è ancora stata debellata, ma è tuttora forte e armata.
2) C’è ancora molto da fare per sconfiggerla e, all’uopo, imporne l’avvenuta scomparsa per decreto non appare lo strumento più adeguato.

Da qui, la risposta, verrebbe da dire, «necessitata», dello Stato. Intendiamoci: non è che nei momenti di silenzio o di pax mafiosa i bravi poliziotti e i giudici intelligenti se ne stiano con le mani in mano. Tutt’altro. Ogni giorno si catturano latitanti, si sequestrano beni, si infliggono ferite, più o meno profonde, a questa o quella famiglia. Solo che, nei momenti di silenzio mafioso, accade che allarmi qualificati e dettagliati vengano, se non ignorati, sottovalutati; accade che le cosche «in sonno» vengano scambiate per cosche passate a miglior vita; accade che chi critica il trionfalismo ricorrente sia considerato un bastian contrario, un guastafeste, prefica o Cassandra portatrice di chissà quali interessi (non s’è mai spento il Leitmotiv dei «professionisti dell’Antimafia», notava, con la consueta lucidità, Saviano). Accade, insomma, che chi prosegue nella lotta resti isolato, a stento tollerato.

Accade, su un altro piano, che si diffonda un’ostilità generale contro le tecniche investigative più pregnanti, intercettazioni telefoniche in testa. Il tutto, di solito, accompagnato da campagne «culturali» improntate a un revisionismo di stampo minimalista: la criminalità organizzata non ha mai interferito con la Storia d’Italia; l’influenza elettorale delle cosche è minima; i «pentiti» alzano il tiro per lucrare benefici; si deve smettere di «sporcare» l’immagine del Paese con fiction che esaltano la presunta (e inesistente) invincibilità della mafia e via dicendo. Poi, un brutto giorno, il tritolo canta, e fa sentire la sua voce un allarmato coro di Marie Antoniette. D’improvviso ci si accorge che una parte cospicua dell’Italia è in mano al crimine organizzato, e si pianificano interventi «straordinari»: e questo è davvero singolare, perché «straordinario» è, per definizione, un evento che sfugge a ogni prevedibilità e prevenibilità. Straordinario è lo tsunami, il terremoto devastante, il virus sbarcato da Marte. Mentre, fra i mali d’Italia, non c’è niente di più endemico, stabile, storico delle mafie.

Ma tant’è. L’enfasi, si sa, genera sensazione di sicurezza, e la gente di quello ha bisogno. La ’ndrangheta, dunque, alza il tiro. E sa che al «rumore» seguirà una certa repressione. La ’ndrangheta è impazzita? Questa «società» abituata al silenzio è finita nelle mani di qualche «showman» innamorato della ribalta? Negli anni abbiamo imparato a padroneggiare i meccanismi di comunicazione della criminalità organizzata. Una bomba non viene mai fatta esplodere a caso. Essa costituisce un segnale preciso, rivolto tanto all’interno del mondo criminale che verso potenziali interlocutori esterni. Le mafie non agiscono per crudeltà innata o per follia, ma in base a lucidi calcoli improntati alla convenienza. C’è sempre un obiettivo concreto, dietro un attentato, e con una certa esperienza si potranno intuirne anche gli obiettivi mediati: nascosti, ma poi nemmeno tanto, dietro il «rumore».

La ’ndrangheta sa che seguirà la repressione, ed è disposta a pagarne il prezzo. La ’ndrangheta sa che l’ala militare sarà investita dalla repressione. Il problema, semmai, riguarda l’alta mafia. Vale a dire quelle connessioni, operative e strategiche, fra i padrini che dominano la strada e i loro eserciti in armi, e gli insospettabili investitori, i riciclatori di professione, i movimentatori di grandi capitali, i referenti politici, tutta la compagnia di giro che, nel corso di un secolo e mezzo di unità d’Italia, ha trasformato le originarie consorterie di pastori e campieri in coppola e lupara in una delle massime potenze economiche del mondo globalizzato: il «palazzo» della mafia, insomma, che vive e opera in tacito accordo e convinta simbiosi con i «picciotti» della strada. Quel «palazzo» che una parte dello Stato (qualche nome? Alongi, il prefetto Mori, Falcone e Borsellino) ha cercato, per tanti anni, tenacemente di scardinare, e che un’altra parte, altrettanto tenacemente, difende by any means.

Possiamo dunque immaginare che, fra gli obiettivi delle bombe di Reggio, accanto agli interessi contingenti di questa o di quella «famiglia», ci sia la necessità di raggiungere, attraverso il «rumore», le stanze di quel palazzo. Davanti a quelle porte, peraltro, le nostre informazioni si fermano. Non sappiamo esattamente chi comanda, e se gli antichi patti sono ancora in vigore. Solo il futuro potrà poi dirci se il «palazzo» sarà sordo o ricettivo. Se le bombe erano una richiesta d’aiuto, il «memo» di un patto infranto, ovvero la disperata reazione di una sanguinaria organizzazione ormai in via di disfacimento. Se padrini e capibastone hanno ancora amici, o si illudono soltanto di averne. Solo il futuro potrà dirci se gli illusi sono i padrini, o siamo noi.

da lastampa.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #77 inserito:: Gennaio 13, 2010, 05:17:53 pm »

Gli interrogatori del figlio di don Vito, desecretati 23 verbali: è questa la ragione per cui il nascondiglio non fu perquisito

Ciancimino jr: "Nel covo di Riina carte da far crollare l'Italia"

"Moro, i servizi dissero alla mafia: non intervenite.

Ustica, fu un aereo francese"


di ATTILIO BOLZONI e FRANCO VIVIANO

PALERMO - Il covo di Totò Riina non l'hanno mai perquisito "per non far trovare carte che avrebbero fatto crollare l'Italia".
E la cattura del capo dei capi è stata voluta da Bernardo Provenzano dentro quella trattativa che, fra le uccisioni di Falcone e di Borsellino, la mafia portò avanti con servizi segreti e ufficiali dei reparti speciali dei carabinieri.

É la "cantata" di Massimo Ciancimino, quinto e ultimo figlio dell'ex sindaco di Palermo, sui misteri siciliani. Ventitré verbali desecretati - milleduecento pagine - e depositati al processo contro il generale Mario Mori, accusato di avere favorito la lunga latitanza di Provenzano dopo quell'arresto "concordato".

Ma se sulla cattura di Totò Riina esistono già atti ufficiali d'indagine che smontano la versione dei carabinieri, le altre rivelazioni del rampollo di don Vito svelano tanto altro di Palermo. Dalla fine degli anni '70 sino all'estate del '92. É la sua verità, ereditata per bocca del padre. La storia di alcuni delitti eccellenti, il sequestro di Aldo Moro, la strage di Ustica, i rapporti di Vito Ciancimino con l'Alto Commissario antimafia Emanuele De Francesco e il suo successore Domenico Sica. É l'impasto fra Stato e mafia che ha governato per vent'anni la Sicilia.

Il covo del capo dei capi.
Massimo Ciancimino conferma il patto fra Bernardo Provenzano e i carabinieri del Ros, mediato da don Vito, per la cattura di Riina: "Una delle garanzie che mio padre chiese ai carabinieri, e che loro diedero a mio padre, era che nel momento in cui si arrestava Riina bisognava mettere al sicuro un patrimonio di documentazione che il boss custodiva nella sua villa". E ha aggiunto: "Provenzano riferì a mio padre che Totò Riina conservava carte e documenti di proposito con un obiettivo: se l'avessero arrestato avrebbero trovato tante di quelle cose, di quelle carte, che avrebbero fatto crollare l'Italia. Mio padre commentò con me il fatto dicendo che quello era un atteggiamento tipico di Riina. Secondo lui, conoscendo bene molti di questi documenti, sarebbero stati conservati apposta dal Riina con il solo fine di rovinare tante persone in caso di un suo arresto, visto che solo una spiata poteva far finire la sua latitanza".

La trattativa fra le stragi del 1992.
Il negoziato con Cosa Nostra iniziò dopo l'uccisione di Falcone. Da una parte Totò Riina. Dall'altra il vice comandante dei Ros Mario Mori, il capitano Giuseppe De Donno e "il signor Franco", un agente dei servizi segreti legato all'Alto commissariato antimafia. E in mezzo Vito Ciancimino. Se in un primo momento Totò Riina è stato un terminale della trattativa per fermare le bombe, dopo la strage Borsellino "è diventato l'obiettivo della trattativa". Racconta ancora il figlio dell'ex sindaco: "Della trattativa erano informati i ministri Virginio Rognoni e Nicola Mancino, questo a mio padre l'ha detto il signor Franco e gliel'hanno confermato il colonnello Mori e il capitano De Donno".

La trattativa dopo le stragi.
Nel 1993, un anno dopo Capaci e via D'Amelio, la trattativa mafiosa è andata avanti. E al posto di Vito Ciancimino ormai in carcere, sarebbe stato Marcello Dell'Utri a sostituirlo nel ruolo di mediatore: "Mio padre sosteneva che era l'unico a poter gestire una situazione simile... ha gestito soldi che appartenevano a Stefano Bontate e a persone a lui legate".
L'omicidio Mattarella. Il Presidente della Regione siciliana, ucciso il 6 gennaio del 1980, per Vito Ciancimino fu "un omicidio anomalo". Spiega suo figlio: "Dopo il delitto, mio padre chiese spiegazioni ai servizi segreti... un poliziotto poi gli disse che c'era la mano dei servizi nella morte di Mattarella. Ci fu uno scambio di favori su quell'omicidio.. ".

Il sequestro Moro.
Il figlio di don Vito dice che suo padre è sempre stato legato all'intelligence fin dal sequestro di Moro. "La prima volta che mio padre mi ha raccontato di contatti di Cosa Nostra con apparati dello Stato risale al sequestro. E mi ha detto che era stato pregato, e per ben due volte, di non dare seguito alle richieste per fare pressioni su Provenzano perché si attivasse per aiutare lo Stato nelle ricerche del rifugio di Aldo Moro".

Don Vito e Gladio.
"Mio padre faceva parte di Gladio", ha rivelato Massimo. E ha spiegato: "Mi disse che all'origine c'era mio nonno Giovanni che, all'epoca dello sbarco degli Alleati in Sicilia, era stato assoldato come interprete". Il figlio di don Vito ricorda poi che il padre aveva costituito le prime società di import export "insieme a un colonnello americano" e che ha partecipato "a diversi incontri" organizzati dalla struttura militare segreta.

L'uccisione del prefetto dalla Chiesa.
É la parte più "omissata" dei verbali di Ciancimino. Suo padre gli aveva parlato dell'uccisione di Carlo Alberto dalla Chiesa e dell'omicidio del giornalista Mino Pecorelli "che sono legate", poi il verbale è ancora tutto coperto dal segreto.

La strage di Ustica.
Nei racconti del figlio dell'ex sindaco c'è il ricordo dell'aereo precipitato in mare il 27 giugno del 1980: "Quella notte mio padre fu chiamato dal ministro della Difesa Attilio Ruffini che gli disse che era successo un casino: fece chiamare anche l'onorevole Lima. Si seppe subito che era stato un aereo francese che aveva abbattuto per sbaglio il Dc 9, ma bisognava attivare un'operazione di copertura perché questa informazione non venisse fuori".

Gli autisti senatori.
Massimo Ciancimino, ricordando di un "pizzino" inviato da Provenzano a suo padre dove si faceva riferimento "a un amico senatore e al nuovo Presidente per l'amnistia", ha confermato che i due erano Marcello Dell'Utri e Totò Cuffaro. Poi ha spiegato dove ha conosciuto l'ex governatore: "L'ho incontrato nel 2001 a una festa dell'ex ministro Aristide Gunnella, credevo di non averlo mai visto prima.
Si è presentato e mi ha baciato. Poi, l'ho raccontato a mio padre che mi ha detto: 'Ma come, non te lo ricordi, che faceva l'autista al ministro Mannino? Anche lui aspettava in macchina, fuori, come te che accompagnavi me ... Poi ho collegato... perché quando accompagnavo mio padre dall'onorevole Lima fuori dalla macchina aspettava pure, con me, Cuffaro e anche Renato Schifani che faceva l'autista al senatore La Loggia.

Diciamo, che i tre autisti eravamo questi... andavamo a prendere cose al bar per passare tempo.. Ovviamente, loro due, Cuffaro e Schifani, hanno fatto altre carriere: c'è chi è più fortunato nella vita e chi meno... ma tutti e tre una volta eravamo autisti".
 
© Riproduzione riservata (13 gennaio 2010)
da repubblica.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #78 inserito:: Febbraio 01, 2010, 09:32:50 pm »

Il figlio dell'ex sindaco di Palermo ha testimoniato al processo Mori nell'aula bunker dell'Ucciardone

La ricostruzione dei rapporti con il boss latitante: "Godeva di immununità territoriale"

Torna il misterioso "signor Franco" che faceva da tramite: "Non era siciliano"

di SALVO PALAZZOLO

Ciancimino: "Provenzano garantito da accordo" "Mio padre investì soldi con i boss in Milano 2"


PALERMO - Parla del padre Vito, potente sindaco di Palermo, e dell'amico complice di sempre, Bernardo Provenzano. Parla soprattutto degli affari di Cosa nostra, che avrebbe investito molti capitali a "Milano 2", la grande operazione immobiliare da cui presero il via le fortune di Silvio Berlusconi. Al processo Mori, nell'aula bunker del carcere palermitano dell'Ucciardone, Massimo Ciancimino racconta le trame del padre: "Con Provenzano si vedeva spesso  -  dice - anche a Roma, fra il 1999 e il 2002. Con altri mafiosi che avevano una grande capacità imprenditoriale faceva investimenti. Con i fratelli Buscemi e con Franco Bonura vennero investiti soldi anche in una grande realizzazione alla periferia di Milano che è stata poi chiamata Milano 2".

"Me lo ricordo da bambino  -  dice Massimo Ciancimino  -  Bernardo Provenzano, che io conoscevo come il signor Lo Verde, veniva a trovarci spesso nella nostra casa di villeggiatura di Baida, alle porte di Palermo. Solo molto tempo dopo, a fine anni Ottanta, vidi per caso l'identikit di un capomafia sulla rivista Epoca, mentre ero Dal barbiere con mio padre. Era Provenzano, riconobbi l'uomo che veniva a casa mia. Chiesi a mio padre di quell'uomo. Mi rispose: stai attento al signor Lo Verde, da questa situazione non può salvarti nessuno".

"Il signor Lo Verde  -  spiega il testimone  -  continuò a venirci a trovare anche quando mio padre era agli arresti domiciliari, nell'appartamento di via San Sebastianello, vicino a piazza di Spagna, a Roma. Dal 1999 al 2002. Mi incuriosiva quella situazione. Dissi a mio padre: ma non sono pericolosi questi incontri? Lui mi rispose senza tentennamenti. Disse che Provenzano poteva girare tranquillamente per Roma o in qualsiasi altra città, perché godeva di una sorta di immunità territoriale, basata su un accordo che anche mio padre aveva contribuito a stabilire. Un accordo che sarebbe stato stipulato fra il maggio 1992 e il dicembre dello stesso anno".


Ciancimino risponde alle domande dei pubblici ministeri Nino Di Matteo e Antonio Ingroia. Nella prima parte della sua deposizione, iniziata alle 10, ha rievocato l'attività politico-mafiosa del padre. "Aveva creato un vero e proprio sistema  -  spiega  -  suo compito era quello di spartire le tangenti dei grandi lavori pubblici di Palermo fra i politici e fra Cosa nostra, sempre tramite Provenzano". Per i contatti più delicati, Vito Ciancimino utilizzava una linea telefonica riservata, installata nella sua casa di Palermo. "Spesso  -  aggiunge il teste  -  ero incaricato di consegnare buste chiuse a Provenzano".

"Il rapporto fra mio padre e Provenzano era nato a Corleone  -  racconta Ciancimino junior - Abitavano nello stesso stabile: di tanto in tanto, mio padre dava lezione di matematica al giovane Bernardo. Molti anni dopo, si stupiva che lo chiamassero il ragioniere. In matematica non era stato mai bravo".

Ad ascoltare Massimo Ciancimino c'è l'imputato principale di questo dibattimento, il generale Mario Mori, seduto accanto ai suoi legali, gli avvocati Piero Milio ed Enzo Musco. Sugli spalti del pubblico sono presenti numerosi studenti. 

La deposizione davanti alla quarta sezione del tribunale si preannuncia lunga. Nei 23 verbali d'interrogatorio di Massimo Ciancimino già depositati dalla Procura in vista dell'udienza di oggi si parla della trattativa che sarebbe avvenuta fra Cosa nostra e l'entourage del generale Mori, nel 1992, durante la stagione delle stragi Falcone e Borsellino. L'accordo avrebbe previsto la cessazione della strategia stragista, in cambio di alcuni benefici per i boss: a mediare il misterioso dialogo  sarebbe stato il padre di Massimo, Vito Ciancimino. Secondo la Procura di Palermo, in quei giorni sarebbe nato un vero e proprio patto fra il vertice mafioso e una parte delle istituzioni: ecco perché, secondo i pm, Provenzano avrebbe proseguito indisturbato la sua latitanza (fino all'11 aprile 2006).

Il figlio di Vito Ciancimino continua a rispondere senza tentennamenti alle domande dei pubblici ministeri. Ritorna sugli affari del padre: "Dopo le inchieste e le denunce della commissione antimafia e il caso della sua querela al capo della polizia, mio padre decise di spostare i suoi investimenti lontano da Palermo". Correvano gli anni Settanta. Massimo Ciancimino spiega: "Alcuni suoi amici di allora,  Ciarrapico e Caltagirone, ma anche altri costruttori romani gli dissero di investire in Canada dove erano in preparazione le Olimpiadi di Montreal. C'erano dei mutui agevolati per gli investitori stranieri". Con i boss Salvatore e Antonino Bonura, con il costruttore mafioso Franco Bonura sarebbe nato in seguito un altro investimento: "Una grande realizzazione alla periferia di Milano che è stata poi chiamata Milano 2", dice Ciancimino junior.

Un altro capitolo della deposizione nell'aula bunker è quello dei rapporti fra l'ex sindaco di Palermo, Bernardo Provenzano e i servizi segreti.  Massimo Ciancimino dice che il tramite sarebbe stato un "uomo che vestiva sempre in modo molto elegante, non siciliano". Lui lo conosceva solo come il nome: "signor Franco o Carlo". "Era legato all'ambiente dei servizi", spiega il testimone. "Lo contattavo tramite due numeri conservati nella Sim del mio telefonino. Avevo un'utenza fissa, con prefisso 06 Roma e un'utenza cellulare". Il signor Franco torna nel racconto di Ciancimino già dagli anni Settanta. "Lo rividi il giorno dei funerali di mio padre  -  spiega  -  venne al cimitero dei Cappuccini di Palermo per portarmi un biglietto di condoglianze del signor Lo Verde. Disse che se n'era andato un grande uomo".

Vito Ciancimino avrebbe incontrato spesso il signor Franco:  "Lui, mio padre e il signor Lo Verde avevano le chiavi di un appartamento, nella zona di via del Tritone, a Roma". All'ex sindaco di Palermo sarebbero stati chiesti dai Servizi diversi "interventi": anche in occasione del disastro di Ustica ("Per non fare diffondere certe notizie", dice Ciancimino junior) e del sequestro Moro ("Per trovare il covo").


© Riproduzione riservata (01 febbraio 2010)
da repubblica.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #79 inserito:: Maggio 07, 2010, 10:57:22 am »

INCHIESTA ITALIANA

"La mafia come braccio armato per favorire altri centri di potere"

Parla il procuratore Pietro Grasso.

Falcone aveva confidato agli amici: 'Forse devo la vita a questo ragazzo'. Era l'agente Nino Agostino


Signor procuratore, le ultime indagini ci dicono che non è stata solo Cosa Nostra a volere morti Falcone e Borsellino. Ci sono sospetti che portano ad apparati dello Stato, tracce sempre più evidenti...
"Falcone era certamente il nemico numero uno di Cosa Nostra ma era inviso pure a tanti centri di potere anche istituzionali, contrari ai suoi progetti, progetti soprattutto di riforma. E quindi era un personaggio inviso all'organizzazione mafiosa ma anche al potere in senso lato".

Giovanni Falcone è stato ucciso il 23 maggio del 1992 ma ha cominciato a morire sugli scogli dell'Addaura, tre anni prima. Come si sono svolti i fatti? È vero che c'era un pezzo di Stato che voleva Falcone morto e un altro pezzo che l'ha salvato?
"Sin dall'inizio, nell'immediatezza del fatto, Falcone ha spontaneamente dato una sua versione di quanto gli era accaduto. Aveva parlato di personaggi che non erano certo il prototipo di Cosa Nostra, delle menti particolari che avevano architettato il tutto. Dietro questa intuizione iniziale di Giovanni si sono ricostruite nel tempo tutta una serie di circostanze, anche rivisitando la dinamica e il luogo del delitto, e non è detto che tutto sia come è sembrato nella fase iniziale delle indagini. Per esempio, un'altra ipotesi potrebbe essere che il pericolo, e quindi la collocazione dell'ordigno esplosivo, anziché venire dal mare come si è prospettato, venisse da terra".

È vero che quel giorno all'Addaura due poliziotti, Nino Agostino ed Emanuele Piazza, hanno salvato la vita a Falcone?
"Io questo non sono in grado di dire se è vero oppure no. Siamo nel campo delle ipotesi che vanno verificate e riscontrate. Però non c'è dubbio che Falcone si recò ai funerali del poliziotto Agostino e non c'è dubbio che è girata per anni la voce che lui stesso avrebbe detto, mormorando a qualcuno che gli era vicino: "Questo ragazzo forse mi ha salvato la vita"".

Nelle indagini sulle uccisioni di Agostino e di Piazza ci sono stati depistaggi, omissioni, "rallentamenti": perché quelle inchieste, per entrambi i delitti, si sono subito indirizzate verso una "pista passionale"?
"Questa delle piste passionali e delle fughe con improbabili amanti è qualcosa a cui la delegittimazione costante di Cosa Nostra, e anche di altre entità, ci ha abituato per tanto tempo. Poi, scavando, si trovano delle cose assolutamente diverse, che nulla hanno a che fare con le piste passionali".

Si arriverà mai a una verità sulle stragi siciliane? Sicuramente c'è un mandante mafioso, Totò Riina. Ma chi sono gli altri?
"Nelle stragi, in tanti omicidi perpetrati da Cosa Nostra, si ha la caratteristica ricorrente che non tutto si riesce a ricostruire nei minimi particolari. Mandanti, mandanti esterni, mandanti interni all'organizzazione, moventi, moventi complessi, moventi convergenti: non sempre si è riusciti a ricostruire la verità in maniera integrale di tanti fatti e di tante stragi. Io alludo principalmente agli omicidi cosiddetti politici, laddove non si intravede un interesse principale di Cosa Nostra per fare, così come è provato che abbia fatto, certi omicidi. Alludo al presidente della Regione siciliana Piersanti Mattarella, al segretario del Pci regionale Pio La Torre, al generale Carlo Alberto Dalla Chiesa. Ebbene, in questi delitti, sembra quasi che l'organizzazione mafiosa sia come un braccio armato che interpreta e si rende partecipe di interessi e di favori che trascendono quella che è la propria finalità "istituzionale". E quindi noi abbiamo il dovere, morale innanzitutto, e professionale e giuridico, di cercare sempre e soltanto con tutte le nostre forze, con tutto il nostro impegno, la verità".

(a. b.)

(07 maggio 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/cronaca/2010/05/07/news/inchiesta_italiana_grasso-3876392/
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #80 inserito:: Maggio 27, 2010, 06:08:16 pm »

Grasso: «Le stragi mafiose del ’93 fatte per favorire entità esterna»

di Nicola Biondo


«Le stragi mafiose del ’93 erano tese a causare disordine per dare la possibilità ad una entità esterna di proporsi come soluzione». Lo ha affermato Pietro Grasso, alla commemorazione della strage dei Georgofili avvenuta 17 anni fa. Se non è un avviso di garanzia al partito del premier poco ci manca. A Firenze in occasione della commemorazione delle 5 vittime della strage avvenuta tra il 26 e 27 maggio 1993, il Procuratore nazionale Piero Grasso, che nelle stesse ore veniva confermato dal Csm al vertice della DNA, si è prodotto in una chiamata di correità per un’intera classe politica.

«Le stragi del ’93 a Firenze e Milano, gli attentati alle chiese a Roma – ha detto Grasso - avrebbero dato la possibilità a una entità esterna di proporsi come soluzione per poter riprendere in pugno l’intera situazione economica, politica, sociale, che veniva dalle macerie di Tangentopoli».

Mentre le indagini ridisegnano una connection eversiva di larga scala per quanto riguarda le stragi del ’92 e il mancato eccidio dell’Addaura contro Giovanni Falcone, il procuratore Grasso, che già domenica scorsa si era rivolto polemicamente al governo criticando il ddl intercettazioni, ieri ha coinvolto gli equilibri dell’intera seconda Repubblica. «Certamente Cosa Nostra - ha ribadito - attraverso questo programma di azioni criminali, ha inteso agevolare l’avvento di nuove realtà politiche che potessero poi esaudire le sue richieste». Dietro le stragi - secondo Grasso - c’era anche un progetto indipendentista. Nelle stesse ore il capo della Procura nissena Sergio Lari, titolare delle inchieste più scottanti, è stato sentito dal Copasir. Un incontro causato dalle fughe di notizie circa il coinvolgimento nelle stragi di esponenti dei servizi segreti. Lari si è così trovato nella non facile veste di chi, da una parte deve preservare il segreto investigativo, e dall’altro è costretto a riferire al Parlamento delle indagini in corso sugli 007. Con il rischio che si dia il via ad altre polemiche e fughe di notizie.

La caccia ai mandanti esterni delle stragi è un file investigativo che gli inquirenti non hanno mai abbandonato. Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri sono stati indagati e prosciolti per questa accusa ma le sentenze - una di Firenze l’altra di Caltanissetta - non hanno però dissipato le ombre . «Berlusconi e Dell’Utri - scrivevano i giudici fiorentini - hanno intrattenuto rapporti non meramente episodici con soggetti criminali cui è riferibile il programma stragista realizzato». Le parole di Grasso riaprono un caso politico e giudiziario che potrebbe trovare conferma a breve. Il prossimo 11 giugno si conoscerà il verdetto di Appello per Marcello Dell’Utri condannato in primo grado a nove anni per concorso esterno. L’inchiesta di Firenze sui mandanti esterni delle stragi del ’93 è stata riaperta. Poi c’è l’inchiesta palermitana sulla trattativa. Anche a questo ha fatto riferimento Grasso secondo il quale «certamente Cosa Nostra, ha inteso agevolare l’avvento di nuove realtà politiche che potessero poi esaudire le sue richieste».

Intanto si registra ancora una fumata nera per la definitiva concessione a Gaspare Spatuzza del programma di protezione. La commissione presieduta da Alfredo Mantovano ha richiesto nuovi atti alle procure che raccolgono le dichiarazioni del pentito. Un atteggiamento ritenuto dagli investigatori incomprensibile. Spatuzza ha riscritto le fasi preparatorie della strage di Via D’Amelio, mandando al macero le precedenti dichiarazioni di un falso pentito addestrato - dicono le nuove indagini - da un gruppo di poliziotti. Chi ha ordinato questo depistaggio e perché?

Ma Spatuzza ha anche parlato dei contatti che sarebbero avvenuti tra la nascente Forza Italia e la famiglia mafiosa dei Graviano all’alba della seconda repubblica: «La persona grazie alla quale avevamo ottenuto tutto era Berlusconi e c’era di mezzo un nostro compaesano - mi dissero i Graviano - e abbiamo ottenuto quello che volevamo, abbiamo il paese in mano».

27 maggio 2010
http://www.unita.it/news/italia/99215/grasso_le_stragi_mafiose_del_fatte_per_favorire_entit_esterna
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #81 inserito:: Maggio 30, 2010, 05:38:09 pm »

30/5/2010 (7:33)  - LUGLIO '93, LE ISTITUZIONI NEL MIRINO

Vigna: "In quelle stragi lo zampino dei Servizi"

Pier Luigi Vigna, procuratore a Firenze quando esplose il Fiorino
   
L'ex capo della Dna: «Una certezza, Cosa nostra non si è mossa da sola»

FRANCESCO LA LICATA
GUIDO RUOTOLO
ROMA


«Non fu solo Cosa Nostra a gestire la campagna stragista del ’92 e ’93. Penso che pezzi deviati dei Servizi segreti siano stati gli ispiratori, e qualcosa anche di più, delle bombe di Firenze, Roma e Milano».

Parla Pier Luigi Vigna, procuratore a Firenze quando esplose il Fiorino in via dei Georgofili, procuratore nazionale antimafia in tutti gli anni nei quali l’amico fraterno Gabriele Chelazzi indagava (da pm) sui mandanti esterni alle stragi. La tesi di Vigna porta nei fatti a Massimo Ciancimino che parla della presenza e del ruolo di pezzi dei servizi, «il signor Franco». Vigna esprime perplessità sul riconoscimento da parte di Gaspare Spatuzza del collaboratore del «signor Franco» sulla scena della strage di via D’Amelio: «Un generale che imbottisce di esplosivo un’auto? A distanza di tanti anni i riconoscimenti sono difficilissimi».

Procuratore Vigna, il presidente emerito della Repubblica Ciampi ricorda che la notte del 27 luglio 1993, con le bombe di Roma e Milano e il black-out di Palazzo Chigi, temette un golpe cileno.
«Perché nelle stragi furono coinvolti anche non mafiosi? Delinquenti non affiliati a Cosa Nostra, come il magazziniere romano dei 300 chili di esplosivo che servivano per gli attentati, come lo stesso Scarano, il postino del comunicato di rivendicazione delle stragi. Noi procedemmo subito contestando ai mafiosi di Cosa Nostra l’aggravante di aver agito con finalità di terrorismo o di eversione. Cosa Nostra con questo agire voleva condizionare lo Stato, voleva che fossero cancellate una serie di leggi».

Il famoso papello di richieste: eliminazione del 41 bis, della legge La Torre...
«I detenuti con l’eliminazione del 41 bis avrebbero tratto vantaggi; la neutralizzazione dei pentiti avrebbe consentito la revisione dei processi; la cancellazione della legge sulle misure di prevenzione sarebbe stato un regalo a tutto il popolo dei mafiosi, detenuti e non».

Le stragi di Firenze, Roma e Milano furono solo farina del sacco di Cosa Nostra?
«Da quello che mi risulta, solo in due occasioni Cosa Nostra è emigrata sul continente per realizzare delle stragi. La prima volta fu il 23 dicembre del 1984, quando nella stessa galleria dove si era verificata la strage dell’Italicus fu fatto scoppiare il treno Napoli-Milano: 15 morti e 130 feriti. Fu condannato, tra gli altri, Pippo Calò, e in primo grado anche l’onorevole del Msi Massimo Abbatangelo e il gruppo camorristico di Giuseppe Misso. Ma poi la filiera napoletana, che portava alla destra, fu assolta in Cassazione. Una uscita di scena singolare perché i giudici della Cassazione confermarono la condanna a quattro anni e passa per favoreggiamento di un poliziotto napoletano che pochi giorni prima della strage rivelò a un magistrato: “Ci faranno intossica’... Natale...”».

Perché quella strage?
«Si voleva rappresentare al Paese, nell’anno di Buscetta e del maxi blitz contro Cosa Nostra, che il problema per il Paese era solo l’eversione».

Dieci anni dopo, le bombe a Roma, Firenze e Milano. Per favorire la nuova forza politica che stava nascendo?
«La primissima indicazione che venne dal Viminale è che si doveva guardare alla criminalità internazionale. Noi seguimmo subito la pista interna anche perché analizzando la tipologia della miscela degli esplosivi emerse che era identica a quella della strage del 1984. Ricordo che nella prima informativa della Dia, la Divisione investigativa antimafia, si parlava non solo di Cosa Nostra ma anche di imprenditori disonesti, di massoneria, di soggetti deviati dei servizi segreti. Mi chiedo se davvero Cosa Nostra pensasse che proseguendo nella stagione stragista avrebbe ottenuto quanto chiedeva. A distanza di tanti anni continuo a non credere che quello che è accaduto fuori dalla Sicilia sia frutto di una pensata di Cosa Nostra».

Chi fu il suggeritore?
«Uccidere Chinnici, Falcone o Borsellino perché nemici è nella natura di Cosa Nostra. Non è stata solo la mafia a devastare il territorio colpendolo al cuore, pensando di poter distruggere un simbolo del Paese come la Torre di Pisa, o di infettare le spiagge di Rimini con siringhe. Senza qualche aggancio esterno, Cosa Nostra non si sarebbe mossa, non avrebbe traslocato a Roma, Firenze e Milano...».

Aggancio esterno, o entità? Parliamo di politica? Di 007 deviati?
«Una certezza: Cosa Nostra non si è mossa da sola. Se guardo ai risultati di questa offensiva, devo constatare che sul piano politico vi è stata una tenuta delle istituzioni. Nessuna richiesta avanzata dalla mafia è stata esaudita. Il 41 bis e le misure di prevenzione oggi sono provvedimenti molto più rigidi di prima. Allora dobbiamo guardare ai “deviati”. Quello è un periodo di “deviazione”. Il 1993 è anche l’anno dello scandalo dei fondi neri del Sisde, del tentato golpe di Saxa Rubra, dell’esplosivo sul rapido Siracusa-Torino piazzato da un funzionario dei Servizi di Genova, di un ordigno inerte in via dei Sabini a Roma, del black-out a Palazzo Chigi di cui parla il presidente Ciampi. Insomma, c’erano pezzi dei Servizi che ragionavano ancora come se il Muro di Berlino non fosse crollato. Mani Pulite aveva demolito la Prima Repubblica e qualcuno aveva interesse che le richieste di Cosa Nostra fossero accolte per dare peso a una organizzazione mafiosa che iniziava a globalizzarsi. Che era ricca, economicamente forte. In grado di consentire relazioni anche internazionali...».

http://lastampa.it/redazione/cmsSezioni/cronache/201005articoli/55487girata.asp
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #82 inserito:: Luglio 01, 2010, 10:36:23 pm »

IL RETROSCENA

Depistaggi sul caso Borsellino spunta il nome di La Barbera

La procura di Caltanissetta indaga a partire dalle dichiarazioni di Spatuzza.

Il superpoliziotto morì nel 2002. Interrogati tre suoi ex collaboratori

di ATTILIO BOLZONI E FRANCESCO VIVIANO


NEI MISTERI delle stragi è arrivata l'ora delle inchieste sulle inchieste: quelle sui depistaggi di Stato. E nel giorno della commissione parlamentare antimafia che rilancia su quel "groviglio fra Cosa Nostra, politica, grandi affari, gruppi eversivi e apparati deviati", in Sicilia si apre il capitolo su chi coprì i veri assassini di Paolo Borsellino.
Escono i primi nomi, il più eccellente è quello dell'ex capo della squadra mobile di Palermo Arnaldo La Barbera. A quasi vent'anni dalle bombe s'intuiscono altri scenari, s'inseguono nuovi sospetti. Dopo la sentenza di condanna a sette anni per Marcello Dell'Utri e dopo le parole del procuratore Pietro Grasso sull'"entità esterna che voleva agevolare una forza politica", sotto accusa finiscono uomini dello Stato.

È di due giorni fa, lunedì, l'interrogatorio dei tre poliziotti che nell'estate del 1992 avevano investigato sui massacri siciliani incastrando il falso testimone di giustizia Vincenzo Scarantino, il sicario che si autoccusò di una strage che non aveva mai fatto. Così sono entrati nell'indagine quei tre investigatori del "Gruppo Falcone-Borsellino" - Salvo la Barbera, Mario Bo e Vincenzo Ricciardi (al tempo, i primi due giovanissimi e appena usciti dalla scuola di polizia, il terzo anagraficamente e professionalmente più anziano) - che sono stati indiziati per avere in qualche modo estorto la confessione a Scarantino. Sono tre poliziotti dal profilo limpido, risucchiati nel vortice dell'indagine per avere "spostato" il tiro - consapevolmente?, inconsapevolmente? - sugli assassini del 19 luglio 1992. È questo il cuore dell'inchiesta sul depistaggio intorno alla strage.

Chi ha suggerito il nome di Vincenzo Scarantino agli investigatori? Come è scivolato il sicario della Guadagna nella rete del "Gruppo Falcone-Borsellino"? Perché qualcuno avrebbe indotto Scarantino ad accusare se stesso e altri uomini della sua borgata pur sapendo che erano del tutto estranei all'uccisione del procuratore? Partendo da questi interrogativi, i magistrati di Caltanissetta hanno messo sotto accusa i tre poliziotti; nel capo di imputazione contestato parlano "di calunnia aggravata in concorso con Arnaldo La Barbera". È la svolta nelle indagini sull'uccisione di Paolo Borsellino: l'ex capo della squadra mobile di Palermo dopo diciotto anni ha addosso tutti i sospetti.

I procuratori vogliono scoprire chi fu ad offrire quello che definiscono un "input esterno" all'inchiesta, chi aveva interesse a portare lontano dalla verità e dai veri sicari del grande amico di Giovanni Falcone. I tre poliziotti sono indagati - ripetiamo, sono tutti e tre investigatori di alto livello e due di loro nel 1992 erano soltanto dei ragazzini, potevano solo ubbidire ad ordini superiori - ma l'obiettivo dei procuratori è quello di individuare il "regista" dell'operazione che si è "inventato" Scarantino come pentito per sviluppare le investigazioni lungo una falsa pista che indicava i mandanti nella borgata della Guadagna e non nel quartiere di Brancaccio: due mondi lontani per le loro "relazioni esterne", per i rapporti dei rispettivi boss con gli apparati, Pietro Aglieri da una parte e i fratelli Graviano dall'altro, gli stessi Graviano sospettati a lungo di avere instaurato un legame con Marcello Dell'Utri.

È un terreno investigativo assai scivoloso, un'indagine molto complicata che ha portato i procuratori a concentrarsi su Arnaldo La Barbera, un gran poliziotto che prima di approdare al comando del "Gruppo Falcone-Borsellino" era stato il capo della Squadra Mobile di Venezia e poi della capitale siciliana. Arnaldo la Barbera è morto nel 2002 per un tumore, il suo nome è stato trovato qualche mese fa sui libri paga del Sisde - il servizio segreto civile - per gli anni 1986 e 1987, proprio nei mesi precedenti al suo arrivo a Palermo. Quello che sembrava il "motore" di tutte le più delicate investigazioni a cavallo fra gli Anni Ottanta e Novanta, dalle nuove inchieste affiora come l'uomo che avrebbe taroccato l'indagine sulle stragi. Vero? Falso? Al momento molti indizi si dirigono su di lui, da quel che se ne sa i tre poliziotti interrogati lunedì a Caltanissetta si sono difesi con molti "non so" e molti "non ricordo". Quale piega prenderà quest'inchiesta sull'inchiesta è difficile prevederlo, certo è che il "pentito" Vincenzo Scarantino - manovrato o meno - era un bugiardo.

Nome in codice "Catullo", Arnaldo La Barbera è stato il protagonista unico della cattura di Scarantino (e nell'indurlo al pentimento), o è stato al contrario manovrato a sua volta da qualcun altro? E ancora: Arnaldo La Barbera ha arrestato Scarantino senza verificare a dovere le sue rivelazioni per una sorta di ansia da prestazione - la strage Falcone, poi la strage Borsellino, nessun movente chiaro, nessun elemento concreto per iniziare l'indagine - o ha "costruito" il pentito a tavolino su un "input esterno? E di chi? L'ombra di apparati si allunga dal fallito attentato all'Addaura contro il giudice Falcone fino a via Mariano D'Amelio, passando per la strage di Capaci dove sono un'infinità le tracce lasciate dai servizi segreti. L'inchiesta dei procuratori di Caltanissetta si sta districando fra questi dubbi e questi sospetti partendo da Gaspare Spatuzza, partendo dalle parole pronunciate dal pentito all'inizio della sua collaborazione: "Per via D'Amelio ci sono persone colpevoli fuori e persone innocenti in galera".

In più Gaspare Spatuzza ha fatto il nome di un agente dei servizi, L. N., uno che nel 1992 aveva incarichi operativi in Sicilia. Secondo il pentito, l'agente (che era il vice capo del Sisde a Palermo) era insieme ad alcuni mafiosi nel garage dove - il 18 luglio 1992, esattamente un giorno prima dell'attentato - stavano "caricando di esplosivo" l'utilitaria che avrebbe fatto saltare in aria Borsellino. O Gaspare Spatuzza mente su ogni piccola e grande storia che ha raccontato o la verità sulle stragi siciliane è molto più spaventosa di come l'abbiamo sempre immaginata.

É da quel momento - da quando Spatuzza comincia a parlare - che le nuove indagini sulla strage di via D'Amelio, e dopo le ritrattazioni dello stesso Scarantino e di altri due imputati, hanno preso un'altra direzione "scagionando" una mezza dozzina di mafiosi e puntando verso altri mafiosi. La richiesta di revisione di una parte del processo Borsellino molto probabilmente verrà presentata entro il mese di luglio e girata alla procura generale di Caltanissettta, che a sua volta la invierà a Catania (dove però attualmente è procuratore generale Giovanni Tinebra, lo stesso procuratore che aveva creduto a Scarantino incriminandolo) o più probabilmente alla procura generale di Messina. In attesa dei vari passaggi e delle barriere che il "fascicolo" troverà fra Catania e Messina, i procuratori di Caltanissetta continuano a indagare sui depistaggi e sulle trattative che vi furono in quell'estate di 18 anni fa fra pezzi dello Stato e boss di Cosa Nostra. Il loro uomo chiave resta Gaspare Spatuzza. Il pentito che per il Viminale non è un pentito ha già fatto crollare un pezzo del processo agli assassini di Paolo Borsellino. E se la commissione ministeriale e i giudici di Palermo non gli hanno creduto, i procuratori di Caltanissetta lo ritengono così "affidabile" che con lui stanno riscrivendo tutta l'indagine sui mandanti delle morti di Falcone e Borsellino.
 

(01 luglio 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/cronaca/2010/07/01/news/tutti_uomini_depistaggio-5293881/?ref=HREC1-3
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #83 inserito:: Luglio 19, 2010, 11:16:46 am »

Sì, fu ucciso perché si oppose alla trattativa

Il mistero della morte del magistrato dentro una lettera di Vito Ciancimino.

Un documento del '93 presto in mano ai magistrati e indirizzato a un "futuro premier"


Paolo Borsellino si è opposto alla trattativa tra lo Stato e la mafia dopo la strage di Capaci che costò la morte a Giovanni Falcone, alla compagna Francesca Morvillo e a tre uomini della sua scorta. Dopo le testimonianze tardive dei politici, dopo le rivelazioni del pentito Gaspare Mutolo sul tema, ora la conferma arriverebbe da un documento autografo di don Vito Ciancimino in persona. E’ una lettera che il figlio Massimo dovrebbe consegnare nei prossimi gorni ai magistrati che indagano sui misteri della mancata cattura di Bernardo Provenzano e sul patto tra Stato e mafia. Massimo Ciancimino ne ha già anticipato i contenuti in un verbale segretato.

Finora al processo al generale Mario Mori per il mancato blitz nelle campagne di Mezzoiuso, dove il colonnello Riccio del Ros avrebbe potuto chiudere la latitanza del boss Provenzano dieci anni prima della sua catura grazie alle rivelazioni del confidente Luigi Ilardo (poi ucciso) si sono confrontate due verità. La prima è contenuta in un lungo memoriale delgenerale Mario Mori consegnato ai giudici che devono decidere le sue sorti. L’allora colonnello del Ros, vice e poi comandante dell’unità specializzata del’Arma che poi catturò Totò Riina ha ammesso i contatti con la famiglia Ciancimino ma con date e significato diverso da quello che gli ha attribuito Massimo Ciancimino. Dopo la strage di Capaci solo il capitano del Ros Giuseppe De Donno incontrò Massimo Ciancimino per chiedergli di fare da ponte con il padre. Secondo Mori prima della strage di via D’Amelio del 19 luglio 1992 e dopo quella di Capaci, avvenuta il 23 maggio, non ci furono incontri tra lui e il consigliori di Provenzano e Riina. Solo dopo la strage di via D’Amelio della quale domani ricorre l’anniversario, il generale in persona avrebbe varcato la soglia della casa di via San Sebastianello dove Vito Ciancimino allora viveva a due passi da Piazza di Spagna.

La versione del Ros era sempre stata confermata da don Vito fino alla morte avvenuta nel 2002 ma è stata ribaltata da Massimo Ciancimino con le sue rivelazioni consegnate negli ultimi due anni ai magistrati siciliani. Secondo il figlio di don Vito Mario Mori ha incontrato il padre prima della strage di via D’Amelio. Sempre secondo Massimo, Vito Ciancimino era convinto che quell’avvio di trattativa aveva incoraggiato la strategia stragista di Riina: fare la guerra per fare la pace e ottenere i benefici carcerari per i detenuti di mafia e la revisione del maxiprocesso, oltre alle altre richieste contenute nel cosiddetto papello. Anche Giovanni Brusca, il boss di San Giuseppe Iato che aveva spinto il telecomando a Capaci, aveva detto prima di Ciancimino junior che Riina, dopo la strage di Capaci disse che “si erano fatti sotto” e bisognava dare un altro colpo. Secondo il figlio, Vito Ciancimino aveva sempre sostenuto il contrario per rispettare un accordo preso con il Ros. Don Vito, secondo lui, fu anche invitato dai difensori degli autori delle stragi, a raccontare la storia della trattativa nei suoi termini reali ma don Vito si rifiutò di cambiare versione.

La lettera descritta da Ciancimino junior ai pm palermitani e che probabilmente sarà consegnata martedì 20 luglio- se quello che Massimo dice è vero – dovrebbe essere stata scritta dal padre e probabilmente risale al 1993. E’ indirizzata a un personaggio dell’economia che allora sembrava potesse assurgere al ruolo di premier. Don Vito, che in quel periodo cercava di comunicare con le istituzioni inutilmente cerca di ottenere ascolto da quello che i suoi amici politici gli hanno preconizzato come futuro presidente. Ciancimino rivela al destinatario della missiva che in quell’anno “il regime sta tentando il suo capolavoro finale”. Il regime non è la politica ma, par di capire, una sorta di alleanza tra una parte della politica, dei Servizi segreti e delle forze di polizia deviate.
Ciancimino senior dopo un pizzico di autocritica malinconica dice “faccio parte di questo regime e sono consapevole che solo per il fatto di farne parte presto ne sarò escluso” passa ad analizzare il tema della trattativa. “Dopo un primo scellerato tentativo di soluzione avanzata dal colonnello Mori per bloccare le stragi. Tentativo di fatto interrotto dall’omicidio Borsellino, sicuramente oppositore fermo di questo accordo, si è decisi finalmente costretti dai fatti di accettare l’unica soluzione possibile per poter cercare di rallentare questa ondata di sangue che al momento rappresenta solo una parte di questo piano eversivo”.
Poi aggiunge: “Ho più volte chiesto invano di essere ascoltato dalla commissione antimafia”.

La lettera è importante per tre motivi. Prima di tutto perché data “il tentativo” di Mori dopo la strage di Capaci ma prima di via D’Amelio. Poi perché inserisce le stragi di mafia in un disegno più ampio di tipo eversivo elaborato da “un architetto” che governa un sistema del quale don Vito stesso fa parte.Anche se per poco. Perché sente che la sua stagione è finita e presto ne sarebbe stato escluso. Infine perché la lettera – se Massimo e anche Vito dicono il vero – conferma le ipotesi più inquietanti della magistratura sul movente della morte di Borsellino. Il giudice amico di Falcone si sarebbe opposto alla trattativa, secondo la lettera attribuita a don Vito dal figlio. E questo, potrebbe essere stato il motivo dell’accelerazione della sua condanna a morte.

http://ilfattoquotidiano.it/2010/07/18/si-fu-uccisoperche-si-opposealla-trattativa/41278/
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #84 inserito:: Luglio 20, 2010, 10:17:21 am »

Quando la ‘ndrangheta incontrò Abelli “per fare un percorso all’interno del Pdl”

La vicenda è raccontata nelle carte giudiziare della procura di Milano che martedì ha portato in carcere 180 persone sospettate di associazione mafiosa


La politica è il vero capitale sociale della ‘ndrangheta in Lombardia. Lo assicurano i magistrati, sembrano esserne convinti i boss. Loro però non si accontentano più di amministratori locali. Pensano in grande. Arrivano in Regione e puntano verso il Parlamento. E sul cavallo vincente di Montecitorio non hanno dubbi: sarà Giancarlo Abelli, uno dei fedelissimi di Silvio Berlusconi. Questo raccontano le carte dell’inchiesta sulla cupola delle cosche al nord. Lo stesso Abelli che oggi al Corriere della Sera ha confermato di conoscere l’uomo dei clan aggiungendo “se uno nel far campagna elettorale chiede di votare qualcuno cosa c’entro io”

Il nome dell’ex presidente della Commissione salute della Regione Lombardia, che negli anni Novanta fu coinvolto e poi prosciolto in un giro di tangenti legate all’imprenditore sanitario Giuseppe Poggi Longostrevi, compare diverse volte nella richiesta d’arresto firmata dal pool antimafia di Milano.

La cricca mafiosa, infatti, punta su di lui per le ultime elezioni regionali. Una scelta obbligata dopo l’arresto della moglie di Abelli fino a quel momento considerata la candidata ideale. Purtoppo però, Rosanna Gariboldi nel 2009 finirà in galera per riciclaggio. Si tratta dell’inchiesta su il ras delle bonifiche, Giuseppe Grossi. I successivi problemi di bancarotta condivisi dal collega di partito, Massimo Ponzoni, la escludono definitivamente.

A porre il problema sarà Carlo Antonio Chiriaco, dirigente dell’Asl di Pavia e collettore dei voti mafiosi. Lui ne parla con l’avvocato e assessore Pietro Trivi, già legale di Brega Massone, chirurgo della Santa Rita, ribattezzata la clinica degli orrori. “Lui (Abelli, ndr) va benissimo e deva fare l’assessore alle infrastrutture. Poi nei prissimi cinque anni c’è Expo”.

Decisione presa e avallata dai padrini. Chiriaco quindi passa alla conta dei voti. “Il limite tra successo e insuccesso è 12.000 voti”. Lui questa elezione la vuole e lo fa capire. “Farei la campagna elettorale con la pistola in bocca, perché chi non lo vota gli sparo”. Chiriaco è disposto a tutto. “Io prendo pure i voti di Pino Neri e Cosimo Barranca“. Due nomi di peso visto che sono considerati tra i capi assoluti della ‘ndrangheta. Quindi si spiega meglio: “Per i nuclei calabresi c’è Cosimo Barranca che è un tipo sveglio”.

Non si tratta di millanterie. Scrivono i magistrati: “La volontà di coinvolgere nella competizione elettorale a sostegno di Abelli due delle figure più importanti della ‘ndrangheta in Lombardia non rimaneva un mero proposito, ma aveva un immediato sbocco operativo”. Che si traduce in un incontro negli uffici di Abelli nel palazzo della Regione Lombardia. Incontro che i carabinieri filmano e fotografano.

I preparativi iniziano il 12 gennaio scorso e si concretizzano nei primi giorni di marzo. A condurre la regia ci sono il boss Pino Neri e Carlo Chiriaco. I due lavorano dietro le quinti. Non sarà, infatti, il padrino ad andare da Abelli, ma un suo uomo. Il prescelto si chiama Rocco Del Prete, un giovane volentoroso già candidato nella lista Rinnovare Pavia. Il suo mentore si chiama Ettore Filippi, ex vicesindaco di Pavia. Filippi che sta nel centrosinistra ha però un’illuminazione: cambiare casacca e far cadere la giunta. Non disdegna nemmeno di chiedere favori ai boss. Condotta poco edificante per uno che da poliziotto balzò agli onori della cronaca per aver arrestato Mario Moretti, il capo delle Brigate rosse.

Comunque sia l’incontro si concretizza. Prima, però, Pino Neri catechizza il suo uomo. “Devi andare da lui e devi fare il nome dell’avvocato Neri. E ancora che noi l’abbiamo sempre rispettata e che io, chiaramente sarò sempre nell’ambito del centrodestra. Abbiamo deciso di creare un gruppo e come gruppo possiamo fornire un impegno. E mi raccomando tu sottolinea che i tuoi eletti non vengono dal centrosinistra”. Insomma, un vero e proprio disegno politico portato avanti “da ex poliziotti, ingegneri…”. Una vera lobby che tanto assomiglia a quella massoneria segreta di cui il boss dice appertamente di fare parte. Il capomandamento insiste: “Devi dirgli: lei è una persona perbene affidabile e io voglio solo crescere politicamente e operare all’interno del suo gruppo”.

Rocco Del Prete quindi si presenta da Abelli. L’incontro fila liscio. Anzi alla grande. “Gli ho detto sono un amico del dottor Chiriaco e dell’avvocato Neri”. E ancora: “Volevo solo dirle che saremmo contenti di darle una mano e se poi c’è la possibilità di fare un percorso all’interno del Pdl”. Il tutto si conclude con le parole di Chiriaco: “Ha detto che è contentissimo e che è andata benissimo”.

http://www.ilfattoquotidiano.it/2010/07/14/quando-la-ndrangheta-incontro-abelli-per-fare-un-percorso-allinterno-del-pdl/40206/
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #85 inserito:: Agosto 03, 2010, 06:49:42 pm »

L'INTERVENTO

Grasso: "La mafia non ha un capo unico

Rischio attentati in momenti di tensione"

Il procuratore nazionale antimafia durante un dibattito: "Messina Denaro latitante importante ma non è leader di Cosa Nostra".
"Intercettazioni ambientali fondamentali per le indagini".

E sul caso del pentito Spatuzza: "E' credibile"


CORTINA D'AMPEZZO - "Non considero Matteo Messina Denaro attuale capo di Cosa Nostra, ma uno dei capi": è il pensiero del procuratore Antimafia Pietro Grasso, che parlando ieri sera durante un dibattito a Cortina d'Ampezzo ha fatto il punto sulla lotta alla mafia, ribadendo l'importanza delle intercettazioni nell'azione degli inquirenti contro la criminalità organizzata. Oltre al ruolo fondamentale dei collaboratori di giustizia. Grasso fa l'esempio più discusso, quello di Gaspare Spatuzza: "Non è vero che non è stato creduto dai magistrati". E con forza ha fatto appello alla trasparenza: "Uno Stato che si definisca tale non può aver paura della verità. Accertata con le regole". Grasso poi si è chiesto: "Può uno Stato sopportare i misteri e i segreti? Penso di no". Il procuratore antimafia, intervenuto ad un dibattito di "Cortina incontra" nel quale si è confrontato con il collega statunitense Richard Martin, procuratore dell'indagine "Pizza connection", ha sottolineato di tendere "sempre alla ricerca della verità; lo farò con tutte le mie forze - ha concluso - finchè ne avrò".

Il vertice di Cosa Nostra. Grasso ha ricordato che Cosa Nostra è un'organizzazione mafiosa "che vede nella commissione provinciale di Palermo l'organismo direttivo". Con l'arresto di Lo Piccolo, Provenzano e Riina, ha ricordato Grasso, "non esiste più un vertice. C'è stato un tentativo dei 'reggenti' di costituire una sorte di commissione formale di quella che c'è in carcere ma è stata neutralizzata. Il fatto che ci sia un elemento di spicco - ho proseguito Grasso - latitante non significa attribuire a quest'ultimo un ruolo di capo dell'organizzazione. Tranne che lo abbiamo attribuito e noi non ne sappiamo nulla". "Messina Denaro è l'ultimo latitante di spicco rimasto ancora in libertà, ha partecipato e deliberato la strategia stragista del '92-'93, è la persona più importante di Cosa nostra. Detto questo mi fermo" ha concluso.

Le intercettazioni. Per combattere la mafia e le organizzazioni segrete, ha sottolineato Grasso, c'è necessità non solo delle intercettazioni telefoniche ma anche di quelle ambientali, oltre ai collaboratori di giustizia. "Abbiamo fatto la diagnosi, abbiamo la ricetta e ora dobbiamo trovare le medicine" ha spiegato Grasso, che ha evidenziato che per sconfiggere le organizzazioni segrete "occorrono le intercettazioni. Non tanto quelle telefoniche, ma ambientali che si collocano nei posti dove si riuniscono i capi. Senza le intercettazioni ambientali non possiamo sapere certe cose. Occorrono poi più collaboratori di giustizia". Grasso ha quindi ricordato che le organizzazioni segrete "non sono solo militari, fatte da criminali: abbiamo scoperto, per esempio, che il capo mandamento di Brancaccio era un medico, primario in ospedale. All'interno della mafia ci sono persone riservate che fanno gli interesse di Cosa Nostra. Finché non scopriamo la relazione di queste persone insospettabili non avremo mai una vittoria completa sulla mafia". Grasso ha poi osservato che c'è "una rincorsa continua tra i mezzi a disposizione dello Stato e della criminalità organizzata. Provenzano aveva dato suggerimenti e precauzioni per evitare di essere intercettati e per non essere individuati. E' una continua lotta. Se ci tolgono questi strumenti - ha detto Grasso - diventa difficile". Grasso ha concluso che la lotta alla mafia non può essere fatta più in ambito regionale ma "nazionale" e che quello mafioso non è un problema del Sud ma di tutto il Paese.

Spatuzza pentito "credibile". "Dopo tanti anni, una persona che si sente macerata nella coscienza da un serie di verità di cui è portatore, ha voluto parlare. Sono stato il primo ad ascoltarlo - ha ricordato Grasso - mi ha detto 'Non posso più sopportare che ci siano tanti innocenti condannati e colpevoli che sono rimasti a piede libero, nemmeno sfiorati dalle indagini". Grasso ha ricordato che Spatuzza è sempre "stato fermato dalla famiglia, per preservarla da possibili ritorsioni, perché continuavano a vivere a Brancaccio. Finalmente ha trovato il coraggio di dire 'Anche se la famiglia non mi segue non mi interessa niente. Abbandono mia moglie e mio figlio e voglio dire la verità". Il procuratore antimafia ha spiegato che Spatuzza ha fornito elementi di riscontro "talmente concreti da non poter dubitare che non siano attendibili". Grasso ha ricordato che Spatuzza gli aveva riferito che quando rubò l'auto che poi usò per la strage di via D'Amelio aveva un problema ai freni, e per questo la portò dal meccanico. "Riscontrammo, nella perizia sull'auto - ha raccontato Grasso - che i ferodi erano nuovi. Solo lui lo sapeva e per questo è credibile. Inoltre Spatuzza ha riferito una frase che gli aveva riferito Giuseppe Graviano: l'unico che può smentire è solo quello che gliela ha detta".

Rischio attentati. Per il procuratore nazionale antimafia i rischi di attentati da parte della mafia, come quelli di Firenze, di Capaci e di via d'Amelio, "ci sono sempre, soprattutto in momenti di tensioni politiche". "Non dimentichiamo - ha ricordato Grasso - che nel '92 gli attentati sono avvenuti a ridosso di tangentopoli. Può esserci qualcuno che vuole approfittare del momento politico per dare uno scossone. Ho sempre interpretato queste cose - ha sottolineato Grasso - come una voglia di conservare più che destabilizzare il sistema". In merito a possibili attentati della mafia Grasso ha risposto di "non avere la palla di cristallo". "Spero che non sia così, che si rendano conto che nel momento in cui riaprono una stagione del genere di stragi, di attacco alle istituzioni, sarà ancora peggiore la repressione dello Stato. Lo Stato, le forze di polizia e la magistratura non hanno mai cessato al momento la repressione e continuano a fare opere di bonifica".

(02 agosto 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/cronaca/2010/08/02/news/grasso_mafia-6027817/?ref=HREC1-1
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #86 inserito:: Agosto 11, 2010, 05:43:57 pm »

Palermo Spunta un pizzino dell'ex sindaco a Provenzano Elezioni 2001

Mafia, Ciancimino jr tira in ballo il premier

La vedova di don Vito: incontri negli anni '70

   
PALERMO - Dopo le minacce al figlio di cinque anni dice di non volere più parlare, Massimo Ciancimino. Ma lo ha fatto negli ultimi giorni. Come la madre Epifania Scardino, per la prima volta loquace con i magistrati di Palermo ai quali ha confermato il contenuto di un «pizzino» indirizzato nel 2001 dal marito, «don Vito», a Bernardo Provenzano chiamato «Caro Rag.» e con riferimenti espliciti a Silvio Berlusconi.

Un invito a distribuire i cento milioni di lire incassati da una trattativa che coincide con le elezioni del 2001. Il testo è top secret, ma chi lo ha letto così sintetizza evocando conteggi in vecchie lire: «Dei 100 milioni ricevuti da Berlusconi, 75 a Benedetto Spera e 25 a mio figlio Massimo». E poi: «Caro Rag. bisogna dire ai nostri amici di non continuare a fare minchiate... E di risolvere i problemi giudiziari...».
Sarebbe davvero inquietante questo appunto, soprattutto se fosse confermata la data del 2001, quando si votò per le Politiche il 13 maggio e per le Regionali in Sicilia il 24 giugno. Anche perché un seppur incerto riferimento a un flusso di denaro sporco riversato da Ciancimino padre nelle attività edilizie dell'impero Berlusconi risale al 1974, con la mediazione di due prestanome, due costruttori che allora si presentavano a Milano come danarosi uomini d'affari. La coppia che l'ex sindaco di Palermo chiamava sarcastico «B&B»: Antonino Buscemi, morto in carcere mentre stava scontando una pena, e Franco Bonura, condannato nel 2008 a venti anni.

Varca adesso una nuova soglia Massimo Ciancimino con questo «pizzino» in cui compare Spera, allora longa manus di Provenzano. E la varca con l'aiuto della madre, malata, anziana, ma pronta, con una tempestività sospetta, a trovare una carpetta del marito e a consegnarne il contenuto al figlio Massimo. Sospetta perché tutto sarebbe accaduto due giorni prima della perquisizione ordinata dalla procura di Caltanissetta, quasi un mese fa, in case e ville dei parenti di Ciancimino junior.

Una scelta dalla quale traspare una certa diffidenza da parte del procuratore Sergio Lari e dei sostituti nisseni che hanno tanto materiale su cui lavorare, ma non quel «pizzino». Documento che adesso compare solo a Palermo negli uffici di Nino Di Matteo, Paolo Guido e Antonio Ingroia. Gli stessi che per la prima volta avrebbero avuto la conferma di un rapporto diretto fra «don» Vito e Berlusconi per voce della vedova: «Si, mio marito incontrava negli anni Settanta Berlusconi a Milano... Ma alla fine si sentì tradito dal Cavaliere...».
Adesso sarà necessario cercare adeguati riscontri. Di qui il mandato affidato alla polizia scientifica per un esame sulla compatibilità della carta con l'epoca indicata, il 2001, quando c'era già l'euro, ma tanti ancora conteggiavano gli affari in lire. E poi è tutta da definire la stessa attendibilità di Ciancimino junior visto che un tribunale, quello di Dell'Utri, lo ha ritenuto contraddittorio.

Da sei anni aleggia comunque l'ombra di un assegno da 25 milioni del Cavaliere a Ciancimino. Effetto di una intercettazione fra Ciancimino junior e la sorella Luciana, allora indispettita per le difficoltà a trovare un posto di prima fila per il decennale di Forza Italia a Palermo, presente Berlusconi. E il fratello, senza immaginare di essere ascoltato, fu pronto a ricordare che avrebbero potuto sventolare la prova di quel pagamento. Appunto, un assegno, si pensò. Documento mai trovato. Ma adesso richiamato da Massimo Ciancimino con una correzione: «Non si trattava di un assegno, ma di soldi in contanti: i 25 milioni di lire indicati nel "pizzino", somma che andai a ritirare presso un amico di Pino Lipari...».

Siamo alla piena ammissione di un evento che rende l'allora giovane rampollo di «don» Vito complice del padre. Tanto da portare i procuratori di Palermo a un passo obbligato: la sua incriminazione per favoreggiamento, riciclaggio o addirittura per concorso esterno in associazione mafiosa.
«Fate pure, a me interessa solo raccontare la verità, ormai...», avrebbe detto la scorsa settimana a palazzo di giustizia dove lunedì mattina è tornato in lacrime, dopo aver trovato la lettera con proiettile e minacce al figlio, chiedendo protezione per il piccolo e promettendo a se stesso di non fare più rivelazioni: «Così, tacendo, diventerò anch'io un "eroe"».
Un riferimento diretto a Vittorio Mangano, lo stalliere di Arcore dal senatore Marcello Dell'Utri considerato un «eroe». Frase ripetuta ieri ai due uomini di scorta che, prima di accompagnarlo con moglie e figlio fuori Palermo, si sono presentati con le «misure rafforzate»: tre giubbotti antiproiettile.

Felice Cavallaro

11 agosto 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/politica/10_agosto_11/mafia-ciancimino-jr_f28f96ca-a536-11df-80bf-00144f02aabe.shtml
 
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #87 inserito:: Settembre 11, 2010, 05:13:54 pm »

IL CASO

Giustizia, l'allarme di Grasso "Certe riforme delegittimano le toghe"

Il procuratore capo antimafia: "Bisogna stare in guardia che con certe riforme si cerchi di delegittimare, intimidire certi magistrati, renderli inoffensivi". "Tempi ragionevoli del processo o semplice impunità?"


SIENA - "Oggi si parla di separazione delle carriere. Ben vengano se possono risolvere i problemi. Ho già spiegato dei timori di un assoggettamento all'esecutivo da parte del pm". Il giorno dopo il nuovo attacco di Silvio Berlusconi alla magistratura, il procuratore capo antimafia Piero Grasso mette in guarda contro da chi porta avanti "certe riforme" della giustizia, avendo "una la riserva mentale" che punta a "delegittimare, intimidire certi magistrati e renderli inoffensivi".

Grasso scende nell'attualità e commenta la vicenda sul processo breve: "Si vuole veramente una durata ragionevole dei processi o si sono accorciati i tempi della prescrizione per ottenere un colpo di spugna e quindi l'impunità?". Secondo Grasso "in tanti Paesi c'è un tempo per fare le indagini, dopodiché, una volta iniziato il processo, il potere punitivo dello Stato non si ferma più, non c'è prescrizione. Da noi invece si sono accorciati i tempi di prescrizione".

Quanto "all'autonomia e all'indipendenza" della magistratura - secondo Grasso - "è un valore che deve essere sentito come tale dai cittadini" perchè "l'alternativa è una magistratura sotto il potere dell'esecutivo". A suo avviso comunque il problema della giustizia si risolve con "risorse adeguate". "Spesso la spinta ideale di chi vi lavora riesce a supplire laddove mancano le risorse".

Grasso non si sottrae alle domande e a chi gli chiede di indicare quali magistrati verrebbero delegittimati replica: "Quei magistrati che pur non essendo stati eletti dal popolo trovano ancora punti di riferimento nel rigore etico, nella difesa della cosa pubblica. Quei magistrati definiti matti o utopisti che credono ancora che in Italia si possano processare non solo gli autori delle stragi, ma anche la mafia dei colletti bianchi, i corruttori dell'imprenditoria, della politica, della pubblica amministrazione, coloro che creano all'estero società fittizie e fondi neri".

(11 settembre 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2010/09/11/news/grasso_magistrati-6969116/?ref=HRER2-1
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #88 inserito:: Settembre 17, 2010, 02:24:47 pm »

'Io, Riina, e l'infame Ciancimino'

di Lirio Abbate

L'ex sindaco di Palermo e suo figlio. Le stragi del '92-'93. E Berlusconi.

Per la prima volta, parla il capo dei Corleonesi all'ergastolo. Intercettato durante un colloquio in carcere

(16 settembre 2010)

Totò Riina nel 2006 Totò Riina nel 2006Ho detto al magistrato che se nella vita vuole fare il procuratore, faccia il procuratore e faccia il suo dovere di fare il procuratore, e lo faccia bene. Io se sono Riina e lo faccio bene, stia tranquillo. Ognuno deve fare il suo mestiere, il suo lavoro, e lo deve fare bene. Chiuso". Potrebbe intitolarsi: "La mafia spiegata a mio figlio". Una lezione unica, del maestro più esperto: Totò Riina. Il padrino più feroce che ha cambiato Cosa nostra e la storia d'Italia, dopo 14 anni ha potuto incontrare per la prima volta il figlio Giovanni, anche lui detenuto.

E, sapendo di essere intercettato, ha trasformato quel colloquio in una summa della sua esperienza criminale, alternando consigli pratici ("Sposati una corleonese e mai una palermitana") a messaggi sulle inchieste più scottanti ("Della morte di Borsellino non so nulla, l'ho saputo dalla tv"). Un proclama che ha alcuni obiettivi fondamentali: dimostrare che lui è ancora il capo di Cosa nostra, che il vertice corleonese è unito e, almeno nelle carceri, rispettato. Negare qualunque rapporto con i servizi e e ribadire invece la forza dei suoi segreti. Per questo la registrazione è stata acquisita agli atti delle procure antimafia.

Era dal 1996 che non si potevano guardare in faccia. Solo lo scorso luglio si sono ritrovati l'uno davanti all'altro, divisi dal vetro blindato della sala colloqui del carcere milanese di Opera. Le prime parole sono normali convenevoli. Poi la mettono sullo scherzo.
Totò non comprende perché "Giovannello" non è abbronzato. E il figlio spiega: "Perché nell'ora d'aria preferisco fare la corsa".
Il boss insiste sulla salute: "Stai tranquillo che me la cavo. Tu sai che papà se la cava. Tu pensa sempre che papà è fenomenale.
È un fenomeno. Tu lo sai che io non sono normale, non faccio parte delle persone uguali a tutti, io sono estero". Ci tiene a trasmettere di essere ancora forte, per niente piegato da 17 anni di isolamento: "Ti devo dire la verità, io sono autosufficiente ancora...
Non devi stare in pensiero perché tu sai che papà se la sbriga troppo bene. Puoi dire ai tuoi compagni che hai un padre che è un gioiello".

TRADIMENTI Poi però entrano nelle questioni serie. Partendo da Bernardo Provenzano: è lui il traditore che ha trattato con lo Stato consegnando il capo dei capi ai carabinieri del Ros? "Ho fatto una difesa di Provenzano. Ai magistrati ho detto: quel Provenzano che voialtri dite che era d'accordo per farmi arrestare... Provenzano non ha fatto arrestare mai nessuno". I rinnegati per lui sono altri, più volte attaccati durante il colloquio: Vito Ciancimino e suo figlio Massimo, che con le sue dichiarazioni sta animando l'ultima stagione di inchieste. "Loro si incontravano con i servizi segreti, padre e figlio. Provenzano no. I magistrati durante l'interrogatorio non ci credevano, e gli ho detto: "E purtroppo... Provenzano no!"".
Sull'uomo che assieme a lui è stato protagonista della più incredibile scalata mafiosa, che in mezzo secolo ha trasformato due contadini di Corleone nei padroni di Cosa nostra fino a sfidare lo Stato, su quel Provenzano che è stato il reggente del vertice della cupola fino al giorno dell'arresto si dilunga. Alternando segnali positivi a frecciate sibilline, riferite ai pizzini trovati tra ricotta e cicoria nel covo di Montagna dei Cavalli: "I magistrati mi hanno detto che sono troppo intelligente (facendo riferimento alla difesa di Provenzano, ndr) ed ho risposto che non è così. Non sapevo di avere un paesano scrittore. Il mio paesano (Provenzano, ndr) è scrittore, ma non si sedeva con gli sbirri per farmi arrestare. Il paesano queste cose non le fa". E sempre su Provenzano: "Onestamente è quello che è, non voglio soprassedere. Però farlo passare per uno che arresta le persone, non è persona di queste cose. I mascalzoni sono gli altri che lo vogliono far entrare. Perché Giovà devi essere onesto con lui: per me ha un cervello fenomenale per l'amor di Dio, ha un cervello suo quando fa lo scrittore e scrive... quindi solo lo scrittore può fare queste cose. Lo sapevi che papà lo difende lo scrittore? Gli dissi l'altro giorno che non sapevo che avevo uno scrittore al mio paese, io so che c'è uno scrittore che si chiama Provenzano ma incapace di farmi arrestare i cristiani (i mafiosi, nd.)". E torna ad accusare i due Ciancimino: "Qui infamoni sono padre e figlio e tutte queste persone perché devono far passare...".

Il capo dei corleonesi riflette sulle frequentazioni che avrebbe avuto Provenzano e sulla confidenza che avrebbe dato a Ciancimino. "La gente bisogna delle volte guardarla dall'alto in basso e valutare se vale la pena frequentare certe persone. Quando io gliene parlavo a Provenzano di questi, gli dicevo che non ne valeva la pena, ma lui mi diceva: "Noo", ed io: "Ma finiscila, finiscila, vedi che non ne vale la pena". Adesso a distanza di tempo questo è il regalo che gli ho fatto". "Papà, hai avuto sempre un sesto senso per... Hai avuto sempre il sesto senso". "Giovà, ma lo sai perché, che cos'è? Il cervello sveglio, che sono più avanzato di un altro, più sveglio, hai capito perché?".

DOPPI SERVIZI La questione dei servizi segreti aleggia in tutto l'incontro. Direttamente e per vie trasversali. Quando Provenzano venne arrestato, alcuni quotidiani narrarono un diverbio in carcere con il giovane Riina che avrebbe visto il padrino entrare nel penitenziario e lo avrebbe accolto insultandolo come "uno sbirro". Una versione impossibile: i boss al 41 bis non hanno contatti tra loro di nessun genere. Le indagini hanno fornito una ricostruzione suggestiva di questo falso episodio che porta a riflettere sul ruolo depistante che avrebbero avuto fino ai giorni nostri alcuni uomini degli apparati di sicurezza. È stato uno 007 infatti a riferire la falsa notizia del diverbio a Massimo Ciancimino, che poi ne ha parlato con un giornalista, come lui stesso ha detto ai pm. Su questo fatto indaga la Procura di Roma. Un altro mistero, che i due Riina chiariscono faccia a faccia. "Non è vero che tu lo incontravi in carcere... Come potevi incontrarti con Provenzano? Me lo devi dire", chiede il boss al figlio. "Una buffonata, una vergogna... Lo sai papà, non mi permetto nemmeno a dirlo a quelli che lo dovrebbero meritare determinate cose, immagina se me lo metto a dire a qualcuno che non lo merita".
E Riina sintetizza la sua linea: "Ho voluto dirlo ai magistrati che con questi servizi segreti di cui parla lui (Ciancimino jr, ndr) io non ho mai parlato, non li conosco, anche perché se io mi fossi incontrato con uno di questi dei servizi segreti non mi chiamerei più Riina...". E conclude: "Mi hanno chiesto se conosco nessuno (il riferimento è ad uomini dei servizi, ndr). Non conosco nessuno, e se mi fossi incontrato con queste persone non mi chiamerei Riina. Minchia l'avvocato stava morendo, mi stava cadendo a terra...".

STRAGI SU STRAGI Il vecchio corleonese autore e mandante di centinaia di omicidi e stragi riflette in carcere con il figlio sull'uccisione di Paolo Borsellino. Il boss critica l'atteggiamento di Giovanni Brusca che per l'attentato a Capaci ha svelato ogni retroscena, ma non ha saputo fornire indicazioni per la bomba del 19 luglio 1992. "Ho detto al magistrato che io il fatto di Borsellino l'ho saputo dalla televisione e non so niente". A Milano durante un'udienza aveva fatto un'altra uscita, ancora più esplicita per prendere le distanze dall'ordigno di via Palestro, esploso nel luglio 1993 quando era già in cella: "Non ne so nulla, ma bisogna capire quale fosse il vero obiettivo che si voleva colpire". Più in generale, nell'incontro con il figlio confida: "Ho detto che Riina è capace di tutto e di niente. Però tuo padre è incredibile, quando tu credi sappia tutto non sa niente, ma come lui tanti di questi signori sono ridotti così. Quasi un po' tutti. Perché un po' tutti? Perché l'ultima parola era sicuramente la mia e quindi l'utima parola non si saprà mai. Ci devi saper fare nella vita. Quando hai una possibilità se la sai sfruttare, l'ultima parola non la dici; te la tieni per te e puoi fare tutto su quest'ultima parola: gli altri non sanno niente e tu sei anche un po' avvantaggiatello. Questa è la vita a papà: purtroppo ci vogliono sacrifici, ho avuto la fortuna, in sfortuna, di trovarmi lì e sono andato avanti, certamente... sì. Non è di tutti eh?". E poi spiega: "Perché anche loro sbagliano e sbattono la testa al muro, non sanno... non sanno, questi sbattono la testa al muro perché non sanno dove andare. Questo è un segreto della vita...".

PAPELLO E TRATTATIVA Parlano anche del "papello", la lista di richieste in favore di Cosa nostra che secondo alcuni collaboratori di giustizia fra cui Giovanni Brusca, Riina avrebbe fatto avere nel 1992 a uomini dello Stato per far cessare le stragi. È la trattativa. Copia del "papello" è stata consegnata ai magistrati di Palermo da Massimo Ciancimino, il quale sostiene che suo padre lo avrebbe ricevuto perché fece da tramite fra i corleonesi e uomini dello Stato. Nel colloquio con Giovanni, il capo dei capi non smentisce l'esistenza di una lista con le richieste. Non smentisce che quel "papello" che oggi fa tremare ufficiali delle forze dell'ordine e politici sia esistito. A Giovannello dice solo che il foglio prodotto da Ciancimino "non è scrittura mia...". E aggiunge: "Giovà, nella storia, quando poi non ci sarò più, voi altri dovete dire e dovete sapere che avete un padre che non ce ne è sulla Terra, non credete che ne trovate, un altro non ce ne è perché io sono di un'onestà e di una coerenza non comune". Il capo dei corleonesi sembra non dare alcuna apertura di collaborazione, ma vuole far prevalere il suo ruolo di numero uno di Cosa nostra. Di boss che non parla con gli sbirri. "Ho chiuso con tutti perché non ho nulla a che vedere con nessuno. Il magistrato voleva farmi una domanda e gli ho subito detto: "Non mi faccia domande perché non rispondo". E lui non ha parlato, è stato zitto, perché io so mettere ko un po' tutti perché io ho esperienza Giovà, ho esperienza".

BAGARELLA A un certo punto Riina senior chiude con stragi e servizi per affrontare questioni familiari. "Giovanni lasciamo stare, salutami lo zio quando gli scrivi". Lo zio a cui fa riferimento è Leoluca Bagarella, lo stragista che ha sulle spalle centinaia di omicidi. Un sanguinario che secondo alcuni pentiti nella sua vita avrebbe versato poche lacrime solo in occasione della morte della moglie che sembra essersi suicidata. La scomparsa della donna è ancora un mistero, come pure il luogo in cui è stata sepolta. Nei confronti di quest'uomo che non ha mai avuto pietà per le sue vittime, Totò Riina usa queste parole con Giovanni, forse facendo riferimento alla morte della moglie: "Rispettatelo sempre, che volete povero uomo sfortunato; anche lui nella vita proprio sfortunato nella vita per quello che gli è successo. Purtroppo questa è la vita e dobbiamo andare avanti".
Le raccomandazioni di tenere unita la famiglia, e di pensare al futuro per Salvo, l'altro figlio che è pure lui detenuto e che nel 2011 finirà di scontare la pena per associazione mafiosa, vengono spesso ripetute. Non mancano i riferimenti alla passione comune che padre e figlio hanno: quella del ciclismo. "Il Giro d'Italia me lo seguo sempre", sottolinea Totò Riina, commentando le prestazioni di Petacchi, le sue volate e le vittorie. "Io spero sempre in Basso, però c'è questo Contador, è troppo forte, minchia è troppo forte questo!". E dal figlio vuole la conferma se legge sempre la "Gazzetta dello Sport". "Sì, sì, seguo tutto a livello sportivo...".

CIBO E POLITICA L'unico accenno alla politica viene buttato in modo casuale, discutendo del vitto concesso dal governo: "Berlusconi, che io ci credo poco o niente...". Una battuta, verrebbe da credere, anche se il capo dei capi è un maestro nel calibrare le parole. Ne parla mentre consiglia al figlio di mangiare molta frutta ed elenca quali alimenti acquistare. "Perché io qui ho preso chili... Giovà, la vita che faccio io con questo signore... Berlusconi, che ci credo poco e niente, la vita che faccio con questo... io mangio come un pazzo e metto su chili".
Giovanni ribatte che in carcere si trova bene, e che si è pure iscritto a scuola per conseguire il diploma di Agraria. Ma suo padre ci tiene a precisare: "Cerca di non litigare con nessuno, comportati sempre bene, come mi sono sempre comportato io". Giovanni ribatte: "Ci vuole un po' di pazienza nella vita". "E noi ne abbiamo", risponde il padre. E aggiunge: "Riconosco che la galera è difficile, però uno se si mette in testa di non far del male agli altri, diventa facile, bisogna avere un po' di pazienza". Il figlio annuisce "ne abbiamo. Purtroppo sono già 14 anni che sono qua dentro ...". Ma Totò gli indica il suo esempio: "Giovanni, qui mi portano in braccio. Mi portano sul palmo delle mani... Mi rispettano tutti. Mi rispettano Giovà, sanno che sono tedesco, sanno che c'è profumo, qualcuno che... perché io non parlo. Io non gli rispondo, sanno che non parlo. Sono un ottantenne e conosco la vita che c'è fuori, il mondo che c'è fuori, quindi valuto tutto e tutti. E mi so regolare con tutti".

FERMARE I PENTITI Il boss poi loda la moglie che lo ha sempre assistito restando al suo fianco, ma non scarica su di sé la colpa di "tutte le sofferenze" che la sua famiglia sta vivendo. Non a caso Totò Riina è stato sempre definito "un tragediatore" dai mafiosi che lo hanno conosciuto: parla con il figlio come se la loro detenzione non fosse la pena per stragi ordinate e omicidi commessi, ma solo colpa del fatto che "c'è gente disgraziata, gente infamona". Il riferimento è ai pentiti che lo accusano: "C'è gente meschina, ha fatto questo su minacce e su tutto? Perché sono nati tra i carabinieri? Sono nati tra gli infamoni? Sono nati spioni?". E Giovanni risponde: "Eh, ognuno sì... approfittatori... approfittatori".
Il capo dei capi butta lì una frase che sembra indicare un suo tentativo per bloccare i pentiti. "Mi fermo lì, quello che ho potuto fare, io ringrazio pure a me stesso. L'ho fatto... ho cercato pure...". Giovanni comprende il senso di quello a cui il padre si riferisce e dice: "Però uno non è che può sempre...". Il capomafia bisbiglia al figlio una parola: "Questo Brusca...". E il discorso su questo argomento finisce così. I due parlano subito di altro.
Il pensiero vola ancora a Salvo, il figlio minore che il prossimo anno lascerà il carcere. Il boss vuole che vada a lavorare a Firenze perché a Corleone "non ci può tornare". Ma il valore della famiglia e dei corleonesi Totò Riina cerca di spalmarlo in tutti i suoi discorsi: "Caro Giovanni, nella vita dovete capire che siamo di Corleone, non siamo palermitani, quindi, se avete determinazione, pensate di trovare una ragazza lì a Corleone, perché bene o male, bene o male, è sempre una corleonese". Giovanni contrasta questo discorso: "Però devo dire una cosa che il ragionamento mogli e buoi dei paesi tuoi, funzionava, un tempo; adesso purtroppo non è nemmeno così". E il padre: "Eh sì però c'è sempre questo fatto dei paesi tuoi... Dici: "Corleone non è più come i tuoi tempi" però a papà sempre una paesana bene o male sappiamo chi è la mamma, chi è la nonna, chi era il nonno, chi è il padre, invece alle volte...".
Ma il messaggio fondamentale per lui è trasmettere di essere ancora forte. "Vivo solo e non ho contatti con nessuno. Mi volevano annientare così. Hanno sperimentato questo fatto: "Lo mettiamo solo e lo annientiamo, lo distruggiamo, lo finiamo". Devono sapere invece... che a me non mi distruggete". Una tenuta sintetizzata con una frase: "Facciamoci questa galera... Io a ottanta anni non lo so quanto si può campare ancora, stai tranquillo che cerco di tirare avanti. Io sono qua, come mi vedi, tranquillo e sereno che forse nemmeno potete immaginare".

© Riproduzione riservata
http://espresso.repubblica.it/dettaglio/io-riina-e-linfame-ciancimino/2134398//3
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #89 inserito:: Ottobre 20, 2010, 05:00:21 pm »

L'INTERVISTA

"Dopo l'Addaura Emanuele mi disse: in quell'attentato c'entra la polizia"

Parla Gianmarco Piazza, suo fratello con un collega salvò Falcone. "Non ne ho parlato fino ad ora perché avevo paura, non mi fidavo di quelli che indagavano"

di ATTILIO BOLZONI e FRANCESCO VIVIANO

"Dopo l'Addaura Emanuele mi disse: in quell'attentato c'entra la polizia"

L'agente Emanuele Piazza, collaboratore del Sisde ucciso dalla mafia il 16 marzo 1990 e mai ritrovato


PALERMO - Cosa le ha confidato Emanuele? "Mio fratello mi ha detto che ad organizzare il fallito attentato contro il giudice Falcone non era stata la mafia, ma era coinvolta la polizia. Ricordo ancora le sue parole: "C'entra la polizia"... ". E perché ha tenuto nascosto tutto questo per tanto tempo? "Perché avevo paura, perché quello che sapevo avrei dovuto riferirlo proprio alla polizia che indagava sul fallito attentato e sull'uccisione di mio fratello".

Nella sua bella casa di Palermo Gianmarco Piazza, avvocato civilista, quarantasei anni, uno dei quattro fratelli di Emanuele - l'agente dei servizi scomparso nel marzo del 1990 mentre cercava di scoprire cosa era accaduto all'Addaura - in quest'intervista con Repubblica svela per la prima volta un segreto su quei candelotti di dinamite piazzati nel giugno del 1989 davanti alla villa di Giovanni Falcone. Emanuele sapeva molto anche sull'uccisione di Vincenzo Agostino, il poliziotto assassinato con sua moglie Ida neanche tre mesi dopo il fallito attentato. Sia Piazza che Agostino - secondo le ultime inchieste - sarebbero stati colpiti perché avevano salvato Falcone da chi lo voleva morto. L'avvocato Gianmarco Piazza, un paio di settimane fa, ha consegnato una memoria ai procuratori di Palermo sui misteri dell'Addaura. Nei prossimi giorni sarà interrogato anche dai magistrati di Caltanissetta che indagano sulle stragi.

Avvocato, Emanuele le disse proprio quelle parole: c'entra la polizia...
"Con Emanuele avevo un rapporto molto stretto, avevamo vissuto insieme dal 1986 al 1988 in quella casa di Sferracavallo dove lui viveva quando è scomparso. Fra la fine di giugno e l'inizio di luglio del 1989, a Palermo si parlava tanto del fallito attentato contro Falcone, ne parlavamo naturalmente anche a casa, tra noi fratelli, con mio padre. Sulla vicenda Emanuele mi raccontò che lui era sicuro che non era stata Cosa Nostra a fare quell'attentato".

E lei gli chiese chi era stato?
"Prima lui lasciò intendendere che quella notizia l'aveva appresa per motivi di servizio. Poi, quando gli feci la domanda, rispose secco, senza fare altri commenti: "C'entra la polizia, c'entra qualcuno della polizia...". Io lo sapevo che Emanuele era un collaboratore del Sisde, che era a conoscenza di tante cose... ".

Non le disse altro Emanuele?
"Non mi disse altro. Io non ho mai saputo un nome o un cognome, sono vent'anni che penso a quella frase di Emanuele sulla polizia, mi arrovello, mi tormento".

Quella confidenza non l'ha mai comunicata a nessuno, perché? Solo per paura?
"Dopo la scomparsa di Emanuele, tutti i rapporti fra noi e la polizia li ha tenuti mio padre. Dal 1990 nessuno mi ha mai chiesto niente, né sulla scomparsa di mio fratello né sull'attentato all'Addaura. Io, fin dal primo momento, non ho voluto raccontare queste cose agli inquirenti semplicemente perché non avevo fiducia in loro. Come potevo avere fiducia di un commissario - Salvatore D'Aleo - che per scoprire gli assassini di mio fratello seguiva una pista passionale? Come potevo avere fiducia quando un altro poliziotto, grande amico di mio fratello - Vincenzo Di Blasi - dopo la scomparsa di Emanuele non venne mai a trovarci. Mio fratello era legatissimo a lui, non venne a salutarci neanche una volta. A volte, per capire, bastano pochi dettagli. E quello fu un dettaglio che a me diceva tutto. L'unico di cui si fidava mio padre - e ci fidavamo tutti - era Falcone".

Furono in molti che cominciarono a depistare, a sviare le indagini sulla morte di suo fratello?
"Cominciarono con me, qualche ora dopo la scomparsa di Emanuele. Mi accorsi che qui, vicino a casa mia, un'agente donna mi seguiva e mi stava fotografando con un teleobiettivo. Ero sconcertato. Perché seguivano me? Perché cominciavano le indagini proprio da me? Perché non cercavano invece di salvare Emanuele, che in quei giorni di marzo forse era ancora vivo? Poi, per anni, a casa nostra siamo stati tempestati di telefonate, qualcuno faceva squillare il telefono e poi non rispondeva mai. É come se ci volessero avvertire perennemente. E non erano certo mafiosi".

Lei ha idea di cosa avesse scoperto Emanuele sul fallito attentato all'Addaura?
"Io so soltanto che dal giorno dell'Addaura mio fratello era diventato sempre più taciturno. E poi, dall'autunno del 1989, sempre più cupo. Era preoccupatissimo. Passava quasi tutti i giorni da casa di mio padre, arrivava di umore nero e di umore nero se ne andava. Poi fece due stranissimi viaggi, lui che non amava viaggiare, gli piaceva stare a Palermo. Nell'estate del 1989 partì per la Tunisia. Ritornò in Tunisia anche nel dicembre di quell'anno. Io credo che abbia fatto quei viaggi per allontanarsi da qui".

Torniamo agli amici di Emanuele: perché quel poliziotto, così legato a suo fratello, secondo lei non venne mai a trovare voi familiari dopo la scomparsa?
"Fin dall'inizio della sua collaborazione con i servizi segreti, Emanuele naturalmente non parlava molto del suo lavoro. Si limitava a dirci con chi era in contatto. Ci parlava di un capitano dei carabinieri e di due angeli custodi, così li chiamava lui... uno era quel poliziotto, Enzo Di Blasi, con il quale erano stati compagni in palestra, facevano lotta libera a 18 anni. E poi si ritrovarono tutti e due a Roma in polizia. Mio fratello gli voleva bene, ma lui - dopo la scomparsa di Emanuele - non lo abbiamo più visto".

Lei sostiene di non avere mai avuto fiducia negli inquirenti. Ci sono stati altri episodi che l'hanno spinta a non dire niente in tutti questi anni?
"Molti. E soprattutto uno. Dopo la scomparsa di Emanuele è sparito anche un vigile del fuoco molto amico suo, Gaetano Genova. Si vedevano sempre con Emanuele. Una sera venne a casa mia un giovanissimo poliziotto per cercare di capire cosa sapevo io del loro rapporto. Anche in quella occasione sentii di non fidarmi. Non gli dissi nulla".

Perché oggi ha deciso di raccontare quello che sa?
"Perché stano affiorando frammenti di verità sulla morte di Emanuele e sull'Addaura. Perché, vent'anni fa, a parte la sfiducia nei confronti degli inquirenti, non potevo sapere che la morte di mio fratello potesse essere in qualche modo collegata al fallito attentato contro il giudice Falcone".

(20 ottobre 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/cronaca/2010/10/20/news/dopo_l_addaura_emanuele_mi_disse_in_quell_attentato_c_entra_la_polizia-8248989/?ref=HREC1-4
Registrato
Pagine: 1 ... 4 5 [6] 7
  Stampa  
 
Vai a:  

Powered by MySQL Powered by PHP Powered by SMF 1.1.21 | SMF © 2015, Simple Machines XHTML 1.0 valido! CSS valido!